Vale sempre la pena se qualcosa va distrutto di quel che ci succhia il sangue

In memoria di una generazione di vicentini (la mia)

di Gianni Sartori

Quando nel marzo 2015 era morto Guido Bertacco avevo rinviato a lungo prima di scriverne un ricordo per «Umanità nova». Forse attendevo che qualche altro sopravvissuto del MAV (Movimento Anarchico Vicentino) prendesse l’iniziativa.

Difficile, dato che ormai in giro non è rimasto nessuno o quasi, almeno per quanto riguarda la militanza. Oltre a Guido, nel corso degli anni se ne sono andati per sempre Anna Za, Laura Fornezza, Mario Seganfredo, Patrizia Grillo, Nico Natoli…

Già nel 1999, al momento della morte di Nicolò “Nico” Natoli, dovendo stendere un necrologio sempre per «Umanità nova», mi ero ritrovato a fare i conti con la morte, risalente a qualche anno prima, sia di Anna Za che di Laura Fornezza e di Mario Seganfredo (“Mario Cavejo”, per evidenti ragioni di chioma).

Tutte compagne e compagni che in qualche modo avevano contribuito attivamente alle lotte del 1972 contro l’oppressiva situazione vissuta dagli internati dell’ospedale psichiatrico (“el manicomio de san felise”) di Vicenza; in epoca non sospetta: sostanzialmente pre-Basaglia.

Nel caso di Nico restava il rammarico di non avergli portato in tempo la foto, ritrovata dopo circa 25 anni, di una manifestazione del novembre 1972 davanti al carcere militare di Peschiera. Una immagine in bianco e nero dove, fra cartelli contro la proprietà privata e bandiere con la A cerchiata, si potevano riconoscere Guido Bertacco, Stefano Crestanello, Giuliano Francesconi (forse… all’epoca le folte barbe talvolta ingannavano), Nico e altri compagni del MAV in trasferta. Ricordavo anche un altro “scatto” (una foto che invece era stata sequestrata, insieme all’intero rullino) dove chi scrive e Nico salutavano a pugno chiuso dopo essersi arrampicati su per una statua.

I primi ricordi di Nico risalivano agli inizi degli anni ’70. Faceva parte di un gruppo di ragazzotti del Villaggio del Sole autopoliticizzati e fricchettoni: Nico, Jojo, Renzo, Cica…

Figli di operai, cominciarono ad apparire, sempre in “branco”, alle riunioni e manifestazioni del movimento, caratterizzandosi subito in senso spiccatamente libertario (forse fin troppo, direi ora). Fra le loro imprese ricordo il sabotaggio di una celebrazione patriottica per il 4 novembre in piazza dei Signori. Trovarono il modo di versare una qualche sostanza innocua ma altamente puzzolente; in breve l’atmosfera divenne irrespirabile e la manifestazione venne prontamente abbandonata dalla maggior parte del pubblico. In altra occasione (durante la campagna elettorale del 1972) Nico, che era agilissimo, si arrampicò sui lampioni del villaggio del Sole togliendo gli striscioni dei fascisti. Probabilmente sono ancora ad ammuffire in qualche scantinato. Ricordo poi che parteciparono anche alle iniziative editoriali di Vicenza-Freak e di Vicenza-Contro (un bollettino ciclostilato con una redazione alquanto informale, costituita sia da anarchici che da simpatizzanti di Re nudo, con qualche sfumatura situazionista) diventato nel numero conclusivo dell’estate 1974 (un vero colpo di mano del gruppo più politicizzato e meno incline alle devianze da “proletariato giovanile”) un incendiario “Contro Vicenza”.

In seguito l’avevo perso di vista per molti anni ritrovandolo, presenza costante (insieme a quella dell’amico Jojo) alle iniziative del centro sociale Ya Basta! Nell’ultimo incontro avevamo parlato della sua partecipazione alle manifestazioni di Ginevra contro il WTO. Mi aveva raccontato con entusiasmo delle migliaia di persone scese in strada, degli scontri durati quattro giorni… Banche costrette a chiudere; gli uffici dei mercanti d’armi Lockeed occupati; la Mercedes di Renato Ruggiero, direttore della WTO, capovolta; la distruzione di un McDonald’s… Avevamo ironizzato sul fatto che ormai per certe cose non avevamo più l’età. “In effetti – mi confidò – dopo aver corso per tutta la notte fra martedì e mercoledì in mezzo ai lacrimogeni ero parecchio stanco… Ma comunque – aveva concluso – ne valeva la pena, vale sempre la pena”.

In seguito altri due del suo gruppo se ne sono andati prematuramente. Prima appunto Jojo e più recentemente Lorenzo Bortoli (omonimo, ma non parente, del compagno di Thiene arrestato nell’aprile del 1979 e morto in carcere).

Vorrei ricordare anche Giorgio Fortuna, sicuramente un libertario, presente sino alla fine alle iniziative contro il Dal Molin.

A qualcuno tra i membri del MAV (come un compagno che alla fine degli anni sessanta aveva vissuto l’esperienza della “Casa dello Studente e del Lavoratore” a Milano) toccò in sorte di sperimentare direttamente quelle istituzioni totali che aveva precedentemente avversato, in particolare il carcere. Per militanza politica beninteso.

In un libro fotografico di Uliano Lucas c’è l’immagine del processo ad alcuni anarchici in cui si riconoscono un paio di vicentini. Non ancora come imputati, ma come pubblico rumoreggiante, a pugno chiuso. Il Movimento Anarchico Vicentino era stato fondato da Bertacco, Rino Refosco e Claudio Muraro. Al ritorno da Milano (dove avevano partecipato alle occupazioni della Casa dello studente e del lavoratore) aprirono una sede in Contrà Porti. Sede, destinata ad essere perquisita spesso, soprattutto dopo il 12 dicembre 1969, la “strage di Stato”. Chi si azzardava a entrare veniva accolto da uno striscione vagamente truculento: “Date a Cesare quel che è di Cesare: 23 pugnalate!”. Può non piacere, ma questo il clima dell’epoca.

Di tutto l’impegno di una quindicina circa di compagni (più o meno sempre gli stessi con qualche abbandono e qualche rientro in corso d’opera) tra la fine degli anni sessanta e i settanta ora come ora resta poco. Forse i reperti più consistenti (conservati dal sottoscritto) sono una bandiera rossa con A cerchiata nera  – non proprio ortodossa, ma ha sventolato ai funerali del Borela, Ardito del popolo di Schio e maestro del TAR cioè Ferruccio Manea (*) – e un pacco di volantini di cui credo non esistano altra copia cartacea. Sono quelli distribuiti nel corso del 1972 – regolarmente, quasi ogni 15 giorni – davanti al locale manicomio (così chiamato, senza eufemismi); una lotta d’avanguardia per chi aveva letto, se non “La maggioranza deviante”, almeno “Morire di classe”.

Denunciavamo le violenze, i ricoveri coatti (una sorta di TSO di massa) nei confronti di soggetti scomodi – “disadattati” secondo l’ideologia dominante – improduttivi, sostanzialmente non addomesticati. Dall’interno c’era chi ci sosteneva, informava, guidava: il compianto medico Sergio Caneva, fedele alla sua giovinezza partigiana, destinato a morire proprio mentre teneva una conferenza sulla Resistenza.

Come mi ha ricordato Franco Pianalto (vecchio militante operaio degli anni sessanta, passato dal PCI ai marxisti-leninisti e in seguito anche per Lotta comunista; oltre che amico di Bertacco) non va dimenticato il ruolo fondamentale di controinformazione svolto da un altro Caneva, Sante (quasi omonimo del medico e partigiano Sergio Caneva ma non parente). Proveniva direttamente da lui gran parte delle informazioni sulla vergognosa situazione in cui versavano i reclusi: per il suo impegno subì angherie e vere e proprie persecuzioni che contribuirono, nel corso degli anni successivi, ad avvelenargli non poco la vita. Ancora negli anni sessanta, in collaborazione con un altro sindacalista e socialista, un Sartori, aveva denunciato l’assurda situazione per cui i reclusi vennero in pratica costretti per quasi due anni a “mangiare con le mani” in quanto i due medici che dirigevano il lager – pardon il manicomio – non trovavano un accordo sui cucchiai. Mentre per uno dovevano essere di legno, per l’altro di stagno. Non è una barzelletta; perfino Il giornale di Vicenza dovette occuparsene con un articolo carico di (per quanto moderata) indignazione. Questa era la realtà delle istituzioni totali prima del tanto vituperato “68”!

Rivedendo le firme poste in calce a una lettera aperta diventata anche uno dei volantini distribuiti al San Felice, ho colto quei due-tre nomi di compagni prematuramente scomparsi. E ho anche ripensato a quelli che non avevano firmato per ragioni “politiche” (forse malintese).

Infatti alcuni – Bertacco, Anna Za e altri compreso il sottoscritto – ci rifiutammo assolutamente di firmare (anche se partecipavamo regolarmente ai volantinaggi davanti all’istituto di segregazione) pensando fosse una cosa “piccolo-borghese”, una forma di protagonismo che sfregiava il volto autentico delle lotte proletarie “anonime e collettive per definizione”. Per nostra definizione, dovrei forse dire.

Con il senno di poi invece credo abbiano avuto ragione quelli che si sono firmati e noi abbiamo avuto torto. Quelli che oltre alla faccia (quella comunque ce la stavamo mettendo tutti) ci misero anche la firma. E non tanto per passare alla Storia, ma per una forma di testimonianza efficace. Infatti potei constatare che chi riceveva il volantino con le firme sembrava apprezzare il gesto (mentre alcuni compagni, per esempio del gruppo Potere Operaio sbeffeggiarono).

Comunque questa iniziativa del MAV era stata apprezzata dai compagni del Germinal di Carrara dove avevamo mandato copia dei volantini e degli articoli comparsi sulla stampa locale. Alfonso Failla, per anni direttore di «Umanità Nova» e Umberto Marzocchi (volontario in Spagna nelle Brigate Internazionali con Camillo Berneri; toccò a lui nel maggio 1937 riconoscerne il corpo dopo che era stato assassinato dagli stalinisti) ci invitarono per prendere contatti ed eventualmente allargare il discorso contro le istituzioni totali. Partimmo in quattro nel novembre 1972. Oltre a me e Guido (l’unico con la patente e l’auto, gli altri tre eravamo tutti motociclisti) facevano parte della delegazione Stefano Crestanello e Mario Seganfredo che quattro anni dopo perì in un incidente stradale. Di notte, quando non ci ospitava qualche compagno, dormivano due in macchina e due fuori, all’addiaccio.

Ricordo nitidamente la sosta in un bar sulla sommità di un passo appenninico, una sensazione da “confine del mondo”: rocce rossastre, color ruggine (erano forse le Metallifere del mistico ribelle Lazzareti?). Mario suonò un pezzo rock (suscitando qualche sguardo perplesso negli avventori, peraltro cordiali) sul vecchio pianoforte che completava l’arredo. Poi Carrara: due giorni a parlare, discutere, nella mitica sede del Germinal con Alfonso Failla e Umberto Marzocchi, combattenti inesausti.

Marzocchi mi regalò un libro su Malatesta, libro che in seguito prestai a Mario (fece in tempo a dirmi che lo aveva entusiasmato, ma non ho mai avuto il coraggio di andare a riprenderlo dai suoi). La nostra scorribanda si concluse appunto a Peschiera dove incontrammo altri vicentini, sia anarchici che pacifisti. Il carcere militare in quei giorni ospitava soprattutto obiettori totali. Sostanzialmente testimoni di Geova e anarchici (tra cui un nostro compagno vicentino, Alberto P.).

Per maggiori informazioni segnalo:

http://www.umanitanova.org/2016/06/18/in-memoria-di-guido-bertacco/

http://www.ecn.org/uenne/archivio/archivio1999/un04/art361.html

(*) cfr In memoria di due antifascisti

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *