Armiero, Crane, Greco, Lombardi Vallauri e…

… e Roero di Cortanze, Sciapeconi più Autori Vari

7 recensioni di Valerio Calzolaio

Luigi Lombardi Vallauri

«Crudeltà»

Doppiavoce

140 pagine, 14 euro

Storie. Ovunque vi siano sapiens. Se violenza è, generalissimamente, un generico infliggere un danno, la crudeltà potrebbe essere definita come il far soffrire sapendo, o dovendo sapere, di far soffrire; dunque la relazione fra (almeno) due soggetti, uno attivo e cosciente, uno passivo e capace di soffrire. Dal nostro umano punto di vista il mondo fisico e l’evoluzione biologica sono forse congegni di formidabile violenza non crudele. Il noto filosofo del diritto Luigi Lombardi Vallauri (Roma, 1936) aveva studiato professionalmente solo alcuni aspetti isolati della materia, per esempio il libertinismo sadiano, l’abortismo libertario, la violenza ecclesiastica e politica della cristianità storica, l’inferno cattolico, l’esclusione sociale, il carcere. Ora nell’interessante volume “Crudeltà” (collana «La parola alle parole», curata da Ugo Leone) presenta un vero e proprio inventario delle crudeltà pubbliche, private e sociali, nelle varie epoche storiche dell’Occidente e dell’Oriente.

Stephen Crane

«Il segno rosso del coraggio. Un episodio della Guerra Civile americana»

Sellerio

traduzione (dall’edizione Frassinelli 1998) e cura di Alessandro Barbero; la prima edizione è del 1894 sui quotidiani, 1895 in volume

256 pagine, 14 euro

Chancellorsville. 30 aprile-6 maggio 1863. Due eserciti in battaglia nella Guerra di Secessione 1861-65: Nord contro Sud, unionisti contro confederati, blu contro grigi, liberali contro schiavisti, potente Armata del Potomac di Hooker contro sparpagliata Armata della Virginia Settentrionale di Lee, sconfitti contro vincitori (quella volta). Il grande scrittore-giornalista Stephen Crane (1871-1900, morì giovanissimo di tubercolosi) scrisse “Il segno rosso del coraggio” dal (suo) punto di vista settentrionale, una disfatta dei generali e dei soldati unionisti contro i ribelli. Il romanzo è una delle prime narrazioni di guerra, magistrale e disincantata, in terza persona al passato, perlopiù su un ragazzo desideroso di eroismo e colmo di paura, inevitabilmente vile e violento, come in tutti i conflitti armati di massa. L’ottimo storico Alessandro Barbero (Torino, 1959) lo tradusse oltre 20 anni fa, il testo segnò le sue ricerche successive, oggi lo presenta con una bella introduzione.

Ivan Sciapeconi

«40 cappotti e un bottone»

Piemme

208 pagine per 17,50 euro

Europa. 1938-1943. Nella notte fra il 9 e il 10 novembre 1938, la Notte dei Cristalli, scattò il vero e proprio pogrom antisemita, l’attacco fisico contro gli ebrei e i loro beni in tutti i territori sotto il controllo tedesco, coordinato e ordinato dal Ministro della propaganda Goebbels con il pieno consenso di Hitler. Il piccolo ebreo Natan lo sperimentò a Berlino sulla propria pelle, verificò l’indifferenza di molte delle persone che facevano parte del suo quotidiano, vide l’arrivo dei fuochi e le camicie scure trascinar via il caro divertente padre, gran raccontatore di illuminanti barzellette, e caricarlo su un camion. Qualche anno dopo una signora amica avvisa la mamma che è meglio far partire i ragazzi più grandi, Natan sì, il fratello minore Sami no. Prendono il treno, unico mezzo di meno incerto trasporto, prima verso Vienna e Graz in Austria, poi verso Zagabria in Croazia, dove restano un paio di mesi; un gruppo tenta di proseguire verso Turchia e Palestina, Natan e gli altri (di tante nazioni) restano in un castello a Horjul in Slovenia, più di un anno, giungono in Italia nell’estate 1942, arrivano a Modena, finché il rabbino della sinagoga li destina a Nonantola. A Villa Emma giungono quaranta ragazzi e nove adulti, ci sarebbero quarantatré stanze, riescono subito a renderne vivibili due, una per i maschi, una per le femmine. Fanno lavoretti, ascoltano lezioni, imparano mestieri, si riuniscono in assemblea, incrociano cittadini e ragazzi del paese, spediscono e ricevono lettere, riescono pure a procurarsi il pianoforte per Boris, il pianista russo. La Delegazione per l’assistenza degli emigrati ebrei (DELASEM) fa molto ma sono soprattutto i cittadini locali ad aiutarli, i contadini portano cibo, i falegnami forniscono letti, le sarte cuciono vestiti. E il loro sostegno diventa decisivo quando arrivano le SS e bisogna trovare il modo di nasconderli e farli fuggire verso la teoricamente neutrale Svizzera (c’è un primo tentativo fallito rispetto al quale viene alla mente la vicenda di Liliana Segre).

Il creativo insegnante di scuola primaria – a Modena – Ivan Sciapeconi (Macerata, 1969) ha al suo attivo già vari testi didattici e di narrativa per ragazzi e ora racconta con maestria una bella storia vera, un riuscito esordio nel romanzo. Con tono giusto e garbato, sceglie il punto di vista di un bambino ai bordi della pubertà, la narrazione è in prima persona al presente, con mescolanza sapiente di tempi e contesti, di ricordi e illusioni, di pensieri e dialoghi. Il titolo fa riferimento all’ultima necessità della fuga, le donne del paese tutte a produrre cappotti eguali in poche ore, con bottoni e asole al posto giusto, come se fosse una gita di adolescenti. Il romanzo può essere letto da 8 a 98 anni, niente astruserie, sigle, prosopopea. Lo stile e le parole sono curate, le emozioni di un giovanissimo, il dramma di alcune generazioni. Un vecchio e un bambino riescono a seguirlo e a capirlo, a divertirsi e a commuoversi, allo stesso modo. Nella Villa le lingue parlate erano tante, ci si intendeva in molti modi. In fondo al testo si trovano i nomi veri dei ragazzi di Villa Emma e dei loro accompagnatori. Natan ripete spesso che si sforza di memorizzare l’identità di chi li stava aiutando, deve loro la vita, vuole che se ne conservi la memoria. L’autore ha raccolto materiali, testi, racconti e testimonianze parziali, informazioni storiche, pur segnalando che possono esserci dimenticanze, si tratta appunto di un romanzo storico. Del resto, esiste ancora oggi una Fondazione Villa Emma che svolge un eccezionale lavoro culturale e di documentazione. Gli ospiti ebrei di allora fuggirono davvero tutti insieme, solo un piccolo gruppo tentò la via verso sud (e gli americani), un paio si unirono alla Resistenza nelle Marche. Una volta partiti, la vita a Nonantola riprese e vi sono pubblicazioni di piccoli editori locali a raccontarla, alcuni cittadini non sopravvissero alla Shoah, altri furono nominati Giusti tra le Nazioni dallo Yad Vashem; così come iniziò la nuova esistenza degli arrivati in salvo, alcuni dei quali tornarono nel modenese a guerra finita.

Pietro Greco

«La scienza sui giornali. La collaborazione con “l’Unità” e “Strisciarossa“ (1987 – 2020)»

a cura di Maria Enrica Danubio, Cristiana Pulcinelli e Fabrizio Rufo

Carocci

252 pagine, 23 euro

Ogni luogo in cui si trovò e poté scrivere. Per i lettori di allora, per i cittadini del presente. Il volume firmato da Pietro Greco è postumo: il 18 dicembre 2020 la vita è sfuggita di cuore e di mano all’amico chimico e giornalista (Barano d’Ischia, 1955 – Ischia, 2020). Alcuni bravissimi colleghi e amici hanno selezionato una sessantina degli oltre 1500 articoli che scrisse per il quotidiano “l’Unità” lungo 27 intensi anni (1987-2014) e altri tre successivamente ospitati dal quotidiano online “Strisciarossa”. Pietro, a metà degli Ottanta, lasciò l’incarico di borsista presso il laboratorio chimico dell’istituto di ricerca e tecnologia dei polimeri del CNR di Pozzuoli e divenne giornalista, collaboratore a tempo pieno presso il quotidiano nazionale del Pci che stava decidendo di lasciare più spazio alla scienza, addirittura un’intera pagina quotidiana per oltre un decennio. Scelse quel mestiere, non smise più di informare con competenza di causa. Divenne il miglior educatore scientifico italiano degli ultimi decenni, scrivendo spesso anche approfondimenti in saggi di volumi specifici e articoli di riviste, allargando via via l’impegno alla formazione professionale e alla ricerca culturale, poi a lungo formatore dell’intera categoria di ragazzi e ragazze che oggi potete leggere con gusto scientifico su tanti organi di informazione. Ogni luogo che consentisse di ampliare la cittadinanza scientifica delle italiane e degli italiani fu il suo, sempre disponibile e generoso, capace di valorizzare in interviste e commenti chi continuava a frequentare laboratori e università, attento a sollecitare dirigenti politici e rappresentanti istituzionali (del suo e di altri partiti) ad accrescere finanziamenti e ruoli per la ricerca scientifica.

La docente di Ecologia umana Maria Enrica Danubio, la giornalista scientifica Cristiana Pulcinelli e il docente di Bioetica Fabrizio Rufo hanno ottimamente curato un’antologia degli articoli quotidiani di Pietro Greco, mostrando chiaramente la loro fertilità oltre la cronaca: è utile leggerli oggi per capire l’oggi. Certo, con intelligenza e spirito critico (come furono scritti). I testi sono presentati in ordine cronologico, evitando le interviste (usate per rappresentare fedelmente il pensiero e il contributo di illustri personalità), limitando le recensioni (inevitabili visto quanto leggeva per dovere e piacere), sottolineando i temi ricorrenti (fisica delle particelle, cambiamenti climatici antropici globali, neuroscienze, biotecnologie, epidemie, biologia evoluzionistica) e riportando alcuni straordinari “ritratti” con i quali aggiornava lettori ed esperti sulle diverse correnti del pensiero scientifico e filosofico. I curatori chiariscono che la maggior parte degli articoli tralasciati «sono di bellezza, valore e interesse pari a quelli scelti» e che sarebbero necessarie autonome pubblicazioni per i pezzi della rubrica “Commenti” e forse per le cronache delle grandi conferenze ambientali internazionali cui fu inviato meticoloso e militante. Rileggerli aiuta tutti a comprendere meglio cosa davvero è accaduto negli ultimi decenni nel rapporto fra scienza e società e nella crescita (oggettiva) del ruolo assunto dalla scienza “sconfinata” per il funzionamento della società contemporanea e della stessa democrazia. In fondo al volume l’elenco dei quasi sessanta volumi da lui firmati e di una quindicina di curatele (sarebbero centinaia le prefazioni, introduzioni, postfazioni) poi le postfazioni di Pietro Spataro, Walter Tocci, Lucia Votano. Chi pensa e scrive sa di essere sempre debitore non solo di proprie letture ma soprattutto di pensieri e scritture altrui; a quanti Pietro Greco ha fatto maturare un credito di opinioni e testi? O anche solo di scambi di autorevole opinione, di risposte a domande mirate, di revisione di bozze? Era il suo modo di tentare di far godere altri delle proprie competenze e capacità, quanti più altri possibile, anche a costo di guadagnare meno, di tralasciare momenti intimi, di correre troppo, mai sfacciato. Indimenticabile Pi greco.

Gérard Roero di Cortanze

«Io, Tina Modotti. Felice perché libera»

traduzione di Chetro De Carolis

Elliot

308 pagine per 18,50 euro

Da Udine al Messico, con mille transiti. 17 agosto 1896-5 gennaio 1942. Si può sempre trovare una buona occasione per incontrare o reincontrare un’italiana interessante e misteriosa, migrante e sfuggente come Tina Modotti. Fate come se vedeste Monica Bellucci, un secolo prima ovviamente. Assunta Adelaide Luigia Tina Modotti Mondini, era nata a fine Ottocento in Friuli ed è considerata una fra le più grandi fotografe del ventesimo secolo. Figlia battezzata della sarta “cucitrice” Assunta Mondini (1863-1936) e del carpentiere tornitore “tuttofare” socialista Giuseppe Saltarini Modotti (1863-1922), terzogenita di sei sorelle e fratelli, Tina non poté studiare a lungo; fece a dodici anni l’operaia in una filanda e in una fabbrica tessile, dodici ore al giorno come dipanatrice, sbobinatrice, torcitrice, orditrice; nella bottega dello zio Pietro imparò a essere fotografata e a scattare foto, poi a capire qualcosa di negativi e positivi. Nel 1913 decise di lasciare l’Italia e raggiunse a San Francisco il padre emigrato (per le idee politiche e la carenza di lavoro), nei decenni successivi divenne una famosa richiesta fotografa e un’indomita rivoluzionaria in vari continenti, parlò molte lingue e amò molti uomini, alcuni particolarmente significativi per la sua vita. Esistono innumerevoli materiali (pur se purtroppo numerose sue foto sono andate perdute per svariate ragioni), varie corrispondenze e curati cataloghi di mostre, alcune buone biografie, tuttavia fu partecipe di così eminenti eventi storici, frequentò (con reciproci fascino e stima) così grandi personalità, lasciò una traccia così profonda nei tanti che ebbero modo di incontrarla che non si finisce mai di godere leggendone gesta, manufatti, scritti, relazioni.

L’ottimo scrittore e letterato francese Gérard Roero di Cortanze (Parigi, 1948) ben riesce nella difficile impresa di ricostruire coerentemente, con nuove luci e scene, la biografia di Tina Modotti. La definizione più corretta è quella di romanzo biografico, non perché non sia accuratamente documentato, quanto perché la narrazione cerca con successo di essere raffinata ed empatica, in ottemperanza con la frase della protagonista nell’esergo: «So che il problema di vivere influisce profondamente sul problema della creatività artistica». Ecco, l’infanzia e la prima adolescenza abbozzano un’identità sociale culturale politica di Modotti che si affinerà e resterà cruciale: la solidarietà degli operai, dei poveri, degli emarginati contro sfruttamento e discriminazione; la necessità di muoversi ed emigrare per sopravvivere; l’opportunità di lottare per i propri diritti in una libera organizzazione collettiva. Poi la seconda adolescenza e la maturazione californiana aggiungono il desiderio e la capacità di esprimersi in forme artistiche – teatro cinema fotografia poesia giornalismo – condividendo sentimenti e contingenze (non potendo avere figli). I diciassette capitoli hanno il titolo di un’emozione scritta di Tina e tracciano la rotta cronologica dei suoi principali spostamenti. Divenne comunista, visse sempre senza certa stanzialità e senza pace (nemmeno dei sensi), fu spia e crocerossina durante la guerra civile spagnola, morì giovane per un infarto nel suo Messico. Era bellissima e conturbante, non molto alta, flessuosa, capelli color prugna, curve soavi, volto espressivo: ebbe un’esistenza travolgente. Roero di Costanze ce la racconta con garbo, senza pruderie, usando spesso dialoghi esplicativi, evidenziando con equilibrio le questioni controverse, illustrando con parole le foto notissime o perdute. Sempre emergono i turbamenti, i dolori, le malattie, gli inghippi, i guai finanziari, accanto a intensi legami familiari, passioni, gioie, successi, rivoluzioni, generosità. Tina Modotti patì per potersi sentire anche libera e felice (da cui il titolo), continuiamo casti ad esserne fortemente ammirati e inutilmente innamorati, un secolo dopo.

Autori vari (a cura di Paolo Paganetto)

«Un olocausto italiano. Voci di soldati italiani dai lager»

Oltre edizioni

348 pagine, 21 euro

Dall’Italia all’Europa di Hitler. Subito dopo l’8 settembre 1943. Successivamente all’armistizio terminò formalmente il regime fascista e larga parte dell’Italia fu occupata dagli ex alleati tedeschi. Ufficiali e soldati, di vario orientamento politico e religioso, ebbero il coraggio di rifiutare l’arruolamento nella ancora fascista Repubblica di Salò, furono “patrioti” per non tradire la propria patria italiana. I nazisti ne inviarono tanti nei lager e nei campi di lavoro sparsi in Germania e nei Paesi limitrofi. Il volume “Un olocausto italiano”, curato da Paolo Paganetto (Castiglione Chiavarese, 1950), amministratore della casa editrice ligure Oltre, raccoglie trentasei toccanti testimonianze degli internati militari italiani, redatte in forma sia narrativa che poetica (talora con relativi disegni), nell’immediata vicinanza temporale agli eventi raccontati, distinte in tre parti: verso l’abisso, nei regni della morte pianificata (la maggior parte dei testi), dopo l’inferno.

Marco Armiero

«L’era degli scarti. Cronache dal Wasteocene, la discarica globale»

traduzione di Maria Lorenza Chiesara

Einaudi

124 pagine, 15 euro

Pianeta Terra. Dopo il Neocene, o Neolitico che dir si voglia. Lo scarto non va considerato solo una cosa; ogni scarto allude a un insieme di relazioni socio-ecologiche tese a (ri)produrre esclusione e diseguaglianze. Certo, oggi i rifiuti sono un tema estremamente di moda, nella vita quotidiana come nella letteratura scientifica, dall’antropologia alla storia, dall’ecocriticismo alla sociologia, passando per l’economia, il diritto, le scienze politiche, la geografia, l’archeologia, il design, la filosofia e chi più ne ha ne metta. Gli scarti possono essere considerati la caratteristica planetaria della nuova epoca in cui viviamo che forse va definita proprio come Wasteocene (Scartocene, dall’inglese: scarto, rifiuto). Invece, l’ipotesi di una nuova era geologica chiamata Antropocene rischia di porre l’accento sull’immagine neutrale di una generica età degli umani (cieca nei confronti delle differenze sociali, storiche, di genere ed etniche) e di dare poco conto dell’impattante sistema economico e sociale protagonista sia delle specifiche attività umane contemporanee che delle wasting relationship, le relazioni di portata davvero planetaria che producono ovunque luoghi, comunità e persone di scarto. Dentro l’attuale lunga secolare fase, othering, ovvero la produzione coloniale dell’altro, e saming, ovvero l’invenzione retorica del “noi”, sono due facce della stessa medaglia. Molte riflessioni sono ineccepibili, il focus resta consapevolmente abbastanza antropocentrico; l’obiettivo esplicito è stimolare un’alleanza di liberazione multispecie attraverso commoning relationship, collettivi che producono benessere per mezzo della cura e dell’inclusione.

L’ottimo studioso e docente di storia ambientale Marco Armiero (Napoli, 1966) da anni partecipa, con grande rigore scientifico e passione militante, a ricerche negli Stati Uniti e in Europa sull’ecologia, la giustizia sociale e ambientale, i cambiamenti climatici, risultando certamente fra i protagonisti del miglior dibattito accademico e culturale sull’attuale crisi socio-ecologica. All’interno del progetto Occupy Climate Change ha pubblicato in inglese questo bel testo di efficace descrizione della realtà, subito utilmente tradotto anche per i lettori del suo Paese, il nostro. Il primo capitolo ripercorre le vicende del discorso sull’Antropocene, propone il Wasteocene come inquadramento alternativo (da cui il titolo) ed esplora le narrazioni fantascientifiche multimediali sullo Scartocene e il modo in cui questi immaginari configurano le nostre idee riguardo all’apocalisse dei rifiuti. Il secondo capitolo illustra la parzialità delle narrazioni dominanti che “scartano” anche le storie di tossicità (cancellando e addomesticando memorie, colpevolizzando le vittime e naturalizzando l’ingiustizia) e rivolge l’attenzione ad alcune specifiche manifestazioni delle wasting relationship negli Stati Uniti, in Brasile e in Ghana. Il terzo capitolo utilizza Napoli come laboratorio, esplorando al microscopio il fenomeno globale nelle vicende della città (le epidemie di colera, il “male oscuro” dei Settanta e la successiva crisi dei rifiuti). Il quarto capitolo evidenzia le forze che stanno provando a sabotare quelle wasting relationship, sperimentando nuove relazioni socio-ecologiche, pratiche collettive che generano al tempo stesso beni comuni e comunità. Ricchi e puntuali i riferimenti bibliografici finali. Al di là della discutibile ipotesi terminologica (come se il Neocene non fosse abbastanza associabile ad altre diseguaglianze e al lavoro soprattutto schiavistico; come se da secoli e decenni non fosse cruciale l’impatto globale delle attività umane, ingiuste e giuste; come se la ricerca critica dell’ipotesi maggiormente semplice e ampiamente consensuale fosse di per sé un difetto; come se un’era geologica fosse smantellabile), il volume offre un contributo molto utile, abbina interessanti ragionamenti teorici a importanti casi empirici, sottolinea giustamente intrinseche connessioni tra capitalismo e razzismo aiutando a evidenziare ancora una volta la non neutralità della scienza e delle scienze, le conflittualità sociali interne a ogni periodizzazione geologica e storica e la necessità di non restare indifferenti e di impegnarsi scientificamente contro diseguaglianze, discriminazioni, sfruttamenti.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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