(visto da Francesco Masala) al cinema un bel film tunisino, un’interessante intervista con Avi Mograbi, una geniale storiella dei Monty Phyton, e una recensione di Bifo su un ottimo film che (non?) passerà nelle sale
una ragazza vuole fuggire dalla sua vecchia vita e dalla famiglia opprimente.
l’occasione fa la ragazza fuggitiva, me non va troppo bene, infine, trova due persone che l’aiutano.
cambiare identità va bene, Amira, Aya, e, alla fine, Aïcha, il nome scelto per vivere.
Fatma Sfar è l’attrice protagonista, ed è bravissima.
un film sociologico, critico della sudditanza lavorativa, e sopratutto poliziesco, un ottimo film per finire la stagione cinematografica.
il film è in una cinquantina di sale estive, i filmacci statiunitensi occupano le sale, come al solito, decolonizzatevi dall’impero, andate a vedere questo piccolo e meritevole film.
«Fare cinema non significa cambiare la realtà» – Avi Mograbi
Intervista (di Viviana Viri) con Avi Mograbi, premio Diritti Umani per l’autore 2024
Il regista israeliano Avi Mograbi da anni racconta attraverso i suoi documentari le contraddizioni del suo Paese. Tra i suoi lavori più noti, Per uno solo dei miei due occhi, presentato nel 2005 al Festival di Cannes e il suo ultimo film, The First 54 Years: An Abbreviated Manual for Military Occupation (2021), in cui ha cercato di descrivere l’occupazione israeliana. Mograbi, ospite del Film Festival Diritti Umani, riceverà questa sera il Premio Diritti Umani al Cinema Corso di Lugano.
Da oltre vent’anni lei si dedica a documentare le contraddizioni del suo Paese. Quali sono i suoi pensieri a ormai un anno dal sette ottobre? «Sono molto demoralizzato, ho trascorso tutta la mia vita in Israele occupandomi della situazione nel mio Paese. Oggi ho 67 anni e mi sento perso, credo che sia il modo giusto per descrivere quello che provo. Ho preso la decisione di trasferirmi in Portogallo ancora prima dell’inizio della guerra, mia moglie ed io avevamo già capito quali fossero le prospettive di continuare a vivere in Israele, sentivamo la mancanza di speranza in un miglioramento. Non vivo più lì, ma è come se ci fossi costantemente, non riesco a smettere di leggere le notizie su ciò che accade. Puoi lasciare Israele, ma continua a rimanere dentro di te. Mi sento in esilio volontario, ma non mi considero un rifugiato. Non posso compararmi alle persone che fuggono dall’Africa o alle loro situazioni, ma allo stesso tempo sono sicuro di poter condividere con quelle persone la perdita della mia casa, che è qualcosa che mi manca molto».
Come valuta la situazione attuale? «Israele sta commettendo dei crimini di guerra, ma questo non è qualcosa di nuovo o che è cominciato il 7 ottobre. Non sostengo di certo Hamas e quanto è successo, ma non possiamo pensare a questa data come a un inizio, sarebbe un grave errore. Parliamo di un conflitto che dura da 75 anni e di uno Stato che dipende dai crimini di guerra e dalle violazioni dei diritti degli altri e dei diritti dei palestinesi. Quando parliamo della fondazione dello Stato di Israele molte volte si menziona la guerra del 1948, che vista dal punto di Israele si tratta di una guerra per l’indipendenza, mentre da quello palestinese di una catastrofe, della Nakba. Diciamo spesso che molte persone sono dovute fuggire dalle loro case, ma non precisiamo mai che quando la guerra è finita non gli è stato permesso di ritornare. Questo è il crimine reale, il fatto di non essere stati autorizzati al diritto base di ogni essere umano, che si trovi in guerra oppure no, poter far ritorno nella propria casa. Durante la prima guerra del Golfo, mia moglie ed io siamo dovuti scappare dalla nostra casa di Tel Aviv aspettando che la situazione migliorasse. Neppure in quelle circostanze abbiamo pensato di non poter più tornare a casa una volta finita la guerra. La situazione che si è creata nel 1948 è qualcosa che non ci si può nemmeno immaginare».
Lei è tra i fondatori di Breaking the silence, un gruppo nato per raccogliere le testimonianze di ex militari che hanno prestato servizio nei territori occupati e molti di questi racconti fanno parte dei suoi film, come nel suo ultimo lavoroThe First 54 Years: An Abbreviated Manual for Military Occupation (2021). Quali sono state le difficoltà nel raccogliere queste testimonianze? «È molto interessante osservare come ci siano periodi in cui tutto tace e altri in cui si trovino molti testimoni, come quello che stiamo attraversando ora, in cui le persone sono impegnate in lavori sporchi e quindi sentono la necessità di parlare, hanno bisogno di trovare sollievo per le cose orribili che hanno fatto. Molti dei militari che hanno servito a Gaza vogliono testimoniare anche se hanno partecipato. È sempre un paradosso, il soldato che testimonia dei crimini che lui stesso ha compiuto, da una parte capisce di averli commessi, ma allo stesso tempo ha bisogno di condividerli con altri come parte di un processo di guarigione».
Prima del 7 ottobre in Israele si percepiva un certo dissenso, per mesi abbiamo visto decine di migliaia di persone manifestare contro la riforma giudiziaria. Secondo lei quanto la società israeliana è permeabile oggi alla critica del governo? «I media israeliani sono morti, come lo è la sinistra. La sua sottile frazione radicale è ormai sempre più esile e fragmentata, e questo è molto triste. Si è parlato molto del suo ruolo, ma la sinistra non esiste realmente. Quella che si pensava che lo fosse, per mesi è scesa in piazza a manifestare per la democrazia, ma si trattava di una richiesta fatta soltanto per una parte della società, nessuno parlava dei diritti dei palestinesi. Questo è il tipo di sinistra che esiste in Israele e i media sono solamente dei portavoce che fanno da cassa di risonanza al governo e alle sue bugie, supportandone i crimini».
I suoi film rimettono costantemente in discussione la realtà che lei riprende. È possibile raccontare la realtà di questo conflitto? Quale pensa sia l’impatto del cinema sulla realtà? «Credo che ci accostiamo al cinema impegnato e al cinema che parla di diritti umani in un modo ingenuamente errato. Fare cinema non significa cambiare la realtà. Facciamo dei film critici perché la nostra comunità ha bisogno di essere incoraggiata, è un pensiero verso noi stessi. Spesso mi sento dire che i miei documentari parlano ai già convertiti. Per me è come se parlassi ai miei amici, per condividere con loro, per sostenerci l’un l’altro. Non mi aspetto che chi non la pensa come me venga a vedere i miei film».
Soundtrack to a coup d’etat è un documentario di un regista di nome Johan Grimonprez, che racconta in parallelo due storie: quella del colpo di stato con cui i colonialisti bianchi (nord-americani e belgi in particolare) hanno stroncato nel 1960 il movimento di indipendenza del Congo ex-belga, hanno ucciso Patrice Lumumba e due suoi collaboratori, e hanno consentito alle compagnie occidentali bianche di continuare l’estrazione, la rapina delle risorse naturali del paese, e lo sfruttamento del lavoro dei congolesi, particolarmente dei bambini che oggi sono costretti a a infilarsi dentro le miniere di coltan e degli altri materiali che servono all’industria bianca e ai consumatori bianchi.
Ma il film racconta anche la storia del modo in cui i dominatori razzisti hanno sfruttato come elemento di distrazione di massa la musica jazz, Louis Armstrong. Thelonius Monk, Dizzie Gillespie, e molti altri che, solidarizzando con il movimento indipendentista, non si rendevano conto del fatto che la loro esperienza artistica era usata dagli assassini per mostrare quanta democrazia ci sia nell’Occidente, che permette ai negri buoni e bravi di prosperare e di suonare la tromba.
Il documentario di Grimonprez è importantissimo, e consiglio a tutti (soprattutto ai lettori giovani che forse non sanno abbastanza della storia atroce del colonialismo bianco) di cercarlo, e di vederlo.
L’anno in cui si svolge la storia è il 1960.
Dal 1886 il territorio congolese è stato proprietà personale di un criminale di nome Leopoldo, il quale avviò lo sfruttamento delle risorse che permisero al Belgio di arricchirsi, e agli abitanti del Congo di subire condizioni di lavoro schiavistico bestiali. Un numero incalcolabile di congolesi furono uccisi, (Mark Twain avanza la cifra di dieci milioni, ma non sapremo mai se sbaglia), mutilati (il taglio delle mani era la pena per un atto dei ribellione), ed espropriati delle ricchezze che avrebbero potuto permettere agli africani di sviluppare un’economia indipendente secondo criteri non necessariamente capitalistici.
Negli anni ’50 in tutto il mondo stava crescendo un movimento di liberazione dei paesi che avevano subito il colonialismo. l’India di Gandhi e di Nehru, l’Indonesia di Sukarno, l’Egitto di Nasser, Cuba di Fidel Castro, e molti paesi africani, prima di tutto il Ghana di Kwame Nkrumah, – si emanciparono dal dominio coloniale.
Alcuni leader anti-colonialisti chiamarono alla creazione di un fronte dei non allineati che si incontrarono alla Conferenza di Bandung, in Indonesia. Quel movimento anti-colonialista fu fermato nei decenni successivi, mentre prendeva forma un tipo nuovo di colonialismo: l’indipendenza politica veniva svuotata mentre il governo dell’economia dei paesi post-coloniali veniva conquistato con la forza dalle grandi aziende imperialiste dell’Occidente.
Il caso del Congo post-belga è esemplare in questo senso: il voto dei congolesi porta Lumumba al governo del paese che le autorità politiche belghe devono abbandonare. Ma al tempo stesso l’Union Miniere, la compagnia che sfruttava le risorse minerarie immense del paese, appoggia un colpo di stato, condotto da un paio di assassini (Moise Tchombe e Mobutu Sese Seko) e da un traditore (Joseph Casa Vubu).
Patrice Lumumba, capo riconosciuto dell’indipendentismo, con forte vocazione socialista e anti-imperialista, deve essere tolto di mezzo. I belgi e i nord-americani incaricano i loro agenti di sequestrare, uccidere e fare pezzi Lumumba e i suoi due collaboratori.
Non ho mai visto un film né ho mai letto un libro che mi aiutasse a comprendere in modo così chiaro cosa è stato e cosa continua a essere il colonialismo, fondamento della ricchezza di cui godono i dominatori bianchi del pianeta, e causa della miseria di cui soffrono gli altri, coloro che non appartengono alla razza dominatrice (che non è necessariamente bianca di pelle, ma partecipa, come i non bianchi colonialisti israeliani, del privilegio degli sterminatori).
Nonostante tutte le ciance accademiche sul post-colonial, il colonialismo non è mai finito. Ha attraversato una fase di crisi profonda, proprio perché negli anni ’60, con l’aiuto dei bianchi sovietici e soprattutto dei non bianchi cinesi, l’imperialismo occidentale è stato sconfitto. La sconfitta degli imperialisti in Vietnam ma anche Algeria, Angola, Mozambico… ha segnato il momento culminante di quel processo di emancipazione, ma ha anche segnato il mutamento che ha portato alla formazione di un nuovo modello fondato sull’estrattivismo e sulla cooptazione di forza lavoro dei paesi periferici da parte delle aziende capitalistiche globali: iper-colonialismo.
Lo sfruttamento estrattivista del territorio e lo sfruttamento del lavoro fisico e mentale dei dominati ha continuato a sorreggere l’iper-sviluppo dell’Occidente nella fase del capitalismo finanziarizzato. L’uso della violenza militare è stato spesso delegato a servi non bianchi (come i sonderkommando di Ben Gvir e Smotrich, appunto).
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