Avranno pensato a Blair perché Satana non era disponibile

articoli di Sabrina Provenzano,Tomaso Montanari, lavaligiablu.it,Gideon Levy, Muhammad Shehada, Eman Abu Zayed, Gianni Lixi (ripresi da ambamed.it, invictapalestina.org, ilfattoquotidiano.it, valigiablu.it, lazuccablog.wordpress.com, zeitun.info)

Il piano di pace del Gangster dei due mondi – Tomaso Montanari

Il piano di pace del Gangster dei due mondi riporta indietro la storia di più di un secolo, quando alla fine della prima guerra mondiale e con il disfacimento dell’impero ottomano, la Palestina divenne un Protettorato britannico. Allora, pero’, il mandato britannico della Palestina si concluse con la risoluzione dell’ONU 181 del 29.11.1947 che proponeva la spartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo palestinese. Quel che ne è seguito -guerre, risoluzioni ONU a tutela dei diritti dei Palestinesi- lo conosciamo.

Il piano concepito da Trump, che esautora del tutto qualsiasi legittima Autorità palestinese, e’ stato subito condiviso da Netanyahu e sottoposto ad Hamas, sapendo che non lo avrebbe mai accettato. Il Commissario della ricostruzione sarà probabilmente Blair che, avendo dato prova in passato di cinico supporto ai piani predatori degli US, andrà a completare la triade criminale.
Il Popolo palestinese, vittima sacrificale, e’ letteralmente obliterato in questa tragica, oscena pantomima che verrà ricordata come una delle pagine più buie della Storia.

“Mentre seguiamo la Flotilla con il cuore gonfio di ansia, arriva dalla corte del Grande Gangster un ‘piano di pace per Gaza’.

È una proposta oscena: immaginate se qualcuno avesse trattato con Hitler, ma non con gli ebrei, proponendo la fine della Shoah in cambio di una cessione dei beni delle vittime, e di sovranità sulle loro vite. E con la minaccia di riaccendere i forni, se gli ebrei avessero rifiutato.

Non siamo molto distanti. Il primo coautore del genocidio, Trump, insieme all’autore principale Netanhyau, propongono di trasformare Gaza in un protettorato americano, governato da quel Tony Blair che si è conquistato sulla pelle degli iracheni i galloni di criminale di guerra. E se le vittime – ritenute indegne perfino di partecipare alla genesi del piano, perché inferiori e subumane: oggetti, non soggetti – dovessero dire di no, che riprenda il «lavoro»: il genocidio, lo sterminio, la soluzione finale.

In un distopico ritorno al 1948, le potenze occidentali riassumono il controllo della Palestina: un trionfo del peggior colonialismo predatorio, tutto devastazione e saccheggio. Un quadro in cui i crimini terribili di Hamas rischiano di sfigurare per inconsistenza.

Non so cosa potranno fare i palestinesi, disperati e allo stremo. Collaborazionisti, speculatori, avvoltoi di ogni tipo volteggiano sulla scena del genocidio, che naturalmente il ‘Piano di Pace’ (che profanazione, usare questa parola!) ha il preciso scopo di lavare per sempre, annullando crimini e responsabilità.

So cosa dovremmo fare noi, italiani ed europei: insorgere. E invece il nostro governo nero, e quello guerrafondaio di Von der Leyen si precipitano a lodare il piano, genuflettendosi al Gangster. E l’eclissi dell’Europa, lo schianto della civiltà occidentale.

Sono sempre più vere le parole scritte da Omar el Akkad sul genocidio di Gaza: «Considerando anche lo spargimento di sangue che scatenerà in futuro, quello che è successo sarà ricordato come il momento in cui milioni di persone hanno guardato all’Occidente, all’ordine basato sulle regole, al guscio del liberalismo e a come è asservito al capitalismo, e hanno detto. Non voglio averci più niente a che fare».

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“Nessuno ha alternative ad Hamas: piano Blair pura fantasia coloniale” – Gideon Levy

(intervista di Riccardo Antoniucci)

“È stato un discorso allucinante, ma un discorso inutile. Ha paragonato Israele ai nazisti, complimenti”. Gideon Levy, editorialista di Haaretz tra i più noti, è atterrato a Roma (dove ha ricevuto ieri il premio Kapuscinski nell’ambito del Festival della Letteratura di Viaggio promosso dalla Società Geografica Italiana) qualche ora dopo aver finito di vedere in televisione il discorso di Benjamin Netanyahu all’Onu. “L’unica cosa rilevante del discorso è stata la platea vuota, segno dell’isolamento di Israele”.

Ieri hanno ripreso a circolare ipotesi di tregua a Gaza, Netanyahu le sembra pronto?

Dovrà farlo per forza, se sarà Trump a costringerlo. Gli Stati Uniti sono rimasti l’unico alleato di Israele, dopo che Netanyahu è riuscito a perdere il sostegno degli europei. Senza gli Usa, Israele non sarebbe la potenza militare che è. Per questo l’unico vero evento che conta è l’incontro di lunedì con Trump a Washington.

Cosa resterà di Gaza dopo la fine della guerra?

Nessuno di noi può anche solo immaginare la dimensione della distruzione. Mi fanno ridere i piani di ricostruzione che circolano: 1 o 2 anni non basteranno mai a rimettere in piedi la Striscia. E poi, vogliono mettere a capo di tutto Tony Blair. Cioè, tornare alle colonie britanniche? La verità è che l’unica alternativa reale è che si torni al 6 ottobre. Hamas non se ne andrà, non la cacceremo così, nessuno, né i sauditi né gli americani, vogliono finanziare la ricostruzione di un posto che sanno che Israele distruggerà di nuovo tra 5 anni.

Il suo ultimo libro (Meltemi) si chiama Killing Gaza, non Killing Hamas

Da mesi ho capito che non possiamo chiamare quest’offensiva in nessun altro modo che un genocidio. La Striscia viene sistematicamente distrutta, muoiono decine di palestinesi al giorno, non c’è un giorno in cui non muoiano bambini. Ci sono prove indubitabili della fame. E quello che vediamo è una minima parte di quanto accade. Una risposta militare dopo il 7 ottobre era attesa e legittima, ma subito dopo il 7 ottobre è diventato una scusa per portare avanti il vecchio piano di pulizia etnica dell’estrema destra al governo.

All’Onu il premier ha detto che l’Idf evita vittime civili, consente aiuti umanitari e chiede alla popolazione di lasciare le zone di guerra…

Ha detto che i nazisti non hanno trasferito gli ebrei, è falso: lo hanno fatto eccome, ed era parte della strategia dell’Olocausto. È quello che stiamo facendo a Gaza: pulizia etnica. Gli unici a credere alle bugie di Netanyahu ormai sono gli israeliani.

Non sono abbastanza i critici di Netanyahu in Israele?

La maggioranza degli israeliani purtroppo non vuole sapere, non vuole vedere. Cercano di evitare il dilemma morale di sapere che sono i loro figli che, nell’Idf, stanno massacrando i palestinesi. Le proteste sono per gli ostaggi, in troppi dicono ‘fate tornare gli ostaggi e poi ricominciamo la guerra’. E la cosa grave è che i media israeliani li assecondano e non mostrano immagini di Gaza nei notiziari e sui giornali. Da due anni sembra che a Gaza vivano solo 20 persone: gli ostaggi. Qualsiasi italiano di provincia ha visto più immagini dalla Striscia di noi. E non c’è la censura, è tutta auto-censura. La colpa non è del governo, ma dei miei colleghi che hanno tradito la professione. Siamo peggio della Russia, almeno lì la censura esiste e i giornalisti che tacciono la verità sono giustificabili.

Come spiega questa mancanza di critica dell’opinione pubblica israeliana?

Con un lavaggio del cervello lungo decenni. E poi c’è stato il 7 ottobre. Quando faccio vedere ai miei amici i video da Gaza la loro prima reazione è dire che sono fake.

La Flotilla è ripartita per Gaza, le autorità israeliane minacciano di arrestarli o peggio. Gli europei possono mediare corridoi umanitari?

Su Haaretz abbiamo scritto un editoriale col titolo ‘Fateli entrare’. Lasciateli andare a Gaza per raccontarci la realtà di quella tragedia! Ma non succederà, e quanto agli Stati europei, direi che prima di trattare con la Flotilla dovrebbero fermare Israele, militarmente o meno.

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I COLONIZZATORI PROPONGONO IL PIANO DI “PACE” AI COLONIZZATI – Gianni Lixi

Il cosidetto piano Trump 2,3,4…(non si capisce a che numero siamo arrivati) piace a tutti, quasi tutti…tutti (come direbbe Jannacci). Piace ad Israele (che lo ha scritto a Trump), alla Francia, alla Germania, all’ UK, all’Italia, piace all’Europa di UVL (e figuriamoci), ma anche a tutti i vassalli degli USA: Arabia Saudita, Giordania, UAE, Egitto, Turchia, Pakistan e sorprendentemente anche all’Indonesia.

Un piano dove non c’è una sola garanzia che i palestinesi potranno vivere liberi nella propria terra. Anzi c’è il germe della nuova colonizzazione. A testimonianza di questo la risibile chiamata di Tony Blair, che dovrebbe essere trattato come criminale di guerra per i milioni di morti in Iraq, inglese, appartenente al paese che con la dichiarazione di Balfour ha messo le basi per il genocidio in corso. Blair che da PM dal 2008 al 2015 non ha mai mosso un dito per impedire l’occupazione di terre e l’estensione delle colonie da parte dei coloni israeliani.

Ai Palestinesi è lasciata solo la scelta di abbandonare la lotta e consegnare i prigionieri. Solo così il genocidio potrà finire. Il GENOCIDIO! Cioè lo sterminio di un popolo. Si sfrutta l’orrore e lo si mette sul tavolo delle trattative. Solo questo basterebbe a considerqre questo piano come uno spregiudicato piano di guerra altro che pace! Nessuna garanzia che israele si ritiri da Gaza. Anzi la certezza che ci rimarrà secondo le stesse dichiarazioni di Netanyhau. Nessuna garanzia che smettano di occupare, che israele si ritiri dai territori occupati, che cessi l’apartheid. Nessuna garanzia all’autodeterminazione.

Il sangue di 66000 palestinesi lavato da altro orrore, quello di usare lo stop al genocidio con la resa. Tutti questi morti non sono morti per questo. Tutti questi morti sono morti per ottenere quello che si è ottenuto, l’isolamento di israele.

E d’altra parte questo piano è la prova provata del fallimento di israele: non è riuscito nella pulizia etnica di Gaza dove sarebbe dovuta sorgere la “Gaza Riviera”, non è riuscita a liberare gli ostaggi con la forza come aveva detto, non è riuscita ad annientare la resistenza palestinese come ripetutamente detto dai generali israeliani.

E dire che è tutto scritto! Israele deve rispettare le leggi internazionali. Tutti gli altri paesi devono obbligare israele a rispettarle.

Quando la resistenza Palestinese dirà no a questa proposta io sarò molto triste per il tanto, troppo sangue palestinese che ancora scorrerà, l’unico conforto sarà la convinzione che sarà la scelta giusta per una Palestina veramente libera.

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Gli italiani ci hanno regalato un sorriso a Gaza – Eman Abu Zayed

da Al Jazeera

Lunedì scorso ero per strada a Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza, cercando di prendere la linea internet, qualcosa che è diventato quasi impossibile a Gaza. La nostra casa era stata appena bombardata per la terza volta nel corso della guerra ed eravamo stati costretti a fuggire per la decima volta. Avevo di nuovo perso tutto.

Il mio cuore era pieno di angoscia e tutto intorno a me mi ricordava la perdita che ci aveva colpiti.

Quando finalmente sono riuscita a connettermi il mio telefono è stato inondato da video, foto e messaggi audio dall’Italia. Ho visto masse di gente in marcia nelle strade, sventolando bandiere palestinesi e inneggiando insieme per la nostra libertà. Ho visto piazze piene di striscioni con la scritta “Fermare la guerra” e “Palestina libera” e volti che mostravano un misto di rabbia e speranza. Cercavano di mandarci un messaggio: vi ascoltiamo, siamo con voi.

Ho provato un’immensa gioia.

Era la prima volta che vedevo manifestazioni pro Palestina di questa grandezza ed impatto. I sindacati di base italiani avevano convocato uno sciopero di 24 ore e gli italiani hanno risposto in massa. In più di 70 città italiane le persone sono scese in piazza per dimostrarci che si preoccupano per Gaza, che sostengono la nostra causa, che vogliono una fine immediata del genocidio.

Non si trattava di una nazione musulmana o a maggioranza araba: si trattava di un Paese occidentale, il cui governo rifiuta di riconoscere uno Stato palestinese e continua a sostenere Israele. Eppure il popolo italiano ha marciato per noi per esprimere la sua solidarietà.

Questa mobilitazione dimostra che la solidarietà per i palestinesi non si limita a chi ci è vicino per lo stesso retroterra culturale, ma si estende alle persone di tutto il mondo, anche in luoghi dove le elite politiche continuano a sostenere Israele.

A Gaza queste immagini della solidarietà italiana si diffondono di telefono in telefono, portando un raggio di speranza tra le macerie, la fame e le bombe. La gente ha trasmesso questi video sulle chat, guardando con stupore le masse italiane. Queste immagini e questi video hanno dipinto un raro sorriso su tanti volti palestinesi. Si è insinuata la sensazione che non siamo completamente abbandonati, che il mondo esterno si sta mobilitando per fermare la guerra.

Durante la scorsa settimana ho anche seguito da vicino la Sumud Flotilla che si stava dirigendo verso Gaza. Il governo italiano ha fatto enormi pressioni sulla delegazione di 50 cittadini italiani perché desistessero. La maggioranza di loro ha rifiutato e ora sono a bordo di diverse navi che si dirigono verso di noi.

Sono anche stata in grado di comunicare con alcuni giornalisti a bordo della nave, che mi hanno detto parole piene di incoraggiamento e speranza, assicurandoci che non siamo soli e che c’è chi continua a lottare per noi, nonostante le distanze e i rischi.

Le manifestazioni e la flotilla non sono state il solo raggio di speranza che mi ha raggiunta dall’Italia. A giugno, dopo aver letto alcuni miei articoli, due italiani, Pietro e Sara, e Fadi, un palestinese che vive in Italia, mi hanno aiutata.

Il loro sostegno non si è limitato alle parole, è stato tangibile. Mi hanno aiutata a diffondere i miei scritti in modo che raggiungessero più persone. Inoltre mi hanno costantemente seguita, chiedendomi di me e della mia famiglia e inviandomi messaggi di speranza e incoraggiamento.

Ad agosto con l’aiuto dei miei amici sono riuscita a pubblicare la mia storia personale sul quotidiano italiano Il Manifesto, condividendo la nostra sofferenza e resilienza con migliaia di lettori.

Prima della guerra non conoscevo molto dell’Italia. Sapevo che è un bel Paese con una storia interessante e una popolazione amichevole. Ma non mi sarei mai aspettata di vedere gli italiani mobilitarsi per la Palestina, scendendo in piazza in tantissimi per sostenerci.

Oggi provo ammirazione e stima per gli italiani. La loro partecipazione alle manifestazioni, il loro appoggio personale e il loro ruolo in iniziative come la Sumud Flotilla mi hanno davvero fatto sentire che la nostra causa non è lontana dal cuore delle persone di tutto il mondo, che la solidarietà internazionale non è fatta solo di parole, ma di azioni concrete.

Spero di vedere manifestazioni simili in altri paesi, per sentire che il resto del mondo vede davvero la nostra sofferenza e sostiene il nostro diritto alla vita, alla libertà e alla dignità.

Al popolo italiano e a tutti gli altri che si mobilitano per Gaza voglio dire: vi vediamo, vi sentiamo, voi riempite di gioia i nostri cuori.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

Eman Abu Zayed è una scrittrice palestinese di Gaza e una studentessa in traduzioni

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

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Il piano di Trump per Gaza: un tentativo di impresa coloniale nel XXI secolo

(da lavaligiablu.it)

Aggiornamento 4 ottobre 2025: Hamas ha risposto al piano di 20 punti per la pace e la ricostruzione di Gaza, proposto da Trump. Il presidente statunitense aveva dato un ultimatum di tre o quattro giorni preannunciando gravi conseguenze in caso di rifiuto. Il piano prevede il disarmo di Hamas, il rilascio degli ostaggi israeliani, la fine graduale degli attacchi, l’ingresso di aiuti umanitari e la ricostruzione. Gaza sarebbe governata da un’autorità transitoria di tecnocrati, supervisionata da un “Consiglio di pace” internazionale guidato dallo stesso Trump.

Hamas ha affermato di accettare il piano, di essere pronto a rilasciare a tutti gli ostaggi e a cedere l’amministrazione di Gaza a un organo palestinese di “tecnocrati”, ma chiede di poter negoziare alcune questioni.

Poco dopo la comunicazione di Hamas, Trump ha chiesto a Israele di “interrompere immediatamente i bombardamenti su Gaza”, aggiungendo che Hamas era “pronto per una pace duratura”. “Vedremo come andrà a finire”, ha detto Trump: “È molto importante, non vedo l’ora che gli ostaggi tornino a casa dai loro genitori”. Il Forum delle famiglie degli ostaggi ha chiesto “al primo ministro Netanyahu di avviare immediatamente negoziati efficaci e rapidi per riportare a casa tutti”.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che Israele si preparerà ad attuare la “prima fase” del piano di Trump per il rilascio degli ostaggi e si è impegnato a lavorare “in piena collaborazione con il presidente e il suo team per porre fine alla guerra”.

Il piano statunitense prevedeva che, una volta che Israele avesse accettato pubblicamente l’accordo, si sarebbe aperto un periodo di 72 ore per il ritorno di tutti gli ostaggi.

Andando nel dettaglio, Hamas ha dichiarato che rilascerà gli ostaggi “secondo la formula di scambio contenuta nella proposta del presidente Trump e una volta soddisfatte le condizioni sul campo per lo scambio”, senza però specificare quali sono queste condizioni.

Per quanto riguarda il futuro di Gaza, il gruppo accetta “di cedere l’amministrazione della Striscia di Gaza a un organo palestinese composto da tecnocrati indipendenti, sulla base del consenso nazionale palestinese e del sostegno arabo e islamico”. Non è chiaro se Hamas veda un posto per sé o per i suoi membri all’interno di tale organo di tecnocrati.

La dichiarazione chiarisce che Hamas vuole svolgere un ruolo nella discussione sul futuro del popolo palestinese. Hamas vuole un dibattito tra i palestinesi sulle questioni “relative al futuro della Striscia di Gaza e ai diritti intrinseci del popolo palestinese”. Ha inoltre affermato che “Hamas prenderà parte” a tale discussione e “contribuirà in modo responsabile” alla stessa.

Non ci sono riferimenti, infine, sul disarmo del gruppo e sulla proposta di amnistia per i membri che si impegnano a coesistere.

I leader mondiali hanno accolto con favore la dichiarazione di Hamas che – ha commentato a BBC Oliver McTernan, che che da oltre vent’anni si occupa di risoluzione dei conflitti in Medio Oriente – “ha rimesso la palla nel campo di Trump e di Netanyahu, chiedendo loro di decidere se accettare la richiesta di Hamas di ulteriori negoziati su alcuni aspetti del piano di pace”.

L’immediata risposta di Trump sembra aumentare, a sua volta, la pressione su Israele, già alta dopo l’attacco israeliano del 9 settembre contro i rappresentanti di Hamas in Qatar che aveva spinto il presidente statunitense a premere su Netanyahu affinché sostenesse un accordo quadro per porre fine alla attacchi su Gaza. Come rivelato da Axios,  Trump ha firmato lunedì scorso un ordine esecutivo per fornire al Qatar una garanzia di sicurezza degli USA con condizioni simili a quelle dell’articolo 5 della NATO. È stato uno degli elementi chiave che hanno portato all’appoggio di Israele al piano di Trump.

Dopo la dichiarazione di Trump, un giornalista della stazione radio militare ufficiale israeliana Galatz ha riferito che l’IDF avrebbe ridotto al minimo l’attività delle truppe a Gaza. Tuttavia, diverse esplosioni sono state udite nelle prime ore di sabato. Gli attacchi continuano.

Mentre a Gaza proseguono gli attacchi Israeliani e le uccisioni di civili – almeno 33 palestinesi nella sola giornata di ieri, riferiscono gli ospedali gazawi – Trump ha dato ad Hamas un ultimatum di “tre o quattro giorni” per rispondere al suo piano di pace e ricostruzione nella Striscia, preannunciando gravi conseguenze in caso di rifiuto. “Abbiamo bisogno di una sola firma, e chi non firmerà la pagherà cara”, ha detto Trump ai generali e agli ammiragli statunitensi riuniti in una base militare a Quantico, in Virginia. Il presidente ha già affermato che sosterrà Israele nel proseguimento degli attacchi su Gaza se Hamas rifiuterà la proposta o rinnegherà l’accordo in qualsiasi momento.

La proposta di cui si parla è quella annunciata da Trump il 29 settembre in una conferenza stampa congiunta a Washington con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Trump lo ha presentato come un accordo storico per portare la pace dopo due anni di violenze catastrofiche ma, scrivono sul New York Times Luke Broadwater e Shawn McCreesh, è parso più un ultimatum ad Hamas.

Il piano di 20 punti prevede il disarmo di Hamas e l’esclusione da ruolo politico futuro a Gaza, che sarebbe gestita da un’autorità di transizione composta da tecnocrati apolitici guidata da Trump. Nel caso in cui il piano venisse accettato da entrambe le parti, la fine degli attacchi sarà accompagnata dal rilascio di tutti i 48 ostaggi israeliani, sia vivi (circa le metà) che morti, “entro 72 ore”, e dal ritiro graduale delle forze militari israeliane in una zona cuscinetto concordata, all’interno di Gaza.

In cambio del rilascio degli ostaggi, Israele rilascerà 250 palestinesi attualmente condannati all’ergastolo e 1.700 palestinesi detenuti a Gaza dal 7 ottobre 2023, dopo l’attacco terroristico di di Hamas contro Israele. Per ogni ostaggio israeliano i cui resti saranno restituiti, Israele restituirà i resti di 15 palestinesi deceduti. Durante il periodo di rilascio degli ostaggi saranno sospese tutte le operazioni militari, compresi i bombardamenti aerei e di artiglieria.

Una volta rilasciati tutti gli ostaggi, sarà concessa l’amnistia ai membri di Hamas che accetteranno la coesistenza pacifica e la consegna delle armi. A coloro che desiderano lasciare Gaza sarà garantito un passaggio sicuro verso i paesi che hanno accettato di accoglierli.

Per quanto riguarda gli aiuti umanitari, “l’ingresso avverrà senza interferenze da parte delle due parti attraverso le Nazioni Unite e le sue agenzie, la Mezzaluna Rossa e altre istituzioni internazionali non associate in alcun modo a nessuna delle due parti”. Il ripristino degli aiuti comporterà la riapertura del valico di frontiera nella città meridionale di Rafah, in gran parte rasa al suolo da Israele.

E la Gaza futura? Il piano parla di “una zona deradicalizzata e libera dal terrorismo che non rappresenti una minaccia per i paesi vicini”. In un altro punto, si dice che il territorio sarà “riqualificato a beneficio della popolazione di Gaza, che ha sofferto già abbastanza”.

Il piano promette che Israele non occuperà né annetterà il territorio e che nessuno sarà costretto a lasciare Gaza. Coloro che desiderano andarsene potranno farlo liberamente e potranno tornare.

Come detto, Hamas non potrà svolgere alcun ruolo, “direttamente o indirettamente”, nella futura governance del territorio. Il governo di Gaza passerebbe a un organo transitorio, definito “comitato palestinese tecnocratico e apolitico”, che a sua volta sarebbe controllato e supervisionato da un “Consiglio di pace” internazionale, guidato da Donald Trump. Il consiglio includerebbe altri capi di Stato e funzionari internazionali, tra cui l’ex primo ministro britannico Tony Blair.

Questo organismo lavorerebbe per definire il quadro dei finanziamenti per la ricostruzione di Gaza, mentre l’Autorità palestinese, l’entità politica nominalmente responsabile degli affari palestinesi in Cisgiordania, dovrebbe intraprendere un processo di riforme.

Verrà convocato un gruppo di esperti per creare quello che il piano definisce un “piano di sviluppo economico di Trump per ricostruire e rilanciare” il territorio, che il presidente degli Stati Uniti aveva precedentemente immaginato di trasformare in una “riviera” con una serie di megalopoli high-tech.

Lo scenario di uno Stato palestinese resta una vaga possibilità. Alla fine del piano si parla dell’istituzione di un “processo di dialogo interreligioso” per promuovere “i valori della tolleranza e della coesistenza pacifica” e si dice che “con il progredire della ricostruzione di Gaza e l’attuazione fedele del programma di riforme dell’Autorità Palestinese, potrebbero finalmente crearsi le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese, che riconosciamo come aspirazione del popolo palestinese”.

Il piano è stato accolto con favore dalla comunità internazionale. Sostegno è arrivato dal cancelliere tedesco Merz, dal presidente francese Macron, dalla Russia e anche da Pakistan, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Turchia, Arabia Saudita, Qatar ed Egitto che hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui affermano di essere pronti a collaborare in modo costruttivo con gli Stati Uniti e altri paesi per garantire la pace. L’Autorità palestinese, che esercita un’autorità parziale su alcune parti della Cisgiordania occupata da Israele, ma che potrebbe eventualmente assumere un qualche ruolo nel governo postbellico di Gaza, ha accolto con favore gli “sforzi sinceri e determinati” di Trump.

E i diretti interessati? “Nessuno ci ha contattato, né abbiamo partecipato ai negoziati”, ha dichiarato Taher al-Nounou, un alto funzionario di Hamas, in un’intervista televisiva. Secondo quanto dichiarato da una fonte di Hamas all’Agence France-Presse, il gruppo ha “avviato una serie di consultazioni all’interno della sua leadership politica e militare, sia in Palestina che all’estero”, che “richiederanno diversi giorni a causa della complessità delle comunicazioni tra i membri della leadership e i movimenti”. Turchia, Egitto e Qatar potrebbero esercitare pressioni su Hamas, hanno affermato gli analisti. Un funzionario qatariota ha dichiarato che il Qatar incontrerà Hamas e la Turchia per discutere il piano.

Secondo quanto riportato dai media locali, le fazioni palestinesi alleate con Hamas sembrano aver inizialmente respinto il piano, mentre una fonte vicina ad Hamas ha definito i venti punti presentati da Trump “completamente sbilanciati a favore di Israele” con “condizioni impossibili” che hanno l’obiettivo di eliminare il gruppo. “In questo modo, Israele sta tentando, attraverso gli Stati Uniti, di imporre ciò che non è riuscito a ottenere con la guerra”, ha dichiarato la Jihad islamica.

In Israele, molti commentatori hanno accolto con favore la proposta. Tuttavia, i ministri di estrema destra hanno promesso di lasciare la coalizione di governo se Netanyahu interromperà l’offensiva israeliana a Gaza senza ottenere la “vittoria totale” o assicurarsi il territorio per gli insediamenti israeliani. Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze israeliano, ha affermato che il piano è un “clamoroso fallimento diplomatico” che “finirà in lacrime”.

Intanto, in una dichiarazione video pubblicata sul suo canale Telegram dopo la conferenza stampa congiunta con Trump, Netanyahu ha già fatto sapere che l’esercito israeliano rimarrà nella maggior parte di Gaza e che non è disponibile ad accettare la creazione di uno Stato palestinese. “Recupereremo tutti i nostri ostaggi, vivi e in buona salute, mentre l’esercito israeliano rimarrà nella maggior parte della Striscia di Gaza”, ha affermato.

Il piano funzionerà? Nel manifestare il proprio sostegno, il presidente francese Emmanuel Macron ha affermato che è compatibile con il piano per la Palestina definito nella dichiarazione di New York approvata questa settimana dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. In effetti, ci sono alcuni aspetti in comune che potrebbero far pensare a una convergenza: nessuno dei due piani prevede lo sfollamento di massa dei palestinesi da Gaza, assegna ad Hamas un ruolo nel futuro governo della Palestina e ulteriori annessioni israeliane in Cisgiordania.

Ma poi iniziano le differenze, evidenzia Patrick Wintour sul Guardian. La dichiarazione di New York, approvata dall’ONU, propone un’amministrazione tecnocratica per un solo anno nella fase iniziale di transizione, ma poi pone l’Autorità Palestinese al centro di un nuovo governo unificato che copre Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est. I paletti posti dal piano di Trump per arrivare a un nuovo governo sembrano invece circoscrivere e marginalizzare il ruolo dell’Autorità Palestinese. Inoltre, nessuno può dire quale tipo di leadership politica palestinese potrebbe emergere dopo due anni di attacchi su Gaza e di assalti in Cisgiordania. Per questo Trump è favorevole a un organismo tecnocratico di transizione che consulti l’Autorità Palestinese.

Altro punto di divergenza è la gestione degli aiuti umanitari. La dichiarazione di New York assegna un ruolo centrale all’agenzia di soccorso delle Nazioni Unite, l’UNRWA, la stessa agenzia accusata da Israele senza prove di terrorismo. C’è chi dice che Trump possa assegnare all’Autorità Palestinese il ruolo dell’UNRWA, ma dall’ottobre 2023 Israele sta esercitando pressioni finanziarie sull’Autorità Palestinese trattenendo le entrate fiscali che le spettano. “Come potrebbe Trump sostenere il ruolo di un’organizzazione che Israele sta cercando di mandare in bancarotta? La risposta è la riforma dell’Autorità Palestinese, un’espressione che risuona nelle sale diplomatiche da oltre 20 anni, ma che non è mai stata realizzata”, scrive Wintour.

Le incognite sono così tante che il piano è lungi dal poter avere successo, osserva il diplomatico statunitense Michael Ratney su Haaretz. Due aree sono particolarmente problematiche, scrive Ratney: il ritiro militare di Israele e il percorso verso uno Stato palestinese.

Il ritiro militare israeliano da Gaza sarà “basato su standard, tappe fondamentali e tempistiche legate alla smilitarizzazione che saranno concordati tra l’IDF” e la Forza di stabilizzazione internazionale creata per Gaza, nonché gli altri garanti del piano e gli Stati Uniti. Ciò lascia essenzialmente qualsiasi ritiro dalla Striscia quasi interamente a discrezione di Israele. Secondo Netanyahu, ciò significa che, per quanto riguarda Gaza, “Israele manterrà la responsabilità della sicurezza, compreso un perimetro di sicurezza per il prossimo futuro”.

Per quanto riguarda la statualità palestinese, il piano afferma che “mentre la ricostruzione di Gaza avanza e quando il programma di riforma dell’Autorità Palestinese sarà fedelmente attuato, potrebbero finalmente esserci le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese”. Quindi, anche se l’Autorità Palestinese attuerà le riforme, la statualità non è garantita. “Alle orecchie della maggior parte dei palestinesi, questo suona molto simile a ‘mai’, riflette Ratney.

La riuscita del piano, infine, è particolarmente problematica perché chiede di fatto ad Hamas di smettere di essere Hamas e di impegnarsi al disarmo come condizione preliminare, prima ancora che siano attuate le altre misure (e nonostante il fatto che, secondo centinaia di ex funzionari della sicurezza israeliani, la capacità militare di Hamas sia stata ridotta al punto da non rappresentare più una minaccia strategica per Israele già da molti mesi).

Perplessità raccolte anche da Jason Burke sul Guardian. È improbabile che Hamas guardi con favore a un piano che afferma esplicitamente che deve rinunciare a tutte o alla maggior parte delle sue armi e stare a guardare mentre un “Consiglio di pace” tecnocratico guidato dallo stesso Trump prende il controllo di Gaza. E “anche il collegamento tra il ritiro israeliano e il ritmo e la portata del disarmo e della smilitarizzazione è vantaggioso per Israele”, osserva Burke. “Tutti i territori ceduti sono stati rasi al suolo dall’offensiva incessante di Israele. Un ritiro lento costa poco. Israele potrebbe alla fine ritirarsi in un perimetro, ma non è chiaro quanto tempo ci vorrà. Le mappe pubblicate sono vaghe. Tutto questo è molto lontano dalle richieste di Hamas nei recenti negoziati. Né c’è stata alcuna promessa di qualcosa che si avvicini a uno Stato palestinese”.

Più netto è il commentatore americano M.J. Rosenberg. Il piano di Trump è il primo tentativo di impresa coloniale di XXI secolo, scrive Rosengberg. “Non offre nulla ai palestinesi, nulla alla pace e tutto ai due gruppi che dovrebbe servire: la leadership israeliana e gli investitori miliardari (…) Israele può dire di aver ‘vinto’ fingendo di aver sradicato Hamas, anche se mesi di bombardamenti non sono riusciti a sconfiggere una forza di guerriglia. Il capitale straniero ottiene l’accesso alle migliori terre del Mediterraneo, liberate dai loro abitanti grazie all’assedio e agli attacchi aerei”.

Ecco perché questo piano è peggio che inutile, conclude Rosenberg. “Non fa avanzare di un millimetro la pace. Non riconosce i diritti dei palestinesi né la loro sovranità. Non garantisce nemmeno la sopravvivenza, figuriamoci la dignità, dei gazawi. È un piano per riciclare la sconfitta di Israele in una ‘vittoria’ di pubbliche relazioni e consegnare la terra palestinese a imprenditori miliardari.

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Il piano “Gaza Riviera”: gentrificare il genocidio israeliano – Muhammad Shehada

Il cosiddetto Piano “Gaza Riviera” è più un necrologio scritto nel linguaggio del lusso che una visione del futuro.

Avvolto in rappresentazioni patinate e pubblicizzato come un balzo in avanti, è in realtà il culmine di anni di devastazione deliberata: un Piano per Cancellare i palestinesi da Gaza e rilanciare la loro assenza come innovazione.

Ciò che viene presentato come investimento e rigenerazione è, in realtà, il riciclaggio del Genocidio in spettacolo, una copertura estetica per un progetto politico il cui fondamento sono le macerie di Gaza e il silenzio dei suoi abitanti espulsi.

Perchè Israele non ha mai sviluppato un piano postbellico per Gaza

Il Piano “Gaza Riviera”, ampiamente condannato, proposto per trasformare un’enclave completamente distrutta in una serie di futuristiche megalopoli costiere ad alta tecnologia, si presenta con il linguaggio degli investimenti e della modernità.

Ma se si guarda oltre le presentazioni degli investitori, emerge una verità più cruda: questa non è una strategia diplomatica, ma un’estetica della scomparsa. Mette a nudo il motivo per cui, per due anni, non c’è stato un piano politico israeliano coerente per Gaza, al di là della Distruzione di Massa, dello Sterminio di Massa e della Fame di Massa; la Cancellazione di Gaza è stata il Piano stesso fin dall’inizio.

La coreografia politica delle ultime settimane tradisce le priorità di questo Piano. Mentre il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, suo genero Jared Kushner, Tony Blair e gli inviati israeliani si riunivano per immaginare il futuro di Gaza senza un solo palestinese nella stanza, il Genocidio continuava a infierire, distruggendo ciò che restava della densità urbana e del tessuto sociale della Striscia.

La conclusione è che la Cancellazione non è un ostacolo al Piano, ma la precondizione.

Il piano di Netanyahu fin dall’inizio

I contorni essenziali del Piano Riviera sono emersi in documenti trapelati di recente che descrivono proposte per porre Gaza sotto amministrazione fiduciaria statunitense per circa un decennio, spopolare completamente l’enclave dei suoi abitanti palestinesi e promuovere la costa come un futuristico polo turistico-tecnologico: “la Riviera del Medio Oriente”.

Niente di tutto ciò, tuttavia, è una novità. Il progetto originale di questo promettente polo fantascientifico, costruito su fosse comuni e città rase al suolo, è stato creato dallo stesso Benjamin Netanyahu diversi mesi prima dell’elezione di Trump.

La “Visione Gaza 2035” del Primo Ministro israeliano, rivelata nel maggio 2024, immaginava l’enclave a lungo assediata come una zona industriale e di libero scambio simile a Dubai e utilizzava le stesse immagini generate dall’Intelligenza Artificiale che ora vengono utilizzate nel Piano Riviera.

Non è un caso che entrambi i piani abbiano una frase di apertura quasi identica. “Da una Gaza demolita a un prospero alleato abramitico”, recita il Piano Riviera, mentre quello di Netanyahu sottolineava “ricostruire dal nulla”.

Sono implicite le stesse due precondizioni: che Gaza debba essere completamente rasa al suolo senza lasciare nulla di sé, e che debba essere svuotata della sua popolazione per trasformarla in una tela bianca su cui sviluppare il proprio sviluppo partendo da zero.

Questo era il Piano di Netanyahu fin dall’inizio, quando il primo giorno di guerra ordinò alla popolazione civile di Gaza di “andarsene subito” prima di una distruzione senza precedenti “ovunque”. Netanyahu poi raddoppiò l’impegno quando il suo Ministero dell’Intelligence elaborò un Piano dettagliato per l’espulsione di massa e il trasferimento forzato della popolazione di Gaza.

Gli israeliani convinsero persino l’allora Segretario di Stato americano Anthony Blinken a visitare Paesi arabi come l’Egitto e l’Arabia Saudita per promuovere l’idea del “trasferimento temporaneo” della popolazione di Gaza nel Sinai. Questo tentativo fallì all’epoca e Israele non riuscì a trovare un pubblico disposto a condividere il futuristico Piano di Gaza.

Netanyahu ha continuato ad aspettare il momento opportuno finché Trump non è entrato in carica ed è volato rapidamente a Washington per convincere il Presidente americano a presentare l’idea di una Pulizia Etnica e di Occupazione di Gaza come se fosse di sua proprietà.

Da allora, Netanyahu ha continuato a riferirsi alla sistematica ricerca di espulsioni di massa da parte di Israele a Gaza come “attuazione del Piano Trump” per attribuire la responsabilità di questa politica Genocida.

La storia di copertura di Netanyahu e il pubblico per cui è stata creata

Gli esperti hanno ripetutamente definito il Piano Riviera di Gaza “folle”, irrealistico, poco pratico e pieno di ostacoli legali e morali che renderebbero chiunque lo promuova Complice di Crimini di Guerra e Crimini Contro l’Umanità.

Ecco perché il Gruppo di Consulenze di Boston si è affrettato a sconfessare i propri maggiori consulenti quando hanno prodotto un Piano dettagliato che rendeva operativo il Trasferimento di Massa della popolazione a Gaza, includendo scenari simulati e fogli di calcolo che includevano la Pulizia Etnica. Chiunque contribuisse a questo abominio sarebbe stato esposto a cause legali e procedimenti penali per i decenni a venire.

Ma la futuristica fantasia di Trump sul Mediterraneo potrebbe non essere intesa come un piano serio, tanto per cominciare. È semplicemente una storia con un “lieto fine” artificiale al Genocidio e alla Pulizia Etnica che Israele racconta ai suoi alleati Complici.

La vera utilità per Netanyahu in questa idea stravagante è la gestione narrativa. Mentre il governo israeliano porta avanti una campagna che riorganizza la geografia e la topografia di Gaza e la rende inabitabile, radendo al suolo quartieri, espellendo in massa centinaia di migliaia di persone nei Campi di Concentramento, bruciando case e facendo morire di fame i bambini, le frane della Riviera forniscono un alibi proiettato nel futuro.

Alla destra di Netanyahu, sussurrano il vecchio sogno del ritorno degli insediamenti per soli ebrei a Gaza; ai suoi alleati all’estero, offrono un ottimismo investibile. Alla base di Trump, vendono la favola definitiva del MAGA: “Faremo fiorire il deserto e lo faremo nostro”.

Il punto è lo sfarzo; Il Piano che circola alla Casa Bianca è persino formalmente denominato GREAT (acronimo di Ricostituzione, Accelerazione Economica e Trasformazione di Gaza). Per il marchio politico di Trump, la promessa di trasformare le rovine in villaggi turistici è un classico del teatro.

I paesaggi urbani scintillanti contribuiscono a vendere al mondo del MAGA (Rendere l’America di Nuovo Grande) e ai gestori di capitali di rischio un’immagine di Gaza come una tela bianca in attesa di un genio esterno, mentre, sul campo, il Genocidio procede ininterrotto e senza limiti verso la sua fase finale.

In questo senso, la fantasia della Riviera non è una deviazione dagli ultimi due decenni di politiche draconiane di assedio e Massacri a Gaza, ma piuttosto il loro culmine.

È un gioco di parole per camuffare l’indifendibile; La distruzione diventa “preparazione del sito”, lo sfollamento diventa “pianificazione urbana”, l’annientamento diventa un trampolino di lancio verso profitti inesplorati e opportunità commerciali.

Questo è ciò che rende la rappresentazione della Riviera di Gaza un potente strumento di propaganda, per come capovolgono la realtà. Propongono spiagge senza abitanti, torri senza inquilini, porti senza politica. Fanno apparire l’assenza dei palestinesi come un progresso.

Israele promette Gaza ai coloni, non a investitori futuristi

È illogico che Israele si spinga fino in fondo per compiere un Genocidio a Gaza, spendere quasi 90 miliardi di dollari (77 miliardi di euro) in questa guerra, perdere oltre 900 soldati, diventare uno Stato reietto, solo per poi consegnare Gaza su un piatto d’argento al governo degli Stati Uniti e ai magnati americani della tecnologia e del mercato immobiliare.

Yehuda Shaul, co-fondatore di Breaking the Silence (Rompere il Silenzio), ha dichiarato di ritenere che il Piano per la Riviera di Gaza “non sia collegato allo sforzo principale del Movimento dei Coloni israeliani”, che sta spingendo per un ritorno a Gaza.

“Il Piano originale delle organizzazioni dei coloni, che si adatta anche alla geografia di base di Gaza, è di tornare a quella che un tempo veniva chiamata ‘la zona settentrionale’, ovvero i tre insediamenti nel Nord di Gaza: Elei Sinai, Nisanit e Dugit”, ha aggiunto Yehuda.

“Questi sono gli insediamenti che un tempo si trovavano a Nord di Beit Lahia. È su questo che i coloni hanno puntato gli occhi”.

Shaul ha spiegato che commentatori israeliani di destra come Amit Segal hanno insistito su questo aspetto sui principali media. “Viene spacciato come una ‘semplice’ espansione dei confini israeliani, invece di un’annessione di parti significative della Striscia di Gaza”.

La promessa di torri e porti turistici su una costa spopolata non è un piano di pace, ma un teatro di espropriazione, una storia scritta per investitori stranieri, raduni del MAGA e fantasie dei coloni.

La “Riviera di Gaza” non indica un futuro di coesistenza o prosperità; rimanda alla più antica Logica Coloniale che trasforma le vite in ostacoli e la Cancellazione in opportunità.

Traduzione a cura di: Beniamino Rocchetto

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Blair prende i soldi pure dal più grande finanziatore dell’esercito israeliano – Sabrina Provenzano

Quando è stato reso noto che Tony Blair avrebbe avuto un ruolo nella ricostruzione di Gaza, la commentatrice di sinistra Ash Sharkar ha affermato in diretta sulla Bbc: “Avranno pensato a lui perché Satana non era disponibile”. Un’iperbole, ma non lontana dal sentimento popolare diffuso, almeno fra chi ricorda le menzogne sull’esistenza di armi di distruzione di massa irachene con cui l’allora primo ministro convinse il parlamento a votare per la disastrosa invasione in Iraq. Di certo quella decisione segnò la fine della carriera politica dell’inventore del New Labour: ma il parlamento censurò ogni tentativo di inchiodarlo alle sue responsabilità. Blair non subì nessuna ripercussione legale o formale, e se la cavò scusandosi per i suoi errori, e ha sempre dichiarato di non aver mentito deliberatamente.

Quell’ombra, che lo segue sempre anche fra gli elettori laburisti, non gli ha impedito di rifarsi una verginità prima come mediatore internazionale, poi come consulente e lobbista. Ma lo ha seguito anche la disinvoltura etica, diciamo post-ideologica, che aveva segnato il suo successo ai tempi del New Labour: va bene tutto, purché funzioni. La lista dei suoi potenziali conflitti di interesse non ha fatto che crescere da quando si è ritirato dalla politica attiva. Blair, che dopo Downing Street ha accumulato circa 20 milioni di sterline annue, consulenze, ha intrattenuto rapporti e fornito consulenze ai peggiori autocrati del mondo. La sua posizione filo-Israele è nota.

Da primo ministro, dal 1997 al 2007, coltiva alleanze con Israele: visite a Sharon e Olmert, sostiene il “diritto di Israele all’autodifesa” durante la Seconda Intifada e vota contro risoluzioni Onu anti-israeliane. Come inviato del Quartetto, tentativo di mediazione che univa Russia, Usa, Russia e Onu, dal 2007 al 2015 lavora ai negoziati fra Israele e Palestina ma ne approfitta per fare da lobbista per progetti economici in Cisgiordania, fra cui un contratto con Wataniya Telecom, società cliente della Banca JP Morgan, che lo pagava 2 milioni l’anno per una consulenza. Spinge per il gasdotto Gaza Marine, un progetto di British Gas sempre legato a JP Morgan, ma qui il conflitto di interessi e l’assenza di trasparenza sono così clamorosi che gli costano il posto. Per i detrattori, queste pressioni hanno favorito investitori stranieri a scapito delle priorità palestinesi.

Il passaggio a Tony Blair Associates trasforma il lobbying in un meccanismo rodato. Nel 2011, la società fa pubbliche relazioni per il dittatore kazako Nursultan Nazarbayev: ammorbidisce le critiche sui diritti umani in nome di “riforme progressive”, in cambio di compensi destinati a opere benefiche. Colleziona clienti accusati di orribili e sistematiche violazioni dei diritti umani, da Gheddafi agli emiri kuwaitiani, che lo pagano milioni per costruirgli una credibilità internazionale: una cambiale che oggi appare in riscossione.

Nel 2016, Tba si fonde nel Tony Blair Institute for Global Change (Tbi): un’organizzazione non profit con 800 collaboratori in 45 paesi e un fatturato annuo di 145 milioni di sterline. Il suo maggiore finanziatore è Larry Ellison, cofondatore ebreo americano del colosso informatico Oracle, che dal 2021 gli dona oltre 200 milioni di sterline. Sionista convinto, Ellison è anche il principale donatore privato alle Idf, tramite l’organizzazione di supporto Friends of Idf; amico stretto di Benjamin Netanyahu, ha manifestato solidarietà pubblica durante la guerra di Gaza e influenza la politica americana pro-israeliana tramite una serie di think tank. Oracle opera in centri a Tel Aviv e Herzliya focalizzati sull’intelligenza artificiale e sul cloud per la sicurezza nazionale israeliana, contestati dal movimento Bbs per presunta complicità in violazioni dei diritti umani. In perfetto allineamento con il suo principale benefattore, Tbi spinge, anche sul governo laburista britannico, per l’implementazione di carte di identità digitali e di una governance basata su Ai, mentre da alcuni critici è vista come “promotore” per le vendite di Oracle a governi mondiali.

E consiglia il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman sulle riforme di Vision 2030, nonostante Salman sia riconosciuto come mandante del barbaro omicidio del giornalista di opposizione Jamal Khashoggi.

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redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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