Nell’opposizione: cuore e identità del sindacato

di Franco Astengo

Una ricerca condotta da un gruppo di economisti della Banca Centrale Europea presentata in questi giorni mostra che l’alta inflazione del 2022 è dovuta per 2/3 dall’aumento dei profitti lordi delle imprese e per 1/3 da quello del costo del lavoro.
Autorevoli commentatori (“Domani”, “Il Foglio”) ricordano che le banche centrali hanno da sempre l’occhio fisso sugli aumenti del costo del lavoro soprattutto perchè il timore principale rimane quello di una forza negoziale del sindacato capace di innestare quello che è ritenuto un “circolo vizioso” fra inflazione e salari.

Quel tipo di valutazione portò, in Italia, all’abolizione della scala mobile nel 1985 (realizzata anche dalla propaganda della “Milano da bere” portata avanti nel referendum) e all’apertura della stagione che ha portato al job act e al conseguente declino del sindacato.
Mi è capitato di riflettere su questi elementi osservando, sabato scorso, la piazza di Bologna nella quale – schematizzando al massimo – si sono concretizzate le prove di una opposizione al governo di destra.
Un’opposizione da condurre nella politica e nel paese avendo come soggetti – perno il PD post-primarie e due sezioni dell’antico sindacato confederale, CGIL e UIL (con dentro, per quel che riguarda specialmente PD e CGIL un forte dato al vertice di personalizzazione ben alimentata dall’articolato concerto dei media).

Da parte dell’avversario al governo siamo di fronte a un quadro di grande aggressività: penso a temi come quello dell’atlantismo dentro la UE in tempi di guerra e al tentativo di torsione autoritaria della democrazia repubblicana.
Un quadro che reclama necessità e urgenza di una forte opposizione politica e sociale.
Purtuttavia se si intende costruire una efficace collocazione oppositiva è necessario analizzare la realtà sindacale.
Un’analisi indispensabile in particolare se si vuol tornare alla ri-costruzione di un blocco sociale antagonista e alternativo al grigio “mare magnum” che sembra caratterizzare la sfilacciata società italiana.
Andando per ordine:

1) Da un lato va espressa da parte del sindacato una capacità di esprimere fino in fondo la propria specificità rivolta alla tutela degli interessi immediati dei lavoratori dipendenti.
La tutela degli interessi materiali dei lavoratori dipendenti (al di là del vulgata: ” iscrizione FIOM, voto Lega”) deve verificarsi nel quadro della complessità sociale in atto e della pressante richiesta di “nuovi diritti” anche individuali e di oppressioni “storiche” come quella di genere o derivanti dai complicati processi di integrazione. E’ questo il punto d’appoggio (salario & diritti: tanto per racchiudere il tutto in uno slogan) per risalire attraverso un faticoso processo di mediazione (fondato sulla partecipazione consapevole dei militanti e mai delegato una volta per tutte ai gruppi dirigenti) all’individuazione di momenti di sintesi, ossia di priorità politiche. In pratica una democrazia interna non affidata alla spontaneità ma a una verifica incessante delle strutture di base del sindacato, dei suoi strumenti d’informazione e di formazione culturale, fino a determinare il fatto che le scelte proposte ai lavoratori contengano davvero alternative concrete.

2) La necessità che all’interno del sindacato si verifichi un incontro tra culture e ideologie diverse e il loro confronto creativo. Da questo punto di vista la sollecitazione nel rapporto tra soggettività politiche e sindacali non deve rappresentare un condizionamento reciproco ma un vero e proprio stimolo in avanti. In questo modo, attraverso la democrazia interna, il sindacato riuscirà a produrre una cultura e un progetto politico in grado di fornire un contributo reale anche alle forze politiche collocate sulla frontiera più avanzata dell’alternativa di sistema.
Debbono essere ricordati inoltre i pilastri sui quali poggiava un’identità sindacale in grado di costruire quel “sindacato soggetto politico” su cui molto si discusse durante il “30 gloriosi”:

Il primo elemento che è necessario sottolineare è quello dei collegamenti internazionali: oggi sono richiamate “convenzioni internazionali” sui diritti, strumenti sicuramente importanti ma nella maggior parte disattesi. Il punto risiede, invece, nella necessità di ripresa e sviluppo di organizzazioni sindacali che, attorno al nodo della realtà economica e produttiva internazionale, si muovano unitariamente in una dimensione transnazionale. Chiediamo, allora, a quanti sicuramente conoscono la situazione meglio di noi: come sta la CISL internazionale (cui anche la CGIL italiana aderì nel momento della chiusura dell’esperienza della FSM. Esiste ancora? Quale posizione hanno elaborato i sindacati europei sul tema della pace?)

Posta questa domanda, passiamo ad elencare “ i tre pilastri”:

1) Il Contratto Collettivo nazionale di categoria: lo smantellamento di questo istituto ha rappresentato, prima ancora che sul piano normativo ed economico, il punto essenziale per il riconoscimento di un sindacato soggetto politico generale che ha, sempre e comunque, la sua ragion d’essere.
Il decentramento sotto questo aspetto, che pure poteva rappresentare parzialmente un momento di grande interesse nello sviluppo di vertenze d’azienda e territoriali, non doveva sostituire il momento fondamentale per un sindacato unitario dal punto di vista della rappresentanza sociale, come quello della stipula del contratto collettivo nazionale di categoria (su questo elemento si deve fondare anche l’opposizione allo smembramento di ciò che è rimasto unitario del welfare – scuola, sanità – previsto dall’autonomia differenziata).

2) La scala mobile. Oggi, a distanza di tanti anni, credo si comprenda meglio il valore di quella battaglia perduta e mi permetto di non aggiungere altro.

3) La rappresentanza di tipo “consiliare” all’interno dei luoghi di lavoro. Senza alcun accento nostalgico (di cui pure ci potrebbe essere ragione) è necessario ricordare come un sindacato serio possa poggiare soltanto su di un’unità di base che i “consigli” erano in grado di assicurare, pur dentro ad un dibattito acceso, non unanimistico, che rifiutava – ed è questo un altro punto decisivo- il neo corporativismo

Si potrebbe ancora ricordare come la presenza contemporanea di questi tre elementi (il contratto collettivo garantito dallo Statuto dei Lavoratori; la scala mobile, il sindacato dei consigli emerso dalla grande stagione del 68-69) coincise con il momento più forte e più alto della presenza sindacale nel nostro Paese, e di avanzamento delle ragioni dei diritti e del miglioramento della qualità della vita per tutti, non soltanto per i lavoratori dipendenti.

Qualcuno obietterà: c’era la classe operaia nelle grandi fabbriche; la classe operaia forte, stabile, concentrata.
Giustissimo, e la classe operaia era legata a un’idea di sviluppo industriale che il nostro Paese, a differenza di altri partner europei, ha abbandonato da tempo.

Si è puntato, anche dal punto di vista sindacale, su di una visione sbagliata del ciclo liberista scambiandolo per la “modernità”. Ancora oggi, in un mondo del lavoro ormai completamente trasformato rispetto all’epoca di riferimento di questo intervento e nel quale domina l’incertezza, il precariato e l’esclusione, rimane fondamentale il ritorno al concetto decisivo e inestirpabile di coscienza di classe (la coscienza di classe resta il “cuore” dell’identità di un sindacato capace di esprimere, in questa società qui ed ora, opposizione e alternativa).
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