Un’altra guerra dei trent’anni?

articoli, video, immagini di Patrick Boylan, Antonio Mazzeo, Francesco Coniglione, bortocal, Michael Vlahos, Douglas McGregor, Disarmisti Esigenti, Germano Dottori, Lucio Martino, Mirko Campochiari, Alfonso Desiderio, Paola Baiocchi, Carlo Formenti, Silvia Boltuc, Marco Pata, Fabio Mini, Vauro, Emilio Drudi, Marco Omizzolo, Francesco Masala, Angelo d’Orsi, Alberto Bradanini, Giacomo Simoncelli, Sergio Sinigaglia, Stefano Orsi, Nicolai Lilin, Guido Viale, Manlio Dinucci, Giacomo Gabellini, Wang Wen, Enrico Tomaselli, Maurizio Acerbo, Gregorio Piccin

10 gennaio i Disarmisti Esigenti promuovono un digiuno contro l’invio di armi

Il 10 gennaio 2023 viene sottoposto a voto parlamentare al Senato, il decreto del Consiglio dei Ministri n. 185 del 2 dicembre 2022* per prorogare «fino al 31 dicembre 2023» l’invio di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari all’esercito ucraino al fine di combattere l’invasione russa.

Si tratta di una proroga del provvedimento introdotto dopo l’inizio della guerra dal governo Draghi, che era in scadenza a fine 2022.
In seguito al185/2022, che fa da cornice giuridica, all’inizio del 2023, il governo Meloni varerà il sesto decreto di aiuti militari (e gli eventuali decreti successivi) all’Ucraina: per quanto ci è dato sapere, si verrà incontro, da parte italiana, alla necessità manifestata da Kiev di di avvalersi di sistemi missilistici di difesa aerea per proteggere le infrastrutture energetiche dagli attacchi russi.
Ma il nuovo pacchetto, stando a quanto promesso dal ministro della Difesa Guido Crosetto, passerà in ogni caso da una comunicazione parlamentare.

Si profila nel voto del 10 gennaio, come già avvenuto il 30 novembre, e il 13 dicembre 2022, una ampia “unità nazionale”, trasversale rispetto agli schieramenti destra-sinistra (più precisamente: centro-destra, centro-sinistra), perché le modalità del decreto (segretezza della lista di armi riferita solo al COPASIR) sono le stesse del governo Draghi votate a suo tempo anche da Fratelli d’Italia.
Il decreto dovrà essere convertito entro sessanta giorni, quindi max fine gennaio- primo febbraio 2023, e va a seguire il nodo sciolto della approvazione delle legge di Bilancio, caratterizzata dall’aumento delle spese militari in ottemperanza delle direttive NATO (raggiungere il 2% del PIL entro il 2028).

Una parte dell’opposizione annuncia battaglia, a nostro giudizio blanda; e su di essa pesano comunque le accuse di incoerenza e di strumentalità. A prescindere dal grado di fondatezza delle critiche, interfacciarsi con una presenza pacifista in piazza sarebbe per essa un modo per limitare l’isolamento e la cattiva stampa, pronta a scagliarsi contro chi tradisce la “causa della libertà” presuntamente incarnata dal governo di Zelensky.
I Disarmisti esigenti, tenendo conto di questi dati politici, promuovono un “digiuno di coerenza pacifista”, facendo seguito a un appello portato alla manifestazione del 5 novembre, con l’invito ai manifestanti, tramite striscione e volantino, a riconvocarsi quando si sarebbe discusso in Parlamento l’invio delle armi all’Ucraina.
Si parla di “coerenza pacifista” perché, se ci battiamo affinché “tacciano le armi”, ci sembra logico e doveroso darsi da fare per impedire che l’Italia le passi a chi le usa per combattere in guerra.

Siamo contro la guerra e quindi siamo contro a che degli esseri umani si sparino l’uno contro l’altro, a prescindere dalle ragioni e dai torti reciproci. Anche se le ragioni fossero tutte da una parte e i torti tutti dall’altra. Il che nella vita reale, nella Storia, quasi mai accade.
Un presidio si svolgerà, appunto il 10 gennaio, in piazza della Rotonda, nei pressi del Pantheon, dalle ore 15:00 alle ore 19:00;

Verrà esposto lo striscione “OGGI NON ESISTONO GUERRE GIUSTE (PAPA FRANCESCO)”, portato in quel corteo del 5 novembre (dalle 100mila presenze, non una però fattasi viva il 30 novembre e nemmeno il 13 dicembre durante le discussioni parlamentari sulla guerra in Ucraina) promosso allora da Europe for Peace e dalla CGIL (più altri).

Oggi, a nostro giudizio, non ci sono più guerre giuste per due motivi: 1) perché, nella concreta situazione di guerra, qualsiasi impiego ormai indispensabile di armi pesanti in battaglia oggi danneggia più gli innocenti estranei che gli implicati direttamente nel conflitto e danneggia la Terra, cioè il corpo vivente di tutti; 2) perché esiste, nella risoluzione dei conflitti, l’alternativa efficace dei metodi di resistenza nonviolenta.

(Non è azzardato stimare che la guerra con epicentro Ucraino oggi produca molti più morti per fame in Africa e stia facendo saltare gli accordi di Parigi sul clima globale).

Vi sono, al momento, cinque digiunatori promotori, Alfonso Navarra, Ennio Cabiddu, Mino Forleo, Gianpiero Monaca e Marco Palombo.
Si aggiunge un supporto a distanza con Moni Ovadia, Turi Vaccaro, Francesco Lo Cascio, Maria Carla Biavati, Alessandro Capuzzo, Totò Schembari.
Il digiuno è dedicato alla memoria di Antonia Sani, già presidente WILPF Italia, scomparsa il 12 novembre 2022…

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Il 2022 sarà considerato l’anno della “de-occidentalizzazione” – Wang Wen

L’importanza globale del 2022 è stata ampiamente sottovalutata. La sua importanza per la storia mondiale supera di gran lunga quella del 2001, quando si verificarono gli attentati dell’11 settembre, e del 2008, quando scoppiò la crisi finanziaria globale.

Il 2022 può invece essere paragonato al 1991, quando finì la Guerra Fredda. Se c’è una parola chiave, è “de-occidentalizzazione”.

Non si tratta solo del tentativo radicale della Russia, attraverso l’uso del potere militare, di cercare di rompere l’ordine internazionale dominato dagli Stati Uniti. Si tratta anche dell’insorgenza senza precedenti di Paesi non occidentali contro l’ordine costituito, alla ricerca di una posizione più indipendente.

La Cina, dopo il successo della convocazione del 20° congresso del Partito Comunista e nonostante le sfide del Covid-19 e della recessione economica, continua a muoversi costantemente verso l’obiettivo di diventare una moderna potenza socialista entro il 2050.

In Brasile, la rielezione di Luiz Inacio Lula da Silva come presidente significa che l’80% dell’America Latina è ora sotto governi di sinistra – negli ultimi anni, anche Messico, Argentina, Perù, Cile, Honduras, Colombia e altri hanno scelto leader di sinistra. Essi sostengono la necessità di mantenere le distanze dagli Stati Uniti e di promuovere una maggiore indipendenza e integrazione dell’America Latina.

Nel Sud-Est asiatico, che ha ospitato di recente i vertici dell’Asean, del G20 e dell’Apec, l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico ha mantenuto con cura la stessa distanza dalla Cina e dagli Stati Uniti, rafforzando la propria posizione neutrale attraverso la solidarietà regionale e la vitalità economica.

In Asia centrale, i leader di Kirghizistan, Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan hanno continuato a rafforzare il meccanismo di consultazione dei capi di Stato e hanno firmato importanti documenti, tra cui un trattato di “amicizia, buon vicinato e cooperazione per lo sviluppo dell’Asia centrale nel XXI secolo”. Mantenendo una distanza equa dalla Russia, dagli Stati Uniti, dall’Europa e da altre potenze, l’Asia centrale sta entrando in una nuova fase di consolidamento nazionale e di integrazione regionale…

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Vlahos/McGregor – Colloquio in tre parti sullo stato della guerra in Ucraina

Questo lungo, appassionato colloquio sulla guerra in Ucraina tra *Michael Vlahos e Douglas McGregor si è svolto all’inizio del mese di dicembre 2022, nella biblioteca dello Army and Navy Club di Washington D.C.

Per la serietà e la preparazione di entrambi, per l’ampiezza e la profondità della discussione, è forse la migliore analisi della situazione militare e politica conseguente al conflitto ucraino oggi disponibile.

Vlahos e McGregor appartengono entrambi all’ultima generazione dei Cold Warriors, e hanno operato, ad alto livello, all’interno delle istituzioni militari e accademiche dello Stato federale nordamericano. Dissentono dall’odierna politica estera statunitense, aderiscono entrambi all’interpretazione delle cause lontane della guerra in Ucraina come effetto dell’espansione a Est della Nato, proposta da John Mearsheimer. Da patrioti statunitensi, si interrogano sulle conseguenze di scelte strategiche che ritengono gravemente errate e pericolose, e sulla possibilità di correggerle.

Il colloquio è diviso in tre parti:

1) Che cosa ci fa capire questa guerra? Che cos’è accaduto sinora? A che punto siamo?

2) Perché la Nato ha commesso un errore strategico tanto grave, provocando una proxy war fondata sulla negazione della realtà e sull’inganno?

3) Che cosa si dovrebbe fare? In quale direzione stiamo andando?

 

Voci Dall’estero, su segnalazione e supervisione di Roberto Buffagni, ha tradotto in italiano questo dialogo tra lo storico militare Vlahos e il colonnello Douglas McGregor. E’ al momento  la migliore analisi della situazione geopolitica e non solo conseguente al conflitto ucraino oggi disponibile. Vi chiediamo massima diffusione.

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dice bortocal:

…Putin decide una tregua unilaterale di 36 ore per il Natale ortodosso? che razza di ipocrita, urlano i media concordi: bisogna capirli, è pura propaganda di guerra…

il vero pacifista sarebbe Zelensy, che rifiuta la tregua natalizia – cose da non credere…

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La coalizione del volenterosi col culo al caldo – Francesco Masala

Per la Russia la guerra è di tipo esistenziale, per la propria sopravvivenza, per gli Usa una guerra per distruggere la Russia (e rubarle le risorse naturali-minerarie, secondo il capitalismo di rapina) e poi passare alla Cina, per l’Europa motivo non pervenuto.

Purtroppo per qualcuno, l’esito sarà la morte della Nato (peggio per loro che leggendo Sturmtruppen, il loro manuale di guerra preferito, hanno nominato come segretario Stoltenberg, anziché Intelligentenberg) e il rapido declino dell’Europa (peggio per noi), e per cosa?

Dopo la guerra l’Ucraina morirà, sarà in parte polacca, d’altronde i polacchi stanno morendo in guerra come mosche (naturalmente se resta neutrale e smilitarizzata, come pretenderà la Russia), in parte Monsanto-Cargill (la chiameranno per nostalgia Ucraina), in parte russa.

E per arrivare a questo c’era bisogno della guerra?

Secondo i coglioni che governano il mondo occidentale sì.

Una cosa è farsi i selfie con i soldati, un’altra mandarli a combattere una guerra persa in partenza, con il ritorno a casa in sacchi di plastica neri.

E dire che sarebbe bastata dal primo giorno una coalizione dei volenterosi occidentali, capi di governo, parlamentari, giornalisti, col moschetto, in prima linea in Ucraina, col culo al freddo, per arrivare agli stessi risultati che avremmo potuto avere senza sparare un colpo, anziché con centinaia di migliaia di morti, un paese distrutto, che teste d’uovo a Washington, cosa non si fa per il dio dollaro.

 

 

Pacifismo radicale. Non c’è giustizia senza pace – Francesco Coniglione

La discussione sul pacifismo ha trovato nuovo alimento dalle recenti vicende belliche, di cui la questione Ucraina è la più scottante. Ma una chiarificazione sul suo senso non può incanaglirsi nella discussione minuta dei singoli fatti o nella esibizione più o meno impattante di morti e distruzioni, magari con attribuzioni di colpe che fanno proprie in modo acritico la versione di uno dei due contendenti. È necessario, a mio avviso un discorso più di fondo, che parte dalla radice e che quindi dia del pacifismo una lettura “radicale”.

A tale fine vorrei partire da un assunto da me presupposto a tutto il ragionamento che verrà: nessun valore, nessun ideale, nessuna visione del mondo o ideologia può valere più della vita di uomini, donne, anziani e soprattutto bambini. Non v’è nessuna giustificazione, di nessun tipo, che possa essere addotta per la morte e lo spegnersi del sorriso di un fanciullo, nessuna libertà o indipendenza che possa essere ritenuta prioritaria rispetto alla distruzione, della miseria e della sofferenza di una popolazione.

Perché alla morte non c’è riparo e una vita spezzata lo è in modo definitivo, mentre qualsiasi altro valore o principio, se perduto, può essere riconquistato, ritrovato: la storia non è mai “per sempre” e ogni condizione politica, sociale, economica può essere cambiata col tempo e la perseveranza degli uomini. La vita è invece data una sola volta e la morte è irreversibile…

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Di base in base. La fitta rete militare Usa-Nato in Italia – Antonio Mazzeo

Alea iacta est. Il dado è tratto. Le nuove bombe nucleari USA a caduta libera saranno dislocate in Europa entro la fine del 2022 con tre mesi di anticipo sul cronogramma fissato da Washington con i partner NATO. Si tratta di una prova di forza che alimenterà pericolosamente le già forti tensioni con la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Saranno un centinaio circa le armi che verranno ospitate nei bunker di cinque paesi: Belgio (base aerea di Kleine Brogel), Germania (Buchel), Paesi Bassi (Volkel), Turchia (Incirlik) e Italia (gli scali di Aviano-Pordenone e Ghedi-Brescia). Le nuove bombe saranno le B61-12, variante ammodernata delle più antiche B61. Esse avranno una potenza distruttiva regolabile, con quattro opzioni selezionabili a seconda dell’obiettivo da colpire. “L’impiego operativo, quindi, può essere calibrato a seconda dell’effetto desiderato e dell’importanza dell’obiettivo”, scrive Difesaonline. Rispetto alla bomba “madre”, le B61-12 saranno guidate da un sistema satellitare e potranno penetrare nel sottosuolo per esplodere in profondità.

La National Nuclear Security Administration, l’ente del Dipartimento dell’Energia USA che si occupa delle scorte di armi nucleari, ha reso noti nel novembre 2021 i cacciabombardieri che saranno impiegati per sganciare le nuove armi atomiche: i Panavia PA-200 “Tornado”, gli F-15 “Eagle”, gli F-16 C/D “Fighting Falcon”, i B-2 “Spirit”, i B-21 “Raider” e i nuovi F-35A “Lighting II” acquistati pure dall’Aeronautica militare italiana e schierati nella base di Amendola (Foggia).

A Ghedi ed Aviano dovrebbero essere ospitate complessivamente dalle 30 alle 50 bombe B61-12 e nei due scali NATO sono in via di completamento i lavori di “rafforzamento” dei bunker atomici. Ghedi è sede del 6° Stormo dell’Aeronautica italiana con i “Tornado” nucleari, ma si sta addestrando da tempo all’impiego dei cacciabombardieri F-35 di quinta generazione. Ad Aviano le nuove bombe saranno impiegate dai cacciabombardieri F-16 dell’US Air Force. Nella base friulana sono state ampliate le piste e realizzati nuovi hangar e centri di manutenzione velivoli. Aviano è utilizzata pure dai grandi aerei cargo che trasportano i parà della 173^ Brigata aviotrasportata di US Army verso i maggiori scacchieri di guerra internazionali (recentemente in Iraq e Afghanistan, oggi in Europa orientale e in Africa).

La 173^ Brigata è uno dei reparti d’élite delle forze armate USA e ha quartier generale presso l’ex aeroscalo “Dal Molin” di Vicenza, una delle maggiori basi militari statunitensi in territorio italiano. Qualche mese fa nella città veneta sono stati avviati i lavori di realizzazione di 478 alloggi per il personale militare statunitense e famiglie (villette a schiera e diverse nuove palazzine all’interno della caserma Ederle e del cosiddetto Villaggio della Pace), con una spesa stimata di 373 milioni di dollari. Sono previste inoltre nuove infrastrutture viarie per rendere più rapido il collegamento delle basi vicentine con l’aeroporto di Aviano.

In verità sono innumerevoli i cantieri aperti per potenziare la rete militare USA-NATO e nazionale in Italia…

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Guerra in Ucraina, il fattore disumano – Guido Viale

Le guerre non bisognerebbe mai iniziarle e, una volta “scoppiate”, bisognerebbe adoperarsi per farle cessare il più presto possibile, ma soprattutto bisognerebbe evitare tutte le iniziative che possono portare al loro “scoppio”. Non per una astratta pretesa di armonia tra i popoli, ma per evitare il costo che le guerre comportano sia per chi le “vince” che per chi le “perde” – se parliamo di popoli e non di governi – sia in termini di distruzione degli habitat che di danni agli uomini e alle donne che ci vivono.

Questo non vuol dire rinunciare a difendersi, anche con le armi, ma convenire sul fatto che tra le opzioni possibili non c’è solo la guerra e nient’altro che la guerra. Prima, durante e oltre la guerra ci sono tregua, diplomazia, mediazione, costruzione di alternative politiche e sociali, difesa delle vite e delle condizioni di esistenza delle popolazioni, convivenza tra etnie, lingue e culture diverse. L’autodifesa armata del Rojava ha il suo presupposto nel confederalismo democratico promosso da Ocalan. Nessuna di quelle esigenze è stata invece rispettata dalle parti coinvolte nella guerra in Ucraina.

Putin non pensava a una guerra quando ha invaso l’Ucraina. Pensava a una soluzione come quella che oltre cinquant’anni prima era riuscita a Breznev in Cecoslovacchia: molti carri armati, poco sangue e un cambio di regime imposto con la forza per arrestare e riequilibrare la marcia verso est della Nato. La resistenza dell’Ucraina, del suo esercito e delle sue milizie lo ha costretto a cambiare i piani: non a ritirarsi e chiedere scusa, ma a ripiegare su una vera guerra, a cui con tutta evidenza non era preparato. La sua devastante vittoria in Cecenia gli aveva fatto credere di poter risolvere la questione con un altro massacro.

Dall’altro lato del fronte si è puntato fin dall’inizio sulla temporanea superiorità ucraina, supportata dal sostegno politico, ma soprattutto militare, della Nato, degli Usa e dell’Unione Europea, per sferrare un colpo decisivo. Ben sapendo che questo avrebbe innescato un confitto molto lungo, che nelle dichiarazioni inziali di Biden (poi corrette) avrebbe dovuto portare alla destituzione di Putin o addirittura alla dissoluzione della Federazione Russa.

Non si è messo in conto quanto una guerra prolungata e combattuta con sempre più uomini e armi (fino al limite della minaccia e del sempre possibile ricorso a quelle nucleari) sarebbe costata alle popolazioni dell’Ucraina e alla gioventù della Federazione Russa mobilitata a partire dalle sue periferie. La mobilitazione di entrambe le parti (e dei loro fans, soprattutto in Occidente) ha offuscato finora lo sguardo sulla devastazione del territorio, a est e a ovest del fronte e sul futuro di quel Paese. Ancora oggi si pensa – qualcuno pensa, e si mette in viaggio per prenotarne una quota – al business della ricostruzione, mentre la distruzione dell’Ucraina è ancora in pieno corso. E questo senza mettere in conto il suo indebitamento presente e futuro, pagabile solo in parte con la svendita delle sue risorse. E immemori del passato, si progetta di farne pagare i danni alla Russia, come a Versailles, dopo la Prima Guerra Mondiale, si era pensato di farli pagare alla Germania…

L’ostinazione della Russia non ha provocato, come forse sperava Putin, una crisi dell’Unione Europea e meno che mai la sua “nazificazione”, come ritiene il generale Mini, ma i regimi dispotici di molti suoi membri ne sono stati rafforzati, grazie soprattutto alla militarizzazione imposta dalla Nato. Un dominio in cui è facile entrare, ma da cui molto difficile uscire, o anche solo disobbedirgli, come insegna la sorte toccata ad Aldo Moro. Ma che il più democratico regime europeo abbia scambiato la sua adesione alla Nato con la consegna dei dissidenti curdi al tiranno Erdogan è cosa da non sottovalutare…

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Si condanna l’occupazione russa dell’Ucraina mentre si continua a occupare l’Iraq – Patrick Boylan

Nessuno sembra farci più caso, ma i militari della NATO, ora sotto comando italiano, stanno sempre occupando illegalmente il Nord Est dell’Iraq, zona grande quanto il Donbass. Più audace di Putin, la Premier Meloni, in tuta mimetica, è andata sotto Natale a rendere loro visita. Nessuno ha fiatato.

Il 23 dicembre scorso, la Presidente del Consiglio Meloni ha fatto visita ai 1.000 soldati italiani che occupano ancora il Nord Est dell’Iraq con il pretesto di eliminare i terroristi dell’ISIS. Solo che l’ISIS non esiste più in quella zona da anni. Esistono invece i pozzi di petrolio che ENI adocchia, quelli sì. E, in ogni modo, anche se l’ISIS esistesse ancora in quella zona, l’occupazione NATO, non autorizzata dall’ONU o dal governo dell’Iraq, risulterebbe illegale: viola la sovranità nazionale irachena. In pratica, le truppe italiane stanno facendo esattamente come quelle russe nel Donbass ucraino. Qualcuno nel Bel Paese se n’è accorto? Non certo la maggior parte dei nostri cronisti, che hanno descritto il viaggio lampo di Meloni come se fosse una visita di routine a una caserma italiana.

Immaginate se il Presidente russo Putin, essendo riuscito a portare un suo uomo al potere in Ucraina per tenerla fuori dalla NATO, avesse fatto poi una visita natalizia ai soldati russi nel Donbass, elogiandoli perché “danno alla nazione uno straordinario lustro.” Quanti avrebbero gridato allo scandalo! Eppure quelle sono le parole che la Premier Meloni ha pronunciato l’altro venerdì rivolta alle truppe italiane nel Nord Est iracheno, area grande quanto il Donbass. Due pesi e due misure.

Qualcuno chiederà perché l’esercito iracheno non mandi via le forze della NATO, operanti sotto comando italiano, se sono realmente invasori. Ebbene, il Parlamento iracheno ha effettivamente votato una risoluzione stigmatizzando l’occupazione NATO come illegale ed esigendo la partenza delle truppe. Ma se non ha dichiarato guerra per cacciare la NATO con la forza, è sicuramente perché Washington avrà minacciato, in tal caso, di riprendere i bombardamenti come quelli su Mosul nel 2017, di cui alla foto qui sotto.

Inoltre, com’è ovvio, a differenza dell’Ucraina, per difendere la propria sovranità l’Iraq non può contare sulla concessione massiccia di aiuti umanitari e di materiali bellici, a suon di miliardi, da parte dell’Unione Europea per liberare il proprio Nord Est dalle truppe occupanti, perché quelle truppe sono europee e sono proprio i Paesi europei, oltre a Israele, a beneficiare principalmente del petrolio iracheno sottratto illecitamente da quella zona. Non solo, ma l’Iraq, a differenza dell’Ucraina, non può contare nemmeno sull’invio di missili antiaerei da parte degli Stati Uniti perché i bombardieri da abbattere sarebbero, appunto, quelli statunitensi. Né può contare sul sostegno della Cina (sempre neutrale) o della Russia (impantanata in Ucraina). Potrebbe contare sul sostegno dell’Iran, ma limitatamente, perché la popolazione sunnita dell’Iraq è contraria. In pratica, deve vedersela da solo.

Ciò ha probabilmente indotto l’Iraq a far ricorso alla strategia dell’usura per stancare le truppe occupanti: infatti, da mesi, milizie “spontanee” sparano periodicamente sui militari NATO che rispondono al fuoco in un gioco continuo di nervi.

Possiamo ipotizzare che, per addolcire gli iracheni e per convincere il governo a porre fine a questi attacchi “spontanei”, Meloni abbia promesso loro, tramite accordi segreti stipulati con il primo ministro nel loro colloquio a Baghdad prima della visita alle truppe, rimborsi cospicui (anche se solo parziali) per il petrolio sottratto da ENI. Ma anche se ciò fosse, accordi del genere risulterebbero del tutto illegittimi perché stipulati sotto coercizione, cioè durante un’occupazione militare.

In conclusione, di tutte queste violazioni del diritto internazionale neanche un cenno nei mass media mainstream italiani. Vengono riportati solo i ringraziamenti fatti da Meloni ai soldati tricolore per “aver difeso la pace”.

Hanno “difeso la pace??” Allora anche le truppe di Putin stanno difendendo la pace nel Donbass, continuamente sotto attacco da Kiev – non da febbraio di quest’anno, ma da ben otto anni. Anche le truppe USA stanno “difendendo la pace” nel Nord Est della Siria, dove, esattamente come la NATO in Iraq, stanno occupano illegalmente la zona petrolifera per sottrarre le sue ricchezze. Anche le truppe israeliane stanno “difendendo la pace” con la loro occupazione decennale del territorio palestinese, in barba alle risoluzioni ONU che chiedono il loro ritiro.

Grazie di “aver difeso la pace”???

Disinformazione allo stato puro. Manipolazione di un lettorato malinformato allo stato puro. E dal momento che alla nostra Premier non manca l’occasione per condannare solennemente l’occupazione militare russa dell’Est dell’Ucraina (e soltanto quella occupazione), pura ipocrisia.

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Carri armati all’Ucraina? Acerbo e Piccin (Prc) “Governo tolga segreto di Stato, i cittadini devono sapere”

La scorsa settimana, un convoglio di Pzh-2000 (artiglieria semovente di produzione tedesca in dotazione all’esercito italiano) passava a Resiutta, direzione Tarvisio.

E’ molto probabile che facciano parte degli invii di armi all’Ucraina ma non è dato saperlo con certezza in quanto tali invii in Italia, caso unico in Europa, sono coperti da segreto di Stato. Mezzi identici vennero bloccati la scorsa estate dalla polizia stradale di Napoli per irregolarità nel trasporto (camionisti senza autorizzazioni).

Nel filmato non è stata ripresa la parte rimanente del convoglio, altri 4 mezzi…

Nel frattempo parecchie basi e strutture statunitensi/NATO sul nostro territorio sono utilizzate per sostenere le forze armate ucraine contro la Russia. Il prossimo martedì verrà presentato al parlamento il nuovo decreto legge per impegnare il nostro Paese nell’invio di nuove armi per tutto il 2023. Lo stesso giorno a partire dalle 15,00 i Disarmisti esigenti organizzeranno un presidio in Piazza della Rotonda, vicino al Pantheon. Saremo al loro fianco per esprimere la nostra netta contrarietà al dissennato bellicismo del governo Meloni e della finta opposizione di Letta, Calenda e Renzi.

Siamo stati trascinati in una guerra tra superpotenze con annessa economia di guerra che stanno già pagando le classi lavoratrici. In questa terribile cornice non ci sarà spazio per nessuna politica redistributiva e investimenti in sanità e scuola pubblica, reddito, vera conversione ecologica.

Maurizio Acerbo, segretario nazionale e 

Gregorio Piccin, responsabile pace di Rifondazione Comunista

qui di seguito link video

https://fb.watch/hWqOSqUJEe/

da qui

 

 

 

“Qui siamo in guerra. Testimonianze da Ucraina, Russia e Bielorussia” – Sergio Sinigaglia

(Foto di archivio Pressenza)

Tra una cinquantina di giorni sarà un anno dall’inizio della guerra in Ucraina, o meglio dalla fase generalizzata di un conflitto iniziato nel 2014 nel Donbas, che a partire dall’invasione russa ha assunto il  volto di una vera e propria guerra, con migliaia di morti. Una vicenda che ha lacerato le coscienze, rimescolato gli schieramenti, soprattutto a sinistra, dove mentre i crimini delle truppe di Putin erano sotto gli occhi del mondo, si dibatteva in modo spesso acceso tra chi unilateralmente si è fin dall’inizio schierato non solo giustamente contro l’aggressione, ma anche a favore dell’invio delle armi da parte delle maggiori potenze occidentali, Usa in testa e chi, pur condannando l’avventura militare, criticava la scelta di armare le forze militari ucraine, del resto già addestrate ed equipaggiate dal 2014. Questi sostenevano la necessità di una mediazione, soprattutto dopo che, smentendo le previsioni, l’esercito russo non aveva conquistato facilmente il territorio ucraino, incontrando prima una forte resistenza, poi facendo i conti con la controffensiva di chi era stato invaso.

All’interno di questa posizione si sono registrate varie “sfumature”, fino alla linea pacifista tradizionale da sempre contraria a qualunque forma di opposizione militare in nome di una visione nonviolenta. Di fronte al grande dramma della guerra è difficile sottrarsi alla ferrea logica degli schieramenti, a provare a ragionare senza lo spirito ultras, tentare di porre punti interrogativi invece dei tanti esclamativi che viceversa anche in questo caso si sono riscontrati nel confronto tra le varie parti…

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Euroatlantismo. Come l’Occidente va alla guerra – Giacomo Simoncelli

Quasi due mesi fa è stato pubblicato il 2023 Index of U.S. Military Strenght del think tank Heritage Foundation, istituto molto vicino ai Repubblicani al punto da dedicare il sostanzioso studio al senatore dell’Oklahoma James M. Inhofe.

Non è uno dei nomi più conosciuti al di qua dell’Atlantico, eppure Inhofe è dalla fine del 2017 uno dei più importanti esponenti dello United States Senate Committee on Armed Services, poco dopo ha avuto un ruolo chiave nel promuovere lo stanziamento record di 716 miliardi di dollari per l’anno fiscale 2019 del Pentagono e da anni è indicato da GovTrack.us – piattaforma nata con l’intento di rendere più trasparente l’attività e la composizione delle camere statunitensi – come tra i membri più conservatori del Congresso, date anche le sue posizioni da negazionista del cambiamento climatico.

Questo per chiarire le idee sull’orientamento politico dell’Heritage Foundation.

Torniamo appunto all’Index. Arrivato alla sua nona edizione, rappresenta una fonte di informazioni straordinaria non solo per conoscere in dettaglio le linee strategiche che guidano gli USA, ma – se messo in relazione con gli indirizzi degli altri attori che in un modo o nell’altro stanno facendo emergere un mondo multipolare – diventa quasi uno strumento di formazione politica, in una fase in cui lo stallo della competizione globale si è rotto.

Questo articolo infatti nasce dalla necessità di indagare la configurazione concreta che sul piano militare l’imperialismo europeo in costruzione potrebbe assumere, con un salto di qualità sospinto dalla guerra in Ucraina, per meglio sapere come e dove combatterla.

Al di là dell’evidente afflato militarista che ha preso il continente, mettere in fila alcune dichiarazioni di matrice evidentemente imperialista di alti esponenti europei suscita un impatto direi quasi emotivo, e rende palese l’utilità di un approfondimento del genere.

L’elenco è abbastanza lungo, ma comprende figure di altissima responsabilità “istituzionale”. Dunque non sono parole “dal sen fuggite” o scenati immaginati da “esperti” dala valore discutibile. Segno che all’interno di quelle istituzioni molto si sta muovendo in un certa direzione.

In occasione del varo del Chips Act europeo (riguardante appunto un settore strategico), Thierry Breton, Commissario per il Mercato Interno, disse: «dopo l’Europa della democrazia e l’Europa del mercato, apriamo ora la strada a un’Europa del potere».

Faceva eco alle parole del ministro dell’Economia francese, Bruno Le Maire: «volete che l’Europa sia un mercato unico o non volete piuttosto che sia un progetto politico, nobile e idealista?». Peccato abbia poi aggiunto che «il nazismo fu un progetto folle, pericoloso, suicida, ma era un progetto politico di cui oggi l’Unione europea è la risposta agli antipodi».

Insomma, l’obiettivo è lo stesso – costruire una superpotenza europea che riconquisti quel ruolo centrale perso definitivamente con la Seconda guerra mondiale – ma da raggiungere a colpi di “vincoli esterni” e non con le armi, almeno sul territorio continentale.

Non hanno ovviamente la stessa fortuna i popoli del Sahel che hanno vissuto la lunga dominazione francese o del “Mediterraneo allargato” fino al Golfo Persico, dove anche l’Italia gioca un ruolo centrale.

Il colonialismo che trasuda dall’azione della UE è evidente, ma ci ha pensato l’Alto Rappresentante per gli affari esteri, Josep Borrell, a fare in modo che non ci fossero dubbi, quando all’inaugurazione della European Diplomatic Academy – un progetto imperialista ha pur bisogno di un suo personale politico “ben formato” – ha affermato che la UE è un giardino rigoglioso che si erge contro la giungla del mondo, e che tale giungla deve essere irreggimentata secondo le ‘leggi del giardino’, prima che da essa venga invaso.

Questa introduzione è certo lunga, ma era necessario unire tutti i puntini di una narrazione sempre più esplicita che deve sostanziare ideologicamente una politica di potenza tutt’altro che nobile e idealista.

Queste affermazioni sembrano infatti ricalcate su una sorta di “fardello dell’uomo europeo”, «unica àncora della democrazia mondiale», come ebbe a dire Romano Prodi. Quello di cui gli alti ranghi della UE cercano di convincere persino se stessi è che, ora che l’unipolarismo statunitense è in crisi, il “Destino manifesto” di una missione espansionista e civilizzatrice avrebbe deciso di attraversare l’oceano e prendere casa a Bruxelles.

Per assolvere a questo compito serve ovviamente anche uno strumento militare autonomo, da svilupparsi dentro la cornice della NATO. È questo passaggio che risulta ostico a tanti, perché anche tra chi frequenta spesso le categorie di Marx, Lenin, Gramsci, Mao e così via, c’è poca abitudine a pensare la Storia come un processo in atto definito dalle dure leggi della dialettica, anche per le soggettività che esprimono un programma strategico preciso.

A questo punto diventa interessante indagare la costruzione della difesa europea (esercito ma anche complesso militare-industriale) proprio a partire dalle forze armate USA, per comprendere come non sia così peregrina l’idea che si possa sviluppare un’autonoma potenza militare europea, pur nell’alleanza atlantica. Il lavoro della Heritage Foundation è l’appiglio perfetto…

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Guerra in Ucraina, Zelensky è solo la tesi di Huntington – Angelo d’Orsi

Trent’anni fa, nel 1993, Samuel P. Huntington, eminente scienziato politico dell’Università di Harvard, pubblicò un saggio sulla semi-ufficiale rivista Foreign Affairs: ampliato, il testo divenne tre anni dopo un libro che ebbe enorme audience internazionale, tra i conservatori, di cui Huntington era un ispiratore e portavoce, e tra coloro che si schieravano sulla sponda opposta, cogliendo i pericoli che l’applicazione delle tesi del politologo avrebbe prodotto. Era uno scenario di guerra dei mondi, che si affacciava nelle pagine di The clash of civilizations, and the remaking of world order, ossia, nella più efficace versione italiana, Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale (Garzanti, 1997). Huntington era mosso dalla preoccupazione per la situazione mondiale dopo “il crollo”. Guardava lontano, il politologo, esprimendo il timore che l’unipolarismo, a dominio nordamericano, succeduto al bipolarismo, potesse essere sostituito da un oligopolio, ossia una deprecabile (per lui) condivisione di quella leadership con potenze regionali, che manifestavano la volontà di diventare potenze globali. I suoi timori particolari andavano in due direzioni: la Cina, forte della sua popolazione, ma anche delle capacità economiche e, sull’altro fronte, il mondo dell’Islam. Più in generale lo studioso esprimeva disgusto per la possibile mescolanza di etnie, culture, religioni, che avrebbero finito per contaminare il mondo della cultura bianca, anglofona, protestante (i famosi Wasp). L’eco straordinaria delle tesi di Huntington finì per andare oltre gli stessi intendimenti dell’autore. Riprese, rilanciate, amplificate, banalizzate, quelle idee diventarono popolari in Occidente, suscitando a loro volta paure nei mondi altri, quelli che non si riconoscevano nel neoliberismo, nel concetto di supremazia bianca, cristiana, e nell’ubbidienza a Washington.

La Russia allora non dava preoccupazioni: Boris Eltc’in l’aveva praticamente regalata agli Usa e al mondo delle banche e degli affari e del malaffare. Morto, o giudicato tale, il comunismo, fallita l’Unione Sovietica, messa in condizione di non nuocere la Russia, all’Occidente occorreva un nuovo nemico: l’islamismo, innanzi tutto, che peraltro con il crescere delle correnti radicali forniva una sponda. La presidenza di G. W. Bush sembrò tradurre sul piano militare le tesi del politologo di Harvard. Ma intanto il concetto di nemico si dilatava, applicando quasi alla lettera l’idea di un gigantesco scontro globale che evocava, alle spalle di Huntington, le sinistre profezie di Carl Schmitt: era la guerra dei mondi. Occidente contro Oriente, il Bene e il Male, la Civiltà e la Barbarie, la quale di volta in volta era identificata con i residui di socialismo (Jugoslavia di Milosevic), con il socialismo di Stato della Cina, con il mondo arabo, con l’Islamismo in generale. E un po’ alla volta, anche con la Russia che, intanto, proprio con Putin, cominciò a ridiventare un attore globale. La guerra in Ucraina, nella propaganda occidentale, è l’ultima espressione della tesi di Huntington. In un recente intervento nell’inutile agorà del Parlamento Ue, la improbabile presidente, la maltese Mesola, ha glorificato i combattenti ucraini che difendono “i valori occidentali”.

A sua volta, alla fine dell’anno, in un discorso al Parlamento di Kiev, Zelensky ha affermato che l’Ucraina ha “aiutato tutti” e rafforzato l’unità della Ue. “Abbiamo aiutato l’Occidente a ritrovare sé stesso, a tornare nell’arena globale e a rendersi conto di quanto l’Occidente si stia affermando”, ha continuato l’uomo dalla maglietta verde e i bicipiti in vista. E ha sentenziato: “Nessuno in Occidente ha paura della Russia, né avrà più paura”. Ritengo invece che si debba avere paura, anzitutto di Zelensky e dei suoi mandanti: con questi leader irresponsabili, che invocano guerra a oltranza, la prosecuzione della specie umana, e della vita sulla terra, è a rischio. Se non ci penserà il climate change, ci penseranno i nipotini di Huntington.

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Il suprematismo USA alla prova – Enrico Tomaselli

Negli ultimi decenni, negli Stati Uniti ha preso il sopravvento una strana alleanza tra l’elite globalista democratica ed i circoli neocon. Questo grumo di potere è unito dalla visione messianica degli USA come del paese eletto da dio a guidare il mondo; i primi apportano all’alleanza la visione ideologica, i secondi il cinismo politico. Sempre più scollegati dalla realtà degli states, appaiono accecati dalla propria stessa narrazione e stanno trascinando il mondo occidentale in una guerra senza fine, che per di più non possono vincere. La vera minaccia del conflitto nucleare viene da lì, non dalle steppe russe.

 

Una America accecata

Quando si pensa al suprematismo negli Stati Uniti, il pensiero va alle correnti di estrema destra che attraversano il paese, soprattutto fuori dalle grandi metropoli e lontano dalle sponde oceaniche: quel suprematismo bianco che va dal Ku Klux Klan alle milizie neonaziste. Ma, ancora più profondo, c’è un altro suprematismo che alligna in USA, e che ha le sue radici nella dottrina Monroe (1): l’idea dell’America First. Variamente declinata, e giustificata, l’idea della supremazia statunitense sul mondo si è via via andata delineando come una mission assegnata da dio (2), ma all’ombra della quale si sono poi annidati i corposi interessi materiali delle elites economiche. Già nella formulazione della locuzione è insita questa idea: come ha recentemente fatto notare il Presidente messicano, Andrés Manuel López Obrador, gli USA si pensano e si dicono l’America, laddove invece non ne sono che una parte. Anche solo il nord America, infatti, conta anche il Messico ed il Canada.

Questa idea della supremazia americana, quale la conosciamo oggi, si è formata soprattutto attraverso due passaggi fondamentali, la seconda guerra mondiale e la guerra contro l’Iraq.

Dal punto di vista di Washington, il conflitto mondiale è stato significativo per più di un motivo. Innanzi tutto, è stato il primo massiccio evento di proiezione globale; gli Stati Uniti hanno condotto infatti una guerra sul fronte atlantico-europeo, ed una su quello pacifico. Per quanto entrambe rispondessero principalmente ad una ragione geopolitica (bloccare la crescita economico-industriale della Germania e del Giappone), la narrazione roosveltiana fece sì che apparisse come la guerra dei giusti contro il male – riuscendo in questo a generare una mobilitazione morale del popolo americano, necessaria a rendergli sopportabile l’immane sforzo. Questa visione del conflitto – e di sé – contribuirà moltissimo a radicare l’idea del suprematismo americano non solo nelle elites, ma anche nel senso comune popolare. Inoltre, fornirà un modello di narrazione che i governi statunitensi ricicleranno innumerevoli volte: la hitlerizzazione di ogni successivo avversario.

All’indomani del conflitto, quindi, Washington si trova non solo dominus pressoché assoluto dei due maggiori oceani, ma di fatto padrone del più rilevante (allora) pezzo di mondo, l’Europa. Non solo, diviene consapevole che il proprio apparato militare ed industriale è all’altezza della mission suprematista, la quale a sua volta è penetrata profondamente nella ideologia americana.

La lunga stagione della guerra fredda che seguirà, sarà in effetti – nonostante la presenza dell’Unione Sovietica – la golden age del dominio statunitense.

A sostanziale conclusione di questo ciclo, la guerra in Iraq produce invece un profondo fraintendimento. Prevalentemente in occidente, e com’è ovvio soprattutto in USA, ma non solo. A poco più di un decennio dalla dissoluzione dell’URSS, la travolgente vittoria con Saddam (un altro Hitler…) sembra non solo riscattare la clamorosa sconfitta del Vietnam, ma soprattutto affermare l’irresistibile invincibilità delle armate americane.

Ciò che questa guerra determina, quindi, è rafforzare l’idea che la supremazia americana è così evidente de facto, che non può non esserlo anche de jure. Il diritto divino dell’America a guidare il mondo.

Peraltro, l’esito della guerra irachena contribuirà a rafforzare un trend iniziato appunto con la caduta dell’Unione Sovietica, ovvero la trasformazione strategica delle forze armate USA e della NATO che – nell’autopercezione di essere ormai l’unica potenza dominante – immaginano, d’ora in avanti, di avere di fronte soltanto guerre asimmetriche, contro avversari infinitamente più deboli.(3)

Su questo filone ideologico del pensiero politico americano, negli ultimi decenni si è venuta poi a creare una saldatura tra l’elite globalista incarnata nei vertici del partito democratico USA, ed i circoli neocon statunitensi. L’ideologia globalista incarnata dai democrats è di fatto una espansione dell’idea suprematista, che non ritiene più sufficiente l’egemonia politica ed il dominio militare degli USA, ma muove di fatto verso una omologazione profonda del mondo al modello americano; e quindi alla cancellazione di qualsiasi riottosità all’adozione dell’ideologia liberal-progressista. Per quanto ideologicamente lontanissimi da questa visione, i circoli neoconservatori – veri e propri think tank del pensiero di estrema destra – offrono al progetto globalista la visione strategica, il disegno geopolitico globale. Benché palesemente divergenti rispetto agli obiettivi ultimi, e con ogni probabilità reciprocamente convinti di star usando l’altro, democratici e neocon convergono sulla necessità di annichilire qualsiasi resistenza al dominio assoluto degli USA, che entrambe percepiscono come una minaccia…

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Le guerre dimenticate, non meno feroci di quella in Ucraina – Emilio Drudi e Marco Omizzolo

…C’è da chiedersi come mai guerre atroci e lunghissime come quelle nel Tigrai, nello Yemen, in Siria, in Mali, non abbiano ascolto nella politica italiana ed europea e come mai trovino poco spazio nei media. Perché non sconvolgano la sensibilità delle persone. Lo stesso vale, del resto, per altre crisi estreme che provocano migliaia di morti e schiere enormi di profughi. In Afghanistan, ad esempio, dove la fuga precipitosa degli eserciti occidentali nello scorso agosto ha posto fine ad un conflitto durato vent’anni, ma dove non è certo finita la terribile emergenza umanitaria creata proprio dalla guerra, mentre il regime dei talebani perseguita e costringe a lasciare il paese i tanti che hanno creduto nella costruzione di una democrazia (salvo essere stati abbandonati dagli Stati che hanno alimentato questo sogno). Oppure, in Somalia, un paese imploso da oltre trent’anni, sconvolto da una bufera infinita nella quale siccità, fame, carestia, epidemie, si aggiungono al disastro provocato da una sanguinosa guerra civile e da un terrorismo forte e radicato come quello di Al Shabaab, che colpisce quando e dove vuole, mettendo a segno una media di oltre mille attacchi e attentati l’anno. O, ancora, in Nigeria, dove il terrorismo fondamentalista di Boko Aram, combinato con l’azione di bande di predoni e un vortice crescente di conflitti etnici, ha provocato, secondo la sezione affari umanitari dell’Onu, oltre 30mila morti e più di tre milioni di rifugiati.

Ecco, tutto questo è come dimenticato. Oscurato. Eppure, a ricordarcelo, arrivano ogni giorno, alle porte dell’Italia e dell’Europa, migliaia di profughi in cerca di aiuto. Testimoni disperati degli eccidi, del mondo di morte e sofferenza, a cui sono sfuggiti. Ma forse il punto è proprio qui. Forse l’Italia e l’Europa questi disperati non vogliono vederli.

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“In Ucraina si combatte e si combatterà ancora a lungo” – Fabio Mini

…I MARGINI PER UN CESSATE IL FUOCO da parte di entrambi non esistono, almeno fino a quando uno di essi non raggiungerà gli obiettivi prefissati. Esisterebbe però se gli Stati Uniti decidessero di trattare con la Russia per una definizione della sicurezza in Europa e se americani ed europei si accontentassero delle distruzioni strutturali effettuate finora dai russi per avviare quel piano Marshall da tutti vagheggiato come investimento e che diventa più costoso e impegnativo ogni giorno che passa. Lo stesso presidente Zelensky nella sua visita negli Stati Uniti ha spiegato ai politici americani che gli aiuti in armi per la continuazione della guerra e quindi delle distruzioni “non sono un’elemosina ma un investimento”. Il nostro premier Draghi e il Cepr-centre for Economic Policy Research di Londra tre mesi dopo l’inizio della guerra avevano calcolato un’esigenza di finanziamento della ricostruzione tra 220 e 540 miliardi di dollari (equivalente a un range di variabilità del 245%). Una stima “a spanne” non proprio degna di tali esperti della finanza, visto che la regola di Chitarrella per l’estimo insegna a geometri e ragionieri che se la stima varia del 50% è già un numero a caso. Nello stesso periodo (maggiogiugno) l’ucraina lo calcolava attorno ai 750 miliardi includendo ripristino, ricostruzione, innovazione e finanziamenti privati. A settembre, con lo stesso metodo di calcolo, la cifra raggiungeva il trilione. Oggi con la campagna anti strutturale in corso e l’arrivo di nuove armi si può ragionevolmente considerare il doppio.

Purtroppo l’avidità da ricostruzione non ha limiti e anche questo non induce a sospendere le ostilità. Ma esiste un limite fisico: di questo passo nel giro di qualche mese in Ucraina non rimarrà più nulla da distruggere.

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Come opera la macchina della propaganda – Alberto Bradanini

Introduzione
Secondo la narrativa dominante, la propaganda, vale a dire la sistemica produzione di falsità, colpirebbe solo le nazioni prive di libertà di espressione, i paesi autocratici, autoritari o dittatoriali (appellativi, invero, attribuiti a seconda delle convenienze). Nei paesi autoritari, con qualche diversità dall’uno all’altro, il quadro è piuttosto evidente, domina la censura: alcune cose si possono fare, altre no. A dispetto delle apparenze, tuttavia, anche nelle cosiddette democrazie, l’obiettivo è il medesimo, controllare il disagio della maggioranza contro i privilegi della minoranza, cambia solo la tecnica, una tecnica basata sulla Menzogna, che opera in modo sofisticato, creando notizie dal nulla, mescolando bugie e verità, omettendo fatti e circostanze, rimestando abusivamente passato e futuro, paragonando ostriche a elefanti.

Confondendo ulteriormente il quadro, per il discorso del potere – in cima al quale, a ben guardare, troviamo sempre l’impero americano in qualche sua incarnazione – i paesi autoritari sono poi quelli che non si piegano al dominio dell’unica nazione indispensabile al mondo (Clinton, 1999), colonna portante del Regno del Bene.

Coloro che dominano la narrativa pubblica, dunque, controllano la società e per la proprietà transitiva la ricchezza e le inquietudini che vi si aggirano. D’altra parte, persino chi siede in cima alla piramide è inquieto, preso dall’angoscia di perdere ricchezza e potere. E la coercizione non basta, occorre il consenso e il ruolo della propaganda è quello di disarticolare il conflitto, contenere quel malessere che si aggira ovunque come un felino in attesa della preda. Essa è anche un aspetto costitutivo della più vasta nozione di egemonia, nell’accezione gramsciana del termine[1], secondo la quale il ceto dominante, oggi transnazionale, ha bisogno di guidare la narrazione pubblica, servendosi di un’impalcatura di servizio, politici, militari/burocrati, giornalisti, accademici.

Il potere è slegato da ogni ideologia, non essendo fondato su valori, ma solo su interessi: liberalismo o socialismo, conservatorismo o progressismo, fondamentalismo cristiano o islamico, suprematismo o meticciamento e via dicendo, il fine è solo uno, la massificazione di sè stesso e dei profitti correlati. Il Regno del Bene non ha sfumature di pensiero, tanto meno di azione.

La narrativa pubblica diffonde inoltre un messaggio inconscio: “sappiamo bene che la situazione non è ideale, le cose dovrebbero andar meglio, ma, ahimè, non vi sono alternative. D’altro canto, si faccia attenzione perché le cose potrebbero andare molto peggio, e solo noi siamo in grado di evitare che la situazione precipiti”.

Taluni sono persuasi che solo chi vive ai margini, i poveri di spirito e gli individui senza istruzione o acume siano esposti al sortilegio della propaganda. Uno sguardo disincantato rivela invece che tale dipendenza non ha nulla a che vedere con la cultura o l’intelligenza. Anzi, entrambe tendono a rafforzare la resistenza a riconoscere la porosità alla manipolazione. La capacità di opporsi al mainstream appare invero connessa con l’umile qualità di saper riconoscere i propri errori, e all’occorrenza la propria credulità. Si tratta di una caratteristica critica dell’essere umano che esprime maturità emotiva e spessore culturale. Sul piano filosofico, invece, l’abilità a smascherare l’inganno discende dall’aderenza al principio di verità, che non può prescindere da una vita condotta in coerenza. Si tratta di peculiarità poco diffuse, ma che fioriscono in ogni genere di individui e sono essenziali per la vita e la prosperità del genere umano.


Il trampolino della propaganda

Nell’incipit del saggio The Propaganda Multiplier[2], lo svizzero Konrad Hummler afferma che “davanti a qualsiasi genere di informazione non dovremmo mai tralasciare di chiederci: perché ci giungono queste notizie, perché in questa forma e in questo momento? In fin dei conti si tratta sempre di questioni che riguardano il potere”.

Forse, ciò chiarisce perché nessuno dà conto della singolare congiuntura – è questo un esempio tra i tanti – per la quale i cittadini russi possono leggere i nostri giornali e ascoltare le nostre TV, mentre noi non abbiamo il diritto di reciprocare, leggere e ascoltare i media russi[3]. In attesa di venirne informati, ci soccorre il vocabolario orwelliano, nel quale si scrive pace per significare guerrademocrazia per intendere oligarchiaplutocraziasovranità per esprimere sottomissionelibertà di giustizio per la sua soppressione.

Hummler aggiunge che un aspetto sostanzialmente ignoto del sistema mediatico riguarda la struttura del suo funzionamento, in specie la circostanza che la quasi totalità delle notizie che ci giungono sugli eventi del mondo è generato da tre sole agenzie internazionali di stampa. Il loro ruolo è talmente centrale che i fruitori mediatici – TV, giornali e internet – coprono quasi sempre gli stessi eventi con i medesimi argomenti, lo stesso taglio, il medesimo formato. Si tratta di agenzie che godono di coperture e sostegni di governi, apparati militari e intelligence, essendo da questi utilizzate quali piattaforme di diffusione di informazioni pilotate[4].

Come fa il giornale (o la TV) che leggo (o ascolto) a conoscere ciò che afferma di conoscere su un argomento internazionale? – si chiede Hummler – e la risposta è banale: quel giornale o quella TV non sa nulla, si limita a copiare da una delle citate agenzie. Queste lavorano in modo felpato, dietro le quinte. La prima ragione di tale discrezione è beninteso il controllo della notizia, la seconda risiede nella circostanza che giornali e TV non hanno interesse a far conoscere ai loro lettori di non essere in grado di raccogliere notizie indipendenti su quanto raccontano…

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L’ultimo decreto di Zelensky crea i primi interrogativi anche al NYT

Riprendiamo da un articolo di Anushka Patil pubblicato sul New York Times il 30 dicembre: “Giovedì il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha firmato un disegno di legge che amplia i poteri del governo sui mezzi di informazione, una norma che secondo gli organi di stampa potrebbe erodere la libertà di informazione nel Paese”.

Prima i partiti, poi la stampa

“Nonostante il fatto che alcune delle disposizioni più rigorose della legge siano state allentate per rispondere alle critiche precedenti, sono rimaste serie preoccupazioni sull’indipendenza dell’organismo di regolamentazione, hanno affermato venerdì diversi media nazionali e internazionali, aggiungendo che stavano ancora studiando i dettagli della legislazione finale, composta da 279 pagine”.

“La legge estende le prerogative dell’autorità di regolamentazione delle trasmissioni televisive ucraine per coprire i mezzi di informazione online e cartacei. Le bozze precedenti davano all’autorità di regolamentazione il potere di multare i media, revocare le loro licenze, bloccare temporaneamente i siti online senza un ordine del tribunale e di richiedere che le piattaforme dei social media e i giganti tecnologici come Google rimuovano contenuti contrari alla legge”.

Si tratta di un ulteriore giro di vite, dopo quello che ha visto il governo di Kiev mettere fuorilegge tutti i partiti e le forze di opposizione. Tale sviluppo si spiega con le ristrettezze imposte dalla guerra, ovviamente, ma sembra andare oltre le ragionevoli necessità, stando anche a quanto riferisce il Nyt.

La “censura” esiste se esiste una opposizione

Alcune considerazioni a margine. Anzitutto tale misura indica che, nonostante le restrizioni già esistenti e la soppressione delle opposizioni, nel Paese c’era un’insofferenza nei confronti del governo, che iniziava a emergere in siti, Tv e giornali, altrimenti non si spiega l’esigenza di un più severo controllo.

L’altra considerazione riguarda i resoconti dei media mainstream, che da tempo riferiscono che il popolo si è stretto attorno al suo presidente e sostiene la sua decisione di resistere alla Russia fino allo stremo, rigettando negoziati e compromessi.

Evidentemente non hanno mai letto le notizie e le fonti di informazione che preoccupano così tanto il governo da decidere per un ulteriore giro di vite e che certo riflettono l’opinione di parte – quanto grande non lo sappiamo, né forse mai lo sapremo – della popolazione (che, ricordiamo, aveva votato per Zelensky perché facesse la pace con la Russia).

Né evidentemente hanno mai parlato veramente con la gente del posto, se non con interlocutori selezionati (prima o dopo), altrimenti tale sostegno a Zelensky non apparirebbe così unanime come riferiscono usualmente nei loro resoconti. Insomma, la decisione di Kiev evidenzia che tali rapporti sono mera propaganda.

La democrazia ucraina e l’autoritarismo russo

In terzo luogo, la decisione di sopprimere – o controllare che dir si voglia – ogni forma di libertà, politica e di informazione, non sembra rispecchiare né lo slogan tanto in voga per la guerra ucraina, che vede una lotta tra una democrazia, quella di Kiev, contro l’autoritarismo, quello russo; né lo slogan che vede in Kiev un baluardo che, per conto dell’Occidente, sta difendendo le regole fondate sul diritto che hanno retto il mondo nel post Seconda guerra mondiale.

Inoltre c’è una discrasia di fondo. Quando il nemico è percepito come oppressore, e come tale è dipinta la Russia, in genere le forze politiche di un Paese tendono a fare fronte comune, come accadde in Italia contro il nazi-fascismo. Nel caso ucraino tale convergenza non si è data, anzi si assiste a un preoccupante unipolarismo, sempre più stringente. L’assenza di tale fronte comune può non ledere l’immagine di una Russia come stato autoritario, ma certo non aiuta a percepire il governo ucraino come una democrazia.

Una bizzarria ulteriore viene registrata nel sottotitolo del New York Times: “I parlamentari che hanno approvato il disegno di legge hanno affermato che aiuterebbe a soddisfare i requisiti per l’adesione all’Unione europea”. Davvero per entrare nella Ue occorre limitare la libertà di stampa in questo modo? Sarebbe interessante cosa ne pensa un altro Parlamento, quello cosiddetto europeo…

Armi e soldi a pioggia…

Infine, cosa non meno importante, va considerato che l’Ucraina in questi mesi è letteralmente inondata di armi e di soldi provenienti dal blocco occidentale. Tali flussi avevano già scarsi controllo in loco, ora non ne hanno alcuno. Ciò non può che alimentare il traffico di armi internazionale, preoccupazione peraltro già presente in passato (vedi Responsible Statecraft), e la corruzione, di cui l’Ucraina è preda da tempo.

L’ultima considerazione è registrata anche da un recente rapporto del CSIS (Center for Strategic & International Studies), peraltro molto ben disposto nei confronti dell’Ucraina, sul quale si legge: “Ricercatori esperti in anti-corruzione hanno anche scoperto che la guerra tende ad esacerbare i rischi di corruzione. Gli sforzi per promuovere l’integrità e individuare le responsabilità dei funzionari disonesti spesso non hanno priorità rispetto alle ragioni della salvaguardia della sicurezza nazionale. L’urgenza e la segretezza degli appalti nel settore della difesa e l’afflusso di assistenza straniera, tra gli altri fattori, creano nuove opportunità di corruzione in un momento in cui lo stato e la società civile hanno una capacità ridotta di monitorare e indagare sui comportamenti illeciti”.

È classica scoperta dell’acqua calda, ma in un momento come questo, nel quale la realtà è distorta al parossismo tanto che i media vendono per vere anche le follie più astruse, anche tali considerazioni suonano come rivoluzionarie.

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La verità sulla guerra russo-ucraina – Carlo Formenti

In un mondo ideale, quando scoppia una guerra come quella oggi in atto fra Russia e Ucraina, che minaccia di avere gravi conseguenze non solo per le popolazioni coinvolte ma per l’intero pianeta, la prima preoccupazione di chi è in grado – per cultura e competenze – di analizzare le cause reali del conflitto, dovrebbe essere quella di trasmettere le proprie conoscenze al largo pubblico dei non addetti, non solo per aiutarlo a farsi un’opinione corretta su quanto sta accadendo, ma anche per stimolarne l’impegno a fare il possibile, se non per porre fine alla strage, almeno per limitare i danni. Purtroppo non viviamo in un mondo ideale, bensì nell’Italia attuale, cioè in un Paese inglobato in due blocchi economici, politici e militari, l’Unione Europea e la Nato, asserviti agli interessi di una superpotenza come gli Stati Uniti che, oltre a essere la prima responsabile della guerra, è anche determinata a fare sì che essa si prolunghi il più a lungo possibile, nella speranza di rallentare il proprio declino, danneggiando non solo una delle nazioni belligeranti, quella Russia che assieme alla Cina è la sua maggiore controparte geopolitica, ma anche gli “alleati” europei, i quali, dovendo pagare un prezzo elevato ove il conflitto si prolungasse, vedrebbero ridursi la propria capacità competitiva nell’ambito del blocco occidentale. Non stupisce quindi che le classi intellettuali sopra evocate – giornalisti, accademici, esperti di storia, politica ed economia, ecc. -, invece di svolgere un ruolo di informazione obiettiva sui fatti e di analisi scientifica delle loro cause, siano impegnati in una forsennata campagna propagandistica contro una delle parti belligeranti, presentandola come l’unica responsabile della guerra, se non come l’incarnazione del male assoluto…

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ZELENSKY AL “MERCATO” DI DAVOS PER SVENDERE IL SUO PAESE – Paola Baiocchi

Il presidente ucraino Volodomyr Zelensky ha annunciato che parteciperà al prossimo raduno del World Economic Forum (WEF) che si terrà dal 16 al 20 gennaio a Davos, nelle Alpi svizzere. Il 18 gennaio il presidente interverrà in un incontro intitolato “Restoring Security and Peace” , insieme al segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg e al giornalista della CNN, Fareed Zakaria.

Il WEF di Davos è fin dalla sua nascita nel 1971 il luogo dove si incontrano i massocapitalisti della terra e dove si programma il futuro del 99% della popolazione, in assenza di orecchie indiscrete della stampa, a parte quelle dei giornalisti invitati per conoscere l’agenda da propinare al 99% della popolazione. Secondo alcune fonti, Zelensky parteciperebbe al forum di Davos anche per firmare nuovi accordi per la ricostruzione post-bellica con Blackrock, la società d’investimenti più grande del mondo, dopo che all’inizio dell’anno l’amministrazione ucraina aveva già stipulato degli accordi col colosso finanziario circa servizi di consulenza su come investire i fondi per la ricostruzione del Paese distrutto dalla guerra.

Anche il CEO di Blackrock, Larry Fink, infatti, sarà protagonista del Forum, intervenendo il 17 gennaio nell’incontro intitolato “Rilanciare il commercio, la crescita e gli investimenti”, insieme al fondatore del WEF, Klaus Schwab, al capo dell’Organizzazione mondiale del commercio, al primo ministro belga e al vicecancelliere e ministro dell’economia tedesco. Blackrock, del resto, è uno dei principali “partner” del WEF, essendo finanziatore globale dell’agenda ESG – Environmental (ambiente), Social (società) e Governance) – promossa da Davos.

BlackRock è stata descritta come “il quarto ramo del governo” USA perché lavora a stretto contatto e indirizza le banche centrali. La sua influenza è così pervasiva che si potrebbe dire che controlla non solo società private e gruppi mediatici in tutto il mondo, ma interi paesi e i loro governi. Il suo patrimonio gestito è di 9 trilioni di dollari, quattro volte il PIL dell’Italia, più grande del prodotto interno lordo di ogni singolo paese del mondo, ad eccezione di Cina e Stati Uniti.

Quindi cosa farà fare Blackrock a Zelensky? L’intervento di Blackrock si affianca al piano per la ricostruzione dello stato ucraino discusso nella Ukraine Recovery Conference 2022, cui avevano partecipato l’estate scorsa 41 paesi e 19 organizzazioni internazionali, mettendo a disposizione una cifra pari a 750 miliardi di dollari. Tuttavia, il piano prevede che in cambio dei prestiti, Kiev faccia delle controriforme sul piano economico che comprendono, tra le altre cose, la privatizzazione e la svendita alla finanza internazionale del sistema industriale pubblico del Paese. Come è già avvenuto con le terre più fertili dell’Ucraina, di proprietà delle multinazionali a capitale statunitense Cargill, Du Pont, Monsanto, come riportato in “The corporate takeover of ukraine agriculture”redatto dall’Oakland Institute.

Questi incontri portano alla luce gli scopi della guerra in Ucraina, da una parte allontanare la Russia dall’Europa dal punto di vista commerciale e diplomatico; dall’altro, quello di agevolare la vendita dei beni pubblici di Kiev agli investitori occidentali. In entrambi i casi, a guadagnarci sono gli Stati Uniti d’America, sia dal punto di vista economico che della politica estera. Non certo i cittadini europei costretti ad acquistare a prezzi esorbitanti il gas statunitense e a ridurre i commerci con la Russia, con la Cina e con il resto dell’Asia.

Al World Economic Forum quindi, verrà discusso il futuro dell’Ucraina e della sua ricostruzione che, in base alle condizioni imposte, finirà per coincidere con acquisti a prezzi di saldo per le corporation e gli investitori finanziari. Se la guerra sul campo condotta da Mosca ha certamente distrutto l’Ucraina, la distruzione della sua sovranità economica e del patrimonio industriale pubblico, invece, sarà portata a termine proprio dalle potenze occidentali e in particolare dalla finanza statunitense.

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Volodymyr Zelensky, Germano Dottori lo smaschera: “Articolo 5”, così il premier condanna l’Europa alla guerra?

Una frase che spiega tutto. “L’articolo 42, par. 7 del Trattato Ue è più stringente dell’articolo 5 del Patto Atlantico“. Poche parole quelle che Germano Dottori, consigliere scientifico di Limes, affida ad un post pubblicato sul suo profilo Twitter. Poche parole appunto per dire che forse è anche per questo motivo che ormai il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky ha lasciato perdere l’idea di entrare nella Nato prediligendo l’ingresso del suo Paese in Europa.

Recita infatti il trattato sull’Unione europea: “Qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ciò non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri”.

E ancora: “Gli impegni e la cooperazione in questo settore rimangono conformi agli impegni assunti nell’ambito dell’organizzazione del Trattato del Nord Atlantico che resta, per gli Stati che ne sono membri il fondamento della loro difesa collettiva e l’istanza di attuazione della stessa”.

L’articolo 5 del Patto dice che “le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall’ari. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale. Ogni attacco armato di questo genere e tutte le misure prese in conseguenza di esso saranno immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza”.

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Perché Biden vuole che Putin aggredisca l’Ucraina. Dialogo Dottori-Martino

(a cura di Maria Scopece)  14-2-2022

Tutte le convergenze parallele di Russia e Usa in Ucraina. Il ruolo del Qatar sul gas in Europa secondo l’amministrazione Usa. E le debolezze interne di Biden e Putin. Conversazione tra Germano Dottori (Limes) e Lucio Martino (Guarini Institute)

Cui prodest la minaccia di guerra in Ucraina? Sia al presidente russo Vladimir Putin che a quello americano Joe Biden. A sostenere la convergenza parallela di interessi dei due leader sono il prof. Germano Dottori, analista di geopolitica e consigliere scientifico di Limes, e Lucio Martino, membro del Guarini Institute for Public Affair della John Cabot University ed ex direttore di ricerca presso il Cemiss, Centro Militare di Studi Strategici.

Dossier Ucraina

“Gli obiettivi di politica estera attualmente perseguiti dall’amministrazione americana sono di chiara impronta wilsoniana, l’estensione e la protezione della democrazia ovunque fanno parte di una strategia e un’ideologia neo conservatrice – ha sottolineato Lucio Martino nel corso di una conversazione sulla pagina Facebook del professor Dottori – Del resto la politica estera dell’amministrazione Biden è in mano a personaggi del calibro di Victoria Nuland, la moglie di Robert Kagan l’ideologo dell’amministrazione del Bush figlio, quello delle guerre mediorientali, ma anche Jake Sullivan, il Consigliere per la sicurezza nazionale, o Antony Blinken, lo stesso Segretario di Stato. Questa è la stessa squadra che ha firmato la politica estera americana del 2003, della guerra in Iraq, del 2008 della questione del Kosovo e della crisi ucraina del 2014. Questa è una squadra che ha come obiettivo il ridimensionamento della Federazione russa, da questo punto di vista ideologicamente c’è coerenza”.

Victoria Nuland e lo scandalo della crisi ucraina del 2014

Victoria Nuland è una diplomatica di lungo corso, fu vice direttrice del dipartimento ex affari sovietici durante la presidenza di Clinton e consigliere del vice presidente Dick Cheney. George Bush jr la nominò ambasciatrice a Bruxelles presso la Nato mentre con il presidente Obama è diventata assistente del segretario di Stato per gli affari europei ed eurasiatici, gestendo le relazioni diplomatiche con i Paesi europei e con la Nato. Ha rivestito un ruolo centrale nella gestione della crisi ucraina del 2014, e fu al centro di uno scandalo per quel “Fuck The EU” pronunciato nel corso di una telefonata privata con l’ambasciatore Usa in Ucraina, Geoffrey Pyatt. La telefonata fu intercettata e pubblicata su Youtube.

Biden e le difficoltà della politica interna

A circa un anno dall’elezione Joe Biden naviga già in cattive acque. Il calo dei suoi consensi personali è costante, passato dal 55 al 36%, il precipitoso ritiro dall’Afghanistan ha dato un colpo alla sua immagine, l’inflazione è salita al 6% per la prima volta negli ultimi decenni e infine il deficit federale ha toccato il record di 3 mila miliardi di dollari. “L’amministrazione Biden quasi non ha goduto di luna di miele con il suo elettorato – ha aggiunto Martino –. L’inflazione è la più alta da quarant’anni a questa parte, che ha portato addirittura a una penuria di beni di prima necessità. È un paese diviso culturalmente, politicamente e anche etnicamente lungo linee identitarie che sono le stesse dei tempi della guerra civile di 150 anni fa”. In questo quadro un successo in politica estera potrebbe rappresentare una via di fuga. “L’amministrazione Biden guarda alla politica estera per cercare affermazione e successo, quel teatro potrebbe essere l’Ucraina”.

Gli interessi americani in Qatar

Una delle ragioni che muove gli interessi statunitensi in ottica anti russa riguarda il gas qatarino.  Gli Usa punterebbero, secondo Lucio Martino, a “riorientare gli interessi europei lontano dalla Russia attraverso un dispositivo sanzionatorio ancora più duro di quello che è in atto adesso. Io metterei in relazione la crisi ucraina con l’accordo appena raggiunto con il Qatar che è un altro grande produttore di gas naturale”. Il Qatar “è stato eletto al rango di paese alleato quasi come fosse un paese membro della Nato. Il grande disegno, se ce n’è uno perseguito dall’amministrazione Biden, mi sembra questo”, chiosa Martino.

Putin ricerca successi in politica estera

Distogliere l’attenzione dai problemi interni con la politica estera non è un atteggiamento esclusivo dell’amministrazione americana. “Anche Putin ha bisogno di qualche successo in politica internazionale dal momento che la gestione della pandemia non è stata tra quelle più felici – ha sottolineato Germano Dottori -. Io ho l’impressione che il successo che Putin persegua in questo momento in Ucraina sia quello di puntare dei paletti e impedire che l’alleanza atlantica si allarghi ulteriormente verso est, sostenendo che la Federazione russa non lo può accettare, e cercando di dimostrare anche agli attuali leader ucraini che la garanzia di sicurezza fornita dall’occidente al loro paese non è così solida. Il gioco dialettico che si sta instaurando tra le parti a un certo punto raggiungerà un momento della verità”.

La guerra: un’ipotesi plausibile per far scattare le sanzioni

La guerra, secondo Dottori, sarebbe un’ipotesi plausibile. “La mia impressione è che gli americani stiano cercando di convincere i russi che un’aggressione può pagare – secondo il consigliere scientifico di Limes -. Nel momento in cui fanno sapere al mondo intero che la guerra è probabile in qualche modo la rendono un’ipotesi normale, persino accettabile cui l’opinione pubblica internazionale viene preparata e dall’altro lato abbandonando gli ucraini al loro destino mettono Putin nella condizione di dover considerare facile un attacco o comunque una situazione nella quale l’Ucraina si trova completamente sola”.

L’attacco all’economia europea

Tutto questo può determinare grandissime conseguenze. “Se i russi non attaccano, la strategia americana fa un buco nell’acqua – ha aggiunto Dottori -. Se i russi attaccano e conducono anche un’offensiva limitata scattano le sanzioni che potrebbero essere il vero obiettivo dell’amministrazione americana, in modo da separare definitivamente la Russia dal mercato europeo dell’energia e in qualche modo assestare un colpo alla solidità dell’economia europea nel momento in cui l’Europa esce dalla pandemia e ha bisogno di rilanciarsi. La strategia ha obiettivi multipli in cui anche l’Europa può essere un bersaglio. Sull’Ucraina si gioca una partita complessa in cui gli europei, gli americani e i russi non sono del tutto allineati, anzi a me paiono del tutto in concorrenza gli uni rispetto agli altri”.

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redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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