Alfredo Cospito in sciopero della fame, al 41 bis

ne scrivono Luigi Manconi, qualche avvocato, Viola Hajagos, Napolimonitor, Peppe de Cristofaro, Davide Delogu e lui stesso Alfredo

Alfredo Cospito, l’anarchico che ora rischia di morire in cella come un boss. Ma non ha ucciso nessunoLuigi Manconi

Alfredo Cospito è sottoposto all’ergastolo ostativo nel carcere di Sassari. Dal 20 ottobre fa lo sciopero della fame contro il 41 bis: ha già perso 20 chili

Cosa si prova a guardare un rettangolo di cielo solo attraverso una rete? Quali danni subisce un individuo che trascorre l’intera giornata all’interno di una stanza chiusa e che può accedere all’esterno per una sola ora al giorno. E questo tempo viene trascorso tutto dentro un cubicolo di cemento di pochi metri quadrati, delimitato da muri alti che interdicono lo sguardo e da quella rete di metallo che filtra la visione del cielo. La possibilità di comunicazione di quell’individuo è ridotta da anni alla conversazione occasionale con un unico interlocutore, mentre viene interdetta la facoltà di trasmettere all’esterno – attraverso lettere e scritti – il proprio pensiero.

La deprivazione sensoriale

Se un simile regime si protrae nel tempo è fatale che si determini una condizione che in psicologia e in psichiatria viene definita deprivazione sensoriale, ovvero la riduzione fino alla soppressione degli stimoli sensoriali correlati ai cinque sensi. A esempio, la mancata profondità visiva può incidere sulla funzionalità del senso della vista.

La deprivazione sensoriale è una pratica adottata dai sistemi autoritari e totalitari nei confronti dei reclusi ed è un rischio immanente di tutti i regimi speciali di detenzione realizzati all’interno delle democrazie. In Italia l’applicazione estensiva e incontrollata del regime di 41 bis può portare a un simile esito.

Condannato all’ergastolo ostativo

È il caso di Alfredo Cospito, nato a Pescara nel 1967, residente a Torino, che sconta l’ergastolo ostativo nel carcere di Bancali (Sassari). Cospito ha subito una condanna per l’attentato contro Roberto Adinolfi, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare (maggio 2012), e una all’ergastolo per strage contro la sicurezza dello Stato. La condanna si riferisce a quanto è avvenuto, nella notte tra il 2 e il 3 giugno del 2006, nella Scuola allievi carabinieri di Fossano (Cuneo), dove esplodono due pacchi bomba a basso potenziale che non determinano morti, feriti o danni gravi.

In primo e secondo grado il reato era stato qualificato come delitto contro la pubblica incolumità, ma nel luglio scorso la corte di Cassazione ha modificato l’imputazione nel ben più grave delitto (contro la personalità interna dello Stato) di strage, volta ad attentare alla sicurezza dello Stato (art. 285 del codice penale). Non avendo collaborato in alcun modo con la magistratura, a Cospito viene applicata l’ostatività: ovvero l’ergastolo senza possibilità di liberazione condizionale e di ottenere benefici.

Fino all’aprile scorso, pur sottoposto per dieci anni al regime di Alta sicurezza, il detenuto aveva l’opportunità di comunicare con l’esterno, di inviare scritti e articoli così da partecipare al dibattito della sua area politica, di contribuire alla realizzazione di due libri e di scrivere e ricevere corrispondenza. L’applicazione del 41 bis cambia radicalmente le condizioni di detenzione. Da molti mesi le lettere in entrata vengono trattenute e questo induce il detenuto a limitare e ad autocensurare le proprie. Le ore d’aria e quelle di socialità sono ridotte nei termini prima descritti.

Lo sciopero della fame

È contro tutto questo che Cospito, dal 20 ottobre scorso, ha intrapreso lo sciopero della fame. Da allora sono passati 25 giorni e il corpo di Cospito ha già perso una ventina di chili e, tuttavia, la dottoressa incaricata di monitorare il decorso, trova difficoltà a incontrare il detenuto: mi rivolgo, dunque, al capo del Dap, Carlo Renoldi, che è persona per bene, affinché a Cospito sia garantita la migliore assistenza.

L’applicazione irrazionale del 41 bis

Ciò che questa storia racconta è, innanzitutto, la situazione così drammaticamente critica che l’applicazione arbitraria e irrazionale del 41 bis può determinare. Tale regime non dovrebbe avere in alcun modo come sbocco una condizione di deprivazione sensoriale, anche perché – pur se ciò contraddice lo stereotipo dominante – questo tipo di detenzione non corrisponde (non dovrebbe corrispondere) al “carcere duro”. La finalità del regime speciale è una ed esclusivamente una: quella di interrompere le relazioni tra il recluso e l’organizzazione criminale esterna. Qualunque misura e qualunque limitazione deve tendere a quel solo scopo. Tutte le altre misure e limitazioni adottate senza una documentata ragione vanno dunque considerate extra-legali. Ovvero illegali. E come tali risultano, palesemente, le condizioni di detenzione di Alfredo Cospito. La sua scelta estrema, quella del digiuno, appare, di conseguenza, come “ragionevole” nella situazione data: in quanto porre in gioco il proprio corpo e sottoporlo alla prova terribile dello sciopero della fame, sembra la sola possibilità rimasta a Cospito di contestare radicalmente ciò che considera un’ingiustizia. Intanto i suoi legali hanno presentato un’istanza di reclamo contro l’applicazione del 41 bis che verrà discussa il primo dicembre. Il timore è che Cospito arrivi a questo importante appuntamento in condizioni di salute troppo pericolose per la sua stessa sopravvivenza.

da La repubblica

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Gli anarchici e l’ordine costituito

Il 6 luglio scorso la Corte di Cassazione ha deciso di riqualificare da strage contro la pubblica incolumità (articolo 422 codice penale) a strage contro la sicurezza dello Stato (art. 285 codice penale) un duplice attentato contro la Scuola Allievi Carabinieri di Fossano, avvenuto nel giugno 2006 (due esplosioni in orario notturno, che non avevano causato nessun ferito) e attribuito a due imputati anarchici. L’originaria qualificazione di strage prevede l’applicazione della pena non inferiore a 15 anni di reclusione, l’attuale, invece, la pena dell’ergastolo. Sembra paradossale che il più grave reato previsto dal nostro ordinamento giuridico sia stato ritenuto sussistente in tale episodio e non nelle tante gravissime vicende accadute in Italia negli ultimi decenni, dalla strage di piazza Fontana a quella della stazione di Bologna, da Capaci a via D’Amelio e via dei Georgofili ecc. Nel mese di aprile 2022 uno dei due imputati era stato inoltre destinatario di un decreto applicativo del cosiddetto carcere duro, ai sensi dell’art. 41 bis comma 2 ordinamento penitenziario (introdotto nel nostro sistema penitenziario per combattere le associazioni mafiose e che presuppone la necessità di impedire collegamenti tra il detenuto e l’associazione criminale all’esterno per fini criminosi), altra vicenda singolare essendo notorio che il movimento anarchico rifugge in radice qualsiasi struttura gerarchica e/o forma organizzata, tanto da far emergere il serio sospetto che con il decreto ministeriale si voglia impedire l’interlocuzione politica di un militante politico con la sua area di appartenenza piuttosto che la relazione di un associato con i sodali in libertà.

Sempre nel mese di luglio ultimo scorso è stata pronunciata una ulteriore aspra condanna in primo grado, a 28 anni di reclusione, contro un altro militante anarchico per un attentato alla sede della Lega Nord, denominata K3, anche per tale episodio nessuno ha riportato conseguenze lesive. Inoltre, nell’estate del 2020 altri cinque militanti anarchici sono stati raggiunti da una ordinanza di custodia cautelare in carcere per reati di terrorismo, trascorrendo circa un anno in AS2 (Alta Sorveglianza, altro regime carcerario “duro”), nonostante i fatti a loro concretamente attribuiti fossero bagatellari, quali manifestazioni non preavvisate, imbrattamenti ecc.

Altri processi contro attivisti anarchici sono intentati per reati di opinione, ad esempio due a Perugia, qualificati come istigazione a delinquere aggravata dalla finalità di terrorismo, in quanto i rei avrebbero diffuso slogan violenti anarchici; quegli stessi slogan e idee che soltanto alcuni anni or sono sarebbero stati ricondotti alla fattispecie di cui all’art. 272 codice penale (propaganda sovversiva), fattispecie abrogata nel 2006 sulla base dell’assunto che la propaganda, anche di ideologie di sovversione violenta, debba essere tollerata da uno Stato che si dica democratico, pena la negazione del suo stesso carattere fondante. Altre iniziative giudiziarie per reati associativi sono state intentate a Trento, nuovamente a Torino, a Bologna a Firenze, contro altri militanti anarchici, con diffusa quanto incomprensibile applicazione di misure cautelari in carcere. La narrazione mediatica sempre degli ultimi due anni, costruita sulla scorta di dichiarazioni qualificate del Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, vede inoltre gli anarchici responsabili, istigatori, delle rivolte in carcere del mese di marzo 2020, salva recente successiva smentita da parte della commissione ad hoc istituita per stabilire le cause dell’insorgenza dei detenuti. Più in generale, in epoca recente, all’indistinta area anarchica è stata attribuita una enfatica pericolosità sociale da parte delle relazioni semestrali dei servizi segreti.

È lecito domandarsi cosa stia avvenendo in questo Paese e se gli anarchici rappresentino effettivamente un pericolo per l’incolumità pubblica meritevole di essere affrontato in termini muscolari e talvolta spregiudicati oppure se, in coerenza con il passato, rappresentino gli apripista per una ristrutturazione e/o un rafforzamento in chiave autoritaria degli spazi di agibilità politica e democratica nel paese. Chi scrive svolge la professione di avvocato ed è direttamente impegnato nella difesa di numerosi anarchici in altrettante vicende penali ed è così che riscontra la sempre più diffusa e disinvolta sottrazione delle garanzie processuali a questa tipologia di imputati: in primo luogo in tema di valutazione delle prove in ordine alla riconducibilità soggettiva dei fatti contestati; oppure di abbandono del diritto penale del fatto, a vantaggio del diritto penale del tipo d’autore, realizzato attraverso l’esaltazione della pericolosità dell’ideologia a cui il reo appartiene. Siamo consapevoli che la genesi di un possibile diritto penale del nemico si radica nella storia recente di questo paese nel contrasto giudiziario alle organizzazioni combattenti, nel corso dei processi degli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso, e che poi le continue emergenze susseguitesi negli anni hanno permesso di condividere ed estendere ad altre categorie di imputati (ad esempio ai migranti, ma non solo) l’atteggiamento giudiziario tenuto ieri nei confronti dei militanti della lotta armata. Atteggiamento che oggi viene riproposto verso gli anarchici, rei soprattutto di manifestare una alterità irriducibile all’ordine costituito.

Da avvocati e avvocate ci troviamo ad essere spettatori di una deriva giustizialista che rischia di contrapporre a un modello di legalità penale indirizzato ai cittadini, con le garanzie e i diritti tipici degli Stati democratici, uno riservato ai soggetti ritenuti pericolosi, destinatari di provvedimenti e misure rigidissimi, nonché di circuiti di differenziazione penitenziaria. Tutto ciò ci preoccupa perché comporta un progressivo allontanamento dai principi del garantismo giuridico, da quello di legalità (per cui si punisce per ciò che si è fatto e non per chi si è) a quello di offensività, sino a un pericoloso slittamento verso funzioni meramente preventive e neutralizzatrici degli strumenti sanzionatori, come gli esempi sopra richiamati dimostrano…

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Sassari: Corteo contro il carcere e il 41bis in solidarietà ad Alfredo

RIFLESSIONI IN VISTA DELLA MANIFESTAZIONE DEL 29 OTTOBRE A SASSARI

Contro il carcere e la società che lo rende necessario

Il 5 maggio 2022 il compagno anarchico Alfredo Cospito è stato trasferito nel carcere di Bancali in Sardegna e rinchiuso nel regime di 41 bis. Il 6 luglio la Cassazione ha condannato nel processo “Scripta manent” Anna, Alfredo e Nicola per il reato di associazione sovversiva con finalità di terrorismo (articolo 270-bis c.p.). Inoltre, la Corte ha accolto la richiesta di riqualificare l’accusa verso Alfredo e Anna, dal reato di strage semplice al reato di strage politica (articolo 285 c.p.) – che prevede come pena l’ergastolo – in relazione ad un attentato esplosivo alla scuola allievi carabinieri di Fossano che ha provocato danni materiali alla struttura, senza conseguenze lesive.

Sempre a luglio Juan Sorroche, un altro compagno anarchico, è stato condannato in primo grado a 28 anni di reclusione per il reato di attentato con finalità di terrorismo (articolo 280 c.p.) per due ordigni, di cui uno inesploso, che danneggiarono il portone della sede della Lega Nord di Villorba (TV) nell’estate 2018.

Queste sentenze segnano un punto di svolta importante nella repressione da parte dello Stato italiano, non solo nei confronti del movimento anarchico, ma più in generale verso chiunque provi a lottare e a ribellarsi. Non è un caso che questo inasprirsi delle condanne e delle condizioni detentive per i prigionieri anarchici e le prigioniere anarchiche arrivi in un periodo di forte repressione che colpisce tutte le soggettività e gruppi che incrinano la pacificazione sociale perseguita dallo Stato.

Nello stato di emergenza perenne che ormai è diventato normalità, qualsiasi protesta verso le imposizioni dello Stato è marchiata come minaccia verso la società intera; se poi dalla protesta si passa all’azione concreta, l’accusa verso chi agisce deve essere esemplare. Ne sono un esempio i diversi tentativi di contestazione di reati associativi susseguitisi negli ultimi anni, ad esempio contro la lotta NO TAV, contro la presenza militare in Sardegna e più di recente contro i sindacati di base impegnati nella lotta dei lavoratori nel settore della logistica.

L’inasprirsi delle pene è rivolto verso tutte quelle azioni che mettono in crisi la pacificazione funzionale a Stato e capitale. Basti pensare alla riesumazione del reato di devastazione e saccheggio (che prevede fino a 15 anni di reclusione) nell’ambito di cortei, a carico degli ultras e dei reclusi/e in carceri o CPR. Oppure pensiamo all’aggravamento della pena prevista per il reato di “blocco stradale” (pratica da sempre appartenente ai più svariati ambiti di lotta) che oggi prevede sino a 12 anni di reclusione.

Sotto attacco non ci sono solo le azioni, ma anche le idee. Diversi, ad esempio, sono i musicisti che di recente si sono trovati accusati di istigazione a delinquere e vilipendio, semplicemente per il contenuto dei loro testi inneggianti all’ostilità contro le forze dell’ordine, i militari o le autorità più in generale. In ambito anarchico invece, sempre più spesso, il reato di istigazione a delinquere viene affiancato dall’aggravante di terrorismo ed utilizzato per costruire ipotesi associative. Si pensi alle pubblicazioni messe sotto accusa per aver sostenuto la necessità della violenza rivoluzionaria e per aver dato voce al contributo alla lotta che Alfredo non ha mai smesso di portare, anche da dietro le sbarre delle sezioni di alta sicurezza. Proprio per questo motivo si è visto trasferire a maggio 2022 in 41-bis a Bancali, regime che prevede il blocco pressoché totale della corrispondenza.

Evidentemente le idee di Alfredo sono scomode perché, coerentemente all’azione che nel 2012 lo ha portato in carcere – la gambizzazione dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare – spiegano con semplicità lo slancio etico che sta dietro all’agire. Questa azione riconosce chiaramente come dietro allo sfruttamento della terra e dei popoli, non ci sono solo dei nomi di multinazionali o di società per azioni ma uomini e donne che ogni giorno prendono decisioni che rendono l’esistenza sempre più invivibile alla maggior parte della popolazione mondiale.

In una società neoliberale come quella in cui viviamo è sempre più evidente che le condizioni di salute e benessere sono garantite a una ristretta fascia di popolazione, mentre per la restante parte lo sfruttamento lavorativo, l’insicurezza abitativa e relazionale, il malessere fisico e psicologico sono la quotidianità. In questo contesto il carcere si configura come un “ghetto sociale” in cui vengono rinchiuse le persone che per scelta, o semplicemente per necessità, si trovano a non rispettare le leggi dello Stato e che non posseggono le risorse economiche per pagarsi una difesa né tanto meno la copertura delle istituzioni concessa a chi ricopre posizioni di potere.
É interessante notare come più della metà delle persone recluse abbia una condanna per reati legati alla legge sugli stupefacenti o contro la proprietà (furto, rapina), che il 15% dei carcerati sia classificato come tossicodipendente e che oltre il 30% non abbia la cittadinanza italiana. La funzione riabilitativa del carcere rimane una dichiarazione della propaganda di Stato per rendere più accettabile una situazione che di riabilitativo non ha nulla. Come può essere riabilitativo un luogo dove si vive in 3 metri quadrati di cella, dove l’assistenza medica è garantita solo quando si tratta di psicofarmaci, dove si muore per mancanza di cure adeguate e per suicidio (67 i suicidi da inizio 2022)?

Se dentro come fuori dalle carceri le condizioni degli oppressi e delle oppresse sono sempre peggiori, è chiaro come per lo Stato diventi fondamentale recidere ogni potenziale legame di solidarietà. Lo vediamo nel nostro quotidiano dove, da anni, qualsiasi dimensione collettiva o comunitaria viene continuamente posta sotto attacco. Dalla precarietà e dal ricatto che caratterizzano ogni condizione lavorativa, passando al massivo ricorso della tecnologia per mediare ogni forma di comunicazione e scambio, alla soppressione pressoché totale di spazi fisici di aggregazione che non rispondono alla logica del profitto, sino alla puntuale costruzione di “nemici pubblici” contro cui, ci vien detto, ogni strumento repressivo è lecito.

L’emarginazione dell’individuo passa dunque anche dal carcere, strumento per eccellenza finalizzato ad annichilire l’individuo attraverso l’isolamento dalla sua comunità di riferimento (che sia quella affettiva, politica o altra). Al suo interno, nel corso degli anni, sono nati circuiti pensati per determinati reati, come quelli di Alta Sicurezza (AS), e il regime di carcere duro del 41bis. Quest’ultimo è stato istituito sulla scia della cosiddetta lotta alla mafia e sull’onda emotiva della strage di Capaci. Il clima di paura e il mostro da annientare sono stati la cornice che ha reso questo strumento socialmente accettabile. Isolamento totale per anni, discrezionalità totale e possibilità di rinnovare continuamente questo stato detentivo, limitazione nel tenere beni personali (come la foto di un proprio caro) in cella, divieto di ricevere libri dall’esterno, censura della posta e così via. Queste sono solo alcune delle condizioni imposte per legge ai prigionieri e alle prigioniere in 41 bis, ma ad esse si aggiungono quelle “discrezionali”: schermatura delle finestre con pannelli di plexiglas, sezioni poste sotto terra come quella del carcere di Bancali, primi due anni in totale isolamento. L’obiettivo del regime è duplice: da un lato indurre il prigioniero a denunciare altre persone, a “collaborare” per riguadagnare un po’ di vivibilità purché si getti nelle segrete medievali qualcun altro. Dall’altro, isolare in modo totale l’individuo, spezzare ogni legame sociale sia dentro che fuori le mura, renderlo disumano e annientarlo.

Come sempre, l’applicazione di nuovi e più gravosi strumenti repressivi riguarda inizialmente chi già rientra nella classificazione di “nemico pubblico” e poi, una volta passati nell’assetto legislativo e nell’immaginario sociale, viene estesa anche ad altri. E così il 41 bis è stato esteso nel 2005 ai prigionieri/e politici delle BR-PCC Morandi, Mezzasalma, Lioce e Blefari, quest’ultima uccisa proprio dalle pesanti condizioni di questo regime. Ora, come dimostra il caso di Alfredo, tocca agli anarchici. E domani chissà.

Un altro tassello dell’annientamento del singolo e della sua possibilità di essere parte di una comunità umana è l’ergastolo ostativo, strumento con cui lo Stato condanna l’individuo a un fine pena mai, senza se e senza ma. Tra i tanti ergastolani, ricordiamo Mario Trudu, morto di carcere in Sardegna dopo una vita rinchiusa tra le sbarre. A chi è sottoposto all’ergastolo ostativo sono negati tutti i benefici, in nome di una valutazione sulla “pericolosità” del soggetto basata sul rifiuto di collaborare con lo Stato, su legami veri o presunti con la criminalità organizzata o con la lotta politica, o sulla mancata partecipazione all’opera “rieducativa”.
L’isolamento, tuttavia, si configura anche quando non vengono applicati strumenti particolarmente afflittivi di cui abbiamo parlato; ci riferiamo ad esempio all’utilizzo di strumenti punitivi interni al carcere, quali l’applicazione del regime 14 bis, o le svariate condizioni di isolamento de facto.

L’ultimo tassello che vogliamo aggiungere è quello della distanza fisica. La scelta attuata con il piano carceri del 2009 di costruire le 4 nuove strutture detentive in Sardegna (Bancali, Uta, Massama, Nuchis), così come di trasferirvi numerosi prigionieri nelle sezioni speciali provenienti prevalentemente dal Sud Italia e infine il trasferimento di Alfredo, si inscrivono nel processo di atomizzazione di cui stiamo parlando. L’isolamento dei detenuti diventa ancora più ampio perché di mezzo c’è il mare che allunga le distanze con la propria comunità.

La storia della Sardegna, oltre a essere storia di conquista e colonizzazione, è anche storia di carcerazione. L’introduzione del carcere avviene nel XVIII secolo con l’avvio della cosiddetta modernità, la sua affermazione passa attraverso la definizione del banditismo come piaga sociale ed endemica della Sardegna.
Con il Regno d’Italia la Sardegna diviene il luogo in cui chiudere “gli irregolari”, cioè tutti coloro che non accettano le leggi del nuovo Stato o che, ridotti in miseria, cercano fuori dalla legge spazi di sopravvivenza.
Ancora, con la ristrutturazione del sistema penitenziario degli anni ‘70 del Novecento, essa diventa il luogo di detenzione e tortura prima per i detenuti accusati di reati di mafia poi per i prigionieri politici e ribelli. Con l’istituzione delle “carceri speciali”, ben due delle prime cinque strutture individuate a tal fine si trovano sull’isola.

D’altronde l’espandersi e l’evolversi del sistema carcerario sardo è da sempre legato a doppio filo con i momenti chiave della sua colonizzazione da parte dello Stato.
Si pensi alla strenua opposizione contro l’esportazione della proprietà privata da parte dei sabaudi nei primi dell’800, al susseguirsi degli scioperi dei minatori nei primi del Novecento, passando alle lotte contro l’imposizione delle industrie petrolchimiche nel secolo scorso, oppure contro le servitù militari.

L’ultima pagina di questa politica è stata, come già accennato, il Piano Carceri del 2009 che oltre ad aumentare notevolmente la capacità detentiva dell’isola, per la prima volta ha predisposto la costruzione di un carcere appositamente progettato per l’applicazione del 41 bis: Bancali.
In totale ad oggi ci sono 10 strutture detentive di cui 5 carceri speciali; 3 differenti 41 bis sparsi nel territorio e un quarto in costruzione.

Perché abbiamo sentito la necessità di scrivere tutto questo in vista della manifestazione di fine ottobre in solidarietà ad Alfredo e tutti i prigionieri e le prigioniere? Perché pensiamo che oggi più che mai sia necessario inserire la lotta contro il carcere all’interno della nuova cornice politica e sociale nella quale stiamo vivendo. Un mondo dove il controllo è sempre più pervasivo e dove l’isolamento del prigioniero è speculare all’isolamento di ogni individuo. Gli strumenti messi in campo sono molteplici, ma l’obiettivo sembra comune: distruggere la dimensione comunitaria dell’individuo, annichilire ogni possibilità di deviazione rispetto all’ordine costituito.

A chi quell’ordine costituito ha messo in discussione nelle parole e nei fatti va tutta la nostra solidarietà. Con chi lotta con ogni mezzo necessario contro la disumanizzazione dell’individuo saremo al fianco.

Per Anna, Alfredo, Juan e tutte le prigioniere e i prigionieri che lottano saremo in strada il 29 Ottobre e oltre.

Fuori Alfredo dal 41 bis! Chiudere il 41 bis! Liberi tutti, libere tutte!

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Alfredo Cospito, da un mese in sciopero della fame contro il 41bis – Viola Hajagos

Domenica 20 novembre 2022 al Presidio Leonard Peltier di San Didero l’avvocato Flavio Rossi Albertini, legale del militante anarchico Alfredo Cospito, ha partecipato ad un incontro organizzato dal collettivo Caza Feu (lo spazio autogestito da qualche mese attivissimo a Bussoleno) all’interno delle mobilitazioni in solidarietà con Anna Beniamino e Alfredo Cospito, a seguito delle sentenze per il processo Scripta Manent confermate in Cassazione il 6 luglio scorso.

Un processo con un nome che ci riporta alla massima latina così spesso citata dagli insegnanti di liceo, che scherzosamente ricordavano: “Scripta manent, verba volant…” per sottolineare la necessità di comprovare con delle “verifiche” l’apprendimento degli alunni e delle alunne. Peccato che in questa vicenda giudiziaria ci sia poco da scherzare.

Dopo più di sei anni dagli arresti motivati da questo grave teorema accusatorio nei confronti di militanti anarchici e anarchiche, siamo ora in attesa del ricalcolo delle condanne, rispetto alla sentenza già emanata dalla Corte di Cassazione, e la data sarà il 5/12/2022 al tribunale di Torino.

“Siamo qui per questo, in una partita a dadi senza fine tra l’autorità e la sua negazione” leggiamo in uno scritto di Anna Beniamino, imputata nel processo insieme ad altri compagini e compagne per questo giudizio. Una frase che descrive come meglio non si potrebbe la situazione. Il processo Scripta Manent è infatti un processo prima di tutto agli anarchici e alle anarchiche, a priori individuati come pubblici nemici. Gli inciampi, i rimbalzi, le forzature e le storture del sistema giuridico italiano, in questo come simili eventi, sono evidenti.

Non a caso un gruppo che inizialmente contava solo 20 avvocati, diventati in seguito più di 200, si sono pronunciati in un testo che denuncia pubblicamente un’evidente volontà sanzionatoria contro l’appartenenza politica all’anarchismo in Italia, rispetto alle condanne derivanti il processo.

Stiamo parlando di fatti in cui non ci sono né feriti né vittime né danni ingenti, che però ‘giustificano’ per gli imputati Alfredo Cospito e Anna Beniamino, una condanna definitiva per Strage politica, ai sensi dell’articolo 285 del codice penale, reato punito con l’ergastolo ostativo. Circa l’illegalità di questo pronunciamento che equivale in pratica a una condanna a morte, si è recentemente espresso anche Luigi Manconi, sulle pagine de La Repubblica e de Il Riformista.

In Italia non occorre avere una gran memoria per ricordare le Stragi di Stato che inaugurarono la Strategia della Tensione, negli anni delle contestazioni politiche seguite al 1968: piazza Fontana a Milano, Piazza della Loggia a Brescia, la bomba alla Stazione di Bologna, solo per citarne alcune. Come non occorre riandare tanto a ritroso nel tempo, per ricordare la Strage di Capaci o di Via D’Amelio, solo per citare i casi più eclatanti. Ebbene, in nessuna di queste vicende che causarono parecchi morti e feriti, oltre alla devastazione di aree pubbliche, che furono causa di spargimento di sangue e di infiniti strascichi nelle piazze e nelle strade italiane, non c’è mai stata nessuna condanna per il reato di Strage Politica.

Senza incorrere in tecnicismi (un linguaggio peraltro famigliare per chi ha seguito negli anni i diversi processi che hanno coinvolto i movimenti di contestazione in Italia), non possiamo non rilevare la gravità di teoremi accusatori, che inchiodano gli imputati non tanto alla ‘colpa’ circa specifici fatti peraltro rivendicati, ma elevano a ‘colpa’ il solo fatto di appartenere a una determinata area politica, aprioristicamente imputabile in quanto antagonista. Qualunque sia la condotta e il profilo individuale (nel caso di Alfredo Cospito andrebbe sottolineata la produzione di articoli, scritti, la pubblicazione di ben due libri, benché detenuto in carcere), in un reato associativo tutto diventa imputabile per il solo fatto di appartenere a un’area di pensiero criminale, secondo il teorema stesso. Purtroppo sono numerosi i casi che hanno come accusa l’associazione sovversiva finalizzata al terrorismo (270 bis): un ambito legale in cui la custodia preventiva, le intercettazioni, il massiccio uso di dispositivi di controllo intrusivi nella vita di militanti politici e politiche, sono a priori autorizzati data la gravità dell’impianto accusatorio.

Il carosello mediatico negli anni si è accodato ad una riproposizione acritica del punto di vista dell’accusa, senza alcuna messa in discussione o sollevazione di criticità: un copia-incolla finalizzato a rinforzare la demonizzazione degli accusati.  Su questo inquietante aspetto si è soffermato in più occasione l’ex magistrato Livio Pepino, recentemente anche al convegno che si tenuto a Bussoleno il 16/10/2022 sul tema “Associazione a resistere, proteggiamo la protesta”, per commentare le vicende oggetto dei maxi processi che vedono da anni inputati molti attivisti No Tav per non dire del procedimento in corso contro l’intera attività del CSA Askatasuna di Torino. Un intervento, quello di Livo Pepino, che sottolinea una vera e propria “ridefinizione delle tecniche di governo della società di fronte al dissenso, alla protesta, alle lotte sociali”.

A partire da aprile 2022 Alfredo Cospito è stato sottoposto al regime del carcere duro noto come 41 bis: una condanna concepita per i condannati a reati mafiosi refrattari a collaborare con la giustizia e che per la prima volta è stato riservata ad un militante politico. Questo tipo di regime carcerario è identificabile con la tortura, per le condizioni di totale deprivazione, di contatti con l’esterno, per non dire sensoriale, inflitte al condannato.

Per questa ragione, il 20 ottobre scorso, Alfredo ha iniziato uno sciopero della fame e alla data di oggi ha già perso più di 20 chili, con gravi conseguenze sulla sua salute fisica parzialmente mitigate dall’assunzione di integratori alimentari che gli sono stati concessi solo dopo la visita al carcere di Bancali di Mauro Palma, Garante Nazionale per i Diritti delle persone private della libertà personale.

E dal 7/11/2022 è in sciopero della fame anche Anna Beniamino, detenuta al Carcere di Rebibbia a Roma.

Ciò che occorre con urgenza affrontare è la questione delle condanne esemplari attribuite ad Anna e Alfredo che si trovano nelle patrie galere solo per scontare la colpa delle loro idee, e delle azioni connesse con la loro appartenenza politica. In questo tetro scenario, non è mancata la solidarietà anche internazionale e la denuncia di queste vicende che potrebbero sembrare lontane dalla quotidianità, ma non lo sono.

Le voci dissonanti contro le grandi opere, le devastazioni ambientali, il modello ultraliberista, contro la repressione del dissenso politico, aprono scenari di altri mondi non normati dalle logiche di potere che possono superare queste barriere e continuare a circolare anche grazie e attraverso la fermezza dei prigionieri e prigioniere che non si arrendono allo stato di cose presenti.

Solidarietà con Anna, Alfredo, Juan e Ivan in sciopero della fame.

da qui

 

 

Lo stato italiano contro Alfredo Cospito. Lo sciopero della fame dell’anarchico al 41 bis (Napolimonitor)

 

Il 20 ottobre scorso l’anarchico Alfredo Cospito, detenuto nella casa circondariale di Bancali (Sassari) in regime differenziato ex art. 41 bis, ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la disciplina detentiva a cui è sottoposto. Cospito è detenuto da più di dieci anni, accusato e condannato come esecutore e ideatore di diversi attentati – tra cui il ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo NucleareRoberto Adinolfi (Genova, maggio 2012) – e per strage contro la pubblica incolumità, a causa di due ordigni a basso potenziale esplosi nel giugno 2006 alla Scuola allievi carabinieri di Fossano (che non causarono ferimenti o decessi). È inoltre uno dei condannati del processo Scripta Manent, che ha visto pesanti interventi da parte della magistratura contro militanti rei, tra le altre cose, di avere “scritto e diffuso” su diverse testate web della galassia libertaria testi di informazione, critica e riflessione.

La scelta di deportare Cospito a Sassari in regime di 41 bis dalla sezione di Alta Sicurezza di Ferrara, dove era precedentemente detenuto, è motivata dalla volontà di escluderlo da qualsiasi contatto con l’esterno, di vietare ogni possibile diffusione di suoi testi, di proibire visite e corrispondenza senza censura, di ricevere libri e altro materiale. “Il detenuto – scrivono i suoi avvocati – è privato di ogni diritto e in particolare di leggere, studiare, informarsi su ciò che corrisponde alle sue inclinazioni e interessi (un paese liberale tutela tutte le ideologie, anche le più odiose, nonché il diritto allo studio e all’informazione quale strumento necessario sia al trattamento penitenziario in vista della rieducazione del reo […], che allo sviluppo stesso della personalità umana). Non riceve alcuna corrispondenza: quelle in entrata sono tutte trattenute e quelle in uscita soffrono dell’autocensura del detenuto stesso. Le ore d’aria si sono ridotte a due, trascorse in un cubicolo di cemento di pochi metri quadri, il cui perimetro è circondato da alti muri che impediscono la visuale o semplicemente di estendere lo sguardo all’orizzonte, mentre il cielo è oscurato da una rete metallica. Un luogo caratterizzato in estate da temperature torride e in inverno da un microclima umido e insalubre. La mancanza di profondità visiva incide inoltre sulla funzionalità del senso della vista mentre la mancanza di sole sull’assunzione della vitamina D. La socialità è compiuta una sola ora al giorno in una saletta insieme ad altri tre detenuti […] di cui uno è sottoposto a isolamento diurno da due anni e un secondo tende a non uscire più dalla cella”.

Il regime detentivo del 41 bis nasce nel 1986 come strumento di governo interno delle carceri, “in casi eccezionali di rivolte o altre gravi situazioni di emergenza”. Nel 1992 viene ampliato da un secondo comma (decreto Martelli-Scotti poi divenuto legge n. 356/1992) per colpire i condannati per mafia successivamente alla strage di Capaci. Se in entrambi i casi vi è l’obiettivo di annientare la soggettività del detenuto, in poco tempo il 41 bis diventa la forma di vendetta dello Stato contro quelle persone che hanno deciso di non intraprendere una collaborazione con la magistratura. Un’idea – inconciliabile con quella di “rieducazione” della pena – che in questi giorni le aree più in vista della sinistra democratica e del mondo dell’antimafia rivendicano apertamente, plaudendo all’iniziativa del governo che ha approvato un decreto-legge apportante minime modifiche alle legislazioni sull’ergastolo ostativo (il regime detentivo che impedisce alla persona condannata di accedere a misure alternative e altri benefici), ritenuto incompatibile con la Costituzione dalla Corte Costituzionale.

Nel caso di Alfredo Cospito il ricorso al regime di 41 bis è motivato dall’intenzione di interrompere la sua attività politica, di isolarlo dalla propria area di riferimento in un’aperta minaccia dello Stato a un’intera comunità politica, quella anarco-insurrezionalista, che da più di un decennio viene utilizzata come spauracchio nei confronti dell’opinione pubblica. Sono decine i militanti anarchici perseguiti e condannati per danneggiamenti o semplicemente per aver diffuso le proprie idee; condanne pesantissime come quelle che hanno colpito Cospito sono state comminate ad Anna Beniamino (sedici anni, anche lei per i fatti di Fossano), Juan Antonio Sorroche Fernandez (ventotto anni per un attentato alla sede della Lega a Treviso nel 2018, anche quello senza conseguenze letali) e altre decine di anarchici, condannati talvolta anche solo per manifestazioni non preavvisate o imbrattamenti.

Come segnala un appello redatto e sottoscritto da decine di avvocati, la natura delle misure adottate contro gli anarchici appare decisamente spropositata: “Il 6 luglio la Corte di Cassazione ha deciso di riqualificare da ‘strage contro la pubblica incolumità’ a ‘strage contro la sicurezza dello Stato’ (una fattispecie di reato a cui non si era fatto ricorso nemmeno nei casi degli attentati siciliani a Falcone e Borsellino, ndr) il duplice attentato contro la Scuola allievi carabinieri di Fossano (due esplosioni in orario notturno, che non avevano causato nessun ferito) […] attribuito a due imputati anarchici. L’originaria qualificazione di strage prevedeva l’applicazione di una pena non inferiore a quindici anni di reclusione, mentre l’attuale la pena dell’ergastolo. […] Nel mese di aprile Cospito è stato inoltre destinatario di un decreto applicativo del cosiddetto carcere duro, ai sensi dell’art. 41bis comma 2O.P., introdotto per combattere le associazioni mafiose e che presuppone la necessità di impedire collegamenti tra il detenuto e l’associazione criminale all’esterno per fini criminosi: un’altra vicenda singolare, essendo notorio che il movimento anarchico rifugge in radice qualsiasi struttura gerarchica e/o forma organizzata, tanto da far emergere il serio sospetto che con il decreto ministeriale si voglia impedire l’interlocuzione politica di un militante con la sua area di appartenenza, piuttosto che la relazione di un associato con i sodali in libertà”.

Lo sciopero della fame da parte di un detenuto è uno strumento estremo, l’unico a disposizione per reagire al proprio annientamento, una pratica che il mondo dell’informazione tende da sempre a occultare, a differenza delle iniziative mediatiche e propagandistiche come quelle messe in atto negli anni nel nostro paese da soggetti politici come i dirigenti del partito radicale. Una pratica che fa del proprio corpo un’arma, utilizzando l’auto-annientamento come strada per sottrarsi al potere, è una pratica pericolosa. Innumerevoli precedenti storici ne sottolineano la drammaticità, a partire dal destino incontrato dal militante del Sinn Féin irlandese Terence McSwiney, morto in una galera inglese nel 1920; quello di Bobby Sands, deceduto il 5 maggio 1981 dopo sessantasei giorni di sciopero della fame nel blocco H (le sezioni speciali di annientamento) del carcere di Long Kesh; quello dei militanti della Raf tedesca, come Holger Mains, morto il 9 novembre 1974 dopo due mesi di sciopero della fame nel carcere di Wittlich, e dei militanti dell’Eta basca, che hanno utilizzato questo strumento di resistenza negli anni Ottanta e Novanta.

A partire da questo lunedì anche Anna Beniamino ha intrapreso lo sciopero della fame in solidarietà con Alfredo Cospito e con gli altri detenuti anarchici oggetto della vendetta istituzionale. Il garantismo di facciata (una interrogazione parlamentare sul caso Cospito è stata presentata il 3 novembre e non ha ancora ricevuto risposta) espresso dal ministro della giustizia del governo Meloni è già davanti a una totale contraddizione, che rispecchia l’ipocrita dibattito che sta emergendo in questi giorni rispetto alla revisione delle normative su ergastolo ostativo e 41 bis, dei quali invece pochi e isolati attivisti che lottano per i diritti dei detenuti e per il superamento del carcere chiedono l’immediata eliminazione. (…)

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Davide Delogu scrive ad Alfredo Cospito

…Caro compagno generoso e combattivo, la tua volontà è più forte di chi ti rinchiude nel sottosuolo con quel regime terribile, come sai bene ti sono sempre vicino, anche in questa lotta dove sei disposto a perdere la vita per raggiungere il tuo scopo, contro il torturocentrismo incarnato in quel regime vile, che deve cessare di esistere assieme all’ergastolo ostativo. Col tuo gesto combatti ancora una volta il potere con una determinazione che si alimenta sempre di più e la tua tenacia è forza, il tuo cuore ne è colmo, come la tua irriducibile e illimitata libertà anarchica. Io sostengo la tua scelta obbligata di usare il tuo corpo come arma fino all’ultima pallottola e mi auspico che non si arrivi a scaricare tutto il caricatore della tua esistenza. Ma invece, che le pratiche solidali della multiformità internazionale, che è sempre presente per la libertà, possano dare risultati come il pulsare in unico battito che riesca ad ottenere il tuo rilascio da un regime duro di totale privazione e isolamento quale il 41 bis. La mia personale veduta e che sarò sempre al tuo fianco, solidale anche da dietro le sbarre con la riottosità del mio vissuto contro il sistema vessatorio carcerario, che cerca di normalizzarci, e utilizzerò tutta la mia forza necessaria per continuare ad affrontare il mostro del lungo isolamento di cui sono prigioniero e avendoti sempre nei miei pensieri sarò sempre più forte. Il potere sta sperimentando nuovi meccanismi di repressione intimidatoria, aver creato il precedente di seppellire in 41 bis un fratello anarchico è un atto intimidatorio, utilizzare il termine “strage” politica o altro come stanno facendo ultimamente è un intimidazione. Paventare il rischio di essere condannati all’ergastolo per una strage mai avvenuta è l’ennesima intimidazione. Appunto perché l’intenzione è quella di intimorire il movimento anarchico d’azione ribelle, attualmente più forte al mondo come forza rivoluzionaria. A me del loro linguaggio non importa nulla, semmai si ricorderà invece il silenzio e l’assenza di compagni, la dove avvenga, nel momento di esprimere una dimensione solidale. Da quel che riesco a capire da dietro le sbarre si sta sviluppando una solidarietà pratica da tutto il mondo, siamo davanti a un momento storico che coinvolge tutte le individualità della rivolta, insurrezionali, rivoluzionarie, per la lotta di liberazione, per cercare di non far passare questi precedenti della ferocia assassina del 41 bis. Da una mia ricerca personale, tutti i prigionieri sottoposti a 41 bis si sono tutti ammalati, e la maggior parte di tumore e si può capire bene perché. Mi immagino che con il coordinamento necessario nelle iniziative pubbliche ci sia la presenza e la partecipazione di migliaia di solidali, anche da parte di chi magari non poteva essere d’accordo su alcune riflessioni di Alfredo, che fece pubblicare e per cui si trova in 41 bis. Per me è proprio nell’isola sarda, il luogo fisico in cui sta Alfredo che si dovrebbe manifestare ostilità, a quel carcere, direttamente con la rabbia di migliaia di solidali insieme alla coerente forza e l’onore dell’anarchia d’azione. L’universalità di coloro che pensano e parlano della loro vicinanza ad Alfredo, sono diventati modi che si convertono in tantissimi gesti d’azione solidali dell’agire anarchico, umano, di vendetta inesauribile quale desiderio della nostra giustizia…

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Interrogazione parlamentare del senatore Peppe de Cristofaro al Ministro della giustizia (3 novembre 2022)

Premesso che:

da organi di stampa si apprende che Alfredo Cospito, detenuto all’interno della casa circondariale di Bancali, a Sassari, avrebbe intrapreso dallo scorso 20 ottobre lo sciopero della fame per denunciare le condizioni cui si trova costretto dal regime del 41-bis, al quale è sottoposto dall’aprile 2022, nonché per protestare contro l’ergastolo ostativo comminatogli;

nel corso della recente vicenda giudiziaria conclusasi nel luglio scorso, Cospito ha riportato nei primi due gradi di giudizio condanna per strage contro la pubblica incolumità (art. 422 del codice penale) per due ordigni a basso potenziale esplosi presso la scuola allievi Carabinieri di Fossano, senza causare né morti né feriti. Un reato che prevede la pena non inferiore ai 15 anni. Lo scorso luglio, tuttavia, la Cassazione ha riqualificato il fatto in strage contro la sicurezza dello Stato (art. 285 del codice penale), reato che prevede l’ergastolo, anche ostativo, pur in assenza di vittime. Nello specifico, si evidenzia che quella della strage contro la sicurezza dello Stato è una fattispecie che non è stata contestata nemmeno agli autori degli attentati che uccisero i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino;

considerato che fino all’aprile scorso, essendo stato Cospito sottoposto per 10 anni al circuito vigente nelle sezioni di cosiddetta alta sicurezza (AS2), il detenuto poteva comunicare con l’esterno, inviare scritti e articoli e così partecipare al dibattito della sua area politica, contribuire alla realizzazione di due libri, ricevere corrispondenza e beneficiare dell’ordinario regime trattamentale in termini di socialità, colloqui visivi e telefonici, ore di aria, palestra e biblioteca. Da quando è sottoposto al regime del 41-bis e più precisamente a far data dal maggio 2022, le lettere in entrata vengono trattenute e questo, di conseguenza, induce il detenuto a limitare e ad autocensurare le proprie. Le ore d’aria sono ridotte a due, interamente trascorse in un cubicolo di cemento di pochi metri quadrati; la “socialità” è limitata a un’ora al giorno, il detenuto non ha inoltre accesso alla biblioteca di istituto, e fruisce di un unico colloquio mensile e nessuna telefonata;

ritenuto che quanto detto ha gravi conseguenze sul benessere psicofisico del detenuto traducendosi in una vera e propria deprivazione sensoriale, che finisce con l’ottundere e deprimere la sua personalità e se tali condizioni venissero protratte ulteriormente condurrebbero ad un concreto ed irrimediabile danno alla salute;

ritenuto altresì che a parere dell’interrogante nella vicenda si è al cospetto di uno stravolgimento del senso del regime di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, posto che non è coerente con la ratio della norma l’estensione del regime differenziato ad un anarchico individualista. Nel dettaglio, infatti, il regime nasce per impedire i collegamenti tra il detenuto e l’associazione criminale di appartenenza, mentre nel caso specifico si sarebbe inteso perseguire la finalità di interrompere e impedire a Cospito di continuare a esternare il proprio pensiero politico, attività, tra l’altro, da lui svolta pubblicamente, pertanto, né occulta né segreta, destinata non agli associati, bensì ai soggetti gravitanti nella sua area politica di appartenenza;

valutato che a giudizio dell’interrogante l’aver inteso il rapporto epistolare di Cospito con l’area anarchica quale comunicazione tra sodali irradia di luce fosca l’essenza argomentativa del provvedimento ministeriale, il quale sottintende una valutazione di appartenenza di tutti gli anarchici, indistintamente considerati, al sodalizio per cui è stato condannato lo stesso Cospito. Tutto ciò in mancanza di alcuna evidenza giudiziaria, posto che mai, in nessuna inchiesta, si è proposto un simile teorema, e ciò perché rappresenterebbe uno sfregio all’assetto giuridico costituzionale liberale che tutela qualsiasi ideologia, anche la più odiosa, come più volte ricordato dalla Corte suprema di cassazione;

ritenuto ancora che la magistratura di sorveglianza non ha ancora fissato e conseguentemente celebrato l’udienza camerale stabilita dall’art. 41-bis, comma 2-sexies, dell’ordinamento penitenziario a seguito del reclamo proposto dal difensore, nonostante la disposizione normativa preveda il termine di 10 giorni per deliberare sul decreto applicativo del Ministro. Cosicché nonostante il detenuto si trovi sottoposto da 6 mesi al peculiare e afflittivo regime detentivo ed abbia intrapreso lo sciopero della fame, l’autorità giudiziaria non si è ancora espressa in merito al provvedimento adottato dall’Esecutivo,

si chiede di sapere:

se il Ministro in indirizzo non ritenga doveroso riesaminare le motivazioni poste a fondamento del decreto adottato dal suo predecessore ed eventualmente intraprendere le misure necessarie atte a ripristinare la coerenza tra regime differenziato e ratio della norma;

se non reputi di dover disporre dei propri poteri ispettivi previsti dalla legge, al fine di comprendere le ragioni del ritardo nella fissazione dell’udienza per decidere il reclamo;

se sia a conoscenza delle motivazioni giuridiche che hanno indotto la Corte di cassazione ad adottare la qualificazione giuridica dell’art. 285 del codice penale per un fatto certamente grave, ma non equiparabile ad altre vicende storico-giudiziarie avvenute in Italia qualificate ai sensi dell’art. 422 del codice penale, anche in considerazione del fatto che attribuire all’episodio criminoso citato l’idoneità di attentare alla sicurezza dello Stato presuppone, ad avviso dell’interrogante, un giudizio tendenzioso in ordine alla fragilità delle istituzioni democratiche del Paese.

da qui

Qui un’intervista ad Alfredo Cospito, nel 2014

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

15 commenti

  • La legge non è uguale per tutti. Contro gli anarchici è vendetta di Stato

    https://www.osservatoriorepressione.info/la-legge-non-uguale-tutti-gli-anarchici-vendetta/

  • Lettera aperta al corpo accademico della Sapienza sul 41-bis
    martedì 29 novembre 2022
    Riceviamo e pubblichiamo volentieri questa lettera aperta rivolta al corpo accademico della Sapienza da parte della componente studentesca sul regime di detenzione del 41-bis.

    Dall3 student3 dell’Università “Sapienza” al corpo accademico:
    vogliamo dare voce ad una questione di cui sembra non si possa né domandare né parlare e che ci preoccupa. Per farlo ci appelliamo al corpo accademico perché crediamo che specialmente nei momenti più bui, in quei chiaroscuri dove nascono mostri, l’Università non possa rimanere passiva davanti all’incedere degli eventi, ma piuttosto debba prestarsi ad essere luogo della critica, il motore dello spirito dei nostri tempi.
    La “Sapienza” non è uno spazio neutro, non deve esserlo, e lo ha dimostrato la mobilitazione delle ultime settimane da parte del corpo studentesco.
    Una comunità che si è riscoperta tale per la prima volta da anni.
    Una comunità che ha invaso a migliaia il cortile di Scienze Politiche e che ha invocato a gran voce un’altra Università.
    Una comunità che si è interrogata circa il suo ruolo all’interno della società e che con questa lettera aperta tenta di rispondere al suo quesito.

    Il motivo per cui ci appelliamo a voi è il seguente: lo scorso 20 ottobre Alfredo Cospito, detenuto nel carcere di Sassari, ha incominciato uno sciopero della fame contro il regime di detenzione del 41-bis (al quale lui stesso è sottoposto) e contro l’ergastolo ostativo. Oltre ad Alfredo Cospito sono in sciopero della fame anche Anna Beniamino (detenuta in regime di alta sicurezza a Rebibbia) Juan Sorroche Fernandez (detenuto in regime di alta sicurezza nel penitenziario di Vocabolo Sabbione) e Ivan Alocco (detenuto nel carcere di Villepinte).

    Il 41-bis, nato come misura emergenziale nel ’92, per poi subentrare a pieno titolo nel nostro ordinamento per mezzo della legge n.279/2002, è diventato negli anni un mezzo indiscutibile di lotta alle organizzazioni criminali.
    Ed è questa dogmaticità che ci terrorizza, questa ineluttabilità che ha permesso allo Stato italiano di tenere su, negli ultimi trent’anni, un modello speciale di carcere, detto per l’appunto “duro”, mirato a “far crollare” il detenuto, puntando alla “redenzione” di questo, ovvero alla collaborazione con la giustizia, principale “criterio di accertamento della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata” (cfr. sent. Corte Cost., n. 273/2001).

    Il 41-bis non è solo uno strumento preventivo, ma “vista la rigidità del suo contenuto è evidente che assuma anche un significato repressivo-punitivo ulteriore rispetto allo status di privazione della libertà” (cfr. XVIII report sulle condizioni di detenzione dell’Associazione Antigone).

    È difficile riuscire, da fuori, ad immergersi nella dimensione carceraria;
    per questo vorremmo riportare alcuni versi del poeta Sante Notarnicola, che ben riescono a veicolarci il senso di profondo isolamento e alienazione che lə detenutə vive sulla sua pelle:
    «Il guardiano più giovane
    ha preso posto
    davanti alla mia cella.
    “Dietro quel muro” – mi ha

    indicato – “il mare è azzurrissimo”. Per farmi morire un poco
    il guardiano più giovane
    mi ha detto questo»

    Il detenuto in 41bis passa la maggior parte della sua giornata all’interno di un cubicolo di cemento. Questo è lungo 1,53 metri e profondo 2 e mezzo.
    L’ordinamento penitenziario concede solo 2 ore di socialità al giorno, da svolgere in gruppi di massimo 4 persone. Le ore d’aria si svolgono in un riquadro troppo alto per permettere di dare orizzontalità allo sguardo e la visuale del cielo è comunque delimitata da una rete: tutti i giorni, per anni, gli occhi non guardano null’altro che il cemento, lo sguardo non va mai in profondità, la fantasia e la memoria vengono logorate.

    La legge stabilisce, poi, che l3 detenut3 al 41-bis possano effettuare un colloquio al mese dietro ad un vetro divisorio (tranne che per i minori di 12 anni) della durata di un’ora (sei – fin troppo pochi –, invece, sono i colloqui mensili concessi ai detenuti “comuni”, senza barriere divisorie) e videosorvegliati da un agente di polizia penitenziaria.

    La riflessione che ci siamo post3 e che stiamo ponendo ora a voi è la seguente:
    nel momento in cui nella società in cui ci muoviamo ci viene proposta la narrazione per la quale il carcere esiste in quanto sistema rieducativo e di reintegrazione sociale, a dimostrare il fatto che questo non è il vero obiettivo dell’istituzione carceraria ritroviamo la presenza (tanto difesa e considerata necessaria) di un modello di reclusione come quello del 41-bis.
    Può mai essere inflitta ad un essere vivente una sorte tanto brutale, tesa a un’incivile retribuzione del dolore?
    La nostra riposta è quanto mai ferma e risoluta: no!

    Le istituzioni democratiche devono essere in grado di affrontare le situazioni di crisi con strumenti idonei e coerenti con quei principi, costituzionali e convenzionali, che hanno nel tempo abbracciato. Il nostro stesso ateneo si è sempre, e soprattutto recentemente, dichiarato forte sostenitore della nostra carta costituzionale che, ricordiamo, esplicita la “pari dignità sociale” di tutte le soggettività che attraversano il territorio italiano.

    La risposta non può mai essere ottenuta al ribasso, adottando misure autoritarie, repressive e lesive della dignità umana, ma deve essere sempre il frutto di una – faticosa, certo! – ricerca di alternativa.

    Chiediamo al corpo accademico di firmare questo comunicato affinché il Rettorato si spenda contro un’ingiustizia che si consuma all’interno dei confini del nostro Paese e l’affronti con la stessa fermezza con la quale in momenti precedenti ha affrontato altre situazioni (e ci riferiamo al caso Regeni e alla risoluzione pacifica del conflitto in Ucraina): prendendo posizione pubblicamente ed esponendo degli striscioni contro il 41-bis (prima del mese di dicembre durante il quale si esprimeranno la Corte

    Costituzionale sull’ergastolo ostativo e il Tribunale di Sorveglianza sulla misura inflitta ad Alfredo Cospito).

    ABOLIAMO IL 41-BIS E L’ERGASTOLO OSTATIVO!

    Firme:

    Massimo Cacciari

    Donatella Di Cesare

    Luca Alteri

    Elena Gagliasso

    Giorgio Mariani

    Valerio Cordiner

    Tessa Canella

    Rita Cosma

    Roma Università La Sapienza 24.11.2022

  • disegna Zerocalcare, sul 41 bis:

    https://www.essenziale.it/notizie/zerocalcare/2022/12/05/zerocalcare-la-voragine

    DICHIARAZIONE DI ALFREDO COSPITO

    Leggo soltanto quattro righe. Prima di scomparire definitivamente nell’oblio del regime del 41 bis lasciatemi dire poche cose e poi tacerò per sempre. La magistratura della repubblica italiana ha deciso che, troppo sovversivo, non potevo più avere la possibilità di rivedere le stelle, la libertà. Seppellito definitivamente con l’ergastolo ostativo, che non ho dubbi mi darete, con l’assurda accusa di aver commesso una “strage politica”, per due attentati dimostrativi in piena notte, in luoghi deserti, che non dovevano e non potevano ferire o uccidere nessuno e che di fatto non hanno ferito e ucciso nessuno. Non soddisfatti, oltre all’ergastolo ostativo, visto che dalla galera continuavo a scrivere e collaborare alla stampa anarchica, si è deciso di tapparmi la bocca per sempre con la mordacchia medievale del 41 bis, condannandomi ad un limbo senza fine in attesa della morte. Io non ci sto e non mi arrendo, e continuerò il mio sciopero della fame per l’abolizione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo fino all’ultimo mio respiro, per far conoscere al mondo questi due abomini repressivi di questo paese. Siamo in 750 in questo regime ed anche per questo mi batto. Al mio fianco i miei fratelli e sorelle anarchici e rivoluzionari. Alla censura e alle cortine fumogene dei media sono abituato, queste ultime hanno l’unico obiettivo di mostrificare qualunque oppositore radicale e rivoluzionario.

    Abolizione del regime del 41 bis.
    Abolizione dell’ergastolo ostativo.
    Solidarietà a tutti i prigionieri anarchici, comunisti e rivoluzionari nel mondo.
    Sempre per l’anarchia.
    Alfredo Cospito

    DICHIARAZIONE DI ANNA BENIAMINO

    Questo è un processo politico, che si è mostrato teso fin dall’inizio alla somministrazione della pena esemplare, processo alle nostre identità di anarchici più che ai fatti, processo a chi non abiura le proprie idee.
    Una strage senza strage attribuita senza prove è il culmine di un crescente impegno di Antiterrorismo e Procure per esorcizzare lo spettro dell’anarchismo d’azione. Nello stesso disegno si colloca l’imposizione del regime 41 bis ad Alfredo Cospito, reo di intrattenere rapporti con il movimento anarchico dal carcere. Lo sciopero della fame ad oltranza che il compagno sta portando avanti dal 20 ottobre è l’extrema ratio contro isolamento e deprivazione sensoriale, fisica, psichica, contro un bavaglio politico. Bavaglio che gli ha impedito finanche di leggere le motivazioni dello sciopero stesso. Il 41 bis è il grado estremo di accanimento dei regimi differenziati: carceri dove l’isolamento continuato e il sovraffollamento delle sezioni comuni sono le due facce di un sistema teso ad annullare l’individuo. Carceri dove le stragi, quelle vere, si sono verificate e si verificano: nella repressione delle rivolte del 2020, nello stillicidio di suicidi, nel trattamento dei più poveri e fragili tra i prigionieri come “materiale residuale” della società tecno-capitalistica imperante. Se qualcosa accadrà ad Alfredo Cospito qualsiasi individuo dotato di pensiero critico capirà chi siano i mandanti ed esecutori del suo annientamento fisico, non essendo riusciti ad effettuare quello politico e ideale. Sono cosciente di essere ostaggio di un sistema che nasconde dietro al feticcio di “sicurezza” e “terrorismo” il suo collasso politico, economico, sociale, ambientale.

    Opporsi a questo è necessario.
    Potete distruggere la vita delle persone, non riuscirete a spegnere il pensiero e le pratiche antiautoritarie.
    Non riuscirete a spezzare la tensione rivoluzionaria, non riuscirete a spegnere l’anarchia.
    Saluto Alfredo e tutti i compagni.
    Anna Beniamino

  • La vicenda di Alfredo Cospito. Quando la giustizia è smisurata e si compiace di esserlo – Adriano Sofri

    https://www.osservatoriorepressione.info/la-vicenda-alfredo-cospito-la-giustizia-smisurata-si-compiace-esserlo/

    Alfredo Cospito resta in regime di 41bis. Rigettato il ricorso

    https://www.osservatoriorepressione.info/alfredo-cospito-resta-regime-41bis-rigettato-ricorso/

    Il tempo di Cospito e quello della giustizia
    Osservatorio
    dicembre 23, 2022 in Editoriale Edit
    Alfredo Cospito ha iniziato lo sciopero della fame più di 60 giorni fa e il suo corpo, ora molto più vulnerabile, ha perso circa 30 kg.

    Lunedì scorso il Tribunale di sorveglianza di Roma ha rigettato il ricorso presentato dai legali di Cospito contro l’applicazione, nei suoi confronti, del regime carcerario speciale del 41 bis.

    Secondo i giudici, Cospito sarebbe tuttora parte attiva di “un organismo, unitario, strutturato, sovrastante rispetto alle persone e ai gruppi che ne fanno parte”; e “la partecipazione del singolo all’associazione si estende ben oltre il solo momento dell’azione”.

    L’applicazione del regime speciale sarebbe finalizzata, pertanto, a interrompere il vincolo associativo con il detenuto. Infatti, “il regime ordinario, anche in Alta Sicurezza, non consente di contrastare adeguatamente l’elevato rischio di comportamenti orientati all’esercizio, da parte del Cospito, del suo ruolo apicale nell’ambito dell’associazione di appartenenza”.

    Di conseguenza, l’interpretazione della natura e della struttura della FAI (Federazione Anarchica Informale), l’associazione oggetto dell’attenzione da parte dei giudici, è la stessa che viene utilizzata nei riguardi della criminalità organizzata: gruppo chiuso, verticistico, leadership in grado di comunicare e indirizzare le attività anche dal carcere.

    Il regime di 41 bis, del resto, venne inserito all’interno del nostro ordinamento penitenziario proprio negli anni in cui le stragi di mafia imperversavano e lo Stato correva ai ripari.

    La misura, ricordiamolo, nasce per impedire i collegamenti tra l’associazione criminale di appartenenza e il detenuto, ma in genere la sua applicazione comporta limitazioni, divieti e interdizioni che vanno ben oltre quella finalità, realizzando una carcerazione particolarmente afflittiva.

    Ma questo tipo di reclusione è imposta dal tipo di organizzazione criminale che si intende contrastare, in questo caso la FAI, e della quale si vogliono interrompere i rapporti con il detenuto? Va ricordato che tutte le sentenze finora hanno escluso la sussistenza di un modello di organizzazione verticistico e centralizzato, coordinato e gerarchico.

    I giudici del Tribunale di sorveglianza di Roma affermano il contrario: non solo, attribuiscono a Cospito un ruolo di comando tale da farne la “figura apicale” dell’associazione criminale.

    Per contro, sostengono i legali dell’anarchico, le sue comunicazioni all’esterno sarebbero state rivolte a esprimere il proprio pensiero politico e a contribuire a una elaborazione politica collettiva, non a trasmettere ordini e disposizioni agli “associati”.

    Cospito scriveva, rilasciava interviste, comunicava con l’esterno utilizzando canali legali, compresi quelli consentiti dal regime di Alta Sicurezza cui è stato a lungo sottoposto.

    Poi, lo scorso 5 dicembre, la Corte d’Assise di Torino, chiamata a pronunciarsi sulla rideterminazione della pena, ha accolto alcune eccezioni della difesa, inviando gli atti alla Corte costituzionale, in particolare a proposito del rapporto di proporzionalità tra entità del danno ed entità della pena.

    L’avvocato Flavio Rossi Albertini ha riferito Cospito è lucido, determinato, consapevole delle conseguenze della sua scelta, ma non intende arretrare. Ora, dopo l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma, resta solo il ricorso in Cassazione. Mai, come in questa vicenda, i tempi della giustizia rischiano di non coincidere con quelli di un corpo che deperisce per affermare il proprio diritto alla dignità.

    Luigi Manconi

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    Tra vendetta e piste logore. Riflessioni sul caso Cospito

    di Vincenzo Scalia – Università di Firenze

    La vicenda di Alfredo Cospito, militante anarcoinsurrezionalista condannato all’ergastolo ostativo, e da oltre due mesi in sciopero della fame per protestare contro una sentenza ingiusta e spropositata, esemplifica sia l’ipertrofia giudiziaria sia i rapporti di forza che si vanno strutturando nel nostro Paese a livello politico.

    Nel 2014 Cospito viene riconosciuto colpevole di avere ferito il dirigente di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, e condannato a 10 anni e otto mesi di carcere. A questa condanna, nei mesi scorsi, se ne sono aggiunte altre due. La prima è quella di essere a capo di un’organizzazione terroristica, che gli ha fruttato altri 20 anni di reclusione. La seconda, quella di avere attentato alla personalità interna dello Stato, in seguito allo scoppio di due bombe carta davanti a una caserma dei Carabinieri, ha portato la Cassazione ad elevare la pena fino all’afflizione dell’ergastolo ostativo, con tanto di reclusione al 41 bis.

    Le decisioni prese ai danni del militante anarcoinsurrezionalista sembrano connotarsi per il loro carattere afflittivo e vessatorio, e forniscono lo spunto per una serie di riflessioni. Innanzitutto, appare arbitraria la qualifica di “capo di organizzazione criminale”. La questione del vincolo associativo rappresenta una delle questioni più controverse all’interno della sfera penale. Quante persone sono necessarie affinché ci si possa trovare in presenza di un’organizzazione? Come va quantificata e qualificata la questione temporale? Nel passato, per esempio nel caso delle Brigate Rosse, che rivendicavano la loro natura di organizzazione rivoluzionaria, la questione era stata relativamente semplice, anche se la distinzione tra “regolari”, “irregolari”, fiancheggiatori e simpatizzanti qualche problema lo poneva. Non a caso, ne seguirono condanne irrogate con criteri non sempre lineari ed equi, che provocarono più di una perplessità, anche in relazione all’utilizzo della legislazione premiale.

    Soprattutto, bisogna contestualizzare il periodo storico. Le organizzazioni politiche clandestine come l’IRA, le BR, ETA, la guerriglia palestinese, sorsero e si svilupparono in un contesto politico a forte predominanza dello Stato-Nazione, all’interno di un’economia fordista, improntata alla produzione di massa. Di conseguenza, il loro modello organizzativo non poteva non ricalcare la struttura verticistica e capillare delle aziende e la burocrazia degli Stati. La globalizzazione, la caduta del Muro, la diffusione degli strumenti informatici, ha reso ormai obsoleti questi modelli organizzativi. Non a caso, il giornalista britannico Jason Burke (2003), nello spiegare il modus operandi e l’ideologia di Al Qaeda, iniziasse il suo libro con la frase “Al Qaeda non esiste”. Questa affermazione, tranchant e provocatoria allo stesso tempo, serviva a spiegare come ci trovassimo di fronte a una galassia di gruppi pulviscolari, se non individuali, privi di una direzione sinottica, animati dalla comune matrice ideologica, che usavano il nome Al Qaeda come un vero e proprio brand, alla stregua delle firme più all’avanguardia della moda.

    Mark Hamm (2006), analizzando gli attentatori islamici e suprematisti bianchi attivi negli USA sin dagli anni Novanta, evidenzia come ci si trovi di fronte a un processo di privatizzazione del terrorismo, con gli attentatori che vengono indottrinati e addestrati (o si auto-indottrinano e addestrano) sul web e compiono crimini ordinari, come furti e rapine, per procacciarsi le armi e i fondi necessari. Altri autori (Ruggiero, 2019), parlano di network terroristi, più che di organizzazioni, suffragando le loro ipotesi da analisi accurate della realtà. Gli attentati di Parigi del 2015, di Dhaka e Berlino del 2016, di Londra del 2017, mostrano l’obsolescenza del modello organizzativo prefigurato dai giudici torinesi e dalla Cassazione, ai quali non chiediamo di confrontarsi con la letteratura criminologica, ma, quantomeno, di andare a guardare le inchieste condotte dai loro colleghi di altri paesi per aggiornarsi sui fenomeni di violenza politica. Infine, considerato che si tratta di anarchici, quindi di gruppi politici fisiologicamente refrattari a modelli organizzativi particolarmente sofisticati, la tesi dell’organizzazione criminale si dimostra ancora più caduca. Fa specie constatare che, a 53 anni dalla tragedia di piazza Fontana e della morte di Pino Pinelli, le piste anarchiche continuano ad affascinare polizia e magistratura italiana.

    Eppure, e questo è il secondo punto che vorremmo sollevare, la magistratura italiana si mostra ancora oggi incagliata tra le sabbie del cospirazionismo. In parte sarà la sub-cultura cattolica, che porta a rappresentare il male come il prodotto di una mente criminale che irradia dall’alto in basso tutti quelli che ricadono nel suo raggio d’azione, fino a contaminare un’opinione pubblica indefessamente alla ricerca, dopo 45 anni, del Grande Vecchio responsabile di tutte le azioni terroristiche degli anni Settanta. Malgrado le confutazioni del Teorema Calogero, la magistratura italiana non ha imparato appieno la lezione, fino a prefigurarsi l’esistenza di una pericolosa organizzazione anarchica con un capo da spedire al 41 bis malgrado l’inesistenza di prove a suo carico. Un bersaglio troppo facile da individuare, in quanto già condannato e autore di un altro attentato, che pure non ha danneggiato niente e nessuno.

    La ragione principale, a nostro giudizio, va rintracciata anche in un altro aspetto della storia italiana contemporanea. Sin dal 1992, la magistratura italiana è assurta a vero e proprio regolatore dei rapporti sociali, fino a sviluppare delle proiezioni a livello politico. I 5 Stelle, ma anche settori dell’attuale maggioranza, hanno fatto propri lo zelo repressivo per acquisire crediti elettorali e politici. Alla lunga, ne è scaturito un eccessivo scollamento tra magistrati e paese reale, coi primi che, dall’alto delle loro prerogative, forti del consenso mediatico, in nome di una legalità sempre più arbitraria, si sentono in diritto di intervenire pesantemente su settori nevralgici della vita democratica come la libertà di riunione, di associazione e i diritti e le garanzie del sistema penale.

    Infine, ci preoccupa l’applicazione ai danni di Cospito di reati risalenti al periodo fascista, come quella dell’attentato alla personalità interna dello Stato, un’imputazione che, per esempio, non venne mai utilizzata contro i neofascisti imputati nelle stragi di Stato. A parte il fatto che le conseguenze dell’attentato non hanno procurato danni o vittime, attribuire, nel 2022, una personalità interna a un apparato sempre più scollato e frammentato, non all’altezza di interpretare una società sempre più plurale e complessa, suona come un elemento sempre più distonico nel contesto contemporaneo. A meno che alcuni magistrati, al fine di stabilire una relazione positiva con la neonata maggioranza di governo, non tentino di anticiparne o di assecondarne le tendenze e le aspettative in materia di dissenso politico. In tal caso, vorremmo ricordare loro il Leonardo Sciascia de Il Cavaliere e La Morte, quando evidenziava come gruppi o organizzazioni presuntamente terroristiche diventano tali quando lo Stato attribuisce loro questa definizione. Sperando che sia un monito utile.

    REFERENZE

    Burke, J. (2003), Al Qaeda. La vera storia, Feltrinelli, Milano

    Hamm, M. (2014), Terrorism as Crime, New York University Press, New York.

    Ruggiero, V. (2019), Organized Crime and Terrorist Networks, Routledge.

    da

    da Studi questione criminale

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    Questo Stato: invettiva per Alfredo Cospito

    di Vincenzo Morvillo

    Questo Stato.

    Questo Stato che rilascia attestati di democrazia e documenti d’identità libertaria di fronte a presunte violazioni dei diritti umani in ogni angolo del creato.

    Questo Stato che s’indigna per gli arresti politici in Cina, in Russia, a Cuba, in Venezuela, in Iran.

    Questo Stato che incide sulla dura pietra della Legge Morale norme di comportamento incontrovertibili per la difesa dei diritti civili.

    Questo Stato e questa Società che si commuovono per Navalny, per la Tymošenko, per la San Suu Kyi e per centinaia di altri dissidenti sotto il cielo cupo delle cosiddette autocrazie.

    Questo Stato e questa Società che piangono, stracciandosi le vesti, per l’Ucraina invasa da Putin, come prefiche ai funerali della libertà e della democrazia.

    Questo Stato e questa Società, schiumanti furia anticomunista, sventolando il vessillo liberale del secolo dei lumi e della razionalità kantiana.

    Questo Stato e questa Società murano vivo Alfredo Cospito.

    Condannato alla tortura perpetua dell’isolamento carcerario.

    Alla crudeltà monastica dell’incessante presenza a se stesso.

    Alla malattia della contemplazione claustrale dell’Io senza l’Altro.

    Senza parola. Senza gesto. Senza scrittura. Senza carne nella pesantezza insostenibile del corpo.

    Questo Stato e questa Società sono il simbolo più indecente della merdosa ipocrisia borghese e padronale.

    Bianca e Cristiana.

    Sono la trasfigurazione terrena di un dio arcaico, sadico e feroce. Un dio etrusco antropofago e totemico.

    Questo Stato è il Padre kafkiano che riscrive la legge a suo piacimento.

    Questa Società e questo Stato sono la faccia del conte Ugolino che solleva la bocca grondante sangue dal fiero pasto.

    Sono il volto orrendo del macellaio che si nasconde vigliaccamente dietro un velo di Maya dall’iniquo candore.

    Questo Stato è l’icona feroce di una teologia democratica, nel nome della quale i suoi sacerdoti, in giacca e camicia bianca, godono del potere di vita e di morte.

    Questa Società indifferente, cinica, egoista, sorda, si crogiola nella propria apatia. E nel proprio vomito che puzza di odio.

    Questo Stato ha processato e condannato a morte Alfredo Cospito.

    Noi processiamo e condanniamo all’estinzione questo Stato.

    Libertà per Alfredo!

    da Contropiano

    Sciopero della fame ad oltranza di Alfredo Cospito contro il 41 bis
    Osservatorio
    dicembre 23, 2022 in carcere Edit
    Il prigioniero anarchico Alfredo Cospito resta sottoposto all’art 41 bis e ha quindi ha nuovamente ribadito la propria intenzione di proseguire lo sciopero della fame ad oltranza contro la sua detenzione particolarmente dura ed afflittiva e per mettere in discussione l’esistenza stessa di questa condizione carceraria.

    Radio onda d’urto sta seguendo con attenzione e profondo coinvolgimento l’estrema azione di lotta di Alfredo e la mobilitazione in suo sostegno, dell’area anarchica e non solo.

    In queste due trasmissioni speciali abbiamo raccolto le valutazioni di chi conosce il sistema carcerario per averlo subìto, frequentato o perchè è stato oggetto di studio e di analisi.

    Nella prima trasmissione si possono ascoltare le opinioni: del prof Luca Masera, docente di Diritto penale all’Università degli studi di Brescia; di Ornella Favaro, direttrice di Ristretti orizzonti, giornale dei detenuti del carcere di Padova e dell’istituto penale femminile della Giudecca; di Giovanni Russo Spena, giurista, ex parlamentare, della direzione nazionale di Rifondazione comunista Ascolta o scarica

    Nella seconda trsmissione: l’avvocato Flavio Rossi Albertini, difensore di Alfredo Cospito; Paolo Persichetti giornalista ex esiliato e prigioniero politico delle organizzazioni comuniste combattenti; dott Ignazio Patrone, ex magistrato che è stato assistente alla Corte Costituzionale ed ora fa parte del comitato scientifico di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale Ascolta o scarica
    Di seguito i singoli contributi:

    Prof Luca Masera Ascolta o scarica

    Giovanni Russo Spena Ascolta o scarica

    Ornella Favaro Ascolta o scarica

    Avv Flavio Rossi Albertini Ascolta o scarica
    Ignazio Patrone Ascolta o scarica
    Paolo Persichetti Ascolta o scarica

    Radio Cane ha contattato una vecchia conoscenza fatta ai tempi della campagna “Pagine contro la tortura”. Ne è venuta fuori una breve chiacchierata in cui Giuliano Capecchi evoca per noi alcuni ricordi della sua personale esperienza a fianco dei detenuti in 41 bis. Ascolta o Scarica

    da https://www.osservatoriorepressione.info/sciopero-della-fame-ad-oltranza-alfredo-cospito-41-bis/

    “Cospito non si è dissociato” Per Tribunale di Sorveglianza di Roma il 41 bis è giusto
    Osservatorio
    dicembre 20, 2022 in 41bis, carcere Edit
    “A fronte di un profilo elevatissimo di pericolosità sociale non risulta alcun segno di ravvedimento o di dissociazione del detenuto il quale anzi dimostra di non aver effettuato alcun percorso di revisione critica”. Questo scrivono i giudici del Tribunale di Sorveglianza di Roma per motivare il rigetto della richiesta dei legali di Alfredo Cospito di revocare l’applicazione del carcere duro prevista dall’articolo 41 bis del regolamento penitenziario.

    Lo status derivante dalla condizione di detenuto ordinario anche in alta sicurezza secondo i giudici non consentirebbe di contrastare adeguatamente l’elevato rischio di comportamenti orientati all’esercizio del suo ruolo apicale nell’ambito dell’associazione di appartenenza la Federazione Anarchica Informale.

    A carico di Cospito c’è anche la “proposta di un nuovo manifesto anarchico”.

    Il linguaggio e i toni usati dai giudici farebbero pensare a un periodo di morti ammazzati per le strade tutti i giorni che non risulta essere assolutamente quello che stiamo vivendo.

    “Nonostante tutto Alfredo Cospito dimostra forza tenacia e determinazione” dice l’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini che ieri lo ha incontrato nel carcere di Sassari Bancali dove il detenuto è in sciopero della fame da oltre due mesi. “E continuerà a digiunare, è determinatissimo in questo” aggiunge l’avvocato che sta già preparando il ricorso in Cassazione contro la decisione del Tribunale.

    Secondo Rossi Albertini le condizioni di salute del suo assistito sono già al limite, “ma – ripeto – Cospito non ha intenzione di recedere”. Insomma mette seriamente a rischio la propria vita per difendere i suoi diritti e quelli di altri detenuti sottoposti alla tortura del 41bis.

    Frank Cimini

    Radio Onda Rossa ne parla con l’avvocato Flavio Rossi Albertini legale di Alfredo Cospito Ascolta o Scarica

    da https://www.osservatoriorepressione.info/cospito-non-si-dissociato-tribunale-sorveglianza-roma-41-bis-giusto/

    Pena esemplare ed annientamento: la vicenda di Alfredo Cospito paradigma della “vendetta di Stato”
    Osservatorio
    dicembre 19, 2022 in 41bis, carcere, interviste Edit
    Intervista a Gianluca Vitale, avvocato di Anna Beniamino, sulla vicenda Alfredo Cospito

    a cura di Rossella Puca per GlobalProject
    Alfredo Cospito è approdato a due mesi di sciopero della fame. Come sappiamo è stato sottoposto al regime del 41 bis che sconta in isolamento, nel carcere di Bancali a Sassari. Il primo dicembre il suo caso è arrivato dinanzi al Riesame di Roma che è incaricato nel decidere se tale provvedimento detentivo potrà mantenersi per i prossimi 4 anni. Abbiamo approfondito la questione con Gianluca Vitale, l’avvocato che segue la difesa di Anna Beniamino, detenuta nel carcere di Rebibbia e condannata assieme a Cospito per i due ordigni esplosi nella scuola allievi carabinieri di Fossano a Torino che non hanno provocato danni a nessuna persona.

    1. La vicenda di Alfredo Cospito è approdata fortunatamente ad un livello di conoscenza generale, investendo gli attori politici attuali, in una fase politica, questa, che si è inaugurata proprio con un decreto legge, di fine ottobre scorso, che rafforza – piuttosto che depotenziarlo – l’ergastolo ostativo. Ci sono spiragli per un superamento? Siamo pronti ad una vera e propria pena costituzionalmente orientata?

    Credo valga la pena ricordare quali siano le premesse della vicenda: Alfredo Cospito e Anna Beniamino sono stati condannati per il reato di strage cosiddetta politica, perché avrebbero collocato davanti alla Scuola Allievi Carabinieri di Fossano due ordigni artigianali, esplosi in orario notturno senza fare vittime né feriti, che hanno causato danni materiali non particolarmente significativi (non hanno interessato in alcun modo la stabilità e funzionalità dell’edificio), a seguito di un processo altamente indiziario.

    Questa vicenda ha (per una volta) suscitato interesse non solamente in ristretti giri di “addetti ai lavori” o di militanti, per raggiungere il cosiddetto “grande pubblico”, determinando prese di posizione anche da ambienti e personaggi non sospettabili di simpatie per gli ambienti anarchici e tanto meno per i due condannati. Questo, credo, evidenzia ciò che molti hanno percepito: la sostanziale ingiustizia di “questa” condanna per “questo” reato, al di là delle opinioni politiche e soprattutto al di là delle valutazioni o considerazioni tecnico giuridiche che possono e devono essere effettuate in merito alla condanna decisa dalla Corte di Cassazione. Una condanna ed una qualificazione giuridica del fatto, è utile ricordare, che arriva all’ultimo grado di giudizio: in precedenza il reato era stato qualificato dalla Corte di Assise e dalla Corte di Assise di Appello come strage comune, reato sempre gravissimo che però prevede pene significativamente inferiori (pur nella loro asprezza: pena della reclusione non inferiore a 15 anni per la strage “comune”, pena “fissa” dell’ergastolo per la strage “politica”).

    Solo la Corte di Cassazione ha per la prima volta accolto la richiesta dell’accusa di ritenere quel fatto una strage politica (e cioè di essere stata posta in essere allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato e di essere concretamente idonea a metterla in pericolo). Questo ha, secondo noi, privato gli imputati del diritto di mettere in discussione la sentenza di condanna e la qualificazione che di quel fatto è stata data, non tanto e non solo dall’accusa, ma soprattutto dal giudicante (diritto sancito dalla Costituzione e dalle Convenzioni Internazionali, che stabiliscono il principio secondo il quale il condannato deve avere diritto ad un secondo grado di giudizio).

    La Cassazione, dunque (sostanzialmente mutando la propria giurisprudenza in materia di strage comune e politica), ha definito per la prima e soprattutto ultima volta quei fatti inquadrabili nella previsione più grave, con una decisione che non può (più e mai) essere messa in discussione (in merito a tale puntoabbiamo sollevato una questione di legittimità costituzionale, ritenendo che il sistema processuale avrebbe dovuto imporre alla Cassazione di rinviare per una nuova decisione sul punto al giudice di merito; questione che, però, non è stata evidentemente ritenuta fondata dalla Corte di Appello).

    Questa vicenda, dunque, ha potuto superare l’interesse dei “tecnici” anche in considerazione del fatto che l’eventuale condanna all’ergastolo impedirebbe il riconoscimento di benefici penitenziari e dunque priverebbe di una reale prospettiva di poter – prima o poi – riacquistare la libertà; si rientrerebbe, infatti, in uno dei casi di ergastolo ostativo, secondo una definizione che ormai è entrata nella conoscenza comune.

    2.Sappiamo che durante il governo Draghi si erano manifestati alcuni passi avanti soprattutto su spinta della CEDU. Stavamo ormai per accettare che anche i “non pentiti” potessero avere alcuni benefici penitenziari. Sappiamo tuttavia che questi passi avanti, per quanto oggi storia vecchia, sono stati molto criticati e contrastati da una parte cospicua di associazioni antimafia, che bene o male, si considerano parti sociali vive di un assetto democratico. Come si contesta questo approccio legalitario senza voler per forza sembrare di effettuare ‘regalie’ alla mafia? L’approccio repressivo che si muove rinvenendo tra le pieghe dell’ordinamento penale i fossili viventi del fascismo, come il reato di saccheggio e devastazione, può definirsi, a tutti gli effetti, un tentativo dello stato di punire – in un’ottica retributiva – a tutti i costi? Quanto è veritiera quell’iscrizione di reato? Poteva effettivamente essere evitato?

    Sulla questione dell’ergastolo ostativo è da tempo in atto una battaglia tra chi continua a sostenere che la pena deve sempre rispondere principalmente al fine rieducativo imposto dalla Costituzione (e soprattutto non possa essere né solo né principalmente vendetta, né possa essere contraria, di fatto, al senso di umanità) e chi invece vede nel criterio così detto retributivo il principio che deve ormai sovraintendere (in via sostanzialmente esclusiva) al sistema penale. In questa lotta, ormai da anni, una delle due parti rivendica la propria purezza di unica portatrice del supremo interesse della difesa dello Stato dalla mafia. Una lotta, inoltre, talvolta più nominativa che effettiva, se solo si pone mente alle “infiltrazioni mafiose” che le cronache ci restituiscono anche in ambienti politici, sociali, associativi in teoria dediti a tale lotta. Lotta, infine, che dalla mafia si è facilmente estesa ad ambiti radicalmente diversi come quello dell’anarchia o dell’antagonismo politico radicale).

    Sappiamo che la questione dell’ergastolo ostativo ha superato l’ambito della disquisizione accademica per approdare alle massime Corti nazionali e internazionali (la Corte di Cassazione, la Corte Costituzionale, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo), che hanno riconosciuto nelle insuperabili rigidità dell’ergastolo ostativo un vulnus ai diritti umani (in particolare al divieto di pene o trattamenti inumani e degradanti) e alla finalità rieducativa della pena.

    La risposta ai principi imperativi formulati delle Corti è stata però non solo insoddisfacente, ma radicalmente eccentrica rispetto a quello che avrebbe dovuto essere la finalità della riforma.

    Non è questo il luogo e il momento per discutere della “timidezza” con quale la Corte Costituzionale, pur riconoscendo la sussistenza (in atto e non in potenza) di una illegittimità costituzionale (una situazione che dunque non potrebbe essere giuridicamente “tollerata”), invece di dichiarare l’illegittimità di quelle norme e di rimuoverle dal sistema giuridico (sanando, curando immediatamente la frattura dei principi costituzionali) ha rinviato la questione al Parlamento chiedendo di porre mano alla normativa, consentendogli anche di “sforare” il termine inizialmente concesso.

    Quello che qui si rileva è che la risposta è stata tale da rafforzare, invece di attenuare, quelle stesse rigidità che erano state la causa delle censure della CEDU e della Corte Costituzionale.

    Di fatto il D.L.162/22 da un lato allarga l’ambito dei casi in cui la condanna per alcuni reati può essere di ostacolo alla concessione dei benefici penitenziari, dall’altro rende quasi impossibile la concessione dei benefici e il superamento dell’ostatività (non solo per l’ergastolo ostativo, ma per le condanne per un’ampia serie di reati). Al condannato, di fatto, continua ad essere richiesta la collaborazione; altrimenti (anche se la collaborazione risulta impossibile!) non bastano buone condotte e neppure condotte riparatorie o dichiarazioni di dissociazione, essendo necessario che sia egli stesso a “provare” che ci sono specifici elementi “che consentano di escludere l’attualità̀ di collegamenti con la criminalità̀ organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché́ il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi”. Da un lato una prova diabolica, dall’altro la pretesa dell’esclusione di legami non solo con l’organizzazione criminale o terrorista, ma anche e soprattutto con il “contesto”; inoltre, non solo non devono essere sussistenti tali legami, ma non deve esserci neppure il pericolo (come dimostrare che non vi è pericolo?) che possano ripristinarsi, anche indirettamente.

    Tornando all’applicazione della nuova disposizione ad un condannato anarchico, allora, ciò che si pretenderebbe è probabilmente che si dimostri una definitiva separazione dalla stessa idea anarchica (o dalla ideologia politica cui in qualche modo ispirava l’associazione) e che neppure indirettamente tale legame (con l’ambiente più ancora che con l’associazione) possa ripristinarsi. Se pensiamo ad un condannato per reati di mafia potrebbe significare che sia necessario che quella persona possa stabilirsi in un luogo dove non è presente in alcun modo nessun soggetto che possa pensarsi possa far riferimento ad una organizzazione di carattere mafioso, e dal quale non abbia nessuna possibilità di mettersi in collegamento con luoghi o persone che invece fanno parte di quel “contesto”; se pensiamo ad un condannato come Cospito o Beniamino potrebbe significare che debba provarsi la definitiva e completa rescissione di ogni legame anche meramente amicale o ideologico, non solo con soggetti condannati o indiziati per reati di associazione terrorista, ma anche con qualunque soggetto che sia ritenuto appartenere o essere vicino a quel contesto anarchico (da dimostrare non si comprende come), così da potersi escludere collegamenti con il “contesto” e il pericolo che tali legami si ripristinino.

    Che questo possa essere l’approdo, l’interpretazione, del sistema repressivo a questa tipologia di condannati (i “nemici” o coloro i quali così vengono disegnati) è reso plasticamente evidente proprio dalla vicenda della sottoposizione al regime del 41-bis di Alfredo Cospito (nonostante ergastolo ostativo e regime del 41-bis sono questioni distinte, infatti, essi obbediscono ad una medesima ideologia punitiva): continuando a esprimere le sue idee ed a partecipare al dibattito politico ed ideologico dal carcere – a esprimere idee, non a preparare o ordinare attentati – dimostra di non avere rescisso i legami, e questo non con l’organizzazione ma con il “contesto”, e quindi deve essere ulteriormente isolato e punito. Non si tratta di prevenzione ma di punizione pura, volta all’annientamento della persona.

    Rispondendo alla domanda, allora, devo esprimere pessimismo, solo mitigato dal dibattito che la questione di Alfredo Cospito (e di Anna Beniamino) ha determinato.

    La pena costituzionale mi sembra sia stata da tempo sacrificata sull’altare di una pena retributiva che è sempre più pena vendicativa, nella quale il nemico o supposto tale perde le caratteristiche di essere umano, deve essere esemplarmente annientato. E, attenzione, questo non avviene solo per i reati di criminalità mafiosa, né per i reati di terrorismo (e qui tra i primi nemici o mostri negli ultimi anni ci sono stati i terroristi – molto spesso più presunti che tali – islamici, ma la categoria si è di molto estesa), ma per una vasta serie di reati, giungendo così a disegnare un sistema panpenalista e pancarcerario il cui fine diventa prevalentemente quello di isolare dalla società ostacolando, di fatto, la risocializzazione.

    Ne è una prova proprio il Decreto Legge 162: le norme sui reati del 4-bis O.P. e sull’ergastolo ostativo sono, in realtà, sostanzialmente analoghe a quelle che erano state discusse e in gran parte condivise nella precedente legislatura (in cui le maggioranze erano diverse); l’ansia giustizialista mi sembra sia assolutamente trasversale e ben disposta a sacrificare diritti e principi fondamentali per poter punire (senza nessun tentativo di redimere, anche ammesso che questa possa essere una finalità condivisa della pena). Certo, qualche apertura c’era stata per reati minori, qualche tentativo di allontanare il carcere per i fatti meno gravi era stato compiuto, ma mi sembra che non vi fosse una reale volontà di superare le rigidità dei reati ostativi.

    La lotta alla mafia (o al terrorismo, o alla grande criminalità, e/o ai crimini costruiti, a volte anche artificiosamente, come i più gravi e di più grave allarme sociale), diventa in quest’ottica il feticcio da esibire e la linea rossa ideologica dalla quale non si può arretrare; chi combatte le rigidità è un nemico dello Stato perché, di fatto, amico dei mafiosi.

    Ci vorrebbe, allora, una grande riflessione: siamo certi che sia corretto sacrificare i principi per combattere contro chi attenta ad essi? Non è un suicidio della democrazia e dello stato di diritto abdicare ai diritti fondamentali, e quindi pensare alla pena come vendetta e annientamento del nemico? La lotta contro il terrorismo degli ultimi 25 anni del secolo scorso (non tutto in verità, perché quello stragista – realmente stragista, non quello di Fossano – non credo abbia trovato il contrasto che meritava) ha visto tanti esempi di gravi violazioni delle regole da parte di quello stesso stato che diceva di lottare per salvare la propria essenza (di stato di diritto). E siamo certi che seppellire, viva e a vita, una persona in una cella, privarlo di ogni prospettiva, sia l’unica opzione possibile per contrastare la possibilità che egli o altri commettano dei reati gravi? La grande criminalità, o la grande corruzione, è forse scomparsa dal panorama dopo decenni di utilizzo di quegli strumenti repressivi? O non ha semplicemente (ma solo in parte) mutato forme e modalità di azione? Far morire in carcere un vecchio malato può magari soddisfare la sete di vendetta, o può essere una medaglia di inflessibilità da esibire, ma siamo certi che questa palese violazione dei diritti (del diritto a non subire un trattamento inumano e degradante in primis) sia “utile” a combattere un fenomeno criminale? O, ancora, non dovrebbe generare allarme pensare che solo utilizzando pene inumane (se non tortura) lo Stato sia in grado di contrastare i fenomeni criminali?

    Ovviamente tacendo, perché ci porterebbe troppo lontani, un’altra fondamentale questione, ovvero quella che attiene alle radici del fenomeno mafioso e della grande criminalità organizzata e agli strumenti di politica sociale, culturale, economica, che potrebbero essere utilizzati per privarli della loro linfa vitale (e magari, quando qualcuno ha tentato di ideare e porre in pratica tali strumenti, è stato a sua volta criminalizzato, come insegna la Locride di Lucano).

    Il processo torinese alla FAI ha sin dal suo esordio mostrato uno spiccato carattere repressivo dal punto di vista ideologico. Nonostante quello che la procura ha sempre affermato (che ciò che si chiedeva di punire non era una ideologia, ma le persone per specifici reati che avevano commesso) in realtà sin dal nome dell’operazione che ha portato all’individuazione e all’arresto degli imputati, (scripta manent), l’attenzione è sempre stata concentrata sugli scritti, mezzi di manifestazione del pensiero. Non è un caso che molti degli imputati sono stati condannati non per associazione terroristica o per aver commesso delle azioni (degli attentati), ma per aver partecipato alla redazione di pubblicazioni o a trasmissioni d’area (peraltro pubbliche): per aver manifestato le proprie idee. Mentre in primo grado era stata accolta la tesi delle difese, che avevano sostenuto che si trattava di propaganda sovversiva (uno dei pochi reati di opinione figli dell’epoca in cui il nostro codice penale è stato emanato per essere poi abrogato, nel 2006, proprio in quanto si era detto che uno Stato democratico deve essere in grado di tollerare anche una propaganda contro di lui, pena l’abiura ai propri stessi principi fondamentali), la Corte di Assise di Appello e poi di Cassazione hanno stabilito che anche quegli imputati dovevano essere condannati, non perchè membri di un’associazione terroristica (evidentemente non c’era alcun concreto elemento che avrebbe consentito una condanna siffatta), ma per istigazione, e cioè per aver manifestato delle idee (ritenute tali da generale il pericolo concreto che qualcuno potesse passare all’azione e commettere dei reati).

    E, allora, quella che è stata punita è la manifestazione dell’idea, nella convinzione che se può essere tollerata una figura romantica dell’anarchico, quello che canta le canzoni di De André (espressamente citato dal Pubblico Ministero come esempio – o esemplare? – di “anarchico buono”), non può al contrario tollerarsi (e deve dunque essere punito) l’anarchico che propaganda la distruzione del sistema dominante con azioni violente.

    E in quest’ottica che si può interpretare anche la condanna per il reato di strage politica, uno dei reati che è rimasto strutturalmente immutato dalla sua introduzione nel codice penale del 1930, se non per la pena (di morte, secondo il codice dell’epoca, dell’ergastolo dopo l’abrogazione della pena di morte).

    In primo luogo bisogna ricordare che il reato di strage (sia “comune” che “politica”) è un reato così detto di pericolo ed a consumazione anticipata: non importa se si realizza quella che secondo il senso e il linguaggio comune è una “strage” (un evento straordinario che ha causato la morte di diverse persone), essendo sufficiente che chi agiva avesse tale obiettivo e che ciò che ha fatto abbia causato il concreto pericolo che ciò potesse accadere. Questo significa che se sparo ad una persona per ucciderlo e io lo manco, potrò eventualmente rispondere di tentato omicidio (e quindi verrò condannato ad una pena ridotta da uno a due terzi), mentre se colloco un ordigno anche di basso potenziale ma con la volontà di uccidere più persone rispondo di strage (come se la mia azione avesse avuto “successo”).

    Certo, questa è una scelta giuridica, di punire con maggiore gravità la mera volontà di causare una strage; come si può notare già questa considerazione rende evidente che la volontà di chi agisce ha un “peso” maggiore in ottica punitiva rispetto al risultato della sua stessa azione. Tuttavia, mentre per la strage “comune” è lo stesso articolo a prevedere che la pena sia diversa a seconda del risultato (dai quindici anni di reclusione se non ci sono vittime; l’ergastolo se ci sono vittime), per la strage politica la pena è la medesima, indipendentemente dal risultato (l’ergastolo).

    Quello che, dunque, è ancora più significativo (e rende ancora più evidente che l’origine della norma è da collocare in quel preciso periodo storico) è che per la strage politica ciò che più conta è che quella sia un’azione contro lo stato, contro l’ordine costituito. Al di là dei mezzi utilizzati (il tritolo o la polvere pirica, l’autobomba o la pentola a pressione) la finalità di colpire l’organizzazione dello stato è ciò che rende quello il più grave dei reati (tanto che anche dal punto di vista della pena diventa ininfluente che ci siano state o no delle vittime). E, come si ricordava prima, questa è una distinzione nata proprio con il codice Rocco del 1930.

    È dunque, una “strage” (nel senso che si diceva prima, al di là del risultato) che merita la massima punizione perchè attenta al bene massimo, che non è la vita delle persone o la pubblica incolumità ma la sicurezza dello stato.

    A parità di condotta materiale, allora, chi tenta di uccidere più persone per mettere in pericolo la sicurezza dello stato (e non ci riesce) merita una pena molto maggiore (a vita) rispetto a chi tenti di uccidere più persone, ad esempio, nell’ambito di una attività di criminalità organizzata (per tornare al tema che appassiona molti difensori delle pene massime, la lotta alla mafia. Esempio, peraltro, assolutamente calzante, visto che le stragi di mafia sono state giudicate e punite come stragi comuni e non come stragi politiche).

    Mi sembra che questo dimostri che il senso di questa precisa disposizione, e di tutte quelle che rendono una medesima condotta molto più grave se motivata dalla volontà di sovvertire, ci allontana da un sistema penale “del fatto”, in cui ad essere giudicata è prevalentemente la condotta, l’azione che è stata commessa, in considerazione delle conseguenze di quell’azione, per farci avvicinare ad un sistema “dell’autore”, in cui il giudizio cade soprattutto sulla persona, sulle sue convinzioni e condizioni (non si dimentichi che era stata introdotta una specifica aggravante se un qualunque fatto di reato fosse stato commesso da uno straniero irregolare; aggravante poi dichiarata incostituzionale, ma la cui introduzione era stata possibile proprio per lo scivolamento culturale verso la preminenza della giudizio e della punizione dell’autore del reato piuttosto che del fatto di reato).

    3.Quali sono le prossime mosse difensive? Cosa possiamo aspettarci su questa vicenda dagli apparati giudiziari nei prossimi mesi?

    Come ho già evidenziato la condanna per strage politica per Alfredo Cospito e Anna Beniamino è stata stabilita in via definitiva dalla Corte di Cassazione, che ha rinviato alla Corte di Assise di Appello di Torino solo per la quantificazione della pena che i due condannati dovranno scontare.

    Abbiamo sollevato vari dubbi di costituzionalità, da quello che ho riassunto prima (sulla violazione del diritto di difesa in caso di modifica peggiorativa per la prima volta e in via definitiva in Cassazione), alla legittimità di una disposizione che preveda la pena fissa dell’ergastolo, laddove le pene devono sempre essere proporzionate al fatto (il che rende incompatibile una pena fissa), alla possibilità che venga comunque riconosciuta una particolare attenuante, quella del “fatto tenue” specificamente prevista per tutti i reati contro la personalità dello Stato. Evidentemente proprio per attenuare l’estrema gravità delle pene per questi reati, nel codice è previsto che la pena per questi reati sia diminuita quando, “per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo”, il fatto sia di lieve entità.

    Lieve entità, sia chiaro, rispetto alla possibile gravità del fatto e delle sue conseguenze (si sta comunque parlando di un fatto definito giuridicamente come strage, quindi un fatto che avrebbe potuto – e voluto, sulla base di quello che ha stabilito la Cassazione – causare delle vittime).

    Sembra evidente che, rispetto alla casistica delle stragi che hanno insanguinato il nostro Paese (da Bologna a via D’Amelio per citarne solo due, peraltro giudicate entrambe come stragi comuni, sia pure con la pena massima in ragione della presenza di vittime, ma anche a tantissime altre) gli ordigni di Fossano siano di ben minore gravità; sia in “valore assoluto” (strumenti utilizzati e modalità) sia quanto al pericolo causato (pericolo concreto cui sono state esposte l’incolumità pubblica e la vita delle persone e soprattutto, trattandosi in questo caso di strage politica, la sicurezza dello stato, la tenuta delle istituzioni).

    Proprio con riferimento alla possibilità di ottenere il riconoscimento di questa attenuante e la conseguente riduzione della pena si pone però un problema: ad Alfredo Cospito è stata riconosciuta l’aggravante della recidiva reiterata, il che di fatto impedisce una diminuzione della pena. In una delle molte modifiche che hanno interessato il sistema penale negli ultimi decenni, nel senso di inasprire i trattamenti sanzionatori, è stato infatti introdotto il divieto di ritenere eventuali circostanze attenuanti (quelle circostanze che servono proprio ad adeguare la pena all’effettiva gravità del fatto) prevalenti su questa recidiva, impedendo quindi di ridurre la pena oltre il minimo previsto dalla legge per quel reato. Nel caso del reato di strage politica, punito con l’ergastolo, la pena quindi è e resta quella dell’ergastolo anche se si tratta di un fatto “tenue”. Per questo motivo abbiamo sollevato una ulteriore questione di legittimità costituzionale, proprio relativa a quell’insieme di disposizioni che comportano che debba essere comunque comminato per il reato di strage politica la pena dell’ergastolo al condannato recidivo reiterato anche se si tratta di un fatto tenue.

    I pubblici ministeri hanno chiesto di non riconoscere quella attenuante a nessuno dei due condannati, ritenendo evidentemente che anche quei fatti meritassero la massima pena. La richiesta è stata così dell’ergastolo per Alfredo Cospito e di 27 anni di reclusione per Anna Beniamino (che non ha una recidiva e alla quale erano già stata riconosciute le circostanze attenuanti generiche, il che porta ad una diminuzione della pena).

    La Corte di Assise di Appello ha respinto le prime due questioni di legittimità costituzionale, ma ha affermato che in questo caso deve effettivamente potersi valutare se si tratti di un “fatto tenue”, e che dunque debba essere applicata una pena diversa da quella dell’ergastolo; e ha affermato che potrebbe essere illegittimo questo divieto di “bilanciamento” per Alfredo Cospito, rinviando gli atti alla Corte Costituzionale per decidere di tale possibile illegittimità.

    Quindi il prossimo passaggio giudiziario sarà davanti alla Corte Costituzionale, per quanto riguarda questa questione. Per il resto sia Alfredo Cospito che Anna Beniamino continuano a scontare la pena, visto che la condanna è definitiva e per gli altri reati (l’associazione terrorista, alcune altre azioni non definite strage politica e l’istigazione a delinquere) anche la pena è ormai definitiva.

    Per il momento (quando sto rispondendo alle vostre domande) resta “aperta” anche la questione dell’applicazione del regime duro del 41-bis ad Alfredo Cospito, sul quale il Tribunale di Sorveglianza di Roma non ha ancora deciso.

    Bisogna poi vedere se sia possibile andare oltre i confini nazionali, sollevando le tante questioni che questo processo e queste condanne pongono anche ad altri organi sovranazionali, come la Corte Europea dei diritti dell’uomo o il Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite. Tutte le ipotesi sono allo studio.

    Fondamentale credo sia, in ogni caso, continuare a parlare del caso, continuare a discutere dei tanti interrogativi sulla “tenuta” del sistema che il processo scripta manent, la condanna di Alfredo Cospito ed Anna Beniamino, l’ergastolo ostativo, il regime del 41-bis pongono; solo se la luce su questi temi resterà accesa potremo sperare di ottenere un risultato magari non solo giudiziario ma anche “politico” che ci allontani un po’ dalla deriva repressiva che purtroppo sta caratterizzando questo Paese.

    da https://www.osservatoriorepressione.info/pena-esemplare-ed-annientamento-la-vicenda-alfredo-cospito-paradigma-della-vendetta/

  • Tu chiamale, se vuoi, eccezioni, di Maria Pia Calemme

    https://transform-italia.it/tu-chiamale-se-vuoi-eccezioni/

  • Domenico Stimolo

    CATANIA 1 GENNAIO, da ore 19.00 presidio in piazza Lanza ( e poi corteo attorno al carcere) in solidarietà a Alfredo Cospito in sciopero della fame da 70 giorni, per un giustizia equa rispondente alle normative costituzionali,
    per strutture carcerarie, infrastrutture e gestione, rispondenti a criteri democratici, umanitari dignitosi per scongiurare la distruzione di vite umane avvenute nel corso dello scorso anno tramite l’uso del suicidio ( ottantadue).

    https://www.rainews.it/tgr/sicilia/video/2023/01/watchfolder-tgr-sicilia-01021-toscano–fiaccolata-cospito-edlmxf-1ff7129e-82bb-466d-823c-218fdcf6b664.html?nxtep

    https://www.blogsicilia.it/catania/suicidi-carcere-detenuti-fiaccolata-piazza-lanza/820271/

  • Buon anno all’anarchico Alfredo Cospito – Carmelo Musumeci

    https://www.agoravox.it/Buon-anno-all-anarchico-Alfredo.html

  • “Di che cosa ha paura lo Stato? Forse si vuol dar prova di un controllo autoritario per dissuadere da dissensi e proteste future, anche a costo di una vittima? O confida nel fatto che lo statuto di “martire”, cioè di testimone, non abbia più alcun senso e corso? Se l’accanimento contro Cospito dovesse proseguire esso sarebbe davvero il segno di una nostra profonda crisi spirituale, non solo di civiltà giuridica.”
    https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/caso-cospito-la-forza-dei-doveri-e-quel-nomos-dellanima?fbclid=IwAR0qC2WOcy4Yi4m-sbPriYNVyYfIgT8ktcXFOKfXRZklDvWIWvZ5UwBUNyc

  • Per la vita di Cospito, appello al ministro della Giustizia e all’amministrazione penitenziaria
    FIRMA cliccando su questo link https://forms.gle/jtekmZS4zsdLPUht6
    L’appello di Gherardo Colombo, Don Ciotti, Padre Zanotelli, Flick, Ferraioli e tanti altri.
    https://ilmanifesto.it/per-la-vita-di-cospito-appello-al-ministro-della-giustizia-e-allamministrazione-penitenziaria/r/foHH8B063R2D3p1vwRMnN

  • domenico stimolo

    Firmare l’APPELLO è fondamentale per la dignità civile, democratica e di giustizia del nostro Paese.
    La nota è stato ripresa da molti organi di informazione, in particolare il testo integrale è stato pubblicato dal quotidiano Il Manifesto.
    https://ilmanifesto.it/per-la-vita-di-cospito-appello-al-ministro-della-giustizia-e-allamministrazione-penitenziaria

    Leggere e FIRMARE!

    • PER FIRMARE ANDATE QUI:
      https://forms.gle/jtekmZS4zsdLPUht6
      L’APPELLO
      Un gruppo di giuristi e intellettuali ha chiesto “un gesto di umanità e coraggio”, per Alfredo Cospito, il prigioniero politico anarchico sottoposto al regime detentivo 41 bis e in sciopero della fame da ormai 80 giorni.

      L’appello è stato sottoscritto da molte e assai diverse personalità tra i quali l’ex presidente della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick, Moni Ovadia, Massimo Cacciari e don Luigi Ciotti, ma anche da diversi ex magistrati come Beniamino Deidda, Domenico Gallo, Nello Rossi, Livio Pepino, e Franco Ippolito, ed è rivolto al ministro della Giustizia Nordio e al governo: “Chiediamo un gesto di umanità e coraggio come la revoca del 41 bis a Alfredo Cospito che è a un passo dalla morte nel carcere di Bancali a Sassari all’esito di uno sciopero della fame che dura, ormai, da 80 giorni”, scrivono i firmatari.

      Alfredo Cospito è in carcere da oltre 10 anni e dal 4 maggio scorso è sottoposto al regime di 41 bis “con esclusione di ogni possibilità di corrispondenza, diminuzione dell’aria a due ore trascorse in un cubicolo di cemento di pochi metri quadri e riduzione della socialità a una sola ora al giorno in una saletta assieme a tre detenuti”, spiega l’appello che ne chieda la revoca.

      Dallo scorso 20 ottobre Cospito ha cominciato uno sciopero della fame per protesta contro il regime a cui è stato sottoposto. Una scelta su cui pochi giorni fa lo stesso avvocato difensore Flavio Rossi Albertini aveva lanciato un serio allarme: “Ha perso 35 chili, con un preoccupante calo di potassio, necessario per il corretto funzionamento dei muscoli involontari tra cui il cuore”.

      L’appello ricorda che Alfredo Cospito non intende sospendere lo sciopero della fame.

      “Lo sciopero della fame di detenuti potenzialmente fino alla morte è una scelta esistenziale drammatica che interpella le coscienze e le intelligenze di tutti”, si legge nel testo. “A fronte di ciò, la gravità dei fatti commessi non scompare né si attenua ma deve passare in secondo piano”.

      I firmatari dell’appello si dicono anche convinti della presenza di anomalie nella condanna comminata a Cospito e vede nella protesta estrema dell’anarchico un legittimo segnale di quanto loro stessi riscontrano. Da qui l’elenco di alcuni elementi poco chiari: “La frequente sproporzione tra i fatti commessi e le pene inflitte (sottolineata, nel caso, dalla stessa Corte di assise d’appello di Torino che ha, per questo, rimesso gli atti alla Corte costituzionale); il senso del regime del 41 bis, trasformatosi nei fatti da strumento limitato ed eccezionale per impedire i contatti di detenuti di particolare pericolosità con l’organizzazione mafiosa di appartenenza, in aggravamento generalizzato delle condizioni di detenzione; la legittimità dell’ergastolo ostativo”.

      Alla luce di tutte le considerazioni, per i firmatari l’urgenza è “Quella di salvare una vita e di non rendersi corresponsabili, anche con il silenzio, di una morte evitabile”. Da qui l’appello all’Amministrazione penitenziaria, al Ministro della Giustizia e al Governo “perché escano dall’indifferenza in cui si sono attestati in questi mesi nei confronti della protesta di Cospito e facciano un gesto di umanità e di coraggio”.

      *****
      PER LA VITA DI ALFREDO COSPITO
      appello al Ministro della giustizia e all’Amministrazione penitenziaria

      Alfredo Cospito è a un passo dalla morte nel carcere di Bancali a Sassari all’esito di uno sciopero della fame che dura, ormai, da 80 giorni. Detenuto in forza di una condanna a 20 anni di reclusione per avere promosso e diretto la FAI-Federazione Anarchica Informale (considerata associazione con finalità di terrorismo) e per alcuni attentati uno dei quali qualificato come strage pur in assenza di morti o feriti, Cospito è in carcere da oltre 10 anni, avendo in precedenza scontato, senza soluzione di continuità, una condanna per il ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi. Dal 2016 è stato inserito nel circuito penitenziario di Alta Sicurezza 2, mantenendo, peraltro, condizioni di socialità all’interno dell’istituto e rapporti con l’esterno. Ciò sino al 4 maggio 2022, quando è stato sottoposto al regime previsto dall’art. 41 bis ordinamento penitenziario, con esclusione di ogni possibilità di corrispondenza, diminuzione dell’aria a due ore trascorse in un cubicolo di cemento di pochi metri quadri e riduzione della socialità a una sola ora al giorno in una saletta assieme a tre detenuti. Per protestare contro l’applicazione di tale regime e contro l’ergastolo ostativo, il 20 ottobre scorso Cospito ha iniziato uno sciopero della fame che si protrae tuttora con perdita di 35 chilogrammi di peso e preoccupante calo di potassio, necessario per il corretto funzionamento dei muscoli involontari tra cui il cuore. La situazione si fa ogni giorno più grave, e Cospito non intende sospendere lo sciopero, come ha dichiarato nell’ultima udienza davanti al Tribunale di sorveglianza di Roma:

      «Sono condannato in un limbo senza fine, in attesa della fine dei miei giorni. Non ci sto e non mi arrendo. Continuerò il mio sciopero della fame per l’abolizione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo fino all’ultimo mio respiro».
      Lo sciopero della fame di detenuti potenzialmente fino alla morte è una scelta esistenziale drammatica che interpella le coscienze e le intelligenze di tutti. È un lento suicidio (che si aggiunge, nel caso di Cospito, agli 83 suicidi “istantanei” intervenuti nelle nostre prigioni nel 2022), un’agonia che si sviluppa giorno dopo giorno sotto i nostri occhi, un’autodistruzione consapevole e meditata, una pietra tombale sulla speranza. A fronte di ciò, la gravità dei fatti commessi non scompare né si attenua ma deve passare in secondo piano. Né vale sottolineare che tutto avviene per “scelta” del detenuto. Configurare come sfida o ricatto l’atteggiamento di chi fa del corpo l’estremo strumento di protesta e di affermazione della propria identità significa tradire la nostra Costituzione che pone in cima ai valori, alla cui tutela è preposto lo Stato, la vita umana e la dignità della persona: per la sua stessa legittimazione e credibilità, non per concessione a chi lo avversa. Sta qui – come i fatti di questi giorni mostrano nel mondo – la differenza tra gli Stati democratici e i regimi autoritari.
      La protesta estrema di Cospito segnala molte anomalie, specifiche e generali: la frequente sproporzione tra i fatti commessi e le pene inflitte (sottolineata, nel caso, dalla stessa Corte di assise d’appello di Torino che ha, per questo, rimesso gli atti alla Corte costituzionale); il senso del regime del 41 bis, trasformatosi nei fatti da strumento limitato ed eccezionale per impedire i contatti di detenuti di particolare pericolosità con l’organizzazione mafiosa di appartenenza in aggravamento generalizzato delle condizioni di detenzione; la legittimità dell’ergastolo ostativo, su cui il dibattito resta aperto anche dopo l’intervento legislativo dei giorni scorsi e molto altro ancora. Non solo: la stessa vicenda di Cospito è ancora per alcuni aspetti sub iudice ché la Corte costituzionale deve pronunciarsi sulla possibilità che, nella determinazione della pena, gli effetti della recidiva siano elisi dalla concessione dell’attenuante della lievità del fatto e la Cassazione deve decidere sul ricorso contro il decreto applicativo del 41 bis. Su tutto questo ci si dovrà confrontare, anche con posizioni diverse tra di noi. Ma oggi l’urgenza è altra. Cospito rischia seriamente di morire: può essere questione di settimane o, addirittura, di giorni. E l’urgenza è quella di salvare una vita e di non rendersi corresponsabili, anche con il silenzio, di una morte evitabile. Il tempo sta per scadere.
      Per questo facciamo appello all’Amministrazione penitenziaria, al Ministro della Giustizia e al Governo perché escano dall’indifferenza in cui si sono attestati in questi mesi nei confronti della protesta di Cospito e facciano un gesto di umanità e di coraggio. Le possibilità di soluzione non mancano, a cominciare dalla revoca nei suoi confronti, per fatti sopravvenuti e in via interlocutoria, del regime del 41 bis, applicando ogni altra necessaria cautela. È un passo necessario per salvare una vita e per avviare un cambiamento della drammatica situazione che attraversano il carcere e chi è in esso rinchiuso.
      7 gennaio 2023
      Alessandra Algostino, docente di diritto costituzionale, Università di Torino
      Silvia Belforte, già docente di architettura, Politecnico di Torino
      Ezio Bertok, presidente Controsservatorio Valsusa
      don Andrea Bigalli, parroco in Firenze, referente di Libera per la Toscana

      Maria Luisa Boccia, presidente del CRS (Centro per la Riforma dello Stato)
      Massimo Cacciari, filosofo
      Gian Domenico Caiazza, avvocato, presidente Unione Camere Penali Italiane
      don Luigi Ciotti, presidente del Gruppo Abele e di Libera
      Gherardo Colombo, già magistrato, presidente della Garzanti Libri
      Amedeo Cottino, professore di sociologia del diritto nelle Università di Torino e Umeå (Svezia)
      Gastone Cottino, accademico ed ex partigiano, già preside Facoltà di Giurisprudenza, Università di Torino
      Beniamino Deidda, magistrato, già Procuratore generale di Firenze
      Donatella Di Cesare, docente di filosofia teoretica, Università di Roma La Sapienza
      Daniela Dioguardi, UDI (Unione Donne Italiane), Palermo
      Angela Dogliotti, vice presidente Centro Studi Sereno Regis
      Elvio Fassone, già magistrato e parlamentare
      Luigi Ferrajoli, filosofo del diritto
      Giovanni Maria Flick, già presidente della Corte costituzionale e ministro della giustizia
      Chiara Gabrielli, docente di procedura penale, Università di Urbino
      Domenico Gallo, magistrato, già presidente di sezione della Corte di cassazione
      Elisabetta Grande, docente di Sistemi giuridici comparati nell’Università del Piemonte orientale
      Leopoldo Grosso, presidente onorario del Gruppo Abele
      Franco Ippolito, presidente Fondazione Basso
      Roberto Lamacchia, avvocato, presidente Associazione italiana Giuristi democratici
      Gian Giacomo Migone, docente di Storia dell’America del Nord nell’Università di Torino, già senatore
      Tomaso Montanari, docente di storia dell’arte, rettore dell’Università per stranieri di Siena
      Andrea Morniroli, cooperatore sociale, Napoli
      Moni Ovadia, attore, musicista e scrittore
      Giovanni Palombarini, magistrato, già procuratore generale aggiunto presso la Corte di cassazione
      Michele Passione, avvocato in Firenze
      Valentina Pazé, docente di filosofia politica, Università di Torino
      Livio Pepino, presidente di Volere la Luna e direttore editoriale delle Edizioni Gruppo Abele
      Alessandro Portelli, storico e docente di letteratura angloamericana all’Università di Roma La Sapienza
      Nello Rossi, magistrato, già avvocato generale presso la Corte di cassazione
      Armando Sorrentino, avvocato, Associazione italiana giuristi democratici, Palermo
      Gianni Tognoni, segretario generale del Tribunale permanente dei popoli
      Ugo Zamburru, psichiatra, fondatore del Caffè Basaglia di Torino
      padre Alex Zanotelli, missionario comboniano

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