Gezi e Kobane

di Murat Cinar (*)

Le ragioni della violenza fisica, economica e politica che hanno coinvolto – e che tuttora continuano a portare in piazza ogni giorno una buona parte della Turchia – sono alla base della resistenza dei popoli di Kobane.

In questi ultimi quindici anni

il Paese col feticismo dello sviluppo insieme alla pornografia delle lacrime ha fatto una virata aumentando i femminicidi, le morti sul lavoro, la disoccupazione femminile, la censura, il fondamentalismo, gli omicidi dell’odio, l’omofobia, la transfobia e la cementificazione. Le masse che protestano per le strade del Paese per i giornalisti in carcere, per un’istruzione gratuita e indipendente, per un Paese laico, per il lavoro sicuro, per i diritti sindacali, per i diritti delle donne, per rivendicare i diritti civili di tutti i cittadini e per difendere il bene comune desiderano le stesse cose di chi resiste da ormai più di quaranta giorni nel nord della Siria, a Kobane. Difendere il territorio, la vita, la casa, la famiglia, i propri cari, il passato e il futuro, sono i motivi che hanno spinto le persone della Turchia e di Kobane ad assumersi il rischio di perdere la vita e mettere in gioco la quotidianità.

La rivolta “del Parco Gezi” ha coinvolto circa 3 milioni di persone in 79 città della Turchia. Sono morte 10 persone, più di 5 mila persone sono rimaste ferite e altre 5 mila circa sono state arrestate. Durante le manifestazioni solidali a Kobane 46 persone hanno perso la vita, 682 persone sono rimaste ferite e 1974 arrestate.

Durante la rivolta di Gezi, l’allora primo ministro Recep Tayyip Erdogan aveva accusato i manifestanti di essere vandali; ora anche come presidente della Repubblica ha utilizzato la stessa parola per definire le persone che manifestavano per Kobane. Il bene privato danneggiato, la bandiera bruciata e i mezzi della polizia distrutti sono state le principali preoccupazioni del governo sia nella prima che nella seconda ondata di proteste. E i media mainstream, vicini alla linea politica ed economica del governo, hanno adottato nei titoli e negli articoli le stesse parole di Erdogan e dei suoi colleghi.

Sono anni che le persone in Turchia, a periodi alterni, cercano di realizzare un sogno, che potrebbe essere definito con le parole di Nazim Hikmet «conquistare il sole per fermare le lacrime e togliere le catene dai colli». In ogni sollevazione popolare il sistema ha risposto, con diverse vesti, ma con la stessa logica dell’ordine pubblico della protezione esclusiva del bene privato, ponendo tutto questo su una bilancia nazionalista, religiosa, sessista e militarista.

Sia Gezi sia Kobane rappresentano il desiderio di creare un nuovo modello di vita mondiale. Parlano di uguaglianza, fratellanza, condivisione, pace e mettono in discussione una serie di meccanismi del capitalismo. Sia Gezi che Kobane mostrano le debolezze e i fallimenti della democrazia elettorale della borghesia partitica e del capitale. Sia Gezi che Kobane gridano la voglia di una vita libera senza censure e repressione dove non è il petrolio oppure il mezzo di commercio di turno a essere il centro delle preoccupazioni come le progettazioni politiche, legislative ed economiche.

I punti comuni della rivolta del Parco Gezi e la resistenza di Kobane sono tanti e devono essere scoperti, conosciuti e amati per creare un forte legame fra tutti i popoli dell’Anatolia e della Mesopotamia che da secoli vengono sfruttati per servire ai progetti del capitalismo. Così che possa crescere sempre di più la forza per resistere e lottare per un altro mondo possibile. Le parole del poeta Can Yucel riassumono l’essenzialità di questa unione: «La distanza più grande non è l’Africa, né la Cina, né l’India / né i pianeti, né le stelle che si illuminano di notte / la distanza più grande è quella che sta fra due teste che non si comprendono».

(*) Pubblicato dall’agenzia Pressenza.

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