Andreotti contro il neorealismo?

Il film «Umberto D» di Vittorio De Sica? «Un pessimo servigio alla patria»: ipocrisia e censure sempre attuali. Ma forse c’è un’altra storia che scorre sotto questa vecchia vicenda.

di Fabio Troncarelli

Il 28 febbraio 1952 apparve sulla rivista democristiana «Libertas» (anno I, n. 7) un articolo di Giulio Andreotti, intitolato “Piaghe sociali e necessità di redenzione”: più che di un vero e proprio articolo si trattava, in sostanza, della lettera di un giovane e ambizioso uomo politico di 33 anni rivolta al più famoso regista italiano, il cinquantunenne Vittorio De Sica.

Andreotti prendeva pubblicamente le distanze dal film «Umberto D» provocando un putiferio, una ridda di polemiche, che non si sono mai spente nel corso degli anni e che ancora oggi vengono periodicamente a galla1.

Non è strano che ci siano state tante discussioni e perfino l’attribuzione ad Andreotti di una battuta contro il neorealismo che in realtà non ha mai detto: «I panni sporchi si lavano in famiglia». La sua lettera, in apparenza misurata, era nella sostanza molto dura e finiva per condannare senza appello il «pessimo servigio alla … patria» che De Sica avrebbe reso, sia pur inconsapevolmente, per aver «voluto dipingere una piaga sociale… con valente maestria» ma senza «quel minimo di insegnamento che giovi nella realtà a rendere domani meno freddo l’ambiente di quanti in silenzio si consumano, soffrono e muoiono».

Andreotti esortava il regista a non dimenticare mai: «un ottimismo sano e costruttivo che aiuti veramente l’umanità a sperare», quel «suggestivo raggio di sole che faceva sorridere la gente diseredata nel precedente film di De Sica fra i barboni di Milano».

Le espressioni, tutto sommato, diplomatiche usate da Andreotti mascheravano a malapena i veri sentimenti delle forze politiche e sociali di cui egli si faceva interprete: questo è evidente già nel commento della redazione della rivista, non certo diplomatico, che accompagna l’articolo e ne precisa il significato. Sotto la firma di Andreotti troviamo infatti un rivelatore: «Era ora!… Riteniamo infatti che la precisazione governativa inviti una volta per sempre ad uscire dall’equivoco che ormai da troppo tempo si trascina nel cinema italiano. Da un lato pretendere di illustrare per scopi altamente sociali ed umani la verità (adoperandola sempre come denuncia); dall’altro [non] temere… che tale verità, mal presentata e mal interpretata, possa sovvertire l’attuale struttura sociale… Perciò l’articolo dell’onorevole Andreotti oltre che un invito sereno diretto a De Sica, per esortarlo a uscire dall’equivoco di un neorealismo ricco di sottintesi ma pur sempre accusatore, vuol essere – a nostro giudizio – un discorso a tutto il cinema italiano» invitato a non seguire l’esempio di certi artisti “corrosivi” dei tempi passati, che obbedivano a un «istinto che quasi li rendeva irresponsabili» e sempre pronti a «scalfire le basi dell’organizzazione sociale poco curandosi delle conseguenze».

Precisazione governativa” e “una volta per sempre”… Colpisce il tono di queste parole dal momento che Andreotti ufficialmente non parlava affatto a nome del governo e neppure, come egli stesso afferma esplicitamente, «in nome del partito di Don Sturzo» ma semplicemente da cattolico. E non parlava davvero “una volta per “sempre”, un’espressione che non apparteneva al suo lessico dal quale le parole «mai» e «sempre» sono rigorosamente bandite. Tuttavia il commento della rivista non lasciava adito a dubbi e invitava il lettore a prendere le affermazioni andreottiane nel senso più restrittivo. Una simile “precisazione” era, del resto, pleonastica dal momento che la censura nei confronti del cinema italiano e straniero, prima e dopo il 1952 era stata virulenta, aggressiva, implacabile e aveva impedito la visione o boicottato la circolazione di capolavori del cinema internazionale, sotto l’egida di Andreotti: lo stesso personaggio che nell’aprile del 1947, aveva presentato alla Costituente un emendamento all’articolo 21 della Costituzione con l’intenzione di escludere il cinema e il teatro dalle forme d’arte cui veniva consentita «la libertà d’espressione». L’emendamento fu respinto. Ma il pericolo della censura non fu esorcizzato: la legge 379 del 16 maggio 1947 istituì infatti l’Ufficio Centrale per la Cinematografia alle dirette dipendenze della presidenza del Consiglio e a capo di questo neonato ufficio fu posto proprio Giulio Andreotti, sottosegretario ai Beni Culturali con delega per lo Spettacolo, coadiuvato da un Comitato Tecnico e da una Commissione Consultiva. All’inizio, nel 1947, Andreotti e la “Commissione” non riuscirono a resistere all’ondata di proteste che venne dal mondo dello spettacolo e persero un epico scontro con il giovane Pietro Germi, spalleggiato dai più importanti registi dell’epoca2. Ma dopo il trionfo elettorale del 1948, forte del potere acquisito, il giovane sottosegretario non conobbe più freni. E quelli che lavoravano ai suoi ordini furono peggiori di lui.

L’attività di controllo e censura della Commissione, esercitata in varie forme, continuerà imperterrita anche dopo la fine del ruolo istituzionale di Andreotti nel 1954, stimolata da altri notabili democristiani che si alternarono in tale compito dirigendo commissioni composte da altri membri, egualmente ciechi, feroci e ottusi. Il fenomeno, testimoniato da una ricchissima documentazione, è stato analizzato da diversi autorevoli ricerche, facilmente consultabili3. In particolare va ricordato che recenti ricerche su documenti inediti hanno mostrato in modo ancora più evidente il ruolo centrale esercitato nella lotta senza quartiere contro il neorealismo4

Ma se tutto questo è vero e ben conosciuto, viene da chiedersi: perché mai l’attenzione di tutti si è concentrata con tanta insistenza sulla lettera di Andreotti di cui ci stiamo occupando? Non sarebbe stato più giusto considerarla solo uno dei tanti casi di censura che hanno colpito importanti registi, con divieti a volte grotteschi e insensati?

In realtà credo che la lettera andreottiana meriti l’attenzione che le è stata riservata ma vada riletta con altri occhi. Essa ha assunto nel corso del tempo un valore emblematico ed è stata considerata da tutti, detrattori e ammiratori, una sorta di “manifesto” del pensiero reazionario delle correnti più retrive della politica italiana ma probabilmente tutto ciò è unilaterale e rischia di non far comprendere la sua vera natura e la complessità del quadro in cui va collocata. Ce ne rendiamo conto se scorriamo le illuminanti ricerche sulla collaborazione fra Andreotti e il domenicano Félix Morlion, un agente della Cia, che intervenne direttamente nella sceneggiatura e perfino durante le riprese di «Stromboli», «Francesco giullare di Dio» e «Europa 51»5. Alla luce dei documenti inediti analizzati da Subini sembra necessario avviare una nuova riflessione su tutta l’attività svolta da Andreotti come sottosegretario alla cultura e in particolare sulla lettera a De Sica.

«Ricominciamo da capo. Dunque, il 28 febbraio 1952 Giulio Andreotti pubblica una severa lettera contro «Umberto D» e De Sica. Poco tempo prima però – non l’abbiamo detto fin’ora ma adesso bisogna dirlo – lo stesso Andreotti aveva offerto a De Sica il posto di membro di una giuria incaricata di scegliere i film italiani per i festival internazionali. Una simile offerta dimostrava deferenza nei confronti del regista, una deferenza che viene ribadita dal fatto che Andreotti gli fece pervenire una copia dattiloscritta del suo articolo prima che venisse pubblicato, per attenuare il suo possibile rammarico. Nella lettera che accompagna la copia di quell’articolo – esposta nella mostra «Tutti de Sica» – Andreotti specifica: «Non ho mancato in ogni occasione di attestare in pubblico e in privato l’apprezzamento più vivo per il suo lavoro. Certamente non come sottosegretario ma come uomo vorrei che lei facesse ancora un passo avanti nel contenuto dei film proprio per aiutare specialmente quei poveri, che non dubito che ami di cuore, a progredire e a farsi una coscienza più solida» invitando l’autore di «Sciuscià» e «Umberto D» a rappresentare «una società in cui non si riduca tutto alla lotta spietata fra i ricchi in atto e quelli che ambiscano a sostituirli»6.

Il regista risponde alle critiche del sottosegretario e alle sue profferte, con una lettera rispettosa. Questo testo, apparentemente strano (esposto anch’esso nella mostra ricordata) a qualcuno è apparso “non meditato” ma è invece molto diplomatico.

«Cara Eccellenza, la sua lettera è improntata a tanta cordialità e simpatia, e considero così amichevole il gesto di aver distolto un’ora del suo tempo per occuparsi di me e del mio film, che non dovrei fare altro che dirLe il mio grazie e cercare di rassicurarLa nelle Sue preoccupazioni… Il Suo commento al mio film è molto acuto e coglie gli aspetti essenziali del dramma del mio pensionato. Ma mi spiace Ella non abbia riconosciuto quello che, almeno nelle intenzioni, ne era la caratteristica prima: la “incomunicabilità” degli uomini allorché il disagio preme, l’indifferenza di chi ha, anche se poco, verso chi non ha nulla e più nulla a sperare. Problemi non legati a un tempo, a una società, a un regime, ma antichi come l’uomo medesimo.

Inoltre, senza alcuna intenzione polemica o compiacimento nell’esasperare una realtà obbiettiva, non mi è sembrato eccessivo che tutte le circostanze fossero contrarie al mio triste eroe. Accade così, nella vita dell’uomo che alterna giornate tutte fortunate ed altre tutte avverse.

Umberto D, per me, non va quindi considerato nemmeno alla stregua di un caso limite.

Ma questo discorso involge considerazione di ordine artistico, e vorrei dire filosofico, di grande impegno. Idee, orientamenti, che io stesso sento la necessità di chiarire entro me, come uomo e per quella che sarà la mia attività futura

Il Suo interessamento, cara Eccellenza, mi fa anzi sperare in questa ambita possibilità: che Lei possa un giorno trovare ancora un’altra ora da distrarre alle Sue cure politiche – dense di preoccupazioni e anche di contrarietà, me ne rendo conto – per dedicarla a un incontro con me, a un aperto scambio di idee».

E fin qui tutto bene. Tutto è “cordialità e simpatia”. De Sica respinge le accuse di Andreotti con molta nonchalance e lo invita a un amichevole incontro di riappacificazione. Il vero punto dolente è un altro. De Sica è disposto ad accettare l’offerta di fare parte della commissione istituita da Andreotti e quindi di dare lustro a un simile organismo: però, però… In questa commissione non ci deve essere un astioso critico cinematografico che ha sputato veleno contro «Umberto D», cioè Vittorio Sala: critico del «Popolo» giornale democristiano e futuro regista di opere di un certo spessore come «I Don Giovanni della Costa Azzurra», «La Regina delle Amazzoni» e soprattutto «Canzoni dal mondo», in cui le canzonette sono accompagnate dalle esibizioni di procaci spogliarelliste.

«Non so rinunciare ad aggiungere un chiarimento… [Esso] riguarda il “caso Sala” che così chiamo perché non si tratta del motivato e meditato giudizio negativo in sede critica di un critico, anche se piuttosto improvvisato e mediocre; ma del generico apprezzamento buttato là, con incosciente superficialità, da un componente della Delegazione Italiana, che depreca un successo italiano e implicitamente sconfessa l’opera del suo stesso capo Delegazione».

Le parole di De Sica non erano casuali: poco tempo prima egli aveva già fatto pervenire allo stesso Andreotti una lettera di protesta sullo stesso tema, scrivendo che Sala non si era: «peritato dal disapprovare esplicitamente il riconoscimento attribuito a Umberto D al Festival cinematografico di Punta del Este» che «sarebbe dovuto andare, a parere di Sala, a un altro film, non italiano. Di fronte a simili casi di evidente faziosità, che toccano non tanto un film o un suo regista, ma tutto il nostro cinema, ritengo che l’unico atteggiamento consentito a un artista sia evitare ogni contatto anche occasionale con i diffamatori della nostra comune fatica».

Proviamo a riassumere e interpretare quello che abbiamo letto. Visto che parliamo di Andreotti è pertinente citare il motto da lui tante volte ripetuto (che risale però a Pio XI, citato a sua volta dal cardinal Marchetti Selvaggiani): «A pensar male del prossimo si fa peccato ma si indovina». Proviamo a pensare male. Dunque Andreotti spara a zero su De Sica. Ma contemporaneamente gli offre un posto di prestigio, in un’iniziativa governativa. De Sica capisce l’antifona e contratta l’offerta, chiedendo la testa di un suo nemico. Ma si badi bene: non di un acido detrattore che si limita alla battaglia delle idee ma un nemico concreto, che cerca di impedire la premiazione di Umberto D, necessaria ai produttori e ai distributori per attirare il pubblico.

«La trattativa tra i due furbi personaggi si conclude però con un nulla di fatto. Due mesi dopo al festival di Cannes, i giurati7, che avevano intenzione di premiare «Umberto D», furono costretti a votare contro questo film8, per le pressioni del ministero degli Esteri italiano9, favorendo il dolciastro (e “ottimistico”) «Due soldi di speranza» di Renato Castellani che vinse la Palma d’oro ai danni, oltre che del film di De Sica, anche del bellissimo «Viva Zapata» di Elia Kazan scritto dal “comunista” Steinbeck e di «Pietà per i giusti» di William Wyler che affrontava il drammatico problema dell’aborto.

Questo boicottaggio ebbe notevoli ripercussioni sul piano pratico ed economico facendo soffrire non poco De Sica, nonostante la soddisfazione morale per il successo internazionale del suo film.

Il regista sperimentò lo stesso ostracismo istituzionale di lì a poco al Festival del cinema italiano a Londra, nel quale «Umberto D» venne escluso, nonostante egli fosse stato scelto dalla regina Elisabetta in persona come rappresentante ufficiale del cinema italiano. Forte del favore della regina, De Sica impose la visione del film a Buckingam Palace al cospetto della corte e ottenne un grande successo personale che tuttavia non compensava il boicottaggio pubblico da parte delle istituzioni, alle quali si adeguavano i produttori e i distributori che impedirono la circolazione del film, provocandone deliberatamente la scomparsa dalle sale cinematografiche italiane e l’insuccesso commerciale10.

Cosa era successo? Che cosa non aveva funzionato nel dialogo tra le due vecchie volpi Andreotti e De Sica? Due cose: la prima è che De Sica faceva il furbo e non rispondeva adeguatamente alle richieste velate di Andreotti. La seconda è che a sua volta Andreotti faceva il furbo con le gerarchie della Chiesa cattolica e con la stessa Cia, che pure sosteneva inizialmente il suo amico Morlion. Il risultato fu una svolta in senso conservatore molto peggiore di quella che crrcsavano di realizzare Andreotti e Morlion.

Procediamo con ordine. De Sica, insieme a Zavattini, faceva il furbo. E resisteva a tutte le lusinghe. Pur di realizzare «Umberto D» aveva rifiutato con ostinazione di dirigere «Don Camillo», un progetto a cui Morlon teneva molto11. Inoltre – come ha mostrato recentemente Tatti Sanguineti – aveva barato con la Commissione cinema presentando una sceneggiatura di «Umberto D» più addomesticata di quella che poi effettivamente utilizzò nel film e si era destreggiato con abilità in una ragnatela di richieste di tagli che aveva in gran parte disatteso, fingendo di obbedire12. Lo faceva per sopravvivere, per superare gli ostacoli, per affermare la sua giusta concezione dell’arte. Gliene siamo tutti grati, perché grazie alla sua astuzia meridionale, corroborata dalla furbizia contadina di Bertoldo-Zavattini, ha creato capolavori immortali. Però il censore di turno non poteva essergli grato per questo. Né gli erano grati i giovani cattolici, i critici cinematografici cattolici e le gerarchie della Chiesa che bollarono più volte, con parole di fuoco, l’esperienza neorealista. Come ha detto Subini, riassumendo decine di testi ufficiali e non ufficiali sullo stesso tema: «Per le gerarchie cattoliche un cinema che mettesse l’accento sulla conflittualità sociale era… un cinema patologicamente pericoloso, del quale diffidare, tanto più nel momento in cui veniva ‘strumentalizzato’ e pesantemente, da sinistra»13.

Per quanto possa sembrare strano, Andreotti e Morlion si opposero apertamente e pubblicamente contro questa chiusura intransigente che limitava il loro potere e proposero una linea più intelligente, consonante con quella adottata dalla Cia nel dopoguerra in ambito culturale: cercare di inglobare gli avversari veri o potenziali, irreggimentandoli e manipolandoli, invece di perseguitarli e creare martiri come faceva McCarty14. Citeremo di nuovo Subini che ha detto intelligentemente: «Andreotti non ci mette molto a capire che gli conviene muovere guerra al neorealismo colpendolo ai fianchi… anche perché il neorealismo ha ormai acquisito una fama internazionale»15. Per questo motivo, d’intesa con Morlion, resistendo a violente campagne della destra cattolica e alle pressioni delle gerarchie, non esiterà ad affermare che: «Il cinema italiano… ha fatto passi assai rilevanti per sfuggire da ogni convenzionalismo seguendo i dettami di una tendenza cosiddetta neorealista che mira a rappresentare le cose come sono rifuggendo spesso anche dal ricorso ad attori professionali. Non ignoro gli inconvenienti e le deviazioni: affermo l’importanza della tendenza la quale ha trovato all’estero un apprezzamento più lusinghiero e favorevole di quello che sia riuscita a determinare all’interno e può costituire un magnifico punto di inserzione per una cinematografia italianamente e spiritualmente ispirata»16.

Il busillis era però rappresentato dal “magnifico punto di inserzione”, una parola quanto mai significativa del metodo e del merito seguito da personaggi come il sottosegretario e dai suoi più fedeli aiutanti, Félix Morlion e il critico cinematografico Gian Luigi Rondi. Dal loro punto di vista “inserzione” era un vero e proprio inserirsi sempre, comunque e dovunque, ficcando il naso dappertutto e modificando ogni cosa modificabile. Il loro ideale era un’edizione “purgata” delle opere neorealiste, che non avrebbe sfigurato con quelle “rivedute e corrette” dell’Inquisizione: tagli, omissis e rielaborazioni per riscrivere “opere proibite”, mandate all’Indice. Tipico esempio di tale metodo fu la rielaborazione di «Stromboli», la cui scena finale fu girata di nuovo direttamente da Morlion e soprattutto di «Francesco giullare di Dio» che venne non solo riveduto e corretto ma addirittura decurtato di uno degli undici episodi che lo costituivano17.

Nonostante ciò, la cristianizzazione del neorealismo fallì. Da un alto infatti i registi seppero destreggiarsi, come fece Rossellini che «impossibilitato a fare diversamente» si riservò «dei luoghi marginali all’interno del testo per disseminare, con circospezione, alcuni elementi che consentono anche letture alternative, le quali col tempo sono andate conquistandosi sempre più spazio»18. D’altro lato la stessa Cia, che aveva caldeggiato e ampiamente praticato questo genere di azioni, cominciò a nutrire dubbi sull’efficacia di operazioni che rischiavano di essere poco efficaci. Una testimonianza esplicita in questo senso è fornita da Carleton Alsop, un agente della Cia che operava ad Holywood sotto le mentite spoglie del produttore indipendente e faceva esattamente le stesse cose, quando riusciva a inserirsi nella preparazione di film coprodotti dagli Studios, cui si associava grazie a piccoli finanziamenti19. Carleton, tutto fiero di aver eliminato pericolose sequenze “antiamericane” da decine di film e galvanizzato da una lotta senza quartiere contro obbrobri come «Furore» di John Ford20 era convinto che «per i comunisti il primo passo consiste nello screditare la religione». Per questo rimase esterrefatto dalla scarsa incisività delle blande manipolazioni di «Francesco giullare di Dio» e scrisse indignato ai suoi superiori, invitandoli a intervenire energicamente contro il film. «Questo è veramente il colmo» tuonava Alsop «non ci potrebbe essere opera migliore per denigrare la religione… San Francesco e i suoi compagni… sono presentati in modo talmente schematico che si ha la sensazione che si tratti di un gruppo di sempliciotti, che non ci stanno del tutto con la testa e di cui alcuni forse omosessuali»21.

Uomini come Andreotti, Morlion e Rondi, rotti a tutto e capaci di tutto, non si lasciarono impressionare da critiche di questo tipo: e tuttavia furono costretti a tenerne conto e ad alzare il tiro per sopravvivere. Persero così il loro ruolo di mediatori e ben presto risultarono inutili. E dopo essersi affannati a dimostrare la propria forza, senza riuscire a ottenere quello che ottenevano con l’intelligenza, persero definitivamente la partita: Morlion fu silurato e allontanato dai centri del potere mentre Rondi dovette accontentarsi di un ruolo più marginale. Quanto ad Andreotti fu trasferito ad altri compiti ed esercitò la propria smania di potere in altro modo.

E’ in questa fase di lento ma prevedibile tramonto che va situata la famosa lettera a De Sica. Andreotti, si mostra più esigente. Pur ribadendo che il neorealismo ha avuto successo all’estero, come aveva detto in precedenza, aggiunge, con un eclettico giro di valzer, un argomento contro il neorealismo, che aveva tenuto a bada fino ad allora, riprendendo – come ha notato Salvini – le critiche espresse dalla cattolicissima «Rivista del Cinematografo» secondo la quale i registi del neorealismo erano “denigratori della patria”22. Dopo aver formulato questa accusa ingiusta, fece due richieste. La prima, l’abbiamo vista, era l’invito a fare un cinema più ottimista. La seconda non l’ha notata mai nessuno fino a oggi e invece era estremamente importante. Fate caso alle parole usate nella conclusione della lettera: «De Sica ha ora annunciato un suo giro d’Italia in cerca di cinematografiche rilevazioni [forse: rivelazioni? ndr]. Noi ci auguriamo sinceramente che egli non si fermi a raccogliere soltanto le male arti delle donne traviate, i furtarelli della cronaca nera, l’isolamento sterile dell’una e dell’altra sottoclasse. Ma che faccia spaziare invece il suo obiettivo in un campo più vasto di esperienze rammentando che ovunque ci sono rivoli di bene… ».

Le parole sembrano innocenti. Invece sono sibilline allusioni che celano una “proposta che non si può rifiutare”. De Sica non aveva annunciato di fare un pericoloso giro d’Italia in cerca di casi limite e soprattutto non aveva mai trovato in questa maniera la sua ispirazione. Semmai aveva tra le mani qualche soggetto e il giro che avrebbe fatto era quello dei produttori. C’era qualcun altro però che gli era molto vicino, che cercava come un cane da caccia nuove “rivelazioni” cinematografiche ed era disposto a qualunque cosa pur di realizzare un film sulle male arti di donne traviate e su celebri casi di “isolamento” sociale di diseredati ed emarginati, esponenti di “sottoclassi” che non avevano diritto a essere ascoltate dalla classe dirigente: Peppino Amato, che aveva prodotto «Roma città aperta», «Francesco giullare di Dio» e «Don Camillo» e che aveva permesso a de Sica di esordire nella regia con «Rose scarlatte». Fiumi d’inchiostro sono stati versati su questo personaggio pittoresco, ingombrante, ignorante, un po’ folle, proverbiale oggetto di riso e di commiserazione da parte di tante, troppe sedicenti teste fini. Non ci vuole molto a sparare sulla crocerossa e prendere in giro Amato che diceva frasi come “Questa sarà una pietra emiliana della cinematografia”. Amato però non era solo questo e il primo a saperlo era De Sica, che ci ha lasciato di lui un ritratto indimenticabile. Diamogli la parola e facciamoci incantare dal suo stile, come sempre: «Amato mi propose [nel 1947] di far società con lui. Accettai di buon grado perché speravo che egli potesse darmi la possibilità di fare un film.. e lo seguii nelle sue peregrinazioni presso i produttori americani che cominciavano ad arrivare in Italia… Amato si faceva accompagnare da me nei vari alberghi dove questi signori scendevano e io dovevo aggiungere al racconto che lui faceva delle varie storie, in un inglese-napoletano da far rizzare i capelli, ma soprattutto in francese che nella sua bocca assumeva un tono clownesco e nello stesso tempo delizioso – il commento musicale che nel caso di Assunta Spina23, soggetto da lui preferito come produttore e regista, veniva tradotto seralmente in inglese o francese… Amato traduceva in francese persino il titolo e iniziava imperterrito la sua esposizione…: “Assunte Spine. In carétte plen de viande un homme nommé Bocca di Fuech porte la viande dal mattaté al marché attraverse via Caracciolo et le sangue de la viande coule sulla strade”. Qui io dovevo imitare con una sorta di musica onomatopeica il rumore delle ruote e degli zoccoli del cavallo. A un certo punto la musica si arrestava di botto perché Amato continuava: “A un certain moment Bocca di Fuech voit un viel homme qui batte une gène fille. Alors il descende della carrette, va vers le viel homme… et dans le moment qu’il arrête le poing, le viel homme tombe par terre. La gène fille esclame: Papà! Alors Bocca di fuech prend l’homme et le pose sulla viande. La gène fille auprès de lui court vers l’hôpital. Bocca di Fuiech et la gène fille attendent à l’infermerie la sortie del dottor qui sorte e dit avec une voix très grave: Il est morte! La gène fille reste paralysèe. Alors le dottor le demande: Comme t’appelles-tu? Et elle avec les larmes qui descendent sur la face dit: Assunte Spine”. E qui (tuonava Amato) ecoppe Naples ace son fraguer, sa joi, son coulèr Piedigrotte, Piedigrotte!. E io a squarciagola cantavo: “Jamme, jamme, jamme ‘n goppa jà… Funiculì, funiculà”…»24.

Non era solo la storia della “donna traviata” Assunta Spina che aveva acceso la fantasia di Amato. All’epoca della lettera di Andreotti egli aveva in mente qualche cosa di simile ma molto più drammatico: un’opera tagliata apposta per la sua fidanzata, la bella Linda Darnell che tutti conoscevano grazie a «Sfida infernale» di Ford. Il film, a cui collaborò tra gli altri Zavattini, si chiamava «Donne perdute» e raccontava senza peli sulla lingua la storia tragica di un gruppo di prostitute disoccupate dopo l’improvvisa chiusura del bordello in cui lavorano. Amato finì col girare lui stesso questo film e certo non ebbe gli stessi risultati che avrebbe avuto se il regista fosse stato un uomo come Vittorio De Sica.

Non basta. Come racconta De Sica, all’epoca di «Assunta Spina» Peppino Amato aveva un’altra idea per la testa25. Voleva fare un film sul brigante Musolino che era ancora vivo dopo tanti anni. Amato e De Sica si recarono al manicomio di Ferrara dove Musolino era rinchiuso e gli fecero un’intervista. Ma la cosa non finì lì: infatti il progetto venne ripreso e rielaborato con fervore ed entusiasmo da De Sica e Zavattini e all’impresa fu associato il giovane e già viscido Gian Luigi Rondi, allo scopo senza alcun dubbio, di ottenere il visto della censura e il benestare del Vaticano26. Musolino, accusato di fare parte della primitiva ‘Ndrangheta calabrese e condannato proprio per questo27, era stato difeso da molti, affermando che non faceva parte di alcuna organizzazione e invece era un tipico esponente dell’isolamento sociale degli abitanti delle montagne della Calabria costretti a farsi giustizia da soli. Le definizioni di isolato, solitario, solo e la parola isolamento risuonano molte volte negli scritti degli apologeti del brigante28, perfino in Giovanni Pascoli, che aveva dedicato una poesia al bandito considerandolo un ribelle avvolto da un’aura romantica: Musolino gli appare infatti come un uomo «piccolo e solo» che «sotto rupi infrante/lungo gli abissi/saliva ai monti»29.

Il progetto di Amato naufragò e fu portato dallo schermo da un altro produttore e da un altro regista, Mario Camerini («Il bandito Musolino», 1950). Tuttavia l’idea di fare un grande film neorealista su un bandito rimase un chiodo fisso per Amato e in fondo per i cineasti impegnati della generazione di De Sica. E bene a ragione. Non solo perché nell’Italia liberata si era finalmente liberi anche di parlare della malavita e opere come «Il bandito» di Lattuada (1946) o «Il brigante» di Giuseppe Berto (1949) avevano avuto un successo strepitoso. Ma soprattutto perché per anni, fra il 1943 e il 1950, i giornali non avevano parlato d’altro che dell’inafferrabile bandito Giuliano. Come ha affermato Francesco Rosi, autore di una famosissima trasposizione cinematografica della vita del bandito apparsa nel 1962: «L’idea di fare un film su Giuliano viaggiava da un po’ nelle case di produzione… Un film sul bandito di Montelepre era nell’aria. Voleva farlo Peppino Amato. E già prima che Giuliano morisse, uno lo aveva fatto nel ’49 Aldo Vergano, I fuorilegge, con Vittorio Gassman, Maria Grazia Francia ed Ermanno Randi nei panni di Salvatore Giuliano… La prima volta che ho pensato a Giuliano, nel 1946… sulla salita di Monreale sentii il cannoncino dei soldati che sparava a Montelepre contro Giuliano e i suoi banditi. C’ero andato con Carlo Mazzarella. Gli dissi: “Pensa Carlo fare un film su Giuliano”…».

Lo stesso Rosi ricorda che l’opera venne a compimento solo molti anni dopo, ma che al momento della sua approvazione da parte dei produttori fu contattato da Amato: «Peppino Amato del quale ero buon amico preparava il suo, scritto da Giuseppe Berto. Mi disse: “Ti offro questo copione”. E io: “Sai che Salvatore Giuliano devo farlo con Cristaldi?”. Mi rispose: “Che t’importa? Ne fai due. Fai anche il mio”. Meraviglioso, non trovi? So che l’ha fatto anche lui, era intitolato Morte di un bandito…». In effetti Amato realizzò questo film nello stesso anno di quello di Rosi. Erano passati dodici anni dalla morte del bandito ma il tema era ancora rovente: ne fanno fede le pressioni contro Rosi per far fallire il progetto, che provocarono il ritiro di produttori dall’impresa come il celebre Goffredo Lombardo (figlio di Gustavo Lombardo che aveva finanziato l’Assunta Spina nel 1948) che fu «messo in guardia da qualcuno al ministero…» perché «evidentemente in certi ambienti il film non era troppo amato»30.

Torniamo ad Andreotti. Le sue velate allusioni ai film che Amato aveva in mente di realizzare e che De Sica avrebbe potuto realizzare con entusiasmo non erano casuali. Nella complessa e intricata storia di Giuliano31 e del suo luogotente Pisciotta, assassinato misteriosamente nel carcere dell’Ucciardone, emersero in più occasioni i nomi di notabili democristiani come il ministro degli Interni Mario Scelba e Bernardo Mattarella (padre dell’attuale presidente della Repubblica) accusati esplicitamente da Pisciotta di essere i mandanti della strage di Portella della Ginestra del 1947 32. Inoltre è ben noto che nel 1947 Giuliano, attraverso un’intervista al giornalista Mike Stern, si rivolse al presidente degli Stati Uniti per chiedere armi ed aiuto alla causa del separatismo siciliano, proponendo un’annessione della Sicilia agli Stati Uniti. La vicenda è oscura e la richiesta di Giuliano può sembrare folle: ma quello che non è folle ed è ancora più oscuro è come fece un modesto reporter come Stern a raggiungere Giuliano, visto che nessun poliziotto italiano sapeva dove fosse. Più di un osservatore delle vicende disse che Stern era «al servizio dell’Oss, l’antenato della Cia»33.

La Cia è stata tirata in ballo da molti anche a proposito di un’altra figura di sedicente reporter che incontrò Giuliano: la sedicente giornalista svedese Maria Cyliacus aveva già svolto funzioni di spia per conto di diversi committenti durante la Guerra Civile spagnola, durante la Seconda guerra mondiale (nome in codice Annette) e nell’Italia del dopoguerra, al punto da essere arrestata dai Servizi Segreti britannici e consegnata alla polizia italiana nel 1949. Intorno a Giuliano gravitavano diversi personaggi dalla fama più che dubbia nel quadro di una serie di operazioni di destabilizzazione della vita politica italiana nelle quali gli Stati Uniti ebbero un ruolo di primissimo piano34.

Un grande regista, di fama internazionale, che si fosse occupato di Giuliano nel 1952, a poca distanza dalla sua morte, mentre erano vivi i suoi aiutanti e forse assassini (Pisciotta fu ucciso nel 1954) poteva inciampare in molti scheletri malamente sepolti nel primo armadio che capitasse. E in ogni caso poteva alimentare nel pubblico un interesse morboso per individui e problemi che era meglio dimenticare. Era questo il senso della richiesta di Andreotti a De Sica: “Staccati da un personaggio come Amato che come Don Chisciotte vuole fare film scomodi e audaci; allontanati dalla ossessione per la verità, tipica del neorealismo; gira commedie all’italiana che finiscono bene. Puoi farlo senza rinnegare il neorealismo, se ti dedichi al neorealismo rosa. Era stata questa la strada scelta da Renato Castellani, sarà questa la strada di tanti autori della “commedia all’italiana”.

Come ho già detto Vittorio De Sica fece il furbo. Fece finta di non aver capito. E fu punito. Andreotti era con le spalle al muro. Coloro che criticavano la sua “moderazione” e pretendevano interventi più energici ebbero buon gioco. De Sica non andava blandito. Andava ridotto sul lastrico e poi messo al guinzaglio.

L’operazione fu portata avanti con determinazione da parte di qualcuno che contava più di Andreotti. Su questo argomento, com’è ovvio, la documentazione è scarsa. Sappiamo bene di inoltrarci nel campo delle ipotesi e prevediamo inevitabili reazioni di diffidenza. Però lo abbiamo già detto: a pensare male si fa peccato ma ci si indovina… E poi, prima di noi ha già pensato “male” qualcuno più autorevole di noi su questi argomenti: Maria Mercader, la seconda moglie di De Sica. Ha detto, sibillina, che dopo le vicende che abbiamo rievocato, il marito fu avvicinato da un nuovo amico, un produttore sbucato dal nulla, che non aveva un nome ma aveva soldi piovuti dal cielo e tante, tante amicizie altolocate. Secondo la Mercader costui fu «il vero tentatore» che provocò «l’involuzione» del regista e «produsse alcuni dei [suoi] successivi film all’insegna del compromesso». De Sica, istigato dal suo produttore «avrebbe ceduto alle tentazioni degli americani e del denaro»35.

Questo personaggio somiglia a Carleton l’agente della Cia travestito da produttore a Hollywood. Ma somiglia anche a Mike Stern che dopo aver intervistato Giuliano, invece di proseguire in una carriera giornalistica che l’avrebbe portato al Premio Pulitzer, di punto in bianco si mise a fare anche lui il produttore e in seguito a dirigere la Intrepid Foundation, con sede sulla portaerei Intrepid36, che ha dato il Premio della Libertà a paladini della democrazia come Ronald Reagan, Margaret Thatcher, George Bush padre, Boris Eltsin, Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi. Ed ecco, terzo fra cotanto senno, un nuovo produttore-predatore spunta all’orizzonte del neorealismo italiano. Si chiama Marcello Girosi. E’ napoletano ma risiede a New York. Di esperienza cinematografica ne ha veramente pochina. Ma ne ha moltissima nel campo dello spionaggio37. Membro eminente dell’Oss – come si è già detto a proposito di Mike Stern è l’archetipo della Cia – fu incaricato nel 1943 di un’impresa delicatissima dietro le linee in Italia che portò a termine in modo perfetto, meritando la Silver Star «per avere assicurato alla Marina americana importanti piani rivelatisi di enorme importanza per la flotta degli USA».

Un personaggio di questo calibro non sembra davvero uno sprovveduto: eppure – ce lo assicura Maria Mercader38 – a un certo momento, nel 1954, cadde in una trappola banalissima, come un principiante. Fu infatti vittima di un ricatto per colpa di Yma Sumac, una cantante peruviana conosciuta negli Usa, che mise con le spalle al muro anche De Sica, irretito dalla stessa Mata Hari, la quale evidentemente concedeva le sue grazie a produttore e regista contemporaneamente. Nel libro della Mercader la vicenda viene ricordata en passant, molto rapidamente, come se si trattasse di un imprevisto del tutto casuale. Ma forse le cose non stavano così.

Ci sia permesso far qualche domanda in merito alla questione. Chi legge potrebbe credere si tratti di un ricatto improvvisato fatto da una profittatrice occasionale. Ma la sensazione è un’altra: un uomo nella posizione di Girosi, che ha tante amicizie altolocate e l’esperienza di una spia di professione, non ci avrebbe messo molto a sbarazzarsi di una ricattatrice dilettante, che non aveva neppure la cittadinanza americana e aveva bisogno del visto per poter lavorare. Ma se invece il ricatto non fosse stato “improvvisato”? Se invece fosse stato molto ben organizzato basato su prove degne di 007 come solo chi è in grado di procurarsi con ogni mezzo «documenti importanti» sa fare? Se Girosi avesse finto di essere ricattato per mascherare meglio il fatto che era lui a ricattare effettivamente De Sica? In questo caso la storia sembra più credibile. E ha un significato diverso da quello che potrebbe apparire a prima vista. Di fronte a una richiesta esorbitante di soldi e a prove schiaccianti, raccolte da professionisti, De Sica avrebbe dovuto mettere da parte l’orgoglio e non avrebbe potuto più permettersi di rifiutare i film commerciali in nome dell’arte, come aveva fatto con «Don Camillo».

Del resto, anche senza dover pensare a tutto questo, è tristemente noto che De Sica era schiacciato dai debiti per il gioco d’azzardo. Ci voleva poco ad approfittare della situazione da parte di qualcuno che volesse costringerlo a fare qualunque film gli capitasse sotto mano, accettando “offerte che non si possono rifiutare”. La Mercader afferma che il vizio del marito si fosse improvvisamente riacutizzato dopo un film finanziato da Girosi, «Montecarlo». De Sica, che aveva abbandonato il gioco da tempo, riprese improvvisamente a giocare furiosamente dopo anni di astinenza, come se cercasse di guadagnare cifre folli magicamente o volesse distruggersi, punirsi per una colpa che non riusciva ad espiare39. Le fa eco Dino Risi che ha rievocato il piccolo complotto ordito da lui e Girosi per convincere De Sica a partecipare a «Montecarlo», fiduciosi che il richiamo per il gioco d’azzardo alla fine avrebbe prevalso40. In queste condizioni non poteva più resistere a offerte di guadagni vantaggiosi, anche a prezzo della dignità professionale. Insomma, per usare le parole di suo figlio Manuel, gli sarebbe stato difficile non fare «delle autentiche puttanate»41.

Qualcuno pensa che io fantastichi troppo? Forse è vero. E forse fantasticava anche Comencini quando ha raccontato di come è stato imbrogliato da Girosi, che lo ha ubriacato per fargli accettare di dirigere «Pane, amore e fantasia» che «doveva essere una satira e si stava trasformando in un vaudeville»42.

Comunque sia, se non volete pensare male per non fare peccato, potete limitarvi a pensare bene una cosa: che sia stato un effetto della lettera di Andreotti, che sia stato “merito” della Cia o quella speciale forma di nevrosi di coloro che secondo Freud “soccombono al successo”43, De Sica dopo «Umberto D» precipita in una spirale che lo allontana definitivamente dal neorealismo e garantisce in modo clamoroso a uomini come Andreotti quello che avevano chiesto fra le righe. Che la cosa sia avvenuta a causa del successo superficiale di «Pane, amore e fantasia» e «Pane e amore e gelosia» finanziati da Girosi; che sia avvenuta a causa di insuccessi come «Stazione Termini», propiziato e finanziato da Girosi; o a causa di film dignitosi, ma privi dell’afflato del neorealismo, come «L’oro di Napoli» pure prodotto da Girosi; o che sia avvenuta a causa dei film finanziati da altri produttori e girati anni dopo, alcuni di successo come «La ciociara», altri decisamente minori come «Caccia alla volpe», il risultato è comunque uno solo: l’uomo che aveva commosso il mondo intero con «Ladri di biciclette» e «Umberto D» perse il ruolo di regista più rappresentativo del cinema italiano, l’autore che la regina Elisabetta in persona aveva scelto tra tutti.

Ma la storia non finisce qui. Non finisce con il De Sica «stanco del cinema… del mondo e degli uomini», con l’uomo «deluso» e sconfitto, come uno dei personaggi dei suoi film, descritto dal figlio Manuel. No. La storia finisce con Andreotti, ineffabile, imperscrutabile, imprevedibile. Lasciamo la parola a Manuel De Sica: «Circa dieci anni dopo [la famosa lettera] Andreotti, che era Ministro della Difesa ricevette mio padre… Nel corso di quella visita confessò a papà di essere un grande estimatore dei suoi film e di essere stato costretto a manifestare un atteggiamento polemico, dovendo sostenere il suo ruolo di nuovo restauratore del dopoguerra»44.

Ormai quel ruolo gli era stato tolto. Andreotti era caduto in piedi e anzi, convinto come al solito che da un male viene sempre fuori un bene, aveva colto la palla al balzo ed era divenuto sempre più potente. Se n’era stato zitto e buono. Ma, come ha sempre detto: «la cattiveria dei buoni è pericolosissima». Soprattutto quella di chi ha la memoria lunga. Per questo non si dimenticò di sconfessare la sua stessa lettera, sconfessando così chi lo aveva sconfessato.

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

1 Si vedano, a esempio, Nello Aiello, Vittorio D, in Repubblica, 3/2/2013 e il catalogo della mostra «Tutti de Sica» (Roma Museo Ara Pacis 8 febbraio-28 febbraio 2013 ) a cura di Gian Luca Farinelli-Rosaria Gioia-Michela Zegna edizioni della Cineteca di Bologna, che raccoglie molti documenti di De Sica nel fondo Giuditta Rissone-Emi De Sica.

2 E. Degrada, Un inizio contro. Censura e scrittura in “Gioventù perduta”, in «Il cinema di Pietro Germi», a cura di Luca Malavasi-Emiliano Monreale, Centro Sperimentale di Cinematografia – Edizioni Sabinae 2016, pagg. 91-103.

3 Si veda ad esempio Roberto Curti-Alessio Di Rocco, «Visioni proibite: I film vietati dalla censura italiana (1947-1968)», Lindau 2014.

4 Giovanni Sedita, «Giulio Andreotti e il neorealismo. De Sica, Rossellini, Visconti e la guerra fredda al cinema» in Nuova storia contemporanea: bimestrale di studi storici e politici sull’età contemporanea, 16, numero 1, gen-feb 2012, pagg. 51-70.

5 Tomaso Subini, «La doppia vita di Francesco giullare di Dio. Giulio Andreotti, Félix Morlion, Roberto Rossellini» Libraccio Editore, 2011; vedi anche dello stesso autore ed Elena Degrada, Félix Morlion e Roberto Rossellini, in «Attraverso lo schermo: cinema e cultura cattolica in Italia», a cura di Ruggero Eugeni e Dario E. Viganò, 2, Dagli anni Trenta agli anni Sessanta, Eds, pagg. 257-286.

6 Va detto, a onor del vero, che Andreotti aveva facile gioco nel criticare con questi argomenti il neorelaismo: infatti la pensavano come lui anche molti dei suoi avversari politici, accomunati da un moralismo di segno opposto, del tutto complementare. Si veda a questo riguardo quello che afferma Italo Moscati, «Vittorio De Sica: vitalità, passione e talento in un’Italia dolceamara», Ediesse, 2003, pag. 193: «Ad Andreotti che stigmatizzava il pessimismo degli autori e in particolare di De Sica … rispose Giancarlo Pajetta, deputato comunista, che difendeva il film e il regista, ma si mostrava d’accordo con Andreotti quando osservava che gli artisti italiani sapevano vedere solo quanto nella vita è triste, a volte disperato, e di non saper cogliere la speranza e la gioia che pure corrono le vie del mondo..». Anche Manuel De Sica ricorda analoghe reazioni da parte di esponenti culturali della sinistra italiana, come ad esempio Sergio Amidei (Manuel De Sica, «Di figlio in padre», Bompiani, 2013, pag. 79.

7 Essi erano: Maurice Genevoix, scrittore (Francia) – presidente, Chapelain Midy, Tony Aubin, Antoine de Rouvre, André Lang, Charles Vildrac, Gabrielle Dorziat, Georges Raguis, Guy Desson, Jacques-Pierre Frogerais, Jean Dréville, Jean Mineur, Louis Chauvet, Madame Suzy Bidault (moglie del potente ministro democristiano Georges Bidault), Pierre Billon, Raymond Queneau.

8 V. De Sica, «La porta del cielo, Memorie 1901-1952», Avagliano Editore, 2004, pag. 112.

9 Un tipo di pressioni che si esercitarono spesso nei confronti dei giurati del festival durante gli anni cinquanta: si veda a questo riguardo tutta la seconda parte del bel volume di Loredana Latil Parsi, «Le Festival de Cannes sur la scène internationale», Paris, Nouveau Monde, 2013.

10 Ibid., pagg. 112-113.

11 Tomaso Subini, Don Camillo contro Umberto D, in «Il Regno», ottobre 2013.

12 Tatti Sanguineti, «Storie di cinema», puntata del 18/11/2014, proiettata sulla rete televisiva Iris. Si veda il commento della trasmissione di Matteo Sacchi, Censure, scandali e Guareschi. Ecco i segreti di “Umberto D” sul quotidiano «Il giornale», 18/11: «Come ha ricostruito Sanguineti, tutta la realizzazione del film si trasformò in un rimpiattino tra i rischi di censura, le preoccupazioni del produttore, Angelo Rizzoli, e la volontà di De Sica. Ad esempio la prima sceneggiatura presentata al sottosegretariato minimizzava la protesta dei pensionati facendo credere che scendessero in piazza contro una nuova tassa sui cani. «E se fosse stato davvero così» Andreotti dixit «non ci sarebbe stato problema». Ma visto che in realtà il testo di Zavattini era molto più dirompente, anche se edulcorato rispetto alle prime stesure, il film fu tutto un fare e disfare. In Storie di cinema vengono mostrate una serie di foto e filmati che documentano tutte le parti che furono tagliate o modificate. Come quelle della rivolta in ospedale, oppure il carabiniere che ingravida una ragazza prontamente trasformato in un soldato di leva per dar meno scandalo.».

13 Subini, «La doppia vita», pag. 40

14 «The Cultural Cold War in Western Europe, 1945-6», a cura di Hans Krabbendam-Giles Scott-Smith, London-Portland, Frank Cass Publisher, 2003

15 Ibid., pag. 44.

16 Giulio Andreotti, La missione intellettuale dell’Italia nell’Europa unita, in Archivio Giulio Andreotti, presso l’Archivio Storico dell’Istituto Luigi Sturzo, Roma: Serie Discorsi, anni 1942-1950, Busta 721.

17 Adriano Aprà, «L’episodio tagliato di Francesco giullare di Dio», in Cabiria. Studi di cinema, 169, settembre-dicembre 2011, pagg. 42-56.

18 Subini, «La doppia vita», pag. 10

19 Frances Stonor Saunders, «La guerra fredda culturale. La Cia e il mondo delle lettere e delle arti», Roma, Fazi, 2004, pagg. 260-266.

20 «Non ci sarà un altro Furore, né un altro La via del tabacco. Non dovranno esserci più film che mostrano il lato sordido della vita americana» citato in Saunders, «La guerra fredda…», pag. 261.

21 Ibid., pag. 262.

22 Subini, «La doppia vita», pag. 37.

23 Assunta Spina era un dramma di Salvatore Di Giacomo, una classica sceneggiata napoletana incentrata sulla figura di una bella popolana di Napoli, appassionata e civetta che viene traviata dal destino e diviene una donna di facili costumi per salvare l’uomo che ama, con esiti ovviamente tragici. Fu portato sulla schermo nel 1915 da Francesca Bertini, protagonista e regista, e rifatto nel 1929 dalla giovanissima Anna Magnani insieme a Eduardo De Filippo, sotto la direzione di Roberto Roberti. Nel 1948 Mario Mattol,i che negli anni trenta aveva lanciato De Sica nella rivista Za Bum, rifece lo stesso film con Anna Magnani ed Eduardo De Filippo, rubando l’idea ad Amato.

24 De Sica, «La porta», pagg. 94-95.

25 Ibid., pag. 96.

26 Gian Luigi Rondi, «Un lungo viaggio: cinquant’anni di cinema italiano raccontati da un testimone», Mondadori, 1999, pagg. 12-13.«Eravamo davanti a una prigione – c’era anche Cesare Zavattini – e stavamo aspettando un brigante, Musolino, graziato da poco, su cui si era pensato di fare un film interpretato da lui stesso e tutto, perciò, dal vero. Di neorealismo si parlava appena, senza neanche definirlo ancora così, ma De Sica, con Zavattini, si era già avvicinato alle sue ricerche di autenticità. Non solo, prima della guerra, con I bambini ci guardano, ma tra guerra e dopoguerra, quasi in clandestinità, con la Porta .del cielo, su un pellegrinaggio a Loreto, realizzato con l’intervento del Vaticano. Che intendeva, in quel modo, aiutare a rimanere a Roma quegli attori e quei tecnici destinati dai repubblichini a trasferirsi, per fare il cinema, a Venezia. De Sica e, Zavattini si auguravano di poter ottenere quella stessa autenticità con il film su Musolino, che nel giorno del suo arresto aveva avuto l’onore di una copertina a colori, disegnata da Beltrame, sulla Domenica del Corriere».

27 Pasquale Sansone, Requisitoria nella causa contro il bandito Giuseppe Musolino e complici, L’Aquila, Giuseppe Mele, 1904, pagg. 73-74.

28S i veda ad esempio lo studio di due luminari della scienza psichiatrica degli inizi del secolo, Sante De Sanctis ed Enrico Morselli, «Giuseppe Musolino di fronte alla psichiatia e alla sociologia», Treves, 1903: «Quelle genti, massime in Basilicata e Calabria, hanno … una tendenza alla vita di avventure… che cresceva nell’isolamento di quelle borgate…» pag. 206; «Il bandito isolato, stile musolino, gode il favore popolare» pag. 208.

29 Giovanni Pascoli, «Poesie varie», I, Mondadori 1974, III edizione (I ed. 1939) pag. 1483.

30 Francesco Rosi, «Io lo chiamo cinematografo», a cura di Giuseppe Tornatore, Mondadori, 2012, capitolo 11: Salvatore Giuliano “non si deve fare”.

31 La bibliografia su Giuliano è vastissima: rimandiamo a Giuseppe Sircana, «Salvatore Giuliano», in Dizionario Biografico degli Italian, 56, Istituto dell’Enciclopedia Treccani, 2001, con bibliografia.

32 Ha scritto a questo riguardo Sircana: «Per quanto la ricerca dei mandanti non sia mai approdata a conclusioni certe, risultarono evidenti le responsabilità degli ambienti politici siciliani interessati a intimidire le masse contadine che reclamavano la terra e avevano premiato il Blocco del popolo nelle elezioni del 20 aprile 1947. L’ipotesi di collusioni e compromissioni di tali ambienti con il banditismo fu rafforzata dall’evolversi degli avvenimenti che portarono alla fine del Giuliano. Consapevole di essere divenuto ormai scomodo a tanti che lo avevano sostenuto, il G. cominciò a fare una serie di allusioni sui rapporti da lui intrattenuti con noti esponenti politici, che gli avrebbero garantito l’espatrio e l’impunità e, in una lettera inviata il 2 ott. 1948 all’Unità, organo del Partito comunista italiano, chiamò addirittura in causa il ministro degli Interni M. Scelba.».

33 La scomparsa di Michael Stern: intervistò il bandito Giuliano , in «Il sole, 24 ore», 13/4/2009.

34 Anche su questo argomento esiste molta bibliografia: rimandiamo il lettore, per semplificare le cose, a Giuseppe Casarrubea – Mario josè Cereghino, «Stati uniti , eversione nera e guerra al comunismo in Italia (1943-1947)», Legacoop, 2007 e al volume scritto dagli stessi autori «La scomparsa di Salvatore Giuliano», Bompiani, 2013. Riassume il pensiero degli autori, per gli argomenti di cui ci occupiamo, la recensione di Tano Gullo del secondo dei volumi citati, apparsa su Repubblica del 23/1/2013, con il titolo I falsi amori di Giuliano: «raffinatissimi manipolatori che – assoluta novità per i tempi – hanno costruito ad arte il mito Giuliano: con un uso sapiente dei media lo hanno trasformato in un implacabile seduttore e in un Robin Hood che ruba ai ricchi per aiutare i poveri (è stimato un miliardo di allora, una cifra pazzesca, l’ introito di rapine, estorsioni e sequestri, bottino che certamente non è andato ai diseredati). Regista di queste mistificazioni è il giornalista Mike Stern (in realtà una spia Usa) il burattinaio che muove i fili della banda fin dalla strage di Portella. Ecco come nel 1953 nel libro di memorie “No innocence abroad” spiega la sua “invenzione” di un Giuliano eroe: “Turiddu è una sintesi tra Robin Hood, Pancho Villa e Dillinger”. E il mito è servito. Anche le donne che, millantando amore, pervenivano da tutto il mondo per incontrare Turiddu, non sono altro che spie o giornaliste manovrate dallo stesso Stern… La stessa Maria Cyliacus, giornalista svedese, in realtà non è altro che una spia Usa. Il suo “folle” amore per Giuliano strombazzato in quattro puntate sul settimanale Oggi, è in realtà farina del sacco di Stern. Per i due autori, Giuliano è un terrorista collegato con le bande nere e con i servizi deviati che nel dopoguerra terrorizzano l’ Italia. “È un criminale – scrivono – uno stragista pronto a tutto in nome del dio denaro. Agli ordini delle alte gerarchie dello Stato, dei neofascisti e delle spie americane, si sente padrone del mondo e pensa alla Sicilia come al suo regno assoluto: in realtà in mano a Cosa nostra e al terrorismo anticomunista».

35 Maria Mercader, «La mia vita con Vittorio De Sica», Mondadori, 1978, pag. 126. Vedi anche quello che la stessa Mercader afferma in altra sede: «Umberto D fu secondo me l’ultimo grande film di Vittorio De Sica; incominciava una nuova fase, in cui egli avrebbe ceduto alle tentazioni degli americani e del denaro. Avrebbe ancora diretto delle opere egregie, insieme con altre che lo sono meno, ma non avrebbe più ritrovato l’ardore dei suoi tempi migliori, la purezza di intenti con cui, senza soldi e quasi senza speranza di successo, si batté per realizzare i film in cui credeva.» in De Sica & Zavattini: parliamo tanto di noi, Editori Riuniti, 1997, pag. 237.

36 Ancorata sul molo 86 della 46esima strada di Manhattan.

37 Domenico Franzinelli, «Guerra di spie: i servizi segreti fascisti, nazisti e alleati, 1939-194 Mondadori, 2004, pag. 219.

38 Mercader, «La mia vita», pagg. 139-140.

39 Ibid., pag. 146.

40 «Il produttore Marcello Girosi gli aveva chiesto aiuto per convincere De Sica ad accettare di recitare per lui e Risi riuscì nell’impresa suggerendo semplicemente il titolo, Montecarlo, convinto che De Sica, giocatore incallito col pallino della roulette, sarebbe stato certamente suggestionato dalle prospettive di trascorrere settimane intere a portata di casinò» Valerio Caprara in «Mordi e fuggi: la commedia secondo Dino Risi», Marsilio, 1993, pag. 128. Vedi anche le dichiarazioni di Girosi stesso a questo riguardo in The New Yorker, 33, Parte 2 (1958), pag. 49: «Marcello Girosi, the producer of Bread, Love, and Dreams insists that it is just a question of happenin that if there were no roulette tables around, De Sica would never miss them. “He doesn’t seek them out,” Girosi says. “It is simply that when there is one close by, it exerts an irresistible magnetism on him.” Zavattini, in loyal defense of his colleague and friend, says, “The emotion he feels while gambling is by no means a vulgar one.” De Sica himself offers no defense. “It’s one of my “It’s one of my weaknesses,” he says. “I’ve been gambling for thirty years. This has taught me that gambling is a bad thing.” … ».

41 Manuel De Sica, «Di figlio in padre», pag. 11.

42 Silvio Danese, «Anni fuggenti. Il romanzo del cinema italiano», Bompiani, 2013, cap. 2.

43 Sigmund Freud, «Coloro che soccombono al successo», in Opere, 8 (1915-1917) Boringhieri, 2013 (I ediz. 1976) pagg. 635-650: «soccombono al successo», coloro che «si ammalano… perché un loro desiderio di intensità sconvolgente è stato appagato».

44 Manuel De Sica, «Di figlio in padre», pag. 78

 

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Redazione
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2 commenti

  • Daniele Barbieri

    Intrigantissima questa «scor-data». Però nella foga di verificare, esplorare, studiare, ipotizzare e ben raccontare Fabio si è “scordato” [eh-eh] di dirvi, urlare, sottolineare – a caratteri CUBITALI – che «Umberto D» è bellissimo, va assolutamente visto. Secondo «il Morandini-dizionario dei film» merita cinque asterischi (il massimo; e nella storia del cinema neanche 100 film hanno, secondo Morandini, questo voto): «tocca una crudeltà lucida senza compromessi sentimentali, fuori dalla drammaturgia tradizionale». Condivido. L’ho visto pochi anni fa per la prima volta e mi ha catturato dalla prima scena a quella finale. E aggiungo un piccolo aneddoto “familiare”. Nel 1952 mio padre lavorava con Vittorio De Sica così si ritrovò a fare una particina in «Umberto D». Quando finalmente io trovai il dvd ero soprattutto voglioso di vedere se il film meritava tante lodi (e l’odio della Dc) ma comprensibilmente ero anche un po’ curioso di vedere la breve apparizione di mio padre. Beh, il film mi ha stregato a tal punto che… quando è finito mi sono chiesto “ma dov’era mio papà?”. Sono tornato indietro e l’ho rivisto praticamente tutto: mio padre era in effetti ben visibile, sia pure per pochi attimi, ma io ero così preso dalla storia che neanche l’avevo riconosciuto. E adesso se volete godervi anche voi il film lo trovate in dvd; ma è anche in rete, per esempio qui https://www.youtube.com/watch?v=m34a_Roe6OM digitando «Umberto D. – film intero – Vittorio De Sica – 1952».

  • Gianluca Ricciato

    Bellissimo e interessantissimo

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