Maremma, tre storie di miniere e ribellione
di David Lifodi
Florio, Elia e Otello sono tre minatori che hanno vissuto in prima fila i conflitti operai in Maremma nel decennio 1944-1954. E’ attraverso le loro voci che Silvano Polvani, dirigente Cgil di Grosseto, tramanda tre storie (realmente accadute) di miniera, coraggio e ribellione sotto forma di brevi racconti: Com’era rossa la mia terra (Colordesoli Editrice, dicembre 2010) si legge tutto d’un fiato, colpisce per il susseguirsi degli avvenimenti, coinvolge in una lettura appassionata nel ricordo dei tre protagonisti e rende giustizia a tutti i minatori che hanno lottato per i loro (e i nostri) diritti nelle viscere della terra.
La miniera offre un lavoro sicuro in tempi di ristrettezze economiche, certo, ma al tempo stesso uccide: lentamente, come succedeva ai lavoratori che si ammalavano di silicosi, oppure in un attimo. Bastava uno scoppio per una perforazione errata, un crollo improvviso, e gli operai non risalivano più dalla “gabbia”, l’ascensore che li conduceva sottoterra. La continua richiesta di pirite, dovuta soprattutto alle necessità belliche, era fonte di lavoro per i minatori, che potevano godere di uno stipendio garantito, ma li costringeva a lavorare in condizioni disumane, oltre che a sottostare ai diktat imposti dalla Montecatini, la Società Generale per l’Industria Mineraria e Chimica, denominata anche la “piovra”. La Montecatini era padrona della vita degli operai, dalle case che sorgevano nei villaggi minerari agli spacci alimentari: se un lavoratore non era più in grado di lavorare perdeva anche il diritto alla casa. Gli stessi ritmi di vita degli abitanti erano scanditi dalla Montecatini: il circolo ricreativo, la banda, la squadra di calcio, e le stesse sedi del Pci e della Cgil erano di sua proprietà. Al cinema la proiezione del film non aveva inizio finché non si era seduto il direttore della miniera. La Maremma era una zona fortemente politicizzata, soprattutto quei borghi e paesi dove si praticava l’estrazione mineraria: a Niccioleta, Massa Marittima, Roccastrada, Montemassi, Gavorrano, Ribolla e Boccheggiano la presenza del Partito Comunista e della Cgil era considerevole, ma i diritti sindacali continuamente attaccati. La miniera era “un terreno fangoso” e le sue gallerie dei “gironi infernali”, ma per guadagnarsi da vivere, nonostante il lavoro duro, in tanti giungevano non solo dai paesi del Monte Amiata (Santa Fiora e Castell’Azzara), ma anche dalla Sicilia e dalla Calabria.
Il 9 giugno 1944, narra l’autore, che dà voce al minatore Florio nel primo dei suoi tre racconti, gli operai attendevano con preoccupazione l’arrivo dei tedeschi e dei picchiatori fascisti locali. In ritirata, i nazisti distruggevano tutto ciò che incontravano sul loro cammino, comprese le fabbriche: questo avrebbe significato per i minatori perdere il lavoro, per cui era necessario organizzare dei turni di guardia per difendere la miniera. Molti paesi dell’Amiata e della Maremma al giorno d’oggi hanno dedicato una via ai martiri di Niccioleta, quei minatori che furono rastrellati per aver organizzato la difesa della miniera: buona parte di loro fu fucilata nei pressi di Castelnuovo Val di Cecina il 14 giugno 1944, gli altri inviati in Germania nei campi di lavoro. Florio fu uno di questi: riuscì a tornare a Niccioleta dopo oltre un anno, con l’orrore negli occhi e in seguito a indicibili sofferenze, quando tutti ormai lo credevano morto. Negli anni successivi arrivò la dismissione: le miniere chiudevano, dal Sulcis iglesiente alla Toscana. Niccioleta chiuse in silenzio, ma restano vivi nel ricordo quei martiri che hanno scritto una delle più belle e strazianti pagine della storia operaia: “Li vedrai avanzare rischiarati dal chiarore della lampada, potrai riconoscerli e chiamarli, ti appariranno rinfrancati e distesi, fortificati dalla pace che hanno trovato dove la malvagità degli uomini è bandita”. Dietro alle lotte dei minatori c’era un’intera comunità che li sosteneva e si faceva carico dei loro sacrifici, annunciati quotidianamente dal suono della “corna”, la sirena che decretava l’inizio e la fine dei turni in miniera. Elia, protagonista della “lotta dei cinque mesi” a Gavorrano, aveva vissuto in prima persona tutto questo. La Montecatini, che ne conosceva la sua indole ribelle, aveva consigliato ai carabinieri di tenerlo d’occhio in occasione delle manifestazioni: apparteneva alla sezione locale del Pci, attiva anche in clandestinità. La “lotta dei cinque mesi”, un lungo periodo di proteste e scioperi dei minatori contro l’impresa per ottenere migliori condizioni di lavoro, e che nel 1951 coinvolse l’intero paese, stavolta non sarebbe stato argomento di discussione o rivendicazione politica. Elia, scrive Polvani, avrebbe dovuto raccontare la lotta mineraria ad una classe di ragazzini, quella lotta che i minatori delle Colline Metallifere condussero contro la piovra di sempre, la Montecatini, che imponeva di scavare pirite e carbone da inviare alle fabbriche del nord. Negli anni ’50 la miniera di Gavorrano, duemila dipendenti, era la più grande d’Europa. Gli scioperi sistematici e i picchetti misero in crisi la Montecatini: il sindacato non cedeva di un metro e l’impresa giocò sporco: prima ridusse il salario agli operai al 70%, poi inviò 700 lettere di licenziamento. Anche in questa circostanza la solidarietà operaia ebbe un ruolo chiave: nacque un comitato popolare che provvedeva a raccogliere viveri da destinare alle famiglie dei lavoratori in lotta. In alcune fabbriche gli operai sottoscrissero un’intera giornata del proprio lavoro a favore dei minatori maremmani. Una solidarietà diffusa contro un vero e proprio regime poliziesco, quello della Montecatini, che al momento opportuno cercava di usare la carota per abbindolare i suoi nemici. Il 4 maggio 1954 l’esplosione al pozzo Camorra di Ribolla, dove si trovava una miniera di lignite, dovuta allo scoppio del grisou, causò la morte di 43 lavoratori. La Montecatini riuscì ad insabbiare il processo, ma pretendeva addirittura che Otello Tacconi, minatore ed esponente di spicco del sindacato, ritrattasse un articolo che aveva scritto per l’Unità il 25 febbraio 1954, ben prima della strage, dal titolo: “Nelle miniere della Montecatini usano ancora il porcellino d’india per segnalare l’ossido di carbonio”. Gli avvocati della Montecatini provarono a comprarlo in tutti i modi, lo invitarono a Milano per proporgli un lavoro in uno stabilimento della società o un assegno da 25 milioni. Durante la travagliata notte che passò a Milano, Otello sognò i suoi compagni morti nella miniera, la condanna a morte che gli avevano già riservato se avesse accettato la proposta della Montecatini, li vide allontanarsi sulle note di “Bandiera Rossa”.
Otello non tradì i suoi compagni, così come non lo fecero mai Elia e Florio: tre storie da diffondere e, magari, consegnare a quei macchinisti del vapore che oggi, in nome e per conto delle banche, delle imprese, della produttività e della competitività a tutti i costi, ci stanno portando alla rovina.