Articolo 18….e dintorni

Costituzione, Statuto dei lavoratori, Jobs Act

di Domenico Stimolo

L’articolo 18 è ben noto. Introdotto a partire dal 1970, con la legge dello Statuto dei lavoratori. Già strutturalmente storpiato due anni addietro dalla cosiddetta “riforma Fornero” del governo Monti.

Ora sembra proprio che il novello Pd (la maggioranza grande con il segretario Renzi, ad interim Presidente del Consiglio) intenda definitivamente rimuovere il riconoscimento principale della dignità umana e di vita del cittadino-lavoratore.

Lo Statuto dei lavoratori è strutturato in 36 articoli, suddivisi da 6 “titoli” fondamentali: «della libertà e dignità del lavoratore», «della libertà sindacale», «dell’attività sindacale», «disposizioni varie e generali», «norme sul collocamento», «disposizioni finali e penali»: è di fatto il “regolamento” operativo di alcuni princìpi fondamentali enunciati nella Costituzione italiana, applicati nei luoghi di lavoro con ventidue anni di ritardo. Che così recitano: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» (articolo 1); «la Repubblica italiana riconosce e garantisce sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (l’articolo 2); «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge, senza distinzione si sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politiche, di condizioni personali e sociali» (art. 3); «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto» (articolo 4).

Operativo solamente negli ambiti lavorativi con oltre 15 dipendenti… purtroppo non fu possibile allora fare di più. Un dimensionamento però che rappresenta ancora oggi una parte grande e significativa della realtà lavorativa.

Tutto questo non fu un “regalo” elargito a tavolino ma frutto di grandi movimenti di lotta. Un larghissimo e fondamentale momento di rivendicazione civile messo in opera con grandissimi sacrifici – già dal 1966 (sui licenziamenti) e culminato nel corso del 1968 e ’69 – da parte di milioni di lavoratori, uomini e donne, e dai giovani che, «a gran voce e rompendo le catene», rivendicarono l’introduzione della democrazia nei luoghi di lavoro.

Nell’articolazione dello Statuto sul piano degli inderogabili diritti individuali in particolare assumono valore prioritario: l’articolo 18 («reintegrazione nel posto di lavoro senza giusta causa»), l’articolo 4 cioè il «divieto di impianti audiovisivi per attività di controllo», l’articolo 13 sulle «mansioni del lavoratore» dunque dimensionare la qualifica del lavoratore, con le conseguenze sulla retribuzione, in caso di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale

Ebbene, nel Jobs act (Atti sui lavori…per dirlo in italiano) vogliono cancellare o modificare strutturalmente le dinamiche sancite dalla legge vigente. Nell’ambito delle nuove assunzioni da regolare con il “contratto a tutele crescenti” prevedono:

  • di cancellare il diritto al reintegro come previsto nell’articolo 18 per i licenziamenti illegittimi sostituendolo esclusivamente con un indennizzo proporzionato all’anzianità di servizio;
  • il rimaneggiamento sostanziale sui controlli a distanza (articolo 4);
  • la manipolazione della qualifica del lavoratore – con le conseguenze sulla retribuzione – in caso di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale (l’art. 13).

Poi, nelle previsioni c’è dell’altro di molto rilevante che riguarda gli ammortizzatori sociali – in aggiunta al ridimensionamento dei tempi, delle modalità e delle indennità sulla mobilità operati dal governo Monti – dunque cassa integrazione, indennità di disoccupazione. Nella bozza ancora non si scende nei dettagli ma si lascia facilmente intendere una volontà peggiorativa.

Ai tempi “belli” – quando la destra imperversava con i poteri in mano…..e non solo, quando il padronato tiranneggiava – il lavoratore era un oggetto. A uso e consumo. Un “attrezzo” e un “ingranaggio” usa e getta. Secondo i capricci del “padrone del vapore”.

L’improvvisa “sentenza” ricorrente del minaccioso ricatto era scandita dal “non scendere più domani mattina” ….al posto di lavoro.

Si vuole ritornare a questo, per tutte e tutti?

Certo la fase costituzionale dei diritti civili, nell’impianto operativo, è cambiata già da molti anni, a partire da quelli fondamentali. Sono rimaste le enunciazioni nominali, specie nei luoghi di lavoro e nelle “parità” riconosciute fra locali e migranti.

Milioni di cittadini-lavoratori oggi, per le consistenti crescenti disoccupazioni, per le tante e fantasiose varianti che regolano l’ingaggio lavorativo, per le enormi differenze distributive delle risorse economiche nazionali subiscono la precarietà e l’abuso. A danno soggettivo e delle proprie famiglie. Le disparità si sono enormemente accresciute, nei diritti fondamentali della cittadinanza democratica nei luoghi di lavoro e nella certezza di disponibilità di un reddito non a termine, equo e sufficiente.

I “pacchetti” legislativi (Treu e Biagi degli anni passati), i contratti a termine senza causale – recentemente introdotti su base ancora più massiccia – hanno di fatto incrementato voracemente e a dismisura i rapporti di lavoro costituiti da precarietà e basso costo.

Tutto questo non ha implementato l’occupazione complessiva. Anzi, la discesa continua sempre più forte!

Pur di fronte alle “innovazioni liberatorie” (cioè che si disfano della dignità di chi lavora) la situazione generale dell’occupazione, nel numero e nella qualità, è largamente peggiorata.

Da anni ormai in Italia si grida sempre alla strutturale crisi “occidentale” e invece si consolida il dato drammatico che questa, in particolare nel contesto europeo, riguarda le specifiche caratteristiche degenerate della forma economica, finanziaria e produttiva nazionale (compresa la corruzione su larga scala). Enormi flussi finanziari vengono esportati illecitamente all’estero, evasi, e mancano gli investimenti produttivi pubblici e privati. Numerosissime e intere linee produttive di tutti i comparti merceologici sono state dismesse in Italia e reimpiantate nei “paradisi” a bassissimo costo.

La valenza fondante dell’articolo 18 è già stata ampiamente smantellata due anni addietro. La libertà di licenziare c’è sempre stata, sul piano collettivo e individuale per giustificato motivo.

Quell’articolo 18 (come poi previsto in tutte le normative contrattuali) proteggeva i lavoratori, oggi in maniera molto più residuale, dal licenziamento senza giusta causa e senza giustificato motivo. I licenziamenti individuali vengono effettuati per: motivi disciplinari, per giustificato motivo determinato da crisi e ristrutturazione aziendale, per inidoneità del lavoratore o eccedente morbilità.

L’esperienza di sempre insegna che il “capriccio discriminatorio” del licenziamento individuale è sempre in agguato (basta scorrere le casistiche che in specie riguardano quei lavoratori che con sano e corretto senso civico hanno giustamente richiesto il rispetto delle regole contrattuali normative e salariali) quindi senza giusta causa e mascherato in tanti modi, senza che possono essere dimostrabili motivi politici, sindacali, razziali, religiosi, di sesso.

Da parte dei ben noti proponenti viene innalzata una enorme cortine fumogena di travisamento del reale “stato dell’arte” come se l’annullamento di uno strumento democratico e giuridico per tutte le nuove assunzioni (reintegro) – ormai reso inefficace nella difesa complessiva del giusto diritto – fosse improvvisamente lo strumento miracoloso per risollevare le drammatiche sorti nazionali.

L’obiettivo vero è ben altro: codificare il servaggio generalizzato nei luoghi di lavoro, intaccare strutturalmente lo Statuto dei lavoratori (quindi, la Costituzione), umiliare e distruggere le organizzazioni sindacali, esaltare i “valori storici” della destra.

Un’operazione inutile e strumentale sul piano delle conseguenze propagandate. Lo dicono bene le analisi sul mercato del lavoro prodotte dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) riguardo la protezione accordata al lavoratore con contratto a tempo indeterminato – tutela contro il licenziamento – nei Paesi dell’Europa. Nell’apposita classifica sulle “rigidità” all’Italia nel 2013 è stato assegnato un indice di 2,51. La Germania è a 2,87, l’Olanda a 2,82, la Svezia a 2,61… A fronte di maggiori protezioni l’indice sale. Sulla flessibilità, per l’ingresso nel mondo del lavoro con contratto a tempo determinato, l’Ocse ha assegnato al nostro Paese un indice pari a 2 –… prima dell’ultima riforma 2014 sulla liberalizzazione dei contratti a tempo, con tre proroghe in cinque anni – con la media europea a 1,75. Giusto per fare qualche esempio la Norvegia e la Spagna hanno un indice di 3, la Francia è a 3,63. L’ Olanda ha meno flessibilità di noi. Per l’Italia nel 1997 l’indice era 4,75. Più basso è l’indice più alte sono le flessibilità.

E’ palesemente chiaro, quindi, che le questioni vere sono ben altre. L’articolo 18 deve essere esteso in tutti i luoghi di lavoro.

Redazione
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