Bellocchio e famiglia: parole senza tracce

di Fabio Troncarelli

Che Marco Bellocchio abbia avuto la Palma d’oro alla carriera a Cannes è una notizia bellissima. Ed è altrettanto bellissimo che abbia girato un affascinante film-documentario che splende come una stella solitaria nel panorama desolato del cinema contemporaneo. Viene da chiedersi però se tutti coloro che si lasciano andare oggi a vertiginose iperboli, osanna degni dei cori angelici e tremanti dichiarazioni d’amore alla Paolo Sorrentino non abbiano vissuto in un altro pianeta per decenni, ritornando solo ora per una breve vacanza sulla Terra, pronti a ripartire subito per nuove avventure negli spazi siderali. Perché dico questo? Scusate ma se la memoria non mi inganna il tema dichiarato del documentario-film, cioè il suicidio del fratello gemello che tutta una famiglia Bellocchio si sforza di rimuovere, era stato già affrontato con vigore dallo stesso regista nel 1982, in un film che parla esattamente di questo Gli occhi, la bocca, con attori famosissimi come Michel Piccoli, Lou Castel, Angela Molina, Emanuelle Riva. Senza contare poi opere che descrivono una famiglia dello stesso tipo come I pugni in tasca o altri documentari-film con membri della stessa famiglia Bellocchio come Sorelle e Sorelle mai. Senza dubbio l’ultimo lavoro del regista è il più esplicito e il più completo possibile sull’argomento: però non è una vera novità se non per la violenza emotiva franca e dichiarata che lo anima. Una violenza emotiva che si scontra con la mentalità e la personalità di tutti i componenti della famiglia che non vivono gli eventi allo stesso modo. Se questo è vero, allora perché solo oggi tante persone si mostrano (a parole) disposte a parlare di questo suicidio, a sottolineare la grandezza di un autore che “finalmente” (!!!) osa parlarne e addirittura a sentenziare che il suicidio stesso è emblematico dei danni che produce la famiglia tradizionale-borghese? Mi viene il sospetto che tanta unanimità celi un meccanismo di difesa: lo stesso peraltro che mi sembra di scorgere, se non vado errato, nei componenti della famiglia messa in discussione nel film. In sostanza mi pare di capire che tutti la buttano in caciara parlando, parlando, parlando e assumendo la posa dei grandi pensatori riflessivi. Poi stringi-stringi dietro questa cortina fumogena di parole nessuno veramente parla e tutti sono, per così dire, “parlati” da altro. Scossi da un vento che soffia con la forza di un uragano e ci costringe a rintanarci, a sperare finisca presto, a nasconderci. Se devo dire tutta la verità ho la sensazione che il Grande Assente del film che parla del suicidio di un giovane sia proprio colui che si è ucciso. Certo, tutti parlano di lui. Ma ci fosse uno che esprime il sentimento della sua mancanza. Che rimpianga i suoi sorrisi. La sua mestizia. «Quella… timidezza per cui tu mi prendevi un po’ in giro» come cantava Luigi Tenco. O meglio: qualcuno c’è. Ed è Marco Bellocchio. Non con le parole. Attraverso le foto che ha scelto. Attraverso il non detto: l’imbarazzo, la vergogna, l’inquietudine. Tutte cose che nessuno sembra notare: e quando dico nessuno intendo sia i familiari (che vanno avanti come treni ognuno per la sua strada, ognuno con il suo fardello di preconcetti e giudizi astratti); sia i critici cinematografici pronti a sdilinquirsi oggi per scordare tutto domani; sia noi, poveri mortali, costretti, obbligati a vivere dentro queste magnifiche sorti e progressive, imprigionati dentro alla minacciosa “scuola affettuosa” che il ministro della Pubblica Distruzione vuole propinare a esterrefatti ragazzi, inebetiti dall’assenza di dialogo, di dibattito, di amore per la diversità come recita il catechismo del Pensiero (!) unico, pronto per quello che una volta si chiamava tanto opportunamente “uomo a una dimensione”.

Guardando le fotografie di Camillo Bellocchio, i suoi occhi smarriti, entrando in sintonia con il senso di spaesamento che emerge da quello sguardo, sentiamo una fitta dolorosa che non si riesce a ricomporre: e non perché la tipica famiglia borghese abbia infierito su uno dei suoi sfortunati membri. Perché quella persona è sparita senza lasciar traccia.

 

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