Berlusconi sta con la maggioranza degli italiani

articoli, video, disegni di Vittorio Rangeloni, Nouriel Roubini, Stefano Orsi, Chappatte, Mirko Campochiari, Alessandro Barbero, Giuseppe Masala, Fabrizio Poggi, Clara Statello, Caitlin Johnstone, Giampaolo Cadalanu, Enrico Tomaselli, Piccole Note, Giuseppe Germinario, Max Bonelli, Seymour Hersh, Gilberto Trombetta, Calp, Giacomo Gabellini, Donatella di Cesare, Francesco Masala, Domenico Gallo, Guido Salerno Aletta, Lucio Caracciolo, Andrea Zhok, Nicolai Lilin

IN PIAZZA DELLA SCALA PER LA PACE

Chiediamo a tutti coloro che riceveranno questo Comunicato di essere presenti in Piazza della Scala sabato 18 febbraio alle ore 15 e di invitare a loro volta tutti i loro contatti. Ci saranno poeti, musicisti, cantautori, testimoni di varie associazioni per dire no all’invio di armi in Ucraina, per sollecitare un cessate il fuoco, per formulare una proposta ragionevole per un negoziato, per far sentire la nostra voce prima che sia troppo tardi.

“Ricostruire Pace.
Artisti, donne e uomini di pace di Piazza della Scala”
latoestremo@gmail.com

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Come gli Stati Uniti hanno fatto saltare i gasdotti Nord Stream – Seymour Hersh

Chi ha fatto saltare il gasdotto Nord Stream? Incredibilmente, stampa e politici europei sembrano non interessati a conoscere la verità su questo grave attentato, che ha fatto saltare in aria un’infrastruttura energetica di livello strategico per la Germania in primis, ma anche per l’intera Europea.

In realtà ormai è ben chiaro chi ci sia dietro l’attacco e chi aveva l’interesse nel far saltare i gasdotti. I governanti europei preferiscono glissare sulla questione perché non hanno alcuna possibilità di protestare o di giustificarsi davanti ai propri popoli. L’Europa è ormai ridotta a un protettorato di Washington.

In ogni caso, una nuova conferma arriva dal giornalista statunitense premio Pulitzer Seymour Hersh: gli esplosivi sotto i gasdotti Nord Stream e Nord Stream 2 sono stati piazzati da sommozzatori statunitensi durante una presunta esercitazione della NATO e attivati dai norvegesi.

“L’estate scorsa, i sommozzatori della Marina, sotto la copertura di un’esercitazione NATO nota come Baltops 22, hanno piazzato degli ordigni esplosivi ad attivazione remota che tre mesi dopo hanno distrutto tre dei quattro gasdotti di Nord Stream”, ha scritto sulla piattaforma Substack.

Secondo il giornalista, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha deciso di realizzare questo atto di sabotaggio dopo nove mesi di discussioni segrete con il suo team di sicurezza nazionale. Il problema principale era sbarazzarsi delle prove.

“Per gran parte di quel periodo, il problema non era se portare a termine la missione”, ma come portarla a termine senza lasciare prove evidenti “di chi fosse il responsabile”, ha scritto Hersh. Dato che le esplosioni si sono verificate nel bel mezzo delle ostilità tra Mosca e Kiev, qualsiasi “azione che potrebbe essere attribuita all’amministrazione violerebbe le promesse degli Stati Uniti di ridurre al minimo il conflitto diretto con la Russia”. La segretezza era essenziale per Washington.

Hersh sostiene inoltre che Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale del leader statunitense, è stato coinvolto nella preparazione del piano di sabotaggio.

Con l’acuirsi delle tensioni tra Ucraina e Mosca, l’amministrazione Biden si è concentrata anche su Nord Stream. “Finché l’Europa continuerà a dipendere dai gasdotti per l’approvvigionamento di gas naturale a basso costo, Washington temeva che Paesi come la Germania sarebbero stati riluttanti a fornire all’Ucraina il denaro e le armi necessarie per sconfiggere la Russia”, ha scritto il giornalista, sottolineando che “è stato in quel momento di incertezza che Biden ha autorizzato (il consigliere per la sicurezza nazionale) Jake Sullivan a convocare un gruppo inter-agenzie per elaborare un piano”.

“Ciò che è apparso chiaro ai partecipanti, secondo la fonte con conoscenza diretta del caso, è che Sullivan intendeva che il gruppo elaborasse un piano per distruggere i due gasdotti Nord Stream, e che stava assecondando i desideri del presidente”, si legge nell’articolo.

Allo stesso tempo, scrive il giornalista, la Casa Bianca e la CIA hanno definito le notizie sul coinvolgimento di Washington nel sabotaggio del gasdotto una menzogna e una montatura.

Adrienne Watson, portavoce della Casa Bianca, ha definito tali ipotesi “una finzione completamente falsa”, mentre Tammy Thorp, portavoce della Central Intelligence Agency, ha commentato i fatti in modo analogo, affermando che “questa affermazione è completamente e totalmente falsa”, ricorda il giornalista.

Seymour Hersh è un giornalista investigativo statunitense. Ha vinto il Premio Pulitzer nel 1970 per il suo reportage sul massacro di Songmi durante la guerra del Vietnam. È stato anche il primo a raccontare il brutale trattamento dei prigionieri iracheni da parte dell’esercito USA nella prigione di Abu Ghraib.

Risulta utile rammentare gli avvenimenti per avere un quadro più chiaro della situazione: il 26 settembre 2022, sono state scoperte delle perdite nei gasdotti Nord Stream e Nord Stream 2. Il giorno successivo, il servizio di sicurezza svedese ha confermato la presenza di esplosioni nei pressi degli oleodotti. Sulla scena sono state trovate tracce di esplosivo.

Il Presidente russo Vladimir Putin, rispondendo alla domanda del corrispondente di Izvestia il 22 dicembre scorso, ha dichiarato che il sabotaggio del Nord Stream è stato un atto di terrorismo di Stato. Ha sottolineato che singoli individui o organizzazioni non avrebbero potuto organizzare da soli un sabotaggio di questo livello.

Il 26 gennaio, durante un discorso al Senato, il vicesegretario di Stato USA Victoria Nuland ha osservato che “l’amministrazione è molto felice di apprendere che Nord Stream 2 è ora un pezzo di metallo in fondo al mare”.

Il 4 febbraio, il procuratore generale tedesco Peter Frank ha ammesso che la Germania non ha prove del coinvolgimento russo negli attacchi agli oleodotti. Nel frattempo, l’indagine continua. Secondo il procuratore, i materiali raccolti sulla scena del crimine saranno consegnati per l’esame forense.

La portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova ha risposto sottolineando la posizione ambivalente della Germania. Da un lato, Berlino sottolinea costantemente il suo interesse a indagare sulle circostanze del sabotaggio, mentre dall’altro le dichiarazioni del Cancelliere Olaf Scholz, così come altre azioni delle autorità tedesche, suggeriscono il contrario.

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La notizia che non c’è. Oggi si celebra la morte del giornalismo – Gilberto Trombetta

“ATTO DI GUERRA”.

“TERRORISMO A STELLE E STRISCE”.

“GLI STATI UNITI DICHIARANO GUERRA ALL’EUROPA”.

“GLI USA HANNO FATTO SALTARE IL NORD STREAM”.

Sarebbero dovuti essere questi i titoli di apertura dei maggiori quotidiani italiani. E dei telegiornali.

E sì perché poche ore fa Seymour Hersh in un lungo e dettagliato report¹ ha rivelato che l’esplosione dei gasdotti sottomarini Nord Stream dello scorso 22 settembre è stata frutto di un’operazione segreta ordinata dalla Casa Bianca e portata avanti dalla Cia in collaborazione con la Norvegia.

Per chi non lo sapesse fa Seymour Hersh è un giornalista investigativo statunitense. Forse il giornalista investigativo statunitense per eccellenza.

Nella sua lunga carriera (oggi ha 85 anni), Hersh ha raccontato storie come l’omicidio di massa di 500 civili a My Lai in Vietnam (indagine che lo portò a ricevere il prestigioso premio Pulitzer), ha seguito lo scandalo Watergate per il New York Times, ha rivelato il bombardamento clandestino della Cambogia da parte degli Stati Uniti (sempre loro…) e la tortura dei prigionieri nella prigione di Abu Ghraib in Iraq.

Oltre al premio Pulitzer, ha ricevuto anche due National Magazine Awards, cinque George Polk Awards e, nel 2004, il George Orwell Award.

Insomma, non è un Gianni Riotta qualsiasi. È il simbolo del giornalismo investigativo. Esperto di tematiche militari e governative.

Nel suo lungo report, Hersh rivela come lo scorso giugno sommozzatori della marina americana, utilizzando un’esercitazione militare della Nato come copertura, abbiano piazzato esplosivi lungo i due gasdotti Nord Stream che sono poi stati fatti detonare tre mesi dopo.

L’esercitazione usata come copertura è stata la Baltic Operations 22 o BALTOPS 22 dell’estate scorsa.

I sommozzatori del Diving and Salvage Center della Marina degli Stati Uniti a Panama City, in Florida, avrebbero piazzato esplosivi C4 lungo il gasdotto.
Esplosivi che sono poi stati attivati da una boa sonar lanciata da un aereo (un P8 della marina norvegese) il 26 settembre.

Una notizia che avrebbe dovuto occupare l’apertura di tutte le testate italiane.

Invece niente. Zero assoluto. Un silenzio assordante…

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Fake news? – Francesco Masala

Gli Usa, paladini della pace, abbattono un pallone sonda cinese, messaggio: tutti sono autorizzati ad abbattere qualsiasi oggetto volante che sorvola il proprio territorio senza autorizzazione?

I russi hanno fatto saltare il Nord Stream 1 e 2, nonostante tutte le prove contrarie.

I russi non vogliono la pace, lo dice Zelensky, dopo aver fatto la spesa con la moglie.

L’Iraq di Saddam Hussein, come la Libia di Gheddafi, stavano per lanciare una moneta alternativa al dollaro (e al franco francese). Poi, elezioni segrete presso la Nato hanno deciso la loro democratica rimozione di Saddam Hussein e Gheddafi.

Il dollaro Usa è la valuta più solida del mondo.

La tentazione di non pagare il debito estero Usa, verso la Cina, per esempio, val bene una guerra.

 

 

Le “condizioni di pace” della junta nazigolpista ucraina – Fabrizio Poggi

…la Germania, che a fine 2021 disponeva di 285 Leopard 2, di cui 180 in condizione di combattimento, si appresta a fornire a Kiev 14 nuovi Leopard 2 e 88 del vecchio modello: per l’appunto, notano in molti, “14/88”, secondo lo slogan del neonazismo e dello “Heil Hitler”.

Ma lo farebbe più per propri interessi economici e geopolitici che per rispondere alle richieste di Kiev, ammettendo con ciò, nota Stojakin, che l’Ucraina non è poi così importante per l’Occidente ed è piuttosto un mezzo di contrapposizione alla Russia, anche considerando quanto scrive Die Welt, secondo cui «è già praticamente escluso che Kiev possa vincere, soprattutto se la vittoria è vista da Zelenskij quale “liberazione di tutti i territori occupati, Crimea compresa”».

Basti considerare che, a fronte di un potenziale di mobilitazione russo di quasi 30 milioni di uomini, Kiev, dopo l’ottava ondata di mobilitazione, si appresterebbe a mandare al fronte gli ultrasessantenni.

Per Kiev, inoltre, se si arrivasse a colloqui di pace, l’adesione formale alla NATO sarebbe esclusa e quella alla UE avrebbe tempi molto più lunghi di quanto non speri la junta. Insomma, a giudicare dalle dichiarazioni alla stampa tedesca, Berlino sembra voler dire che la vittoria è da escludere e dunque è meglio non spenderci troppo: anche per questo, la Germania ha fatto così tanta resistenza prima di cedere sulla consegna dei tank.

Più o meno ciò che, a porte chiuse, dicono anche a Washington, cui però le forniture militari all’Ucraina servono, sia politicamente, che economicamente.

Nella recente seduta della Commissione difesa del Congresso USA, durante la quale sono intervenuti quattro alti papaveri del Pentagono, tra cui il capo operazioni presso lo Stato maggiore congiunto Douglas Sims e la vice assistente del Segretario alla difesa per Russia, Ucraina e Eurasia Laura Cooper, sembra sia stata data una valutazione un po’ più realistica sulle possibilità di Kiev di riprendersi la Crimea.

Della seduta a porte chiuse, alcuni dettagli trapelati indicano che i giudizi sarebbero stati in linea con quanto già dichiarato a fine gennaio dal Capo degli Stati maggiori riuniti, Mark Milley, che «cacciare le truppe russe per via militare da tutto il territorio ucraino occupato, quest’anno sarà molto molto difficile».

Parole che avevano ovviamente suscitato l’indignazione della junta nazigolpista, secondo la quale l’intelligence yankee «ha continuamente sottovalutato» le potenzialità belliche ucraine. Comunque sia, tali piccoli “screzi”, non impediscono a Washington di elargire in continuazione sostegno ufficiale a Kiev, in particolare nei piani relativi alla Crimea.

Di contro, stando al portale Breitbart.com, continua a restringersi la percentuale di cittadini americani favorevoli all’appoggio militare all’Ucraina, scesi ormai al di sotto del 50% soprattutto dopo l’annuncio sull’invio di carri “Abrams”.

Anche se questo non ha impedito al Pentagono di annunciare l’ennesimo sostegno per oltre due miliardi di dollari in sistemi contraerei, blindati “Bradley”, munizionamento per i razzi controcarro “Javelin”, missili a lungo raggio per Himars e sistemi “Hawk”, per non parlare dei piani di invio di mine GLSDB con GPS, con raggio di 93 miglia.

Ma, in fondo, all’Occidente interessa l’Ucraina solo per quel tanto che serve ai propri interessi: un cadavere che, al momento, viene ancora fatto camminare in vista di piani più estesi.

Dopo, tra vicini settentrionali, meridionali e occidentali che se ne contenderanno i resti, verrà il momento in cui avranno un senso concreto le allegorie evangeliche di Luca: «egli disse loro: “Dove sarà il cadavere, lì si raduneranno insieme anche gli avvoltoi”»

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Il caso Pablo Gonzalez ed il crepuscolo del giardino europeo – Clara Statello

Un cittadino europeo dell’area Schengen, un giornalista spagnolo, sta letteralmente marcendo in un carcere polacco senza processo da quasi un anno. Il suo nome è Pablo Gonzalez ed è stato arrestato il 28 febbraio 2022 in Polonia, mentre documentava al confine la situazione dei profughi ucraini.

In tutti questi mesi è stato sottoposto ad un regime duro di prigionia, ha potuto incontrare la moglie solo una volta, a novembre e per due ore, e per i primi sei mesi è stato sostanzialmente tenuto in uno stato di “incomunicabilità”, anche con il suo avvocato di fiducia. La data del processo viene di volta in volta rinviata, come nel caso Patrick Zaki. Ma a differenza dello studente egiziano, Gonzalez sconta una pena accessoria: il silenzio doloso dei media europei.

Per Madrid regolare il carcere preventivo per il giornalista

Il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares non intravede alcun problema, è tutto normale. In un’intervista rilasciata venerdì a Sesta, la testata spagnola con cui collaborava Gonzalez, Albares afferma che il processo è “entro i termini di legge”.

Assicura di aver verificato fin dal primo momento il rispetto dei diritti fondamentali, tra cui la presunzione di innocenza, ma “le accuse a suo carico sono gravissime e l’inchiesta è ancora in corso”.

Per il governo del socialista Pablo Sanchez il caso è assolutamente compatibile con uno Stato di diritto. Nella carcerazione preventiva e prolungata di un giornalista mentre svolge il suo lavoro non ravvisa nulla di irregolare.

I diritti violati nel giardino d’Europa

Per Ohiana Goiriena, moglie del giornalista, da noi contattata telefonicamente, i diritti fondamentali del marito sono stati rispettati solo ufficialmente. Nei fatti Gonzales è da quasi un anno in carcere senza processo, in regime di isolamento. Può uscire dalla cella solo un’ora al giorno, ammanettato. In questi mesi non gli è neanche stato concesso di parlare con i suoi tre figli. Solo a novembre ha potuto avere un incontro in carcere di due ore con la moglie. Fino ad allora era riuscito ad inviarle appena cinque lettere.

La corrispondenza cartacea è l’unica forma consentita di comunicazione con la famiglia, severamente sotto controllo. Goiriena racconta che le buste arrivano aperte e con il sigillo rosso della censura. In genere portano due mesi di ritardo, sia in invio che in arrivo.

Gli è preclusa anche la comunicazione con il suo avvocato di fiducia, Gonzalo Boyé. Solo dopo un mese dall’arresto è riuscito ad avere stabilmente un avvocato d’ufficio. La detenzione cautelare del giornalista è alla terza proroga e al momento la data del processo non è neanche all’orizzonte. E’ questo il giardino europeo di cui parla Borrell?

No, i suoi diritti basilari non si stanno rispettando – spiega Goiriena – Noi dal 1 marzo chiediamo quattro cose: il diritto alle visite, il diritto alle comunicazioni telefoniche, il diritto ad avere un avvocato di fiducia, una data del processo. Ha diritto ad avere un processo giusto”.

La denuncia: condizioni carcerarie disumane e umilianti

L’intervento di Albares arriva poco dopo il reclamo di Gonzales, che alla vigilia del suo 11 mese in prigione preventiva ha presentato all’Ombudsman polacco una denuncia per condizioni disumane di carcerazione. A causa del suo status di detenuto pericoloso, Gonzales scrive di essere scarsamente alimentato, di stare in una cella umida e malsana, di essere trattato con procedure umilianti. Sarebbe infatti ammanettato ogni volta che esce dalla cella, che è sorvegliata 24 ore su 24.

“L’impossibilità di aprire la finestra provoca l’accumulo di umidità e, di conseguenza, la formazione di muffe sui muri. Sono rinchiuso in una cella senza ventilazione. D’estate la plastica attaccata al vetro e la mancanza di ventilazione provocano un effetto sauna”, spiega.

Le ragioni politiche della persecuzione

Goiriana non esclude che tra le motivazioni dell’arresto ci sia anche quella politica. Gonzalez collabora con testate ascrivibili alla sinistra extraparlamentare spagnola. E’ accusato di essere una spia russa per aver documentato la guerra nelle Repubbliche popolari del Donbass prima del 24 febbraio 2022. Per questo è stato segnalato dai servizi ucraini alle autorità polacche. Il pretesto per arrestarlo ed assegnarli lo stato di massima pericolosità è stato il doppio passaporto russo-spagnolo.

Il giornalista basco è un discendente dei cosiddetti “figli della guerra”, i figli dei repubblicani spagnoli inviati durante la guerra in Unione Sovietica. Ed è lì che è nato nel 1982 come Pavel Rubtsov. Dopo il divorzio dei genitori si è trasferito in Spagna, dove ha assunto il cognome della madre, spagnolizzando il suo nome in Pablo Gonzalez. Proprio questo gli è valso l’accusa gravissima di spionaggio che giustificherebbe il carcere duro, secondo il ministro degli Esteri spagnolo.

Politica è anche la ragione dell’atteggiamento accomodante di Albares, secondo Goiriana.

Nessun governo europeo in questo momento – spiega- vuole fare pressioni sulla Polonia, per via del suo ruolo chiave nel conflitto, sia per le forniture di armi che per l’accoglienza ai profughi. E’ inattaccabile”.

Il caso di Pablo Gonzalez ha mobilitato organizzazioni come Reporter senza Frontiere e Amnesty, ma ha avuto poco clamore mediatico fuori dalla Spagna. Eppure getta un’inquietante ombra sullo stato della democrazia europea, sulla libertà di espressione e di stampa, sulla tutela dei nostri diritti come cittadine e cittadini dell’UE: la Polonia che arresta per spionaggio un giornalista privandolo dei propri diritti fondamentali non è poi così diversa dall’Egitto che arresta Patrick Zaki.

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https://www.youtube.com/watch?v=omsZBWzYC0U&ab_channel=Storia%26Cultura

 

Nuove prove sul sabotaggio dell’Occidente per la pace in Ucraina – Caitlin Johnstone

…I funzionari statunitensi stanno diventando sempre più aperti sul fatto che vedono questa guerra come qualcosa che serve i loro obiettivi strategici, il che ovviamente contraddirebbe la narrazione ufficiale secondo cui l’impero occidentale non voleva questa guerra e la finzione infantile che l’invasione della Russia fosse ” non provocato”. Esempi recenti di ciò includerebbero il discorso del leader della minoranza al Senato Mitch McConnell prima della visita di Zelensky a Washington a dicembre.

“Il presidente Zelensky è un leader stimolante”,  aveva detto McConnell  nel suo discorso prima della visita del presidente ucraino a Washington. “Ma le ragioni più basilari per continuare ad aiutare l’Ucraina a degradare e sconfiggere gli invasori russi sono gli interessi americani freddi, duri e pratici. Aiutare ad equipaggiare i nostri amici dell’Europa orientale per vincere questa guerra è anche un investimento diretto nella riduzione delle future capacità di Vladimir Putin di minacciare l’America, minacciare i nostri alleati e contestare i nostri interessi fondamentali”.

Nel maggio dello scorso anno il membro del Congresso Dan Crenshaw  aveva scritto su Twitter  che “investire nella distruzione dell’esercito del nostro avversario, senza perdere una sola truppa americana, mi sembra una buona idea”.

In effetti, un rapporto del Center for European Policy Analysis , finanziato dall’impero, intitolato “Sta costando noccioline agli Stati Uniti sconfiggere la Russia” afferma che “la spesa degli Stati Uniti del 5,6% del suo budget per la difesa per distruggere quasi la metà della capacità militare convenzionale della Russia sembra un investimento assolutamente incredibile.”

Nel maggio dello scorso anno il senatore americano Joe Manchin  aveva dichiarato al World Economic Forum  di opporsi a qualsiasi tipo di accordo di pace tra Ucraina e Russia, preferendo invece usare il conflitto per danneggiare gli interessi russi e, si spera, rimuovere Putin.

“Sono totalmente impegnato, come persona, a vedere l’Ucraina fino alla fine con una vittoria, non fondamentalmente con una sorta di trattato; Non penso che sia dove siamo e dove dovremmo essere”,  aveva detto Manchin .

“Intendo sostanzialmente riportare Putin in Russia e, si spera, sbarazzarsi di Putin”, aveva aggiunto Manchin quando gli è stato chiesto cosa intendesse per vittoria dell’Ucraina.

“Credo fermamente di non aver mai visto, e le persone con cui parlo strategicamente non hanno mai visto, un’opportunità in più di questa, per fare ciò che deve essere fatto”, ha  precisato in seguito Manchin.

Poi ci sono funzionari statunitensi che dicono alla stampa che intendono usare questa guerra per danneggiare gli interessi russi sui combustibili fossili, “con l’obiettivo a lungo termine di distruggere il ruolo centrale del paese nell’economia energetica globale”, secondo il New York Times. Hai anche il fatto che il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti non può smettere di parlare di quanto sia fantastico che gli oleodotti Nord Stream della Russia siano stati sabotati nel settembre dello scorso anno, con il Segretario di Stato Antony Blinken che aveva ricordato come l’attentato al Nord Stream “offre enormi possibilità strategiche opportunità” e il sottosegretario di Stato per gli affari politici Victoria Nuland affermando che l’amministrazione Biden è “molto gratificata di sapere che il Nord Stream 2 è ora, come ti piace dire, un pezzo di metallo in fondo al mare”.

L’impero USA sta ottenendo tutto ciò che vuole da questa guerra per procura. Ecco perché ha consapevolmente provocato questa guerra , ecco perché ha ripetutamente sabotato lo scoppio della pace dopo lo scoppio della guerra, ed ecco perché questa guerra per procura non ha una strategia di uscita . L’impero sta ottenendo tutto ciò che vuole da questa guerra; quindi, perché non dovrebbe fare tutto ciò che è in suo potere per ostacolare la pace?

Voglio dire, oltre all’ovvia e imperdonabile depravazione di tutto ciò, ovviamente. All’impero è sempre andato bene rompere qualche centinaio di migliaia di uova umane per cucinare la frittata imperiale. È insondabilmente, imperdonabilmente malvagio, però, e dovrebbe indignare tutti.

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Verso una zona smilitarizzata per congelare il conflitto in Ucraina? – Giampaolo Cadalanu

…l’orientamento della penetrazione russa, con i pesanti bombardamenti alle infrastrutture e i tentativi di interdizione delle linee di approvvigionamento, può essere interpretato in questo senso: l’idea del Cremlino, secondo fonti russe citate da John Helmer, decano dei corrispondenti da Mosca, considerato “non lontano” dal regime, sarebbe quella di preparare sul terreno le condizioni per lo “svuotamento” di una fascia di territorio compresa fra il fiume Dniepr e le frontiere orientali.

In altri termini: anziché occupare i territori dell’Ucraina orientale, Mosca starebbe progettando semplicemente di renderli inabitabili. A questo servirebbero gli attacchi alle infrastrutture, soprattutto alla rete ucraina di distribuzione elettrica che ha già dato segni di difficoltà dopo i bombardamenti iniziati a ottobre.

Per quanti chilometri di profondità questa fascia potrebbe estendersi, per ora non è chiaro: apparentemente Mosca vorrebbe far dipendere questo dato dal tipo di armamenti schierati da Kiev. Questo significa che la striscia non sarebbe sicuramente sottile: si ipotizza una profondità di 100 chilometri, che renderebbe impossibile l’uso di gran parte dell’artiglieria ucraina.

Il modello concreto, più che la divisione delle due Germanie, è la fascia che tuttora separa le due Coree, stabilita con l’armistizio firmato a Panmunjom il 27 luglio 1953 dopo due anni di negoziato dai generali americani William Harrison e Mark Clark, dal leader nordcoreano Kim Il-sung e dal suo generale Nam Il, oltre che da Peng Dehuai, comandante dei volontari cinesi che combattevano a fianco dei nordcoreani.

Situata all’altezza del 38esimo parallelo, la striscia smilitarizzata è lunga 250 chilometri e larga quattro. Al centro di essa, lungo tutta la sua lunghezza, corre la linea di demarcazione militare, che indica il limite invalicabile per le pattuglie incaricate della sorveglianza.

Questo modello, secondo gli osservatori più vicini al Cremlino, sarebbe gradito a Mosca, anche se i “falchi” più irriducibili vorrebbero una neutralizzazione di tutta l’Ucraina. Resta da vedere se le cancellerie occidentali, in particolare quelle europee meno disposte a vedere un prolungamento della guerra, decideranno di premere per far accettare l’idea al governo ucraino. Quest’ultimo non sembra per niente disponibile a vedersi togliere il controllo di una fascia di territorio così ampia, sia pure conservandola formalmente entro i suoi confini.

Nelle intenzioni del Cremlino la striscia a est del Dniepr sarebbe svuotata del tutto. E la parola è intesa in senso letterale: oltre alla distruzione della rete elettrica, le forze armate russe sarebbero pronte a minare i resti delle infrastrutture e a lasciare la sorveglianza del territorio occupato a sensori, per poi ritirarsi all’interno dei vecchi confini.

“Acquisiti” alla FederazioneRussa sarebbero alla fine il Donbass e ovviamente la Crimea. Del piano farebbe parte anche lo sgombero di centri densamente abitati, come Kherson, Kramatorsk, Slovyansk, Kharkiv, Poltava: per far evacuare la popolazione sarebbero aperti uno o due corridoi per convogli gestiti dalle Nazioni Unite.

Una possibile parziale conferma di queste intenzioni potrebbe essere la presenza in Ucraina – segnalata da vari osservatori – dei sistemi di minamento ISDM Zemledeliye, al debutto in guerra: si tratta di sistemi basati sui lanciarazzi multipli NPO Splav e montati su camion pesanti KamAZ 6560 8×8.

Il nome significa “Agricoltura”, in russo, probabilmente con un’allusione alla semina. Il sistema usa proiettili a propellente solido che possono appunto “seminare” fino a 15 chilometri di distanza diversi tipi di mine antipersona. Fra queste sono comprese quelle dotate di “sensori sismici”, che esplodono quando rilevano l’avvicinarsi di una persona nel raggio di azione, cioè a meno di 16 metri.

Secondo le fonti di Mosca citate da Helmer, l’offensiva di primavera sarebbe affidata a brigate di dispiegamento rapido, che lancerebbero l’offensiva protette da aviazione e artiglieria, per poi lasciar spazio agli specialisti del genio, incaricati di radere al suolo quello che resta delle infrastrutture ucraine: strade, ponti, ferrovie, rete elettrica, torri di comunicazione radio, eccetera.

Dopo la distruzione verrebbe un immediato ritiro, per lasciare solo lo spazio vuoto come “cuscinetto” fra l’Ucraina “filo-occidentale” e i confini della Federazione Russa. In altre parole, nessuna occupazione ma solo lo svuotamento di una “fascia di sicurezza”, una terra di nessuno fra la Russia e l’ex “paese fratello” abbandonato all’influenza occidentale.

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Lezioni di guerra – Enrico Tomaselli

Ogni guerra non è soltanto il tentativo di risolvere ‘manu militari’ un conflitto, ma anche molto altro. È un test di verifica, che dice di come una nazione affronta e risolve le controversie internazionali, è un banco di prova per sistemi d’arma, dalla cui prova sul campo deriverà o meno il successo ‘di mercato’. Ma è soprattutto il terreno su cui le dottrine militari, le tattiche di combattimento degli eserciti, subiscono il vaglio implacabile della prova del fuoco, e da cui scaturiscono poi le ‘evoluzioni’ successive dell’antica arte della guerra. E come sempre, c’è chi impara la lezione e chi no.

I Leopardi di Abramo

Alla fine, i contorni della triste sceneggiata si sono delineati con sufficiente chiarezza. Benché gli USA ne dispongano a migliaia, i 31 MBT (main battle tank) M1A2 Abrams promessi all’Ucraina, verranno forniti nell’ambito di un progetto di costruzione apposita (privi della protezione in uranio impoverito), e quindi la consegna avverrà non prima della fine dell’anno in corso, se non nel 2024. La messa in scena – persino ridicola nel suo velocissimo sviluppo – si era resa necessaria perché Scholz, già sottoposto a fortissime pressioni da parte sia di membri del suo governo che di alleati europei, chiedeva che l’invio degli MBT Leopard 2 tedeschi avvenisse contestualmente a quello di MBT americani. Ovviamente, alla fine i carri tedeschi andranno subito, quelli made in USA forse tra un anno…

Ma la questione vera, qui, è duplice; a prescindere dalla sfacciata manovra americana, che punta a svuotare gli eserciti europei per poi rimpinguarli nuovamente con commesse all’industria militare USA, qual è l’impatto che questi carri potranno avere sul conflitto, e perché gli USA non hanno alcuna voglia di inviare i propri Abrams?

Cominciamo col dire che il Leopard è un carro concepito negli anni 80, che a suo tempo ha avuto un grande successo commerciale (l’hanno acquistato molti paesi NATO), ma che non solo risulta oggi assai datato, rispetto agli ultimi MBT russi come il T-90 Proriv ed il T-14 Armata, ma ha anche dato scarsa prova di sé sul campo di battaglia.

Negli anni scorsi i Leopard furono utilizzati in Siria dai turchi, contro le milizie curde ed alcune formazioni dell’Isis, con risultati talmente pessimi (quanto a vulnerabilità) che lo Stato Maggiore turco se ne disse sconcertato. Facile immaginare come possa risultare nel confronto con l’esercito russo.

Al di là di tutto, il fatto è che il Leopard (insieme all’Abrams americano ed al K2 Black Panther coreano) rappresenta allo stato la punta di diamante nel settore MBT occidentale (1), mentre l’esercito russo è avanti di almeno due generazioni.(T-90 e T-14), ed anche a prescindere dagli scadenti risultati sul campo, basta una semplice comparazione per comprendere l’inferiorità dei Leopard rispetto agli T-90 (con cui presumibilmente si confronterà in Ucraina). Il Proriv, infatti, ha una maggiore dotazione di colpi per il cannone, una gittata di tiro maggiore (da 500 a 1500 m in più, secondo il munizionamento), è più leggero e costa quasi la metà.

A sua volta, la ragione per cui gli Stati Uniti sono in effetti riluttanti ad inviare in Ucraina i loro Abrams, al di là della legge che impedisce l’esportazione di armamenti con protezione in deploted uranium (2), e della effettiva difficoltà di addestrare in breve tempo i carristi ucraini, è di natura strategica e commerciale.

Da un lato, infatti, Washington teme che i russi possano catturarne qualcuno (3), e quindi venire dettagliatamente a conoscenza di tutti i suoi punti deboli. Dall’altro che possa dare una cattiva prova di sé in combattimento, riducendo così le possibilità di venderlo in giro per il mondo, a cominciare dagli alleati NATO. Si dà appunto il caso che anche l’Abrams abbia già dato prova di una pericolosa vulnerabilità, sia in Siria che in Yemen, contro gli Houti. Il MBT americano presenta infatti una certa vulnerabilità sulle fiancate e sulla parte posteriore della torretta, anche al fuoco dei moderni sistemi controcarro (4). Inoltre, vale per l’Abrams quanto già detto per il Leopard, in termini di comparazione col T-90, con l’aggravante che il carro americano è ancora più pesante e costoso, e consuma enormi quantità di carburante.

Gli altri MBT dati in arrivo sul fronte ucraino sono i britannici Challenge 2, i francesi Leclerc, ed i polacchi PT-91 Twardy (una versione sviluppata localmente, a partire dal sovietico T-72). A parte quest’ultimo, che è appunto una versione ammodernata agli anni 90 di un carro di vent’anni prima, sia il Challenge che il Leclerc presentano sostanzialmente i medesimi gap – rispetto al T-90 – già visti per i carri tedeschi ed americani: munizionamento inferiore, gittata minore, maggior peso e maggiore costo. Ma, anche a prescindere dalla specifica supremazia del carro equivalente russo (5), le questioni fondamentali – relativamente all’efficacia di questi sistemi d’arma nel conflitto – riguardano la quantità, e soprattutto le modalità di utilizzo tattico.

 

I numeri contano

In una guerra d’attrito, come quella in corso in Ucraina, la quantità di mezzi (e quindi la velocità e l’economicità di produzione) e la facilità di riparazione (e quindi la capacità del personale addetto e la vicinanza delle officine) diventano un fattore assolutamente determinante.

A quanto trapela dagli ambienti NATO, l’intenzione sarebbe quella di equipaggiare tre brigate ucraine con i nuovi carri, di cui una con gli Abrams – che però non saranno sul terreno prima di un anno. Stiamo quindi parlando di un centinaio di carri o poco più, di cui due terzi operativi presumibilmente entro l’estate, ed un terzo nel 2024.

Ciò a fronte di uno schieramento russo che conta tra i 1.200 ed i 1.500 carri sul fronte (su una disponibilità totale della Federazione Russa che ammonta a 12/15.000 carri armati; e tenendo presente che, in undici mesi di guerra, i russi rivendicano di aver distrutto oltre 7.500 carri e corazzati da combattimento ucraini (6).

Questo centinaio di nuovi carri, quindi, non solo va considerato nel suo valore assoluto, rispetto a quello russo, ma anche relativamente alle condizioni dell’esercito ucraino al momento in cui entreranno in servizio. Non sappiamo con esattezza su quanti carri armati possa oggi contare l’Ucraina, tra quelli di cui disponeva all’inizio del conflitto e quelli successivamente forniti da vari paesi NATO (tutto materiale ex-sovietico, sinora). Di sicuro le perdite sono state ingentissime (anche a voler prendere con le molle il dato fornito dai russi, che però solitamente non sono soliti esagerare clamorosamente). Di sicuro, ad esempio, dei duecento T-72 forniti mesi addietro dalla Polonia ne sono rimasti pochi operativi.

Per l’esercito di Kyev, quindi, si porrà ancora una volta il problema già postosi con gli HIMARS. Concentrarli in un settore del fronte, aumentandone l’impatto potenziale ma esponendoli al rischio di distruzione prima della battaglia (colpiti dall’aviazione, da missili, o da droni e fuoco di artiglieria), o viceversa disperderli su più punti, riducendone l’impatto ma suddividendo il rischio di annientamento. Di sicuro, avranno avuto un impatto immensamente maggiore sui media occidentali, e prima ancora di arrivare, di quanto potranno averne sul campo di battaglia…

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Non solo Ucraina: le macellerie che l’Occidente volutamente ignora – Piccole Note

Mentre i mezzi di informazione ci bombardano quotidianamente con le cronache della guerra ucraina, dipingendo i russi come criminali che attentano alla libertà e alla sicurezza dei buoni, cioè dell’Occidente, nulla si dice di altre macellerie, che raccontano altre verità, cioè che i crociati che vogliono salvare il mondo dai cattivi non sono poi così buoni come si presentano. Per fortuna, a volte le informazioni scappano dalla maglia della censura e alcune di queste pecche emergono.

Iniziamo dallo Yemen, la guerra dimenticata, nella quale una coalizione a guida saudita, supportata dagli Usa, sta conducendo una guerra feroce per porre fine alla ribellione degli Houti, i quali hanno rovesciato il regime sanguinario pregresso, filo-saudita e filo-occidentale.

La guerra in Yemen e i profitti Usa

La guerra attuale è iniziata nel 2015, ma anche prima lo Yemen era preda di convulsioni violentissime, con gli Usa che vi hanno condotto incessanti campagne anti-terrorismo.

Per inciso, non solo quella campagna non ha portato all’eliminazione delle formazioni terroristiche, ancora presenti nel territorio, ma, per una strana eterogenesi dei fini tali, milizie sono ora di fatto alleate con la coalizione anti-Houti. A denunciare questa imbarazzante convergenza non è stato un media complottista o russo, bensì l’Associated Press, in una rara digressione dalla narrazione ufficiale.

Ma torniamo alla guerra del 2015. Così Giozia Thayer su Antiwar: “Un’indagine (PDF) del Government Accountability Office ha documentato che gli Stati Uniti stanno addestrando la coalizione guidata dai sauditi e che gli Stati Uniti hanno truppe sul terreno in Yemen. Lo stesso Biden ha confermato che gli Stati Uniti hanno truppe nello Yemen in una lettera al Congresso dello scorso giugno”.

Un affare lucroso per l’apparato militar-industriale Usa, infatti “tra il 2015 e il 2021, gli Stati Uniti hanno inviato 54,2 miliardi di dollari in armi e servizi all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti”.

Quindi, il documento dettaglia tale spesa, aggiungendo che, oltre a questi, altri finanziamenti sono pervenuti alla coalizione sotto altre forme e ricorda anche come gli Usa avessero inviato soldi e armi prima dell’inizio della guerra, quando il presidente deposto dagli Houti era considerato una “pietra miliare della guerra al terrore”.

“Miliardi di dollari sono stati spesi per distruggere lo Yemen, uccidendo centinaia di migliaia di persone, ma gli Houthi controllano ancora Sanaa e AQAP [al Qaeda] è ancora attivo nel Paese [è destino delle guerre infinite portare caos e non conseguire l’obiettivo dichiarato]”.

Non solo, “il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ogni anno, a partire dal 2015, ha approvato delle risoluzioni per bloccare lo Yemen e impedire alle armi di arrivare al conflitto; tuttavia, l’embargo è riuscito solo a far morire di fame gli yemeniti”. Già, perché le armi, come si vede, arrivavano a fiumi altrove…

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Ucraina, confiscati beni e proprietà del Partito Socialista – Clara Statello

Il regime di Kiev va avanti con la persecuzione dei partiti di sinistra e opposizione. Dopo la messa al bando, il Partito Socialista dell’Ucraina subisce la confisca di proprietà e beni.

Secondo quanto si apprende da una nota stampa, il Fondo di proprietà statale ha iniziato il processo di “ri-registrazione”. Saranno trasferiti alla proprietà dello Stato 9 immobili e 13 autovetture, etc. Il primo bene è stato espropriato a Chernivtsi.

Il 15 giugno 2022, l’ottava Corte d’Appello Amministrativa ha vietato le attività del Partito Socialista ucraino su richiesta del ministero della Giustizia. I socialisti si sono appellati contro questa decisione, ma il 22 ottobre la Corte Amministrativa di Cassazione ha respinto il ricorso, rendendo definitivamente illegale l’attività politica del partito in Ucraina. La messa al bando implica la confisca dei beni.

Sono una quindicina i partiti di sinistra e opposizione a Zelensky che sono stati messi fuori legge in Ucraina. Tra questi c’è la seconda forza politica ucraina, Piattaforma di Opposizione – Per la vita, Unione delle Forze di Sinistra, il Partito di Shariy (un famoso blogger ucraino, da non confondere con Sharia come invece hanno fatto alcuni organi di stampa italiani), Blocco di Opposizione, Opposizione di Sinistra, Nascia (Nostro), il Partito Comunista del Lavoratori, Partito Socialista Progressista di Ucraina.

Il Partito Comunista d’Ucraina (KPU) è stato tra le prime forze ad essere bandite, a maggio, dopo anni di lotte contro divieti alla sua attività politica. A luglio è stato definitivamente dichiarato illegale.

Come “promemoria” il Fondo di proprietà statale ci tiene a ricordare di avere “iniziato a registrare nuovamente i beni di un altro partito vietato, il Partito comunista dell’Ucraina, a favore dello stato. Nel luglio dello stesso anno, con una decisione del tribunale, tutti i fondi e i beni, compresi più di 50 oggetti immobiliari, furono trasferiti allo stato dal Partito Comunista”.

Allo stesso tempo le forze di polizia e di sicurezza (SBU) hanno dato il via ad una vera e propria caccia ai membri di queste organizzazioni, sia tra gli alti dirigenti che semplici militanti. I fratelli Aleksandr e Mikhail Kononovich sono tra le prime vittime delle persecuzioni politiche. L’ultimo caso noto è l’arresto di un deputato di Piattaforma per la Vita, avvenuto lo scorso martedì 31 gennaio.

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Lo stato dell’economia Usa: verso il punto di non ritorno? – Giacomo Gabellini

Gli Stati Uniti hanno un serio problema di statistiche, specialmente in materia di rilevazione della disoccupazione. Nonostante le autorità di Washington e i mezzi informativi continuino a parlare di “miracolo occupazionale”, i dati indicano che su una popolazione di circa 332 milioni di persone e una forza lavoro che alla fine di gennaio annoverava 265,92 milioni di individui, ben 100,130 milioni di adulti risultavano inoccupati. Il tasso di partecipazione della forza lavoro alla crescita economica oscilla ormai da anni tra il 62 e il 63%, attestandosi ai livelli più bassi dalla fine degli anni ’70, quando ancora si avvertiva pesantemente l’impatto generato dallo sganciamento del dollaro dall’oro e dagli shock petroliferi.

L’economista e statistico John Williams ha richiamato l’attenzione sull’inadeguatezza dei metodi di rilevazione impiegati dalle autorità nazionali, evidenziando che il tasso ufficiale di disoccupazione (U-3) adoperato dalla Federal Reserve tiene conto soltanto del totale dei disoccupati in percentuale rispetto alla forza lavoro. Il Bureau of Labor Statistics (Bls) prende invece in esame un bacino più ampio (U-6), ricavabile dalla sommatoria tra il numero dei disoccupati e l’ammontare complessivo degli individui impiegati con contratti part-time ma anelanti a lavorare a tempo pieno, oltre al computo delle persone che hanno lavorato per un certo periodo negli ultimi 12 mesi ma che al momento non lavorano né sono alla ricerca di un’occupazione e soffrono di questa condizione di disagio dovuta al particolare stato del mercato del lavoro. Nell’ottica di Williams, una statistica capace di riflettere il reale stato occupazionale del Paese deve tassativamente ricomprendere tanto il tasso U-6 quanto i lavoratori scoraggiati di lungo termine.

Qualora Federal Reserve e Bls applicassero un simile metodo di rilevazione, il tasso di disoccupazione effettivo lambirebbe attualmente la soglia critica del 24,5%. Una percentuale di ben sette volte superiore al tasso ufficiale stimato dalla Fed (3,4%), che ridicolizza la narrazione dominante propugnata da istituzioni e organi di stampa circa il “rivoluzionamento” del mercato del lavoro statunitense, asseritamente passato dall’offrire appena un posto di lavoro per ogni 3,1 disoccupati nel dicembre 2012 a garantire due posti di lavoro per ogni disoccupato nel dicembre 2022. Il rapporto tra disoccupati e posti di lavoro disponibili rappresenta un indicatore tutt’altro che affidabile, perché si presta a una serie di distorsioni particolarmente insidiose. Tanto per cominciare, non tiene conto dei criteri di accessibilità, né del fatto che molti statunitensi svolgono due o addirittura tre lavori simultaneamente…

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L’Europa è in guerra e va verso l’autodistruzione – Donatella di Cesare

Metsola consegna la bandiera europea a Zelensky. Il presidente ucraino ha appena terminato di tenere al Parlamento europeo il suo discorso, come sempre abile ed efficace. Questa volta, però, compie un passo ulteriore: non si limita a dire che gli ucraini stanno combattendo per difendere i valori europei, ma sostiene addirittura che è in gioco “il destino dell’Europa”. Nessuna espressione poteva meglio segnalare quel che ormai è un dato di fatto: il coinvolgimento totale dell’Ue nel conflitto. Non è tanto l’Ucraina a entrare nell’Europa, quanto l’Europa a entrare in guerra. Un unico destino, un’unica lotta, un unico nemico. D’altronde la presidente Metsola, che ha promesso un “processo di rapida annessione”, si è spinta a evocare una “minaccia esistenziale” che incomberebbe sul vecchio continente. Ha terminato con il solito slogan “guerra significa pace” e l’immancabile urlo bellico Slava Ukraine!

Che dire di fronte a questo spettacolo? Nella guerra siamo già pienamente coinvolti, l’ha ammesso perfino la premier Meloni. C’è da chiedersi quale limite si deve superare per l’entrata formale in guerra. Il continuum dell’escalation sembra inarrestabile e le armi diventano ormai jet e missili a lungo raggio. A partire da quando si deve usare il termine “guerra”? Se c’è chi parla di una vittoria che deve diventare realtà, qui si deve in effetti già constatare una sconfitta annunciata di tutti. La responsabilità dell’attuale dirigenza europea e di chi detiene in questo momento le leve del potere passerà alla storia. E in tutto questo si deve ammettere non solo che l’Europa si è suicidata, ma che il progetto europeo, così come in tanti lo avevamo auspicato, è fallito. E in modo irreversibile. L’Europa ha tradito se stessa e la propria missione, ha deluso e, per certi versi ingannato i propri cittadini. L’Ue avrebbe dovuto stare accanto al popolo ucraino non assecondando la guerra, non inviando armi, ma mantenendo dall’inizio quel ruolo terzo, quella funzione diplomatica, che sarebbe stata indispensabile. A distanza ormai di un anno ne avvertiamo tutta l’assenza e percepiamo sempre più distintamente la subalternità completa agli Stati Uniti. Errori erano stati già commessi prima, quando era stata accettata l’invasione della Crimea, quando erano stati trascurati gli accordi di Minsk. Adesso non si tratta, però, di semplici errori, bensì di una virata completa, un’inversione di rotta. La nuova unione delle armi è la marcia verso la disgregazione delle piccole patrie interne e l’isolamento del Vecchio continente, coinvolto in un conflitto imponderabile con la Russia. Da cittadina e da filosofa ho sempre difeso l’idea di Europa, anche nelle circostanze più abiette e imbarazzanti. Chi può dimenticare lo scempio che è stato perpetrato in Grecia? Quando la Troika ha imposto misure draconiane sarebbe bastata una somma accettabile per salvare vite umane che sono state invece sacrificate sull’altare dell’austerità. Sono morti di stenti e di fame anziani, donne, bambini. Allora non c’erano i soldi per gli aiuti, oggi ci sono per le armi. Sotto i peggiori auspici è cominciato il nuovo secolo per l’Europa. Ma in molti abbiamo creduto che la catastrofe greca fosse un capitolo osceno che avrebbe potuto essere presto chiuso per riprendere il cammino. Poi, però, le cose non sono andate meglio. Il 2015 è stato l’anno della crisi migratoria. La Germania di Merkel ha aperto le porte ai siriani, ma ha insieme firmato un accordo con Erdogan: miliardi per i grandi campi profughi. Non parliamo poi dell’Italia e dei suoi scellerati accordi con la Libia a firma Minniti. Violazione dei diritti umani, morti in mare, criminalizzazione delle Ong. Anche qui le cose sono peggiorate costantemente. E oggi si annuncia la costruzione di muri in stile americano per impedire l’ingresso dei migranti.

C’erano molte cose che legavano gli europei: il ribrezzo per una violenza sfrenata, una certa idea di cura e sostegno dell’altro, quel senso di umanità che viene dalla cultura, ma anche da una storia tragica. Tutto questo era la nostra preziosa, impareggiabile, Europa, che sembra perduta. Non è stata seguita la politica della solidarietà e della cura reciproca, ma solo quella delle sanzioni e delle armi sulla pelle dei più deboli. Forse la retriva Polonia sarà guida e traino di un continente subalterno e allo sbando. Certo gli equilibri sono cambiati in modo definitivo e preoccupante. L’Italia, sempre più isolata, anche a causa del governo postfascista, guarda a possibili alleanze mediterranee, mentre la Germania oscilla riluttante e divisa. E malgrado tutto i panzer tedeschi saranno simbolicamente inviati al fronte orientale. Difficile immaginare uno scenario peggiore: il “fato dell’Europa” che si compie nel tradimento e nell’autodistruzione.

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In Occidente la guerra è ridotta a videogioco – Domenico Gallo

La guerra da remoto, che la Santa Alleanza occidentale sta conducendo contro la Russia, per mezzo del martoriato popolo ucraino, appare sempre di più come un war game. Si schierano cannoni, carri armati, veicoli blindati, treni di munizioni e si controllano dall’alto gli avanzamenti o arretramenti del fronte. Si valuta quanto siano performanti i razzi per i sistemi di lancio Himars a guida Gps, quanto sia esteso il raggio d’azione dei nuovi missili Glsdb che Washington si appresta a fornire a Kiev, quanto sia superiore la tecnologia delle armi occidentali rispetto a quelle russe, per la maggior parte risalenti ai tempi dell’Urss.

L’informazione televisiva, con i suoi nugoli di inviati sul campo, ci fornisce la motivazione per partecipare al war game e per alzare la posta. Ogni giorno ci riferisce delle bombe cadute su questa o quella città, su questo o quel condominio, e ci recita la litania quotidiana dei morti civili, mostrandoci anche qualche volto addolorato, quanto basta per mantenere viva l’immagine disumana del nemico. Le riviste specializzate ci forniscono l’elenco dettagliato dei sistemi d’arma spiegati, delle munizioni consumate, dei costi sostenuti e di quelli programmati. Da lontano osserviamo il war game e vi partecipiamo facendo il tifo e incoraggiando gli attori internazionali ad andare avanti e sviluppare nuove strategie di forza. Del resto nell’opinione pubblica occidentale è finalmente decaduto quel tabù della guerra che si era radicato nella coscienza collettiva alla fine della Seconda guerra mondiale.

Il primo war game a cui abbiamo partecipato è stata la guerra contro la Jugoslavia condotta dalla Nato nel 1999: la prima volta di una guerra senza morti (nostri). Dalla televisione si vedevano solo le piroette dei jet nel cielo dei Balcani e i bagliori delle esplosioni nella notte. Non si sentiva il puzzo della carne bruciata, le urla dei feriti, l’odore del sangue, la disperazione delle madri. Quando la televisione serba ha cercato di farci vedere qualcosa degli effetti prodotti dai bombardamenti, la Nato l’ha immediatamente tacitata con un bombardamento chirurgico che ha causato “solo” 16 morti. Quindi abbiamo potuto guardare a quel conflitto senza inquietudine, come se si trattasse di un videogioco. Adesso che siamo passati a un gioco molto più pesante, la guerra viene accettata perché giocata da remoto, noi non ne siamo direttamente implicati, non mandiamo i nostri figli al fronte, non li vediamo tornare indietro nelle bare. Per questo possiamo lanciare proclami intransigenti sulla guerra giusta, o meglio sulla pace giusta, che può essere conseguita solo al prezzo della “vittoria” sul nemico.

Tuttavia, nonostante il gran battage mediatico, la realtà della guerra viene nascosta e censurata da entrambe le parti. Come ha scritto Domenico Quirico (La Stampa, 4.02): “La guerra avanza nel suo processo di disumanizzazione, riduce l’uomo a cosa, nel furore, comodo, di combattere una guerra a distanza… In Occidente stiamo perdendo il contatto con il genere umano”. Nessuna fonte indica il numero dei soldati uccisi, e quando azzardano delle cifre mentono. Secondo Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino Zelensky, dall’inizio del conflitto armato, Kiev avrebbe registrato tra le 10.000 e le 13.000 vittime tra le forze armate, ma la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, a dicembre aveva dichiarato che le perdite ucraine ammontavano a 100.000 soldati uccisi. Nello stesso periodo, il capo di Stato maggiore del Pentagono, il generale Mark Milley, sosteneva che le perdite dei russi ammontavano a circa 100.000 uomini. Duecentomila giovani russi e ucraini spazzati via: cancellati per sempre i loro sogni e la loro vita. Scrive sempre Quirico: “Le cifre degli obitori e dei cimiteri sono l’unico dato che restituisce il senso vero della guerra”. Queste cifre ci vengono rigorosamente nascoste, nessuno ci mostra il caos degli ospedali militari riempiti di feriti e di morenti, né i cimiteri dove questi giovani vengono sepolti. Sappiamo soltanto che la macchina militare sta procedendo massicciamente al reclutamento. Kiev si aspetta che Mosca mobiliti 300-500 mila persone per gettarle sul campo di battaglia, mentre l’Ucraina ha avviato un’operazione di reclutamento forzato che punta ad arruolare 200 mila nuove unità. È fin troppo facile prevedere che le offensive e controffensive di primavera produrranno una nuova montagna di morti. Come nella Prima guerra mondiale, centinaia di migliaia di vite verranno sacrificate per spostare un confine un po’ più avanti o indietro. Siamo condannati a rivivere gli orrori di Verdun o di Stalingrado, come se non avessimo imparato nulla dalla Storia. Ha senso tutto questo? Se scompare il fattore umano la storia precipita nella barbarie.

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Guerra in Ucraina, Anno Secondo – Guido Salerno Aletta

É tutto un frenetico susseguirsi di viaggi all’estero per il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky: prima è andato a Washington per incontrare Joe Biden, poi a Londra ha visto il Premier Rishi Sunak ed è stato ricevuto da Re Carlo III, quindi è andato a Parigi per discutere con Emmanuel Macron e Olaf Scholtz, ancora a Bruxelles per essere ricevuto dal Parlamento europeo in occasione di una riunione dei Capi di Stato e di governo, ed ora è volato in Polonia.

Mentre Zelensky chiede sempre nuove armi, carri armati pesanti ed aerei da caccia, necessarie non solo per contrastare l’avanzata delle forze armate della Russia nel Donbass, ma soprattutto indispensabili per lanciare una controffensiva in profondità, fino a colpire la Crimea, il fronte occidentale prende tempo: i carri armati arriveranno, primi i Leopard e poi sul finire dell’anno o forse nel 2024 gli Abrams, mentre dei jet non se ne parla proprio.

In queste condizioni, l’esercito ucraino non può che essere impiegato in una resistenza debilitante: tiene le posizioni, si logora per evitare una ritirata da alcune città messe sotto pressione dai Russi, per evitare conseguenze catastrofiche sul morale delle truppe e forse dell’intero Paese. Tutto si consuma nel sangue, in attesa che arrivino i nuovi mezzi militari richiesti all’Occidente, per rilanciare la controffensiva che, dopo la vittoriosa sortita su Kherson, si è drammaticamente fermata.

Siamo al dunque, drammatico.

Gli Usa hanno già pienamente raggiunto il loro obiettivo strategico, che consiste nell’aver isolato l’Europa dalla Russia attraverso sanzioni di ogni genere in campo energetico, industriale e finanziario. L’Europa non è solo isolata dal punto di vista energetico, visto che deve andarsi a cercare gas e petrolio dappertutto in giro per il mondo, pagandoli a caro prezzo, ma geopoliticamente non ha più alcuna autonomia. L’idea di costituire un esercito europeo è naufragata miseramente: c’è la Nato e basta

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“La Grande guerra è appena cominciata, Usa, Cina e Russia si sfidano per l’egemonia” – Lucio Caracciolo

Mai nella storia i massimi imperi si sono trovati contemporaneamente in crisi. Al punto da temere tutti per la propria esistenza. Condizione intollerabile per chi dalla nascita coltiva una grandiosa idea di sé. I colossi fiutano il pericolo prima degli altri. L’aria rarefatta che si inala alle vette della potenza eccita la sensibilità al declino. Ne fa ossessione. Facile perdere il controllo. E finire fuori strada, trascinando con sé rivali, soci e passanti. Se poi i protagonisti dispongono di armi definitive, tanto evolute da potersi rivoltare contro chi presume di maneggiarle, scatta l’allarme generale. Con l’inevitabile guerra delle narrazioni. Crolla il principio di realtà. Nulla è certo, tutto è credibile. La comunicazione intossicata disinforma financo i decisori che la producono. Per i mestieranti dell’analisi geopolitica che siamo, recuperare il filo degli eventi, stabilirne la gerarchia e concepirne lo svolgimento futuro è quasi impossibile. Il quasi è di incoraggiamento.

Questa è, se vi pare, la Guerra Grande. Una sola certezza: è appena cominciata e nessuno può immaginarne la fine. Nemmeno l’inizio è fuori discussione, acclarato che la sgangherata marcia su Kiev avviata da Putin il 24 febbraio 2022 si voleva preludio alla parata della vittoria, non alla prolungata guerra d’attrito fra America e Russia in ripida scalata verso lo scontro diretto. E tuttavia a quel chiodo sulla parete dobbiamo fissarci per uno sguardo dall’alto sul sisma che sta ridistribuendo il potere su scala planetaria. Guerra Grande, appunto, disegnata dai tre protagonisti – Stati Uniti, Cina e Russia – in due teatri principali. Con la prima coppia di antagonisti in frizione sempre meno fredda nell’Indo-Pacifico, mentre russi e americani si affrontano lungo i bordi dell’Eurasia occidentale, fra Mar Nero e Baltico, epicentro Ucraina.

Un giorno la guerra in Ucraina sarà sospesa. Non finita. Scontro di civiltà fra Occidente e Russia; conflitto di emancipazione di una nazione in sviluppo da un impero in decadenza ma indisponibile ad abdicare al suo status; sanguinosa partita fra mafie e oligarchie russe e ucraine in un contesto regionale instabile: basta evocare le principali dimensioni della guerra in Ucraina, con radici che affondano al 1914 se non molto più indietro, per escludere la pace dall’orizzonte vicino.

Sgombriamo il campo dai pur pensabili esiti apocalittici: fine dell’Ucraina, della Russia, o di entrambe. In ordine di (im)probabilità, vista l’asimmetria di risorse che favorisce i russi ed è finora compensata dai massici aiuti militari, finanziari e propagandistici che America e associati stanno offrendo a Kiev. Da non considerare affatto costanti. Capita che un Paese sostenga una causa altrui, ma non la prenderà mai sul serio come la propria. Comunque non per sempre. La Russia non ha questo problema. Putin cita Alessandro III: «Abbiamo solo due alleati: il nostro esercito e la nostra flotta». Restiamo quindi nel campo della sospensione, che si produrrà quando entrambe le parti la vorranno o dovranno considerare meno inaccettabile dello scontro senza fine.

La sospensione non ripristinerà lo status quo ante. Anzitutto perché Mosca e Kiev divergono su quale sia: precedente all’annessione russa della Crimea, come insistono, in sintonia con la maggioranza degli Stati, Zelensky e la diplomazia americana, oppure all’invasione del 24 febbraio, tesi cara a Kissinger, altri «realisti» occidentali e fazioni dello Stato profondo a stelle e strisce incardinate nel Pentagono. Poi perché la tregua deriverà dalla convinzione di entrambi che dissanguarsi in tante mini-Verdun non abbia senso una volta stabilito che nessuno potrà prevalere totalmente. La linea di provvisoria partizione, lungo la quale allineare osservatori internazionali (professione che si annuncia ricca di futuro per i giovani in cerca di occupazione), non riprodurrà nessuna delle due versioni. La diplomazia non può sovvertire la sentenza delle armi. Al massimo, addolcirla per stabilizzarla.

Se questa fosse la tregua, a quale scenario postbellico preluderebbe? L’analista britannico Samir Puri prevede che ne scaturirebbe l’equivalente ucraino delle due Germanie. Certo, «la divisione è prospettiva orribile per l’Ucraina». Dominic Lieven, aristocratico britannico originario di una famiglia di principi balto-germanici, storico dell’impero russo e delle vicende ucraine, è diretto: «Il mio scenario ideale – naturalmente non si avvererà – è che l’Ucraina riconquisti ogni pollice del suo territorio nei confini del 1991, promuova plebisciti in Crimea e almeno nel Donbass orientale e se, come probabilmente accadrebbe, al voto vincessero i russi, si liberasse di quella gente (…) e di quelle terre». In chiaro: «Se gli ucraini dovessero in qualche modo riprendere la Crimea, questa sarebbe semplicemente una fonte infinita di pericolo e di conflitto. È chiaramente contro l’interesse dell’Ucraina riconquistare la Crimea. (…) Nel tuo territorio tu vuoi cittadini per quanto possibile fedeli al tuo Stato. L’ultima cosa che vuoi è una minoranza costantemente insoddisfatta, con un vicino alla lunga inevitabilmente più potente alla tua frontiera orientale, eccitato dalla loro presenza. (…) Il Donbass orientale è la più grande rust belt d’Europa, nella quale si combatte da un sacco di anni. Non penso proprio che l’Ucraina guadagni molto dal recuperare territori di tal genere. Oggi nell’Ucraina orientale la maggior parte della popolazione è probabilmente pro-russa, altrimenti se ne sarebbe andata».

Di sicuro la tregua non è alle viste. Non in Russia, dove Putin spera di poter sfondare il fronte per imporre all’Occidente le condizioni di un cessate-il-fuoco che ne sancisca la rinnovata egemonia sui «fratelli» ucraini. Meno ancora in Polonia e fra i popoli dell’avanguardia antirussa estesa tra Scandinavia e Mar Nero. È la falange ultrà. Ben rappresentata nel Forum delle libere nazioni della Russia, votato alla «decolonizzazione» della Federazione putiniana. Parola dell’ex ministro degli Esteri polacco, Anna Fotyga: «Dissolvere la Federazione Russa è molto meno pericoloso che abbandonarla ai criminali». Tali sono non solo Putin e la sua banda di «terroristi», ma i regimi russi d’ogni tempo e colore. Quindi, primo sconfiggere la Russia, poi scomporla in «Stati liberi e indipendenti». E poi?

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La questione delle sanzioni alla Russia è completamente sfuggita di mano – Andrea Zhok

La questione delle sanzioni occidentali ai paesi ritenuti ostili ci ricorda una cosa semplice: l’economia e la finanza sul piano internazionale, e non da oggi, sono armi, e sono intese e concepite proprio come tali.

Ricordiamo che una volta tra le situazioni considerate dal diritto internazionale come “casus belli” era sempre contemplato il blocco navale (questo quando l’economia si muoveva principalmente attraverso merci e queste si muovevano su imbarcazioni). I sistemi di sanzioni che l’Occidente è uso produrre implica anche sanzioni agli alleati che non vogliano aderire alle sanzioni contro il “nemico”, ed è di fatto una sorta di blocco navale alla seconda potenza.

Oltre al piano strettamente commerciale anche guerre valutarie, con l’induzione di rapidi afflussi o deflussi di capitali, sono armi primarie utilizzabili e utilizzate per piegare i paesi riottosi.

Il fatto che i principali mercati finanziari siano fisicamente sotto il controllo economico, materiale e ifnrastrutturale del blocco anglosassone (New York e Londra) e che i sistemi degli scambi sono (finora) regolamentati da questo blocco geopolitico ha consentito all’impero americano di continuare ad esercitare forme di dominio con le armi dell’economia non meno che con quelle dell’esercito per lunghissimo tempo.

E’ stato fatto infinite volte contro potenze regionali minori e contro alleati la cui politica non si era momentaneamente allineata.

Tutto ciò è sempre stato venduto all’opinione pubblica occidentale come accidentalità non governabile se riguardava la sfera finanziaria e come dovere morale (“peace enforcing”) quando si trattava di usare i bombardieri.

Alla luce di queste idee, il conto che si erano fatti gli USA e i loro dipendenti relativamente alla guerra in Ucraina era chiaro: la si è venduta come al solito come “dovere morale inderogabile” e poi la si è presentata come “interventismo soft” che ci lasciava in pace, fornendo all’Ucraina armi e soldi per acquistare armi, mercenari e soldi per acquistare mercenari, più supporto logistico e di intelligence.

Nel frattempo si contava di strangolare la Russia con le sanzioni.

Siccome l’Occidente è sulla carta ampiamente più ricco in termini finanziari, il gioco sembrava fatto: non possiamo perdere.

Ma questa è la visione di gente abituata a trattare la dimensione virtuale della finanza come un sostituto del mondo: gente che non guarda più alle persone, ma ai soldi che ti servono per assoldarle, che non guarda più alle materie prime, ma ai loro contratti di acquisto e relazione sul mercato dei titoli, ecc.

Ed è qui che l’errore di valutazione pazzesco che è avvenuto, errore intuitivo per chi ragiona col senso comune, ma invisibile per chi vive nel mondo virtuale del denaro, risulta comprensibile.

Non lo ammetteranno mai, ma la situazione gli è completamente sfuggita di mano.

La realtà virtuale dei numeri sui conti correnti è andata in frantumi scontrandosi con la realtà della numerosità delle popolazioni, della quantità di risorse naturali, delle estensioni territoriali.

Sarà un errore fatale che determinerà, che sta già determinando, una svolta storica.

E i primi segni di panico si stanno vedendo nelle forme sempre più frequenti di vero e proprio furto nazionale legalizzato. Quando, ad esempio, i proventi della vendita del Chelsea da parte di un miliardario russo in Inghilterra vengono prima congelati e poi sequestrati per utilizzarli a sostegno delle spese di guerra, qui si vede come gli ultimi tabù di cui si era nutrita l’ideologia occidentale (Pacta sunt servanda + sacralità della proprietà privata) si sono dissolti.

Il furto statale di depositi bancari altrui è stato sempre considerato un abisso invalicabile. La sacralità della proprietà privata è una delle basi secolari dall’ideologia occidentale, a partire da Locke, ed è stato, tra l’altro, il baluardo ideologico contro tutti i tentativi di nazionalizzazione a beneficio popolare occasionalmente avvenuti con governi socialisti (come nel Cile di Allende).

Oggi anche questo ultimo confine, l’affidabilità del rispetto del diritto di proprietà, è stato superato.

Se sul piano bellico l’ultima linea rossa, l’utilizzo dell’armamento nucleare, non è stata ancora sorpassata, sul piano economico l’equivalente della bomba nucleare è già deflagrato: la fiducia in un sistema di scambi internazionali con regole che vi conferivano una qualche autonomia rispetto alle conflittualità nazionali si è dissolta.

Le conseguenze di questo sommovimento si stanno appena iniziando a percepire, ma saranno epocali, a partire dal possibile default del tesoro statunitense sulle proprie obbligazioni.

A confronto la crisi subprime ci sembrerà una passeggiata.

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L’economista Roubini prevede un sistema monetario globale bipolare non più dominato dal dollaro

Il dollaro USA è stato la valuta di riserva globale predominante sin dalla progettazione del sistema di Bretton Woods dopo la seconda guerra mondiale. Anche il passaggio dai tassi di cambio fissi all’inizio degli anni ’70 non ha messo in discussione l'”esorbitante privilegio” del biglietto verde.

Ma adesso nel mondo potrebbe emergere un sistema monetario bipolare per sostituire il dominio del dollaro USA, scrive l’economista Nouriel Roubini, noto come ‘dottor Catastrofe’ per la sua accurata previsione della crisi finanziaria del 2008, in un articolo apparso sul Financial Times.

Tuttavia, Roubini tiene conto degli argomenti degli oppositori di questa tendenza, sottolineando che, nonostante l’attuale processo di de-dollarizzazione, la quota del dollaro nel commercio internazionale non è diminuita di molto. Sottolinea inoltre che non esiste un’alternativa che possa sostituire completamente il dollaro come valuta di riserva. Inoltre, sostiene che coloro che disdegnano la de-dollarizzazione sostengono che i tentativi di creare un sistema monetario multipolare, ad esempio basato sul paniere di valute del FMI, hanno già fallito nel sostituire il dollaro.

Quindi l’economista è giunto alla conclusione che il nuovo sistema monetario globale non sarà multipolare, ma bipolare, diviso in due aree di influenza basate sul dollaro e sullo yuan cinese. Secondo Roubini, l’attuale sistema basato sul dollaro rende le economie emergenti dipendenti dalla politica monetaria e dalle difficoltà economiche di Washington. Preferiscono quindi utilizzare la valuta cinese come alternativa a quella statunitense, come stanno già cercando di fare i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG).

La Cina dispone anche di strumenti finanziari alternativi all’Occidente, come i propri sistemi di pagamento internazionali come WeChat Pay e Alipay, oltre ad alternative allo Swift, che accelereranno l’emergere del sistema monetario bipolare, sottolinea Roubini. “Per tutte queste ragioni, è probabile che il declino relativo del dollaro USA come principale valuta di riserva si verifichi nel prossimo decennio”, conclude l’esperto, aggiungendo che la crescente competizione tra Washington e Pechino porterà inevitabilmente a un regime bipolare di valuta di riserva.

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