Banksy al supermarket: in fila con noi

di Saverio Pipitone (*)

A Londra, nella principale Essex Road del quartiere commerciale Islington, una decina di anni fa, l’artista mascherato Banksy dipinse il murale “Very Little Helps” raffigurante una bambina e un bambino che – mano sinistra al petto, testa in su e bocca dischiusa a canto d’inno – sono davanti a una bandiera, issata da un coetaneo, nella forma di sacchetto di plastica con il logo rosso e blu della Tesco, catena inglese della GDO (grande distribuzione organizzata) a cui giurano fedeltà.

Quotata alla Borsa londinese con azionisti dei fondi speculativi, Tesco è antesignana dello stratagemma di accentrare i prodotti o servizi di largo consumo sotto un’unica insegna e da quando è nata, negli anni Venti, ha commerciato di tutto, anche con propri marchi: dagli alimenti e ogni genere di non food, alla produzione di film e di elettronica, download di musica o video, fino alla gestione di ristoranti, caffetterie, panifici, ottiche, garden center, farmacie, stazioni di carburante, rete di telefonia mobile e banca. Il fondatore Jack Cohen diceva «ammucchialo alto e vendilo a buon mercato».

Dalla metà degli anni Novanta comincia ad insinuarsi massivamente nelle strade del Regno Unito tramite diversi format, dall’ipermercato all’express e discount, passando da 500 a 4.000 strutture, su una superficie di vendita di quasi 5 milioni di metri quadri: solo nella zona intorno al murale ci sono 5 negozi Tesco che distano 1,5 km l’uno dall’altro. Ha fidelizzato alla Clubcard 19 milioni di famiglie, quadruplicando fatturato e profitti annuali che oggi ammontano rispettivamente in circa 50 miliardi e 1 miliardo di sterline, con l’incremento della quota di mercato dal 15 al 30%.

Nel medesimo arco temporale è però diminuita parimenti la quota di mercato delle piccole botteghe indipendenti che in migliaia – fra drogherie, fruttivendoli, forni, macellerie e pescherie – hanno chiuso e sloggiato dalle strade britanniche. Alcuni dettaglianti riferivano: «i supermercati vendono di tutto, non puoi competere con loro»; «non possiamo competere con i prezzi al dettaglio dei supermercati»; «i prezzi dei supermercati sono inferiori rispetto a quelli dei grossisti da cui acquisto. Ad esempio, vendono cetrioli e lattuga iceberg per 29 penny, il mio prezzo all’ingrosso è di 79 penny»; «ho provato a fare scorta di verdure negli ultimi tre mesi, ma nessuno le compra»; «dovrò andare a lavorare per quelli che mi hanno fatto fallire» (fonte www.fooddeserts.org).

Frattanto la bambina del murale cresce nel credo consumista. A 50 anni, con il carrello, ha percorso oltre 4.000 km a una velocità media di 0,8 all’ora e ha visto aumentarne le dimensioni da 90 a 180 litri, il doppio della capienza, per una percezione di vuoto da riempire, che induce al 40% di spesa in più.

Pieno di ripetuti prodotti, acquistati con ansietà prima che esauriscano, come la “Soup Can” (lattina di zuppa) alla crema di pomodoro da 400g della Tesco, il carrello la spinge in giù nella vuotaggine dello “Shop Till You Drop” (compere fino allo sfinimento). Insieme ad altre donne, si dispera devotamente innanzi al cartellone “Sale Ends Today” (fine dei saldi). Ricorda la vacanza sulla costa di Weston-super-Mare nel Somerset, all’ex lido Tropicana trasformato in “Dismaland”: un tetro e disorientante parco-mostra con molte attrazioni, fra cui uno scivolo nel corazzato antisommossa progettato per usarlo in Irlanda del Nord, la carrozza incidentata di Cenerentola morta e i paparazzi attorno, modellini di barche stipate di profughi, l’ufficio che offre ai bambini un anticipo sulla paghetta al 5.000% di interessi, la ruota panoramica arrugginita e il castello diroccato… Rimane nella mente la scritta di benvenuto all’ingresso: la vita non è sempre una bella favola. La notte ha gli incubi, scorge la nona cavalleria aerea e di colpo il “Napalm”, è ustionata, nuda e urla, come la piccola vietnamita Kim Phúc, ma ai lati le tengono le mani sorridenti Mickey Mouse e Ronald McDonald che avanzano a parata. Nel virgolettato sono i titoli delle opere di Banksy.

Un giorno, appena sveglia, annulla l’appuntamento dalla strizzacervelli. Va da Tesco, compra whisky e paracetamolo; poi prende una camera all’Holiday Inn, dove ingurgita il mix e, infilandosi il sacchetto rosso e blu in testa, tenta l’ennesimo suicidio, ma un’ora dopo viene salvata dalla cameriera che, nel vedere il volto coperto dal logo Tesco, capisce che non stava affatto dormendo.

È stata soprannominata «Miss Suicide» dalla sua psicoterapeuta Jane Haynes di Londra che riporta la vicenda reale nel libro-diario Who is it that can tell me who I am?.

Il bimbo del murale diviene invece punk. Taglio moicano, felpa o bomber e t-shirt rossa “Destroy Capitalism” che aveva acquistato, mettendosi ordinatamente in fila, allo stand merchandising di un festival. Vive nella periferia londinese e gioca alla rivoluzione, con l’affetto della mamma che, aggiustandogli amorevolmente la sciarpa sul viso, raccomanda di non dimenticare il pranzo e fare un po’ di guai – “Don’t forget to eat your lunch and make some trouble”. In mezzo a cartelloni pubblicitari, fabbriche e filo spinato, sta accanto ad una grossa scatola etichettata “IEAK”, anagramma della multinazionale di arredi IKEA, leggendo le istruzioni per assemblare slogan di graffiti sovversivi sul muro ma – avvezzato e pervaso dalla mercificazione capitalistica – è confuso. Nel virgolettato altre opere di Banksy.

In quel momento, il punk sopraffatto, rammenta la serie tv The Flumps di quando era bambino e, come il piccolo Perkin, pensa di sentirsi «umpty» cioè che tutto è troppo e va per il verso sbagliato.

Conclude Banksy: «Non possiamo fare nulla per cambiare il mondo finché il capitalismo non si sgretola. Nel frattempo, dovremmo andare tutti a fare shopping per consolarci».

(*) è uscito anche qui https://www.beppegrillo.it/banksy-al-supermarket e qui http://saveriopipitone.blogspot.com/2021/04/banksy-al-supermarket.html

 

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