Benjamin Mengele Nethanyau continua il genocidio, e le stelle stanno a guardare
articoli di Pasquale Liguori, Mauro Del Corno, Giulio Cavalli, Grazia Parolari, Caitlin Johnstone, Soumaya Ghannoushi, Congresso ebraico antisionistico di Vienna, Ussama Makdisi, Yigal Bronner, Linah Alsaafin, Fabio Marcelli, Paola Caridi, Claudia Durastanti, Micaela Frulli, Tomaso Montanari, Francesco Pallante, Evelina Santangelo, Matteo Saudino, Mario Sommella, Vichi De Marchi e Cristiana Pulcinelli, Francesca Albanese, Riccardo Noury (ripresi da lantidiplomatico.it, ilfattoquotidiano.it, lanotiziagiornale.it, invictapalestina.org, liberacittadinanza.it, zeitun.info, mariosommella.wordpress.com, strisciarossa.it)
Francesca Albanese: “È in atto una svolta rivoluzionaria”
“La Palestina avrà scritto questo capitolo tumultuoso, non come una nota a piè di pagina nelle cronache di aspiranti conquistatori, ma come il verso più recente di una saga secolare di popoli che si sono ribellati all’ingiustizia, al colonialismo e, oggi più che mai, alla tirannia neoliberista.”
Il testo integrale dell’intervento di Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese occupato dal 1967, alla Conferenza degli Stati del Gruppo dell’Aja a Bogotà, Colombia, tenutasi il 16 luglio 2025.
Eccellenze, amici,
esprimo il mio apprezzamento al governo della Colombia e del Sudafrica per aver convocato questo gruppo, a tutti i membri del Gruppo dell’Aia, ai suoi membri fondatori per la loro posizione di principio e agli altri che si stanno unendo. Vi auguro di continuare a crescere e di rafforzare l’efficacia delle vostre azioni concrete.
Ringrazio anche il Segretariato per il suo instancabile lavoro e, non da ultimo, gli esperti palestinesi – individui e organizzazioni che si sono recati a Bogotà dalla Palestina occupata, dalla Palestina/Israele storica e da altri luoghi della diaspora/esilio, per accompagnare questo processo, dopo aver fornito all’HG briefing eccellenti e basati su prove concrete.
E naturalmente tutti voi che siete qui oggi
È importante essere qui oggi, in un momento che potrebbe rivelarsi davvero storico. C’è la speranza che questi due giorni spingano tutti i presenti a lavorare insieme per adottare misure concrete per porre fine al genocidio a Gaza e, si spera, porre fine alla cancellazione dei palestinesi per ciò che resta della Palestina, perché questo è il banco di prova per un sistema in cui la libertà, i diritti e la giustizia siano reali per tutti. Questa speranza, a cui persone come me si aggrappano, è una disciplina. Una disciplina che tutti dovremmo avere.
Il territorio palestinese occupato oggi è un inferno.
A Gaza, Israele ha smantellato anche l’ultima funzione delle Nazioni Unite, gli aiuti umanitari, al fine di affamare deliberatamente, sfollare ripetutamente o uccidere una popolazione che ha deciso di eliminare. In Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, la pulizia etnica avanza attraverso assedi illegali, sfollamenti di massa, uccisioni extragiudiziali, detenzioni arbitrarie e torture diffuse. In tutte le aree sotto il controllo israeliano, i palestinesi vivono nel terrore dello sterminio, trasmesso in tempo reale a un mondo che guarda. I pochissimi israeliani che si oppongono al genocidio, all’occupazione e all’apartheid – mentre la maggioranza applaude apertamente e ne chiede ancora di più – ci ricordano che anche la liberazione di Israele è inseparabile dalla libertà dei palestinesi.
Le atrocità degli ultimi 21 mesi non sono un’improvvisa aberrazione, ma il culmine di decenni di politiche volte a sfollare e sostituire il popolo palestinese.
In questo contesto, è inconcepibile che i forum politici, da Bruxelles a New York, stiano ancora discutendo il riconoscimento dello Stato di Palestina, non perché non sia importante, ma perché per 35 anni gli Stati hanno temporeggiato, rifiutato il riconoscimento, fingendo di “investire nell’Autorità Palestinese” mentre abbandonavano il popolo palestinese alle implacabili e rapaci ambizioni territoriali di Israele e ai suoi crimini indicibili. Nel frattempo, il dibattito politico ha ridotto la Palestina a una crisi umanitaria da gestire in perpetuo piuttosto che a una questione politica che richiede una risoluzione ferma e basata su principi: porre fine all’occupazione permanente, all’apartheid e al genocidio odierno. E non è la legge che ha fallito o vacillato, è la volontà politica che ha abdicato.
Ma oggi assistiamo anche a una rottura. L’immensa sofferenza della Palestina ha aperto la possibilità di una trasformazione. Anche se questo non si riflette (ancora) pienamente nelle agende politiche, è in atto un cambiamento rivoluzionario che, se sostenuto, sarà ricordato come un momento in cui la storia ha cambiato corso.
Ed è per questo che sono venuta a questo incontro con la sensazione di trovarmi a un punto di svolta storico, dal punto di vista discorsivo e politico.
In primo luogo, la narrativa sta cambiando: si sta allontanando dal “diritto all’autodifesa” invocato all’infinito da Israele per avvicinarsi al diritto all’autodeterminazione dei palestinesi, a lungo negato, sistematicamente reso invisibile, soppresso e delegittimato per decenni. L’uso dell’antisemitismo come arma contro le parole e le narrazioni palestinesi e l’uso disumanizzante del quadro del terrorismo per le azioni palestinesi (dalla resistenza armata al lavoro delle ONG che perseguono la giustizia in ambito internazionale) hanno portato a una paralisi politica globale che è stata intenzionale. È necessario porvi rimedio. È giunto il momento.
In secondo luogo, e di conseguenza, stiamo assistendo alla nascita di un nuovo multilateralismo: basato sui principi, coraggioso, sempre più guidato dalla Maggioranza Globale. Mi dispiace che i paesi europei non ne facciano ancora parte. Come europeo, temo ciò che la regione e le sue istituzioni sono diventate per molti: una confraternita di Stati che predicano il diritto internazionale ma sono guidati più da una mentalità coloniale che da principi, che agiscono come vassalli dell’impero statunitense, anche se questo ci trascina di guerra in guerra, di miseria in miseria e, quando si tratta della Palestina, dal silenzio alla complicità.
Ma la presenza dei paesi europei a questo incontro dimostra che è possibile seguire una strada diversa. A loro dico: il Gruppo dell’Aia ha il potenziale per rappresentare non solo una coalizione, ma un nuovo centro morale nella politica mondiale. Vi prego, sosteneteli.
Milioni di persone stanno guardando, sperando, in una leadership che possa dare vita a un nuovo ordine globale radicato nella giustizia, nell’umanità e nella liberazione collettiva. Non si tratta solo della Palestina. Si tratta di tutti noi.
Gli Stati che hanno dei principi devono essere all’altezza di questo momento. Non è necessario avere un’appartenenza politica, un colore, bandiere di partiti politici o ideologie: è necessario che siano sostenuti dai valori umani fondamentali. Quelli che Israele sta schiacciando senza pietà da 21 mesi.
Nel frattempo, applaudo la convocazione di questa conferenza di emergenza a Bogotà per affrontare la devastazione inarrestabile a Gaza.
È su questo che bisogna concentrarsi. Le misure adottate a gennaio dal Gruppo dell’Aia sono state simbolicamente potenti. Sono state il segnale del cambiamento discorsivo e politico necessario. Ma sono il minimo indispensabile. Vi imploro di ampliare il vostro impegno. E di trasformare tale impegno in azioni concrete, a livello legislativo e giudiziario, in ciascuna delle vostre giurisdizioni. E di considerare innanzitutto cosa dobbiamo fare per fermare l’olocausto genocida. Per i palestinesi, specialmente quelli di Gaza, questa domanda è esistenziale. Ma in realtà è applicabile all’umanità di tutti noi.
In questo contesto, la mia responsabilità qui è quella di raccomandarvi, senza compromessi e con distacco, la cura per la causa principale. Abbiamo superato da tempo la fase di affrontare i sintomi, la zona di comfort di troppi al giorno d’oggi. E le mie parole dimostreranno che ciò che il Gruppo dell’Aia si è impegnato a fare e sta valutando di ampliare è un piccolo impegno verso ciò che è giusto e dovuto in base ai vostri obblighi ai sensi del diritto internazionale.
Obblighi, non simpatia, non carità.
Ogni Stato deve immediatamente rivedere e sospendere tutti i legami con Israele. Le loro relazioni militari, strategiche, politiche, diplomatiche, economiche, sia le importazioni che le esportazioni, e assicurarsi che il loro settore privato, le assicurazioni, le banche, i fondi pensione, le università e altri fornitori di beni e servizi nelle catene di approvvigionamento facciano lo stesso. Trattare l’occupazione come se nulla fosse significa sostenere o fornire aiuto o assistenza alla presenza illegale di Israele nei territori palestinesi occupati. Questi legami devono essere interrotti con urgenza.
Avrò l’opportunità di approfondire gli aspetti tecnici e le implicazioni nelle nostre prossime sessioni, ma sia chiaro che intendo tagliare i legami con Israele nel suo complesso. Tagliare i legami solo con le sue “componenti” nei territori palestinesi occupati non è un’opzione.
Ciò è in linea con il dovere di tutti gli Stati derivante dal parere consultivo del luglio 2024 che ha confermato l’illegalità dell’occupazione prolungata di Israele, dichiarata equivalente alla segregazione razziale e all’apartheid . L’Assemblea Generale ha adottato tale parere. Queste conclusioni sono più che sufficienti per agire. Inoltre, è lo Stato di Israele ad essere accusato di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, quindi è lo Stato che deve essere responsabile delle sue azioni illecite.
Come ho sostenuto nella mia ultima relazione al Consiglio dei diritti umani, l’economia israeliana è strutturata per sostenere l’occupazione e ora è diventata genocida. È impossibile separare le politiche e l’economia dello Stato di Israele dalle sue politiche e dall’economia di occupazione di lunga data. Sono state inseparabili per decenni. Più a lungo gli Stati e gli altri soggetti rimangono coinvolti, più questa illegalità viene legittimata. Questa è la complicità. Ora l’economia è diventata genocida. Non esiste un Israele buono e un Israele cattivo.
Vi chiedo di considerare questo momento come se fossimo seduti qui negli anni ’90, a discutere del caso dell’apartheid in Sudafrica. Avreste proposto sanzioni selettive contro il Sudafrica per la sua condotta nei singoli bantustan? O avreste riconosciuto il sistema criminale dello Stato nel suo complesso? E qui, ciò che Israele sta facendo è peggio. Questo paragone è una valutazione legale e fattuale supportata da procedimenti legali internazionali di cui molti in questa sala fanno parte.
Questo è ciò che significano misure concrete. Negoziare con Israele su come gestire ciò che resta di Gaza e della Cisgiordania, a Bruxelles o altrove, è un totale disonore per il diritto internazionale.
E ai palestinesi e a coloro che da ogni angolo del mondo stanno al loro fianco, spesso a caro prezzo e con grandi sacrifici, dico che qualunque cosa accada, la Palestina avrà scritto questo capitolo tumultuoso, non come una nota a piè di pagina nelle cronache di aspiranti conquistatori, ma come l’ultimo versetto di una saga secolare di popoli che si sono ribellati contro l’ingiustizia, il colonialismo e, oggi più che mai, la tirannia neoliberista.
“Ero di Gaza”: in un podcast la “Spoon River” dei morti palestinesi – Vichi De Marchi e Cristiana Pulcinelli
Mohammed Al Sultan aveva 23 anni e una grande passione: giocare a pallone. Aveva fondato una scuola calcio per i ragazzi di Beit Lahia, la sua città natale nel nord della Striscia di Gaza, e l’aveva gemellata con la Spartak San Gennaro di Napoli. Ma il 16 maggio 2025 una bomba polverizza la sua casa e Mohammed muore insieme alla moglie, i suoi due figli, il padre e suo fratello Baha.
Anche Yaqeen Hammad non c’è più. Undici anni, un sorriso che non si spegneva mai, un volto conosciuto anche fuori di Gaza, Yaqeen era un’influencer da oltre 100.000 follower, la più nota della Striscia, la più giovane. Morirà sotto le macerie della sua casa, in una notte di bombardamenti, il 23 maggio 2025.
La storia di Alaa Al-Najjar, pediatra di Khan Yunis, nel sud di Gaza, madre di dieci figli, è più conosciuta. In una notte Alaa ha perso nove figli e il marito. Ora vive in terapia intensiva accanto all’unico figlio sopravvissuto. La sua esistenza è un racconto di dolore, amore e resistenza.
Sono questi i nomi e le storie di alcune delle vittime del massacro che da due anni è in atto nella striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano. Del resto le autorità israeliane lo avevano promesso, ne aveva persino annunciato l’esito. “Spezzare loro la spina dorsale”, aveva annunciato il presidente dello Stato ebraico Isaac Herzog, perché – secondo le autorità israeliane – non esistono civili innocenti a Gaza, sono tutti complici, tutti da sterminare.
I morti in questi due anni si sono accumulati, in una matematica genocidaria impressionante che rischia di trasformare i troppi morti in numeri, nel silenzio assordante della stampa mainstream e con la complicità dei governi, compresi quelli europei.
Proprio dalla volontà di restituire un volto e una identità alle tante vittime palestinesi della Striscia è nato il progetto “Ero di Gaza”. Si tratta di una serie di podcast, che a partire dal 22 luglio, ogni settimana, sulle principali piattaforme, racconteranno la vita di singoli uomini, donne, bambini tra le decine di migliaia di innocenti uccisi dall’esercito israeliano. Si tratta di una sorta di “Antologia di Spoon River” sonora, dove ogni episodio dà voce a chi non può più parlare. Lo fa attraverso testimonianze, ricostruzioni biografiche, suoni e parole, offrendo uno spazio di memoria e resistenza civile di fronte a una guerra che punta alla cancellazione di un popolo e della sua terra.
Il podcast “Ero di Gaza” nasce dal lavoro volontario e militante del collettivo ControVoce, che riunisce professionalità diverse, costituitosi all’interno del Movimento Giustizia e Pace in Medio Oriente. Il movimento vuole essere una sorta di “laboratorio della speranza” e di azione per la pace in Medio Oriente: tra le sue recenti azioni vi è l’appello sottoscritto da moltissimi giornalisti e personalità per la fine della guerra
Per ascoltare il trailer su Spotify:
https://open.spotify.com/show/2qT3aYv2nqcJAPwMumXsXQ?si=_Gg4gDXZQmai2ObZKckMeA
Dopo Albanese, sanzioni Usa anche alla principale ong palestinese per i diritti umani – Riccardo Noury
È sempre più evidente che il regime sanzionatorio dell’amministrazione Trump è al servizio di Israele
Negli Usa ormai ci hanno preso gusto: dopo le sanzioni alla Corte penale internazionale e quelle alla relatrice speciale Onu Francesca Albanese, è stata oggetto di un analogo provvedimento anche Addameer, la più nota organizzazione palestinese per i diritti umani, conosciuta a livello internazionale per la sua decennale collaborazione con, tra le altre, Amnesty International e Human Rights Watch nonché con Ong italiane.
È sempre più evidente che il regime sanzionatorio dell’amministrazione Trump è al servizio di Israele. La ragione delle sanzioni nei confronti di Addameer non sono altro che la ripresa della narrazione israeliana secondo la quale l’ong palestinese è affiliata al Fronte popolare per la liberazione della Palestina, che per gli Usa è una “organizzazione terroristica”. Che non vi sia alcuna prova di questa affiliazione, non importa.
Addameer rappresenta le persone palestinesi detenute e/o condannate tanto nelle carceri israeliane quanto in quelle dell’Autorità palestinese e difende i loro diritti a un processo equo e a condizioni di prigionia in linea con gli standard internazionali.
Insieme ad altre cinque organizzazioni palestinesi per i diritti umani, Addameer è fuorilegge in Israele già dal 2021 in quanto “terrorista” e “illegale”. Anche qui, zero prove tanto che neanche molti governi europei hanno dato seguito alla cosa. Nel 2022 l’esercito di Tel Aviv ha anche fatto una rovinosa incursione nei suoi uffici.
Mentre nella Striscia di Gaza prosegue il genocidio da parte di Israele, nelle prigioni di questo paese ci sono oltre 3000 palestinesi in stato di detenzione amministrativa, impossibilitati a difendersi da accuse che non vengono rese pubbliche e senza subire un processo.
Sono sottoposti a torture, compresa la violenza sessuale, non ricevono livelli adeguati di cibo e cure mediche e non possono essere visitati da osservatori indipendenti, come ad esempio il Comitato internazionale della Croce rossa. A molti di loro, Addameer fornisce assistenza legale gratuita.
Le sanzioni rischiano di colpire duro, tenendo conto che tra l’altro impediranno l’arrivo di donazioni dagli Usa e il lavoro in partnership con gruppi statunitensi per i diritti umani.
La fame come arma, l’aiuto come trappola: Gaza, anatomia di un crimine perfetto – Mario Sommella
Nel buio della coscienza collettiva, sotto le macerie della retorica umanitaria, si sta compiendo un crimine disegnato al millimetro. Un crimine non di errore, ma di progetto. Un crimine freddo, calcolato, gestito con la perizia di un ingegnere e la crudeltà di un carnefice. Ce lo sbatte sotto il naso, come diceva Orwell, l’ultima inchiesta di Forensic Architecture, agenzia d’indagine indipendente fondata a Londra da Eyal Weizman, architetto anglo-israeliano. L’indagine non lascia spazio a interpretazioni: l’aiuto umanitario a Gaza non è uno strumento di soccorso. È un’arma. Una trappola. Un’architettura letale.
- La nuova guerra umanitaria
Secondo il dettagliato report, pubblicato in collaborazione con immagini satellitari e dati geospaziali, Israele ha completamente smantellato l’infrastruttura umanitaria tradizionale – ONU, ONG internazionali, Croce Rossa – attraverso 322 attacchi deliberati nel solo primo anno di guerra. A sostituirla è stata creata ad hoc una nuova entità, la Gaza Humanitarian Foundation (GHF), istituita nel febbraio 2025 con capitali e personale israelo-statunitense. A guidarla, due figure emblematiche: Johnnie Moore Jr., pastore evangelico vicino a Trump, e John Acree, ex stratega militare e “problem solver” delle guerre americane.
Questa fondazione non solo ha ricevuto 30 milioni di dollari direttamente dal governo USA — che intanto ha smantellato le sue agenzie pubbliche di aiuto — ma ha anche assunto il completo controllo della distribuzione degli aiuti nella Striscia. Tuttavia, la sua funzione non è quella di nutrire: è quella di disciplinare, sorvegliare, sfiancare.
- Sei livelli di distruzione programmata
2.1 Distruzione dell’autonomia civile
Israele ha impedito la sopravvivenza di ogni sistema indipendente di soccorso, annientando con precisione chirurgica depositi, ospedali, ambulanze e centri di distribuzione. È una forma nuova di guerra: si distruggono le condizioni minime per vivere, poi si offre “aiuto” come unico mezzo di sopravvivenza, sotto totale controllo dell’occupante.
2.2 Occupazione umanitaria
GHF è una “occupazione umanitaria” mascherata. Non è neutrale, non è indipendente, non è universale. È parte integrante della strategia israeliana. I suoi punti di distribuzione sono adiacenti o all’interno di basi militari dell’IDF e sorvegliati da mercenari. I percorsi per raggiungerli sono disseminati di check-point, mine, cecchini. Il rischio per chi cerca cibo è altissimo: molti vengono uccisi durante l’attesa o nel tentativo di avvicinarsi.
2.3 Inaccessibilità programmata
I punti di distribuzione si trovano alle estremità della Striscia, spesso fino a sei ore di distanza dai centri abitati. Le finestre di distribuzione sono brevi – in media 23 minuti, in alcuni casi appena 10 – e gli annunci arrivano con un preavviso minimo. È il caos a essere progettato. Il disordine, la paura, la ressa, la fame: ogni elemento è calibrato per demolire la coesione sociale e iniettare disperazione.
2.4 Architettura della morte
Non si tratta di errori o negligenze. La disposizione fisica dei centri GHF è stata pensata per essere letale. I civili in coda diventano bersagli mobili, le aree di raccolta sono esposte, le strade d’accesso coincidono con i percorsi dell’esercito. I “raid accidentali” non sono incidenti. Sono parte del meccanismo. Il cibo diventa esca. E l’aiuto un’esecuzione pubblica.
2.5 Collasso psicologico e sociale
Costretti a scegliere ogni giorno tra la morte per bombe e quella per fame, i palestinesi della Striscia si trovano in un limbo tra sopravvivenza biologica e annientamento spirituale. Le famiglie si disgregano, l’autorità sociale implode, la disperazione diventa legge. È la distruzione dell’umano attraverso la fame e l’umiliazione.
2.6 Deportazione silenziosa
La collocazione dei centri GHF, prevalentemente lungo il confine meridionale, suggerisce l’obiettivo finale: spingere forzatamente la popolazione a concentrarsi lì, svuotando il resto del territorio. Una pulizia etnica mascherata da assistenza. Un’architettura dell’espulsione. Il sogno sionista dell’espulsione completa del popolo palestinese da Gaza prende forma sotto l’etichetta di “aiuto umanitario”.
- Il silenzio europeo: la complicità della vigliaccheria
Mentre la macchina della fame avanza, l’Europa resta inerte. I governi dell’Unione continuano a ripetere il mantra del “è prematuro agire”, a verificare senza agire, a sanzionare la Russia per la diciottesima volta ma a ignorare deliberatamente le prove di un genocidio in corso. La vicenda di Francesca Albanese, Relatrice ONU per i diritti umani nei territori palestinesi, attaccata ferocemente da politici, giornalisti e ambasciatori per aver denunciato questo schema, è emblematica: si spara sulla messaggera per non vedere il crimine.
- La verità sotto il naso: il crimine perfetto
Questo sistema non è un errore. Non è una disfunzione. È un dispositivo deliberato. Ogni pezzo è al suo posto. Ogni morte è prevista. Ogni disperazione è calcolata. Non si tratta di aiutare, ma di dominare. Non si tratta di sfamare, ma di svuotare. Non si tratta di distribuire aiuti, ma di distribuire paura.
- L’ostinazione del male e la resistenza della memoria
Ma l’ostinazione del governo sionista ha un difetto di prospettiva: ignora la storia. Da oltre novant’anni, il popolo palestinese ha resistito a tutto. Alla colonizzazione britannica, alla Nakba del 1948, alle guerre del ’67 e ’73, all’occupazione militare, all’intifada, ai muri, ai droni, alla diaspora e al silenzio. Il 7 ottobre non è che un passaggio, un detonatore, non la causa di ciò che accade. È usato come alibi per giustificare l’ingiustificabile.
Il popolo palestinese non si arrenderà. Puoi bombardarlo, affamarlo, deportarlo. Puoi annientarlo fino all’ultimo bambino. Ma poi dovrai fare i conti con noi, con la loro memoria, con le storie che continueremo a raccontare, con la giustizia che verrà anche dopo l’ultimo silenzio.
E allora i sionisti radicali dovranno mettersi il cuore in pace: hanno già perso. Perché hanno ucciso la pietà. Perché hanno mostrato al mondo il volto vero dell’odio. Perché la Palestina è oggi un simbolo globale. Di dignità. Di resistenza. Di umanità sotto assedio.
- Epilogo: poesia di un popolo che non si arrende
E tu, Gaza,
sei l’eco che non muore,
sei il grano sotto la sabbia,
la madre che abbraccia il figlio
anche senza pane.
Hanno provato a cancellarti,
ma ti trovano
in ogni sguardo che non accetta la menzogna,
in ogni pugno levato contro il potere,
in ogni lacrima che diventa seme.
Tu sei la pietra che resiste all’assedio,
sei la voce che rompe il silenzio,
sei la memoria che ci inchioda alla storia.
Finché ci sarà un cuore che batte per la giustizia,
la Palestina non sarà mai sconfitta.
Nota finale:
Non basta un “cessate il fuoco” per fermare questo schema di distruzione consapevole. Serve l’uscita immediata di Israele dalla Striscia, l’apertura di corridoi umanitari veri, il ritorno delle agenzie indipendenti, un processo internazionale che dica finalmente la verità. E serve, sopra ogni cosa, la fine della nostra complicità silenziosa.
Gaza muore di fame: disertiamo il silenzio
Ci sentiamo impotenti di fronte all’enormità di quel grande campo di concentramento in cui Israele ha trasformato Gaza. Lo saremo davvero solo se rimarremo muti di fronte allo scandalo della fame usata come arma di sterminio di massa:
Gaza muore di fame: il genocidio entra nella fase finale, e Israele prepara così una terra finalmente davvero senza popolo. Affamando, assetando, bombardando. A Gaza suonano le sirene delle ambulanze, che danno voce ai condannati a morte per fame e bombe. Quelle sirene dicono al mondo che non c’è più tempo. Non possono fare altro, a Gaza: perché i governi del cosiddetto ‘mondo libero’ stanno con Israele. Con il carnefice, non con la vittima. Anche il nostro governo continua a sostenere Israele: impedendo la sospensione dell’accordo con l’Unione europea; continuando a vendergli armi; coprendolo in ogni modo. Il nostro governo ha le mani sporche di sangue.
Ebbene, noi vogliamo rompere questo mostruoso muro di silenzio. Vogliamo fracassarlo, e liberare la verità. Vogliamo unire le nostre sirene e le nostre campane alle sirene delle ambulanze di Gaza.
Domenica 27 luglio, alle 22, facciamo suonare a distesa le campane dei palazzi comunali, quelle delle chiese, e ogni sirena possibile: ambulanze, navi, barche, porti. Suoniamo ogni fischietto, battiamo le pentole. Facciamo più rumore, più chiasso, più fracasso possibile. Facciamolo insieme: nelle piazze e sulle spiagge. Facciamolo sui balconi e alle finestre. Facciamolo sui social. Facciamolo dappertutto. Che ci sentano fino a Gaza: perché sappiano di non essere soli. Che ci sentano nei palazzi del potere italiano: perché lì sappiano, invece, che sono soli; e che la verità ha il potere di fracassare il silenzio dei complici e dei vili.
Ci sentiamo impotenti di fronte all’enormità di quel grande campo di concentramento in cui Israele ha trasformato Gaza. Lo saremo davvero solo se rimarremo muti di fronte allo scandalo della fame usata come arma di sterminio di massa: ma noi, il popolo dei sudari, delle luci, delle sanzioni popolari, non ci fermiamo. Non rimarremo in silenzio, mentre la gente di Gaza viene sterminata.
ULTIMO GIORNO DI GAZA
(Paola Caridi, Claudia Durastanti, Micaela Frulli, Tomaso Montanari, Francesco Pallante, Evelina Santangelo)
I palestinesi muoiono come mosche: facciamo la nostra parte, facciamo girare l’appello – Fabio Marcelli
Abbiamo redatto, con vari giuristi che hanno a cuore i valori del diritto e dell’etica, il seguente appello che vi invito ad inviare agli indirizzi in calce
I Palestinesi, soprattutto i bambini, stanno morendo come mosche nella Striscia di Gaza. Il cappio genocida serrato dal governo israeliano si stringe. Muoiono d’inedia e se si avvicinano ai centri di distribuzione fake messi su dalla società statunitense GHF in collaborazione con Netanyahu, vengono implacabilmente mitragliati. Si delinea il concentramento della popolazione superstite in appositi campi di sterminio allestiti nel Sud della Striscia. La Resistenza palestinese combatte ancora e le tattiche della guerriglia stanno facendo pagare un duro prezzo agli occupanti. Ma l’umanità e la comunità internazionale devono occuparsi della popolazione civile ponendo fine immediatamente a questa intollerabile agonia.
Abbiamo redatto, con vari giuristi che hanno a cuore i valori del diritto e dell’etica, il seguente appello che vi invito ad inviare agli indirizzi in calce:
Facendo nostri i propositi di Papa Leone XIV e della recente riunione di Bogotà del Gruppo dell’Aia chiediamo al governo italiano e a tutti i governi del pianeta di intervenire con urgenza con lanci aerei di cibo, acqua e medicine per lenire le sofferenze dei Palestinesi di Gaza che stanno morendo di inedia. Tali lanci dovranno essere effettuati con modalità tali da non comportare rischi per i destinatari. Chiediamo inoltre l’invio di navi e convogli terrestri italiani, europei e internazionali e l’appoggio alla nave umanitaria “Handala” partita domenica 20 luglio dal porto di Gallipoli con a bordo i nostri connazionali Antonio Mazzeo, giornalista, e Tony La Piccirella, attivista e comandante in seconda. Siamo di fronte a un vero e proprio genocidio e saremo tutti giudicati secondo la nostra reazione al riguardo dalla giustizia umana e, per chi ci crede, da quella divina.
Inviare questo testo a protocollo.centrale@pec.quirinale.it; presidente@pec.governo.it; segreteria.ministro@cert.esteri.it; segreteria.ministro@difesa.it.
Sono pienamente consapevole del fatto che probabilmente quest’appello è destinato a cadere nel vuoto. Ma occorre dare a Meloni & C. un’occasione per sottrarsi ai rigori della propria coscienza (ammesso e non concesso che ne siano dotati) e a quelli più probabili della Corte penale internazionale, cui stiamo per ricorrere per denunciare le complicità italiane nel genocidio (ricorso resosi necessario anche per la deplorevole inazione della Procura di Roma, di fronte alla quale pende da oltre un anno un esposto-denuncia sul tema).
Gli orientamenti del governo italiano sino del resto noti. A qualche querula e generica lamentazione priva di qualsivoglia effetto concreto corrisponde la sostanziale e totale acquiescenza ai desideri di Netanyahu e di Trump, come inoppugnabilmente dimostrato dal rinnovo del Memorandum sulla sicurezza fra Italia e Israele.
A seguito d’istanza di accesso agli atti siamo finalmente venuti a conoscenza del testo dell’Accordo italo-israeliano del 5 ottobre 1987 che ne è alla base, e abbiamo redatto al riguardo un comunicato, firmato dai dieci giuristi che avevano presentato l’istanza e di altri che si sono aggiunti constatando fra l’altro che “l’Industria militare e le Forze armate del nostro Paese sono coinvolte in attività di cui i cittadini italiani non possono essere messi a conoscenza per volontà del governo israeliano” e che “il nostro Paese è dunque oggi vincolato alla segretezza sui rapporti militari con uno Stato che è impegnato nello sterminio del popolo palestinese nella Striscia di Gaza e che, in forza degli accertamenti dichiarati dalla Corte Internazionale di Giustizia del 19.07.2024 e confermati dall’Assemblea Generale dell’Onu nel settembre 2024, occupa illegalmente da circa mezzo secolo la terra di Palestina” in flagrante violazione anche dell’art. 80 della Costituzione, data l’assenza di ratifica con legge.
La regione mediorientale tutta è scossa da brutali violenze che preludono alla guerra globale e qualcuno ha evidentemente interesse a mantenere alta la tensione. Colpisce in particolare la circostanza che le criminali imprese delle bande fondamentaliste siriane sunnite contro il popolo druso avvengano proprio nel momento in cui la Turchia, grazie ad Ocalan e alle significative aperture del governo turco, sta imboccando finalmente il cammino verso la pace interna e la riconciliazione nazionale e vi sono buone possibilità di costruire una nuova Siria basata sulla libera e pacifica convivenza tra le varie comunità che ne fanno parte. La situazione è comunque estremamente complessa e pericolosa e richiede un governo, sia italiano che europeo, che sia all’altezza della sfida. Ma purtroppo non è il caso, data la triste natura di burattini di Trump senza cervello, senz’anima e senza cuore di coloro che ne fanno parte.
Invece di svolgere il ruolo previsto dall’art. 11 della Costituzione, mediazione diplomatica e intervento umanitario, il nostro governo è oggi più che mai complice del vile e barbaro genocidio che si sta compiendo. È ora di dire basta a questo scempio.
A quale abisso morale siamo giunti? – Un palestinese da Amman
In un mondo dominato dall’orrore e dall’assenza di coscienza, la fame e la morte non sembrano più scuotere nessuno. Si organizzano festival del cibo nel cuore delle città ricche, si scattano foto tra risate e vanità, mentre a Gaza i bambini muoiono di fame sotto assedio, nel silenzio vergognoso del mondo.
Che degrado morale ha raggiunto l’umanità? Che schizofrenia è mai questa che ci fa festeggiare, mangiare e divertirci, mentre i corpi denutriti cadono nei campi profughi e sotto le macerie? Non siamo più solo spettatori: siamo complici. Sì, noi, i codardi, gli indifferenti, siamo quelli che hanno permesso che questa fame diventasse una condanna a morte, che questa ingiustizia diventasse una normalità.
Abbiamo fallito in ogni prova morale. Non abbiamo alzato la voce quando dovevamo, non ci siamo mossi quando era urgente farlo. Con il nostro silenzio, con il nostro tradimento, con il nostro abbandono delle piazze — quelle stesse piazze che un tempo avevano la forza di spezzare gli equilibri — siamo diventati parte del crimine.
La tragedia di Gaza, come tutte le tragedie umanitarie, non accade nel vuoto. Avviene sotto regimi criminali e sotto un silenzio internazionale complice, sì, ma anche sotto la nostra rinuncia collettiva alla lotta, sotto il nostro abbandono della speranza nel cambiamento, sotto la nostra fuga dai luoghi del confronto.
Abbiamo lasciato le piazze, quelle piazze che in passato avevano il potere di creare pressione, di imporre trasformazioni, di rovesciare il tavolo. Le abbiamo abbandonate dopo averci convinto che non servivano più, o forse perché eravamo stanchi. Ma la stanchezza non giustifica l’abbandono. E non ci libera dalla responsabilità.
Per questo, non basta piangere i morti di fame, né condividere un post o recitare una preghiera. Dobbiamo affrontare la verità: li abbiamo traditi. E ciò che serve oggi non è una reazione emotiva passeggera, ma un ritorno autentico alla resistenza, alla posizione etica, all’azione concreta.
Perché la giustizia non trionfa da sola. Ha bisogno di chi la difenda, di chi sia disposto a pagare un prezzo per essa, di chi si rifiuti di vivere in una pace falsa mentre altri vengono sterminati dalla fame.
Perchè Israele vuole uccidere i bambini di Gaza – Linah Alsaafin
L’assenza delle loro brutali morti dalle notizie occidentali fa parte del silenzio istituzionale che ha sostenuto il Progetto Genocida di Israele per oltre 21 mesi.
Il Genocidio israeliano sostenuto dall’Occidente nella Striscia di Gaza è entrato nella sua fase più letale e il mondo continua a dormire.
Quest’estate ha segnato un aumento delle uccisioni quotidiane di palestinesi: una media di 100 vite Massacrate ogni giorno, la maggior parte delle quali già alle prese con i morsi della fame nel mezzo di una Campagna di Carestia di Massa indotta.
Il piccolo territorio costiero, bloccato da Egitto e Israele con la Complicità della comunità internazionale, è ora il luogo più pericoloso al mondo per i bambini, che costituiscono circa la metà della popolazione.
Già il 31 ottobre 2023, l’Unicef ha descritto Gaza come “un cimitero per i bambini, un inferno per tutti gli altri”. Questa definizione è stata ribadita da numerosi funzionari delle Nazioni Unite, più recentemente venerdì scorso dal Direttore Generale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Philippe Lazzarini, che ha messo in guardia dal “machiavellico Piano di Uccisione” di Israele a Gaza.
Missili e schegge laceravano i fragili corpi dei bambini nei mercati all’aperto, nei punti di raccolta dell’acqua, nei siti di distribuzione degli aiuti e mentre aspettavano in coda per gli integratori alimentari.
I bambini vengono bombardati all’interno di tende per sfollati, bruciati vivi nei rifugi scolastici e sepolti sotto le macerie delle loro case. Ancor prima di nascere, i feti vengono strappati dal grembo materno dalla forza delle bombe.
La scorsa settimana, il corpo decapitato del feto di otto mesi Saeed Samer al-Laqqa, documentato in un filmato ampiamente condiviso sui social media, non è stato nemmeno menzionato dai media tradizionali.
La sua assenza dai titoli dei giornali fa parte del silenzio istituzionale che ha sostenuto il Progetto Genocida di Israele per oltre 21 mesi.
Anche quando le loro morti vengono riconosciute, i bambini di Gaza sono ridotti a poco più di un numero di vittime.
Ma la loro uccisione non è mai stata un danno collaterale: è un tentativo deliberato di estinguere un futuro che Israele teme: una generazione di palestinesi nati sotto assedio, la cui sopravvivenza, memoria e innato desiderio umano di libertà e dignità minacciano le fondamenta di uno Stato Coloniale costruito sulla loro Cancellazione.
Dal carcere al martirio
Il 12 luglio, Youssef al-Zaq, appena diciassettenne, è stato ucciso insieme ai nipoti Maria e Tamim, in un attacco israeliano al loro edificio a Gaza.
Youssef, un tempo noto come il più giovane ostaggio palestinese, è nato in una prigione israeliana nel 2008.
Sua madre, Fatema al-Zaq, fu arrestata nel 2007 mentre tentava di entrare nella Cisgiordania Occupata e, durante le prime fasi della sua prigionia, scoprì di essere incinta di due mesi.
“L’Occupazione israeliana ha Torturato sua madre affinché abortisse”, mi ha raccontato il cugino di Youssef, Ahmed Sahmoud.
Fatema ha dato alla luce un bambino sano, ma le sue braccia e gambe sono state ammanettate durante il travaglio e ha ricevuto cure mediche minime dalle guardie carcerarie israeliane.
Youssef ha trascorso i primi 20 mesi della sua vita dietro le sbarre. Nel 2009, lui e sua madre, insieme ad altre 19 detenute palestinesi, sono stati rilasciati in cambio di un video che mostrava l’ostaggio israeliano Gilad Shalit vivo.
“C’è stata molta attenzione su Youssef dopo il suo ritorno a casa”, ha detto Sahmoud, un giornalista fuggito da Gaza l’anno scorso e che ora vive in Egitto.
“La famiglia al-Zaq lo chiamava il fiore della famiglia. Era un ragazzo tranquillo e molto amato nel suo quartiere”, ha aggiunto.
Il più giovane di otto fratelli, Youssef era determinato a vivere una vita piena e desiderava ardentemente viaggiare.
Ma Sahmoud ha detto che la famiglia crede che Youssef sia stato deliberatamente preso di mira da Israele: “La nascita e la storia di Youssef hanno rivelato l’Occupazione. Ecco perché non volevano che rimanesse in vita”, ha detto il cugino, citando la storia di Israele di prendere di mira e uccidere ex detenuti palestinesi.
“Gli israeliani erano risentiti del fatto che Youssef, nato nella loro prigione, fosse stato rilasciato. Rappresentava una vittoria su di loro, una nuova prospettiva di vita.
“Non posso spiegarvi il posto speciale che Youssef occupava in famiglia”, ha detto Sahmoud. “Il suo martirio ha lasciato un vuoto enorme. L’Esercito di Occupazione Sionista ha spento la fonte di luce della famiglia.”
Disumanizzare i bambini
La storia di Youssef non dovrebbe essere la quintessenza dell’infanzia a Gaza. È nato in prigione e ha vissuto il resto della sua vita in una gabbia a cielo aperto.
Ha assistito a molteplici aggressioni israeliane. Ha vissuto quasi due anni di Genocidio. Ha sofferto la fame, condividendo un solo pezzo di pane con i nipoti. È stato tirato fuori dalle macerie della sua casa.
La morte è diventata una triste costante negli ultimi 21 mesi. Più di 17.000 bambini sono stati uccisi, secondo il Ministero della Sanità di Gaza, una grave sottostima che esclude i dispersi e le innumerevoli migliaia di persone ancora sepolte sotto le macerie.
Ciò nonostante, questo numero significa che in media 30 bambini sono stati uccisi da Israele ogni giorno dal 7 ottobre 2023, l’equivalente di un’aula scolastica, o un bambino ogni 45 minuti.
Come si può iniziare a spiegare, per non parlare di Comprendere il modo sproporzionato e deliberato in cui Israele prende di mira i bambini?
Con il suo armamento avanzato, la sorveglianza e il controllo demografico, queste uccisioni non sono accidentali, ma codificate nella politica.
Fin dai primi giorni di questo Genocidio, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha invocato la storia biblica degli Amaleciti per giustificare le Uccisioni di Massa a Gaza, compresi i bambini.
L’Uccisione e la mutilazione di bambini, ancora un Crimine di Guerra secondo il Diritto Internazionale, hanno ricevuto piena legittimità, e persino incoraggiamento, attraverso le sentenze dei rabbini Sionisti e la retorica dei ministri del governo israeliano.
Con un linguaggio così disumanizzante e la paura dell’altro, queste figure invocano apertamente lo Sterminio dei bambini palestinesi e “delle donne che producono terroristi”.
Proclamano che “non ci sono innocenti a Gaza”, che ogni bambino palestinese è “già un terrorista dal momento della sua “nascita”.
A tal fine, Israele è stato coerente. Dalla fondazione della Colonia nel 1948, la Pulizia Etnica dei palestinesi non si è mai fermata. Il Genocidio non è più solo un’intenzione; è una strategia ufficiale. “Sfoltire” la popolazione di Gaza è ormai una politica governativa ufficiale.
Collasso sociale
Perché i bambini di Gaza? Un milione di bambini a Gaza rappresenta una popolazione giovanile in crescita, una sfida demografica per una società israeliana che sa, nel profondo, di non appartenere a una terra che ha intriso di sangue palestinese.
Altrimenti, perché persisterebbe nella sottomissione violenta e nell’Omicidio di Stato? Quale tipo di psiche distorta si vanta di uccidere bambini e lo considera un diritto divino? Chi celebra l’Omicidio di innocenti e considera la loro esistenza una minaccia?
Prendere di mira i bambini serve a un altro scopo nefasto: un attacco calcolato alla società e alla riproduzione di una popolazione nativa.
L’obiettivo è far crollare i legami comunitari e le strutture sociali. C’è il rapido Genocidio delle bombe e dei missili, e il lento Genocidio della fame, degli internamenti di massa e della decimazione dell’assistenza sanitaria, creando una coltura di malattie in cui i bambini sono i più vulnerabili.
Da questo caos, concepito per spezzare lo spirito di liberazione e giustizia, le Potenze Coloniali sfruttano il vuoto per espandere insediamenti illegali e saccheggiare le risorse naturali.
Durante la rivolta dei Mau Mau in Kenya, gli inglesi confinarono 1,5 milioni di kenioti in campi di detenzione e villaggi rigidamente controllati, dove prevalsero malattie, fame, torture, stupri e omicidi.
“Solo trattenendo quasi l’intera popolazione kikuyu di 1,5 milioni di persone e atomizzandone fisicamente e psicologicamente uomini, donne e bambini, si poté ripristinare l’autorità coloniale e la missione civilizzatrice”, ha scritto la storica di Harvard Caroline Elkins.
Anche in Algeria, in risposta alla Resistenza anticoloniale del Fronte di Liberazione Nazionale, i francesi radunarono con la forza migliaia di contadini sotto la minaccia delle armi e li trasferirono in insediamenti sorvegliati noti come campi di raggruppamento.
L’obiettivo era quello di indebolire il sostegno pubblico del Fronte di Liberazione Nazionale isolando la popolazione contadina, controllandone gli spostamenti e limitandone l’accesso alle risorse.
Alla fine della guerra d’Algeria, nel 1962, circa due milioni di algerini erano confinati in questi campi, a causa di malattie e malnutrizione.
Futuri combattenti per la libertà
Dagli inglesi ai francesi agli israeliani, le tattiche coloniali d’insediamento hanno seguito la stessa logica brutale, nonostante l’evoluzione della loro portata e crudeltà.
Nel tempo e nella geografia, il Progetto Coloniale d’Insediamento si è basato non solo sulla conquista fisica, ma anche sulla Cancellazione dell’identità, sulla frammentazione della comunità e sulla soppressione di ogni futura Resistenza.
Mi chiedo ancora: perché i bambini di Gaza?
Rappresentano esattamente quel futuro: un futuro radicato nella conoscenza e nella memoria storica.
In una società con uno dei più alti tassi di alfabetizzazione della Regione, nonostante decenni di assedio e bombardamenti, i giovani istruiti non sono solo simboli di sopravvivenza; sono agenti di liberazione.
Per una Potenza Colonizzatrice violenta, un bambino con un libro, un sogno o un ricordo è più pericoloso di qualsiasi arma.
Prendere di mira i bambini, quindi, non è un danno collaterale. È una strategia. Fa parte di una Campagna più ampia per distruggere la speranza, sovrascrivere il futuro e alimentare la Macchina dell’Occupazione attraverso la paura e la Cancellazione.
Traduzione a cura di: Beniamino Rocchetto
“Tiro a segno sull’infanzia: il gioco mortale dell’IDF e l’orrore normalizzato” – Mario Sommella
Ci sono storie che non si vorrebbero mai raccontare. Non perché siano oscure, ma perché sono troppo vere. Talmente vere da strapparti la pelle, da lacerare ogni briciolo di umanità che ci resta dentro. Sono le storie che ci riportano a ciò che credevamo sepolto nei cimiteri della storia: Auschwitz, Srebrenica, Sabra e Shatila. E invece no. È oggi. È adesso. È Gaza.
Secondo le testimonianze dei soldati israeliani e i reportage di testate come Haaretz, il cosiddetto “tiro a segno” non è una macabra invenzione propagandistica, ma una pratica strutturata, documentata, reiterata. Un gioco mortale in cui i bambini diventano bersagli da colpire a seconda della parte del corpo indicata quel giorno. Testicoli. Collo. Ginocchia. Addome. Testa.
Lo conferma il chirurgo britannico Nick Maynard, appena rientrato da Gaza, in un’intervista alla BBC. Parla di uno “schema chiaro e deliberato”, di ferite identiche e sistematiche, inflitte con la precisione di chi non agisce per errore, ma per addestramento. Il giorno delle braccia. Il giorno della testa. Il giorno dei genitali. “A very clear pattern”, ripete. Nessun dubbio.
Nel 2020, molto prima del 7 ottobre, un soldato dell’IDF, Eden, dichiarava senza tremare: “So esattamente quante ginocchia ho centrato: 42”. Era di stanza lungo il confine con Gaza, e la sua missione era “respingere i manifestanti”. Come? “Sparavamo come se stessimo cacciando anatre”, aggiunge un altro. In una settimana, oltre 200 palestinesi uccisi, quasi 20.000 feriti. E non parliamo di miliziani armati: parliamo di esseri umani, spesso bambini, adolescenti, civili.
Dietro ogni genocidio c’è un processo di disumanizzazione. Prima ancora delle armi, serve lo sguardo rotto. Quello che non vede più l’altro come simile, ma come bersaglio. Il linguaggio lo prepara: “non sono umani ma bestie”, “tutti colpevoli, compresi i bambini”, ripetono ministri e generali. E così anche i media “moderati”, quando spiegano che in fondo, tra le vittime, “la maggior parte sono maschi tra i 15 e i 45 anni”. Come se bastasse per smettere di piangere.
È sempre stato così. I “mori” nelle crociate. I “pellerossa”. I “musi gialli”. I “negri”. I “subumani”. A ogni colore un punteggio, a ogni razza un bersaglio. E quando il gioco comincia, quando il sangue diventa punteggio e l’infanzia diventa trofeo, il genocidio è già iniziato. Non serve più annunciare uno sterminio. È sufficiente che la società smetta di vedere.
Ecco allora la funzione più vile della propaganda: trasformare il dolore altrui in fastidio, il pianto in rumore di fondo. Le immagini di Gaza, i corpi dei bambini senza volto, i racconti dei sanitari internazionali vengono ignorati, sepolti sotto le urla degli editorialisti che parlano di “diritto alla difesa”. Anche quando la difesa è diventata crudeltà scientifica.
Ma la colpa non è solo di chi spara. È di chi guarda altrove. Di chi finanzia, legittima, applaude. Di chi tace e acconsente. Di chi in nome dell’equilibrio rifiuta la verità. Di chi si appella al “contestualizzare” per non dover gridare.
Eppure ci sono voci che squarciano il silenzio. Come quella della giornalista Francesca Fornario, che ha il coraggio di raccontare, di chiamare le cose col loro nome. Che ci ricorda che ogni genocidio inizia dal linguaggio, ma si compie nel gesto. Nello sparo. Nella ginocchia distrutta. Nella testa mirata.
Noi non possiamo restare immobili.
Non possiamo cedere alla disumanizzazione diffusa. Dobbiamo tornare a vedere. Dobbiamo sentire la pelle di quei bambini come la nostra. Le urla delle madri come quelle delle nostre. I cadaveri allineati come figli nostri. Perché lo sono.
Non lasciamo che lo sguardo si spezzi. Non lasciamo che l’empatia venga estinta dal cinismo geopolitico. Non lasciamo che la storia, ancora una volta, si scriva col sangue degli innocenti e col silenzio dei colpevoli.
Ci vediamo in piazza. E domani. E dopodomani.
Perché restare umani oggi è il più radicale degli atti politici.
Morte di un villaggio – Yigal Bronner
Quando i coloni sono entrati nel villaggio palestinese di Mu’arrajat, tutti sapevamo che cosa sarebbe successo subito dopo. Quello che è successo tante e tante volte in Cisgiordania. Invasione, molestie, furti e terrore, fino al raggiungimento dell’obiettivo non nascosto: ripulire l’area dai non-ebrei. Io e gli altri attivisti che erano con me però non potevamo smettere di tentare. Quindi alle 22.30 del 2 luglio alcuni di noi sono partiti da Gerusalemme e hanno percorso la strada tortuosa che scende verso la valle del Giordano. Mu’arrajat prende il nome da quelle curve. O lo prendeva.
Verso sera diverse decine di coloni dai vicini avamposti illegali si sono radunati nel villaggio. Alcuni sono arrivato con materiale da campeggio, altri hanno portato un gregge di pecore. Poi hanno fatto irruzione nelle case dei palestinesi. In una hanno spostato i mobili nella veranda, si sono seduti e hanno fatto come se fossero a casa propria. Un altro gruppo ha fatto uscire un gruppo di sessanta capre e pecore dal recinto di Ibahim e le ha portato via dal villaggio. Nessuno ha più rivisto quegli animali. Un terzo gruppo ha tagliato la corrente a una delle case. Dentro c’erano donne e bambini. Terrorizzati che venisse dato fuoco alla loro casa sono scappati portando con sé solo i vestiti che avevano addosso. I coloni sono entrati e hanno rubato soldi e oggetti di valore.
I leader di questo attacco ben orchestrato, uomini provenienti dalle colonie e dagli avamposti intorno al villaggio, erano sul posto e davano ordini. Ma la maggior parte degli aggressori erano degli adolescenti, i cosiddetti “giovani delle colline” che sono alla testa del crescente movimento di supremazia ebraica in Israele.
Siamo arrivati al villaggio dopo che il gregge di pecore era stato rubato ma prima dell’attacco alla casa a cui era stata tagliata la corrente. La polizia era stata chiamata ma non si vedeva da nessuna parte. L’ho chiamata alle 23.48. Hanno detto che stavano arrivando. L’ho chiamata di nuovo a mezzanotte e 34 minuti, spiegando in dettaglio il pericolo che correvano le famiglie palestinesi, gli attivisti (i coloni stavano lanciando pietre ai miei colleghi e li colpivano con delle mazze) e le proprietà. “Cosa state aspettando” ho chiesto. “Che succeda qualche disgrazia? Perché non mandate una macchina della polizia? Vi abbiamo chiamato molte volte!” Mi è stato rimproverato di avere un tono isterico e mi hanno detto di aspettare pazientemente, perché le forze di sicurezza stavano arrivando. Anche altri avevano chiamato e ricevuto risposte simili. La polizia non è mai arrivata.
A Gerusalemme un’avvocata che rappresenta il villaggio stava preparando una richiesta urgente alla Corte Suprema di Israele di emettere un ordine che imponesse alla polizia e l’esercito di rimuovere i coloni invasori. Ci mandava continue richieste di aggiornamento. Le mandavamo continue risposte. La richiesta è stata presentata il giorno seguente, ma il giudice della Corte Suprema Alex Stein ha detto che non c’era motivo di intervenire, data che si presumeva che le forze di sicurezza avrebbero agito per preservare l’ordine. L’avvocata ha fatto ricorso, che è stato nuovamente respinto. Non ci sarebbe stato nessun intervento della polizia, dell’esercito o dei tribunali, come i leader dei coloni ben sapevano. Hanno detto ai palestinesi che avevano 24 ore per andarsene, o sarebbe stato peggio per loro.
I residenti conoscevano la procedura. La stessa che avevano visto in tutta la Cisgiordania. Alla fine di maggio la stessa cosa era successa a Mahayer al-Dir: i coloni avevano stabilito un avamposto nel villaggio, avevano attaccato i residenti e svaligiato le loro case; anche lì la polizia e i tribunali non erano intervenuti quando i coloni avevano dato i loro ultimatum. Gli abitanti del villaggio che avevano tardato a fare i bagagli erano stati picchiati dai coloni, e diversi tra loro erano finiti in ospedale con ferite gravi. I residenti di Mu’arrajat, che avevano amici e familiari a Maghayer al-Dir, non hanno aspettato fino alla mattina per andarsene. L’ultimatum dei coloni è stato rispettato entro le 24 ore. Le case erano state smantellate, i beni di prima necessità impacchettati e portati via, la scuola svuotata. Tutti i 250 residenti se ne sono andati.
Ne ho conosciuto bene alcuni durante gli ultimi cinque anni. Ho parlato con Alia ogni volta che iniziavo il turno di notte, di modo che sapesse chi chiamare in caso di emergenza. Suliman mi chiamava quasi tutte le notti, quando i coloni prendevano a pugni la sua porta di casa. Erano vessati, invasi e terrorizzati; i coloni hanno dato fuoco alla moschea del villaggio; nonostante questo hanno mantenuto la loro dignità. Ho visto i villaggi intorno a loro cadere uno dopo l’altro, ma loro continuavano a resistere. Adesso anche loro sono dispersi, senza casa, sradicati.
I coloni, nel frattempo, stanno celebrando un’altra vittoria nei social media: l’espulsione di un’altra comunità di “nemici” o “invasori”, come chiamano le persone la cui terra e le cui case hanno invaso e occupato. L’intera valle del Giordano è stata ebraicizzata.
Quando una persona muore, ci sono dei rituali che ci aiutano a piangerne la scomparsa, e persone che ci guidano nell’elaborazione del lutto. Ma cosa possiamo fare quando un intero villaggio è cancellato, quando la vita di un’intera comunità viene distrutta? Specialmente quando nessuno intorno a noi sembra farci caso, quando a nessuno sembra importare nulla?
Mu’arrajat non esiste più.
[traduzione dall’inglese di Federico Zanettin]
Sulle “Vittime delle vittime” – Ussama Makdisi
Rivisitare l’umanesimo etico di Edward Said nel contesto del genocidio di Gaza
Durante i 15 mesi trascorsi dal 7 ottobre 2023 ho riflettuto sull’affermazione di Edward Said secondo cui i palestinesi sono le “vittime delle vittime”. Il celebre teorico della letteratura ha riassunto concisamente questa “complessa ironia” nell’edizione del 1992 del suo fondamentale libro “La questione della Palestina”. Ha scritto che “le vittime classiche di anni di persecuzione antisemita e dell’Olocausto sono diventate, nella loro nuova nazione, i carnefici di un altro popolo”.
Come disse al romanziere Salman Rushdie nel 1986, “Qualsiasi tipo di critica a Israele viene trattata come antisemitismo per fare da paravento … Soprattutto negli Stati Uniti se dici qualcosa in quanto arabo di cultura musulmana sei visto come un membro del classico antisemitismo europeo o occidentale”.
Eppure, Said si era distinto come uno dei primi intellettuali ad attraversare il profondo abisso che caratterizzava i discorsi antagonisti sul trauma storico plasmato rispettivamente dalla Nakba e dall’Olocausto; persisteva nella convinzione che una comprensione anche sentimentale dell’esperienza ebraica moderna della persecuzione antisemita in Europa fosse legata a un riconoscimento positivo della storia e dei diritti nazionali palestinesi.
Per Said empatizzare con “il disastroso problema dell’antisemitismo”, come lo definì in “La questione della Palestina” (pubblicato originariamente nel 1979), offriva una via d’uscita dal pantano del vittimismo concorrente. Questo intreccio di empatia rifletteva la sua convinzione che il destino e il futuro di palestinesi e israeliani fossero inevitabilmente legati dalla questione palestinese.
Oggi dopo 76 anni di pignola crudeltà che tocca ogni aspetto della vita palestinese in tutta la Palestina storica e mentre Israele porta avanti una campagna genocida a Gaza che, al momento in cui scrivo, ha ucciso circa 64.260 palestinesi e ne ha feriti decine di migliaia, sono turbato dalla domanda: l’espressione “vittime delle vittime” ha ancora senso come formulazione etico-storica? Said morì due decenni prima del genocidio di Gaza e, come molti di noi, non avrebbe potuto immaginare l’intero orrore della sua depravazione trasmessa in diretta streaming; “È come se stessimo guardando Auschwitz su TikTok”, ha detto il sopravvissuto all’Olocausto Gabor Maté.
Inoltre, Said non poteva prevedere fino a che punto le istituzioni, i leader e le principali personalità pubbliche occidentali avrebbero sostenuto con tanta bellicosità tali atrocità. Né la proliferazione di immagini e video del genocidio, né i mandati di arresto emessi dalla Corte Penale Internazionale contro i leader israeliani per i loro programmi di sterminio e carestia di massa (l’evidenza della brutalità ha finalmente, tardivamente, raggiunto una soglia comprensibile a quest’organismo), né l’accusa del Sudafrica post-apartheid alla Corte Internazionale di Giustizia secondo cui lo Stato israeliano sta perpetrando un genocidio hanno smosso l’ostentato filosionismo della maggior parte dei governi occidentali. Al contrario, questi hanno totalmente ignorato l’umanità palestinese in nome del lutto e della difesa delle vittime ebree israeliane della violenza. Contrariamente all’empatia invocata da Said, l’Occidente liberale si è categoricamente rifiutato di considerare i palestinesi come vittime di qualsiasi rilevanza morale o storica.
Ma mentre i palestinesi vengono spietatamente massacrati in nome della sicurezza di Israele, gli israeliani sono davvero vittime in senso nazionale collettivo? Non c’è forse una distinzione essenziale da fare tra essere ebrei ed essere israeliani, quindi tra una lunga storia di vittime ebraiche per mano di persecutori antisemiti nell’Occidente cristiano e le più recenti sofferenze israeliane nel contesto della violenza anticoloniale provocata dalla loro stessa colonizzazione della Palestina?
Ha senso pensare al politico israeliano razzista Itamar Ben-Gvir, capo di un partito anti-arabo chiamato Otzma Yehudit (Potere Ebraico), come a una vittima? In che senso i soldati israeliani sono vittime nel 2025? In che senso sono vittime quando sono armati fino ai denti, dotati di miliardi di dollari di armi statunitensi e di una copertura diplomatica statunitense apparentemente illimitata per sfidare l’indignazione internazionale per il genocidio di Gaza?
In che senso sono vittime quando diffondono con gioia fotografie di sé stessi sullo sfondo del paesaggio di Gaza che hanno spianato – fotografie che li mostrano sorridenti mentre indossano la lingerie rubata di donne palestinesi apolidi e ancora una volta espropriate, di cui hanno distrutto le vite, demolito le case e massacrato i bambini? In che senso sono vittime quando trasmettono video di loro stessi che ridono mentre distruggono università e biblioteche palestinesi? In che senso sono vittime i coloni ebrei israeliani quando si radunano per impedire che il cibo raggiunga i bambini che muoiono di fame?
Che dire degli israeliani che hanno assistito al bombardamento di Gaza del 2014, seduti con nonchalance come se stessero assistendo a uno spettacolo teatrale e non a una catastrofe umana? Che dire di coloro che, nel 2006, durante il bombardamento israeliano del Libano, sono rimasti a guardare mentre i loro figli autografavano i proiettili di artiglieria? O di coloro che hanno partecipato o insabbiato il massacro di Tantura durante la Nakba del 1948? [Nel corso della conquista del villaggio le forze ebraiche massacrarono da 70 a 250 civili inermi, essenzialmente giovani, presi come prigionieri di guerra, mentre la quasi totalità degli abitanti (1.490 persone) fu espulsa o fuggì, ndt.]. A un certo punto, è assurdo continuare a pensare a questi israeliani come a vittime se non nel senso che potrebbero davvero credere di stare combattendo per sconfiggere i mostri “barbari” delle loro menti. Di certo non è a questo che si riferiva Edward Said quando descriveva i palestinesi come le “vittime delle vittime”.
In effetti, mentre Said cercava di tracciare una strada attraverso cui ebrei israeliani e palestinesi potessero riconoscere reciprocamente il trauma collettivo, era chiaro che ciò che cercava non era una facile equivalenza che offuscasse lo straordinario potere che i primi esercitano sui secondi e nascondesse il danno epistemico, politico, economico, sociale e umano derivante da questo continuo dominio. Mentre gli ebrei in Europa furono vittime dell’antisemitismo occidentale culminato nell’Olocausto, i palestinesi rimangono vittime dei sionisti ebrei israeliani e dei loro sostenitori, complici e alleati in Occidente, compresi i sionisti cristiani.
Mentre i palestinesi non hanno avuto alcun ruolo nel razzismo antiebraico nazista, fondamentale per la caratterizzazione dell’antisemitismo moderno, gli ebrei israeliani hanno svolto un ruolo chiave nella disumanizzazione dei palestinesi e nella cancellazione della società, della storia e della vita palestinese dal 1948 a oggi. Ci sono enormi differenze nella cronologia, nella posizione e nelle relazioni tra azione, causa ed effetto.
Anche se la sua formulazione “vittime delle vittime” racchiude in un’unica cornice la brutalizzazione subita da entrambe le popolazioni, Said è attento a sottolineare che essa nomina anche, in modo cruciale, la particolare difficoltà affrontata dai palestinesi, i quali, scrive in The Question of Palestine, “hanno avuto la straordinaria sfortuna di avere… gli oppositori moralmente più complessi di tutti, gli ebrei, con una lunga storia di vittimizzazione e terrore alle spalle. L’assoluto torto del colonialismo di insediamento è molto diluito e forse persino dissipato quando è in nome della sopravvivenza ebraica, in cui si crede fermamente, che si usa il colonialismo di insediamento per raddrizzare il proprio destino”.
I leader israeliani invocano abitualmente la storia dell’Olocausto e l’esperienza ebraica dell’antisemitismo come un randello con cui colpire i loro critici per distogliere l’attenzione dall’orrore della loro disumanizzazione dei palestinesi e per giustificare l’estrema violenza del sionismo coloniale. Israele viola continuamente il diritto internazionale espropriando terre palestinesi e istituendo quello che l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem definisce un “regime di supremazia ebraica e apartheid dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo”. Ma quando rifiutiamo il mito di un vittimismo senza tempo, sottolinea Said, emerge un quadro molto più chiaro: “Le vittime in Africa e in Palestina sono ferite e segnate più o meno allo stesso modo”.
Sebbene la famosa frase di Said rimanga una critica tagliente, che identifica questo offuscamento dei rapporti di potere, il suo tentativo di tracciare una strada verso il futuro attraverso la compassione reciproca sembra appartenere a un’altra epoca. Forse è giunto il momento di unire l’umanesimo etico di Said a quello del grande poeta palestinese Mahmoud Darwish. Nella sua poesia “Assassinato e sconosciuto”, Darwish scrive, nella traduzione di Fady Joudah:
“Io sono la vittima”. “No, io solo sono
la vittima”. Non hanno detto all’autore: “Nessuna
vittima ne uccide un’altra. C’è nella
storia una vittima e un assassino”.
Darwish cristallizza ciò che Said ha solo accennato: per quanto siano stati vittime in passato, e per quanto portino con sé l’impronta di questo passato, gli ebrei israeliani sono stati, attraverso le loro azioni, trasformati in un nuovo tipo di soggetto.
Con importanti eccezioni come lo storico Ilan Pappé, che ci ricorda che l’affiliazione laica al potere è una scelta fatta e disfatta, gli ebrei israeliani sono ora nella posizione di oppressori. Sono costantemente all’opera per rendere vittime i palestinesi. Sia gli ebrei israeliani che i palestinesi sono ovviamente umani, entrambi meritano uguaglianza e libertà, e le due cose sono legate tra loro. Ma al momento solo uno è l’oppressore; l’altro è l’oppresso. Se non riusciamo a mantenere questa fondamentale, ovvia distinzione etica tra oppressore e oppresso, colonizzatore e colonizzato, allora la storia diventa un idolo dell’anacronismo piuttosto che uno strumento per spezzare il narcisismo del vittimismo perpetuo.
Come ha scritto Said in La questione della Palestina, “Non può esserci modo di condurre in maniera soddisfacente una vita la cui la preoccupazione principale è impedire che il passato si ripeta. Per il sionismo i palestinesi sono ormai diventati l’equivalente di un’esperienza passata reincarnata sotto forma di minaccia presente. Il risultato è che il futuro dei palestinesi come popolo è ipotecato da quella paura, il che è un disastro per loro e per gli ebrei”. Darwish sintetizza questa formulazione, istruendoci a guardare direttamente quali persone stanno effettivamente soffrendo per mano di chi e perché. Said e Darwish ci ricordano insieme che non dobbiamo essere prigionieri del passato, altrimenti siamo tutti vittime e, in nome della nostra stessa vittimizzazione, possiamo e faremo agli altri le cose terribili che un tempo sono state fatte a noi.
(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)
Dichiarazione del Congresso ebraico antisionistico di Vienna, 13-15 giugno 2025
Oltre 1.000 ebrei e non ebrei antisionisti si sono riuniti a Vienna per tre giorni di conferenze e workshop nell’ambito del Congresso sull’antisionismo ebraico . Sebbene si sia trattato del primo evento del suo genere in Europa, sono già in corso i preparativi per un secondo congresso nel 2026.
Noi, relatori e organizzatori del congresso, pubblichiamo questo appello pubblico, che riflette le posizioni comuni raggiunte nel corso dei tre giorni di deliberazioni.
Come ebrei antisionisti e alleati, ci schieriamo al fianco di tutti i palestinesi – in Palestina e in esilio – contro il sionismo e i suoi crimini, tra cui genocidio, apartheid, pulizia etnica e occupazione. Affermiamo il diritto delle persone che vivono sotto occupazione a difendersi con ogni mezzo , come riconosciuto da molteplici disposizioni delle Nazioni Unite. È fondamentale che gli ebrei di coscienza, ovunque nel mondo, si uniscano per opporsi al sionismo in comune e in solidarietà con il movimento globale per la liberazione della Palestina. Ci impegniamo a espandere il nostro movimento oltre le sue radici europee per includere le voci antisioniste di tutto il mondo, incluso il Sud del mondo.
Condanniamo senza riserve tutti i crimini di guerra commessi da Israele dal 7 ottobre 2023, tra cui la pulizia etnica, l’apartheid militarizzato, l’urbicidio, lo scolasticidio, il medicidio, la carestia di massa come mezzo per sfollare forzatamente oltre due milioni di abitanti di Gaza e un genocidio in corso che coinvolge centinaia di migliaia di persone, uno dei peggiori crimini di guerra del nostro tempo. Questi atti sono già stati riconosciuti come tali dalla CPI e dalla Corte Internazionale di Giustizia, sebbene lo Stato di Israele abbia respinto categoricamente le richieste di entrambe le corti. Ha inoltre respinto numerose richieste sia dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che del Consiglio di Sicurezza. Di conseguenza, circa due milioni di civili sono attualmente confinati in una piccola area della Striscia di Gaza senza accesso a cibo, acqua, medicine, riparo o assistenza medica. Questi nuovi crimini sono solo gli ultimi di una storia infinita di reati simili che risale al 1948. Nonostante le ripetute violazioni delle risoluzioni dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e gli estesi rapporti dei Relatori Speciali delle Nazioni Unite, non sono mai state imposte sanzioni a Israele.
Nessuno di questi crimini di guerra e crimini contro l’umanità avrebbe potuto essere compiuto o sostenuto senza il sostegno attivo ed entusiastico delle potenze occidentali – attraverso aiuti militari, supporto finanziario e copertura politica e diplomatica – guidate da Stati Uniti, Unione Europea, Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Sostenendo e armando uno Stato criminale che commette genocidio, questi governi hanno la responsabilità legale e morale ai sensi della Convenzione sul Genocidio del 1948. Invitiamo tutti gli Stati e le società a rispettare i propri obblighi ai sensi della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio e ad adottare tutte le misure necessarie per porre fine al genocidio in corso a Gaza.
Le sanzioni devono includere anche la sospensione di Israele dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, come accadde al Sudafrica nel 1974 per le sue politiche di apartheid. I crimini di Israele sono chiaramente ancora più orribili. Sebbene l’ONU abbia schierato truppe internazionali per decenni per separare le parti in conflitto tra Israele ed Egitto e Israele e Libano, non ha mai istituito una forza di protezione per proteggere la vita dei palestinesi dall’oppressione sistematica e dal terrore perpetrati dallo Stato israeliano. Siamo d’accordo che sia giunto il momento di adottare una simile misura umanitaria. Senza di essa, Israele continuerà a commettere omicidi di massa contro i palestinesi.
Chiediamo inoltre che l’Unione Europea segua le proprie leggi e rispetti
l’articolo 2 dell’accordo di associazione UE-Israele , che le impone di cessare i rapporti commerciali con Israele e di porre fine al suo status di associazione nei programmi finanziati dall’UE.
Invitiamo tutte le società, le associazioni e le organizzazioni internazionali a espellere Israele dalle proprie fila finché non rispetterà tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite e dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, non porrà fine al genocidio in corso a Gaza e non ritirerà le sue forze armate da tutti i territori conquistati con la forza nel 1948 e nel 1967, nonché da tutti i territori siriani e libanesi occupati dal 1967. Israele deve ritirare immediatamente e completamente le sue forze armate dalla Striscia di Gaza, revocare il blocco in vigore dal 2006 e garantire a tutte le organizzazioni umanitarie accesso illimitato per operare liberamente.
Invitiamo tutti gli stati, le istituzioni e le organizzazioni della società civile a implementare e sostenere le richieste del Comitato Nazionale Palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS). Ciò include la cessazione di tutti i legami finanziari, accademici, militari, culturali e diplomatici con lo stato genocida fino a quando non soddisferà le condizioni di cui sopra e garantirà il diritto dei rifugiati palestinesi a tornare alle loro case e proprietà, in conformità con la Risoluzione ONU 194.
Invitiamo inoltre le Nazioni Unite a imporre sanzioni immediate e globali in risposta agli attacchi immotivati e illegali di Israele contro Teheran e altre città iraniane, nonché alle sue uccisioni di massa di civili. Queste sanzioni devono essere estese anche ai governi occidentali che incoraggiano e favoriscono i crimini internazionali in corso di Israele attraverso il sostegno militare e politico. Le armi nucleari illegali di Israele devono essere smantellate attraverso un processo trasparente supervisionato dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.
Rifiutiamo categoricamente l’affermazione che Israele agisca per conto degli ebrei o che le sue attività criminali siano sostenute da tutti gli ebrei. Invitiamo gli ebrei di tutto il mondo a opporsi allo Stato sionista, a negarne la legittimità e a chiedere la cessazione immediata delle sue azioni criminali e riprovevoli. Ciò include il sostegno alla campagna BDS e la recisione dei legami culturali, politici e istituzionali con Israele finché non soddisferà le condizioni di cui sopra. Israele e il sionismo agiscono illegalmente e immorale, pur insistendo di farlo per conto degli ebrei, mettendo così in pericolo tutti gli ebrei ovunque. Questa affermazione secondo cui gli ebrei sostengono intrinsecamente il sionismo e l’abominevole Stato sionista è autentico antisemitismo.
Rendiamo omaggio a tutti gli oppositori israeliani del sionismo e invitiamo gli ebrei israeliani a riconsiderare la loro lealtà a un regime che ha negato i diritti dei palestinesi per oltre otto decenni. Onorando l’eredità storica degli ebrei e i principi dell’ebraismo stesso, invitiamo tutti gli ebrei di coscienza ovunque a schierarsi fianco a fianco con i palestinesi contro l’ideologia razzista del sionismo e la sua intrinseca supremazia. Invece, ovunque ci troviamo, lavoreremo con il movimento globale per la decolonizzazione e la liberazione della Palestina. Restiamo uniti e facciamo tutto ciò che è in nostro potere per creare un futuro di uguaglianza, giustizia e dignità per tutto il popolo palestinese, una terra dove la vita condivisa e il rispetto reciproco possano rifiorire.
Decolonizzazione e de-sionizzazione.
Libertà per la Palestina e il suo popolo.
Firmato,
(le Firme sono leggibili nel Link)
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https://www.juedisch-antizionistisch.at/deklaration
Gaza è uno specchio che riflette la vergogna assoluta del mondo – Soumaya Ghannoushi
A Netanyahu è stato permesso di trasformare il cibo in un mezzo di pressione e di trattare il soccorso di una popolazione assediata come un premio da barattare. Questo non è solo immorale o illegale, è osceno.
Fonte: English version
Soumaya Ghannoushi – 21 luglio 2025
Immagine di copertina: Una ragazza palestinese mentre chiede cibo alla mensa di un ente di beneficenza Gaza City, 7 luglio 2025 (Reuters)
Razan Abu Zaher è morta di fame.
Aveva quattro anni.
E’ morta sul pavimento di un ospedale in rovina, le sue minuscole costole che si alzavano e si abbassavano come ali troppo fragili per essere sollevate. Il suo corpo non aveva più grasso da bruciare. I suoi occhi erano infossati. La sua voce – un tempo un sussurro di risata – era scomparsa da tempo.
Non è morta velocemente. È morta lentamente.
E’ morta vegliata da sua madre, che la implorava di resistere. Vegliata da un medico che non aveva più siringhe, né soluzione salina, né parole, e da un mondo che si era sintonizzato su di lei, per poi voltarsi dall’altra parte.
La sua morte non è stata una tragedia. È stata una condanna, scritta non per fretta, ma per decisione politica.
Razan non è la sola. È una tra migliaia.
Tra marzo e giugno, quando il blocco era già in pieno svolgimento, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, Unrwa, ha visitato oltre 74.000 bambini a Gaza. A più di 5.500 è stata diagnosticata una malnutrizione acuta grave. Oltre 800 erano già in condizioni critiche.
Questo è accaduto mesi dopo che il cibo era stato dichiarato una minaccia. Dopo che la farina è diventata merce di contrabbando e il latte un ricordo , ora i bambini muoiono tra le braccia dei genitori.
Le madri tengono in braccio i loro bambini che non piangono più.
I padri scavano le tombe a mani nude, sussurrando ninne nanne nella polvere.
Gaza è assediata dalla fame, dalla morte, dal tradimento arabo e dalla slealtà internazionale.
Chi non muore sotto le bombe muore di fame o di malattia.
E sullo sfondo: spari. Perché nemmeno la fame è sicura a Gaza.
La fame armata
Questa non è carestia. Questa è fame armata .Lo strangolamento deliberato di un popolo, non con la corda, ma con la burocrazia.
Non solo con le bombe, ma anche con la burocrazia.
Israele bombarda panetterie , convogli di aiuti , rade al suolo fattorie e blocca le spedizioni di cibo con sabotaggi logistici.
Affama Gaza con la stessa precisione con cui la uccide.
Sì, la storia ha sempre visto la fame come un’arma, ma ciò che sta accadendo a Gaza è senza precedenti.
Mai nella storia recente una popolazione civile è stata rinchiusa in una striscia di terra recintata, privata di cibo, acqua e carburante, mentre veniva bombardata dall’aria, da terra e dal mare.
Questo non è un assedio. È il primo sterminio televisivo al mondo .
Un campo di concentramento sotto costante attacco aereo.
In Bosnia, la fame veniva usata per spezzare la volontà. Nel campo di sterminio di Omarska, 700 dei 6.000 detenuti morirono di fame e torture.
A Srebrenica, il cibo venne deliberatamente negato. Un soldato serbo-bosniaco ha ammesso : “Ci siamo resi conto che non erano le armi introdotte illegalmente a Srebrenica di cui dovevamo preoccuparci, ma il cibo”.
Prima della Bosnia, il Piano Fame nazista mirava a sterminare ebrei e civili sovietici. Sette milioni di persone morirono, non come conseguenza collaterale, ma intenzionalmente.
Come osserva il sociologo Martin Shaw , Israele sta seguendo lo schema del genocidio nazista, descritto da Raphael Lemkin nel suo libro del 1944 Axis Rule in Occupied Europe : “Una lotta quotidiana letteralmente per il pane e la sopravvivenza fisica”, che “ostacolerebbe il pensiero in termini generali e nazionali”.
Questo non è solo un attacco ai corpi. È una guerra contro la coscienza.
Giornalisti affamati
Anche i giornalisti muoiono di fame.
I corrispondenti di Al Jazeera hanno espresso la loro fame: “Vi trasmettiamo le notizie mentre noi stessi abbiamo fame. Da ieri non abbiamo trovato un boccone da mangiare”.
Una fame destinata non solo a uccidere, ma a schiacciare la capacità di pensare, di organizzare, di sperare
Quando l’osservatore diventa vittima, quando la fame inghiotte il narratore, la storia ha superato la crisi e ha raggiunto la catastrofe.
Eppure i palestinesi continuano a fare la fila per procurarsi il cibo, ben consapevoli del rischio mortale.
Entrano in quelle che sono diventate le trappole per fame della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), luoghi orchestrati dall’esercito israeliano.
Vanno a prendere un sacco di farina e tornano cadaveri.
Domenica, 115 palestinesi sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco mentre cercavano aiuto. Novantadue di loro stavano cercando di raccogliere cibo.
Diciannove erano bambini.
Dal 27 maggio, più di 1.000 palestinesi sono stati uccisi e circa 5.000 sono rimasti feriti nei punti di distribuzione gestiti da GHF, dove le forze israeliane aprono il fuoco sui civili affamati.
Un padre, emaciato, in lacrime, che cullava il corpo insanguinato del figlio, è stato filmato dopo che i due erano stati uccisi mentre aspettavano la farina.
Non ha urlato.
Lui si limitava a cullare il bambino tra le braccia, mentre gli spari crepitavano alle sue spalle, sussurrando il suo nome, perché era tutto ciò che gli era rimasto.
Questa non è una crisi umanitaria. È uno sterminio per fame. E il mondo continua a insistere che questa è una guerra.
Chi sono i colpevoli?
Non è guerra. È annientamento, coreografato, prolungato e consentito.
Chi sono i colpevoli?
Israele sgancia le bombe e sigilla i varchi. Gli Stati Uniti pagano le armi e le proteggono con veti.
Ma il cappio, lo stringersi della vita, è tenuto anche da altri.
Parliamo dell’Europa.
Così orgogliosa del suo illuminismo. Così pronta a invocare “Mai più”. Così silenziosa quando i corpi sono palestinesi.
L’Unione Europea è il principale partner commerciale di Israele .
Ha firmato un accordo che prometteva che i diritti umani fossero una condizione per il commercio. Quella promessa ora è una tomba.
La sua stessa analisi ha rilevato che Israele ha violato le regole. E cosa ha fatto l’Europa? Nulla .
Per mascherare la sua complicità, l’UE ha affermato di aver raggiunto un accordo umanitario con Israele. Una presunta svolta. Ma non è stato altro che un teatrino.
Nessun aiuto è arrivato. Nessun assedio è stato revocato.
Era una cortina fumogena, un gesto mirato solo ad accecare l’opinione pubblica e a guadagnare tempo mentre i bambini morivano di fame.
Come ha dichiarato Amnesty International : “Un crudele e illegale tradimento del diritto, della coscienza e dell’Europa stessa”.
Questo sarà ricordato, non come politica, ma come complicità. Non come neutralità, ma come complicità nel crimine.
E che dire dei regimi arabi?
Sono i più vicini. Parlano di fratellanza e di sangue condiviso, ma ora sono guardiani, carcerieri e tutori dell’ordine.
Iniziamo dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi , il generale diventato presidente, insediatosi con un colpo di stato appoggiato da Israele. Governa l’Egitto con gas lacrimogeni e prigioni. Ma, cosa ancora più odiosa, nel Sinai ha costruito una zona cuscinetto per isolare Gaza.
Il valico di Rafah è chiuso. I camion degli aiuti umanitari marciscono sotto il sole. Ai medici viene negato l’ingresso. I bambini muoiono, non per mancanza di aiuto, ma perché gli aiuti sono bloccati. Gli attivisti internazionali vengono arrestati , interrogati e deportati.
Indossare una kefiah palestinese è un reato .
Questa non è sicurezza. È servitù.
E poi c’è la Giordania , un regno che con una mano vende il suo patrimonio e con l’altra imprigiona i suoi cittadini.
Hanno arrestato insegnanti, studenti, capi tribù per aver sventolato bandiere, tenuto tende, organizzato aiuti. Dicono che è per combattere i Fratelli Musulmani.
In realtà è per schiacciare la Palestina .
Ciò che Al-Sisi fa con i posti di blocco, la Giordania lo fa con le aule di tribunale.
La solidarietà è diventata un crimine. La sottomissione, una virtù.
Questa è la regola del dittatore: obbedire all’Occidente, accomodarsi a Israele.
Quindi rinchiudi la tua gente e fai quello che vuoi.
Questi non sono semplici spettatori.
Sono complici della carestia, dell’assedio, del massacro.
La vergogna nuda e cruda del mondo
E in tutto questo – il lento assassinio, la pantomima della diplomazia – ci è stato detto di aspettare. Di avere fiducia nei negoziati.
Ma che tipo di mondo rende l’alimentazione dei bambini affamati una questione dibattuta?
Quale tipo di diplomazia trasforma il pane in una merce di scambio?
Questo è ciò che è stato permesso al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di fare: trasformare il cibo in una leva finanziaria, trattare il soccorso di una popolazione assediata come un premio da barattare.
Non era solo immorale. Era illegale. Era osceno.
L’accesso umanitario non è un favore da concedere. È un dovere sancito dalla legge.
Rimandarlo, discuterne, trattenerlo per guadagno politico significa trasformare la fame in un’arma e la diplomazia in una complice di crimini di guerra.
Ciò che sta accadendo a Gaza non si limita a violare la legge: la annulla.
Trasgredisce ogni principio dell’umanità e ogni trattato che pretende di difenderlo.
Il mondo non ha semplicemente deluso Gaza. L’ha abbandonata. E così facendo, si è esposto.
Gaza non è solo un campo di sterminio.
E’ uno specchio e nel suo riflesso vediamo la nostra vergogna assoluta, nuda e cruda.
Traduzione a cura di Grazia Parolari
È un genocidio, ma è anche molto di più – Caitlin Johnstone
L’atrocità di massa a Gaza è ovviamente un genocidio e un’operazione di pulizia etnica palese.
Ma è anche molto di più.
Si tratta di un esperimento per vedere quali tipi di abusi l’opinione pubblica è disposta ad accettare senza causare sconvolgimenti significativi allo status quo imperiale.
È un’operazione psicologica: ampliare i confini di ciò che è normale e accettabile nella nostra mente, in modo da indurci ad abusi ancora più orribili in futuro.
È un sintomo del sionismo, del colonialismo, del militarismo, del capitalismo, del suprematismo occidentale, della costruzione di imperi, della propaganda, dell’ignoranza, dell’apatia, dell’illusione, dell’ego.
È una manifestazione di sistemi di credenze violente, razziste, suprematiste e xenofobe, sempre esistiti ma precedentemente repressi, che si scontrano con la natura malsana di alleanze in atto da tempo ma aggressivamente normalizzate.
È uno specchio che ci mostra in modo accurato e imparziale chi siamo attualmente come civiltà.
È una dimostrazione che ci mostra cosa c’è veramente nell’impero occidentale sotto cui viviamo, nascosto dietro la sua falsa maschera di plastica di democrazia liberale e giusto umanitarismo.
È una rivelazione che ci mostra chi tra noi difende davvero la verità e la giustizia e chi ci ha ingannato su se stesso e sulle sue motivazioni per tutto questo tempo.
È un catalizzatore, una forza galvanizzante e un grido di battaglia per tutti coloro che si rendono conto che le strutture di potere omicide sotto cui viviamo non possono più essere tollerate, e una sveglia stridente che apre sempre più occhi assonnati alla necessità di un cambiamento rivoluzionario.
È una prova su chi siamo come specie e di cosa siamo fatti, e se possiamo trascendere i modelli distruttivi che stanno conducendo l’umanità alla sua rovina.
È una domanda che ci chiede in che tipo di mondo vogliamo vivere in futuro e che tipo di persone vogliamo essere.
È un invito a diventare qualcosa di migliore di ciò che siamo ora.
(Traduzione de l’AntiDiplomatico)
Il furto degli asini di Gaza: il colonialismo mascherato da tutela animale – Grazia Parolari
Migliaia di asini a Gaza sono stati strappati alle loro famiglie e deportati in Europa, in nome di un presunto “salvataggio”. Questi animali sono oggi al centro di una controversa operazione che nasconde una realtà ben più complessa e dolorosa. Non si tratta di tutela animale, ma di un furto che riproduce, in forma specista, il colonialismo che sta uccidendo Gaza e la sua gente.
L’asino: compagno quotidiano, simbolo culturale e spirituale della Palestina
Da secoli, l’asino è parte integrante della vita palestinese, nelle campagne della Cisgiordania come tra le strade polverose di Gaza: trasporta acqua, ortaggi, pietre, legna, persone. Prima dei checkpoint e del muro, portava i bambini a scuola, i contadini nei campi, il pane nei mercati.
Ma l’asino non è soltanto un mezzo di trasporto: è un alleato instancabile, una figura profondamente radicata nella cultura popolare, nella memoria collettiva, nella vita familiare, e perfino nella spiritualità.
In un territorio segnato da colonizzazione e assedio, la sua presenza silenziosa ha assunto, nel tempo, un valore sempre più simbolico e la sua figura è divenuta parte importante dell’identità collettiva: animali pazienti, intelligenti, capaci di percorrere sentieri difficili, esattamente come il popolo che li accudisce.
Un’immagine potente di questa sovrapposizione tra la quotidianetà del popolo palestinese e quella degli animali l’ha rappresentata Banksy in uno dei suoi murales: un soldato israeliano che ferma un asino per un controllo dei documenti. L’artista ha scelto proprio l’asino per denunciare, con il suo consueto sarcasmo tagliente, come la violenza dell’occupazione si abbatta su ogni forma di vita, e come l’asino – figura centrale nella vita palestinese – diventi involontario testimone e vittima della stessa brutalità.
Il rispetto verso l’asino è anche presente nella tradizione islamica. Nel Corano (2:259) (1), Allah riporta in vita un asino come segno del Suo potere di risurrezione, in risposta allo stupore di un uomo che si chiedeva come una città distrutta potesse tornare alla vita. (E non si può non pensare a Gaza, che nonostante tutto continua a resistere e a sperare in una rinascita.)
Il Profeta Muhammad possedeva un asino, Ya‘fūr(2), e gli mostrava grande gentilezza. Questo legame viene ricordato come esempio di compassione verso gli animali e rispetto per la loro dignità.
Nel pensiero islamico, l’asino incarna qualità spirituali come umiltà, perseveranza e la capacità di portare silenziosamente il peso della vita.
L’aggressione e l’assedio: gli asini come ancora di salvezza
Nel contesto del genocidio in corso a Gaza, l’asino è diventato un simbolo ancora più eloquente. Resiste, continua a servire, aiuta a sopravvivere: è l’immagine stessa di una comunità che, schiacciata e sterminata dal colonizzatore, non si arrende…
Gli israeliani “salvano” gli asini da Gaza, e ora mia madre disabile non può fuggire dagli attacchi delle IDF – Ahmed Najar
Mia madre, che si trova a Gaza, non può camminare. Dall’ottobre 2023, la mia famiglia è stata sfollata sette volte. Ogni volta che le bombe cadevano troppo vicine o piovevano volantini che intimavano alla mia famiglia di fuggire, l’unico modo per spostarla era su un asino. Israele ha distrutto le strade. Ha bombardato i veicoli. Ha privato Gaza di carburante. E in quelle macerie – nella polvere e nel terrore – gli asini sono diventati ambulanze, autobus, mezzi di sussistenza.
Quindi, quando ho letto che Israele stava “salvando” gli asini da Gaza, rubandoli a famiglie affamate che non riescono nemmeno a salvare i propri figli, caricandoli su camion e portandoli oltre confine verso luoghi sicuri e confortevoli, non riuscivo a respirare.
Gli asini possono andarsene. Mia madre no.
Un asino può attraversare la recinzione. Ma un bambino palestinese senza gambe no.
In che mondo viviamo?
Secondo quanto riportato , nelle ultime settimane i soldati israeliani hanno sequestrato asini a Gaza, trasportandoli in Francia e in rifugi in Israele, sostenendo che ciò è necessario per la loro sicurezza e il loro benessere. I media israeliani hanno descritto questi animali come “maltrattati” e bisognosi di soccorso.
Ma l’ironia è lampante: come ci si può prendere cura di un asino a Gaza quando non c’è cibo, né acqua, né medicine, nemmeno la possibilità di lavarlo? Le stesse condizioni affliggono la popolazione di Gaza , che sta sopportando la fame di massa, la disidratazione e i bombardamenti incessanti. L’improvvisa compassione per gli animali – mentre i bambini marciscono sotto le macerie e alle famiglie vengono negati i beni di prima necessità – mette a nudo i grotteschi doppi standard in gioco.
Nel frattempo, l’esercito israeliano ha vietato ai palestinesi di Gaza di entrare in mare . Il 12 luglio, il portavoce in lingua araba dell’IDF, Avichay Adraee, ha annunciato che l’accesso in mare è vietato, una minaccia rafforzata da cannoniere e cecchini. Il mare, un tempo una rara via di fuga dal soffocante blocco, è diventato un’altra frontiera di paura.
Questa non è guerra. È un soffocamento lento e umiliante.
Andavamo al mare a lavarci. Quando l’acqua smetteva di scorrere dai rubinetti, quando gli impianti di desalinizzazione venivano bombardati, quando le tubature si prosciugavano e i pozzi diventavano salati, il mare era tutto ciò che ci rimaneva. Ci facevamo il bagno. Ci lavavamo i vestiti. A volte, ci stavamo semplicemente in piedi, cercando di sentirci di nuovo puliti. Cercando di ricordare che eravamo umani.
Ma ormai anche il mare è off-limits.
Volete sapere cos’è la disumanizzazione? Ecco come si presenta: Israele salverà il vostro asino, ma non vostra figlia. Evacuerà gli animali, mentre renderà l’acqua un crimine, il movimento un crimine, il respiro un crimine.
Che tipo di moralità salva gli animali ma blocca i disabili, i feriti, gli afflitti? Che tipo di stato usa i diritti degli animali come strumento di pubbliche relazioni mentre perpetra ciò che è stato ampiamente descritto da organizzazioni ed esperti per i diritti umani come attacchi genocidi contro le stesse persone che quegli animali un tempo servivano?
Non è compassione. È teatro. È propaganda. Ed è crudeltà del tipo più calcolato.
Gli asini non sono simboli di sofferenza a Gaza: sono strumenti di sopravvivenza. Sono il mezzo con cui i palestinesi trasportano le taniche d’acqua quando i camion non riescono a passare. Sono il mezzo con cui gli anziani vengono evacuati quando cadono le bombe. Quando la gente fugge senza niente, fugge con gli asini. E quando Israele li porta via sotto la bandiera del “salvataggio”, non sta offrendo pietà. Sta stringendo il cappio.
La mia famiglia ha usato un asino per spostare mia madre, perché Israele ha bombardato ogni altra opzione. Quell’asino era il nostro unico modo per trasportarla. E ora anche quel piccolo barlume di dignità ci viene portato via.
E mentre sfilano sui social media con questi asini salvati, i palestinesi fanno file interminabili per un bicchiere d’acqua. I bambini muoiono di disidratazione. Le persone con ferite da arma da fuoco giacciono senza cure. Famiglie vengono sepolte insieme sotto la stessa lastra di macerie.
Ma gli asini hanno coperte. Gli asini hanno ripari con aria condizionata. Gli asini sono al sicuro.
Non si tratta di animali. Si tratta di cancellazione.
Salvare un asino negando l’acqua a un essere umano non è pietà: è un messaggio. Che la tua sofferenza è invisibile. Che la tua vita è sacrificabile. Che persino le tue bestie da soma valgono più di te.
Questa è la violenza della disumanizzazione. Non solo nelle bombe o nella fame, ma nei simboli. Nei titoli. Nelle grottesche inversioni morali che trattano le vite palestinesi come uno sfortunato inconveniente, mentre elevano gli asini a sacri.
Questa non è solo ipocrisia. È sadismo. È la lenta e pubblica privazione della dignità. È Israele – sostenuto dalla complicità occidentale – che dice al mondo: guardate, ci importa. Solo che non ci importa di loro.
Se questo mondo ha ancora un briciolo di coscienza, deve smettere di fingere che sia normale. Deve smettere di premiare la crudeltà mascherata da compassione. Perché quando gli animali vengono portati in salvo e madri come la mia vengono lasciate marcire nelle tende, il confine tra giustizia e barbarie è stato superato da tempo.
Traduzione a cura di Grazia Parolari
Gaza svuotata di umani e riempita di vergogna – Giulio Cavalli
Due bambini morti di fame nella stessa mattina. Uno aveva 40 giorni. Nessuno li ha contati tra le vittime ufficiali. All’ospedale Al-Quds di Gaza, altri 118 feriti si erano messi in fila per un aiuto che non è mai arrivato, colpiti mentre aspettavano gli aiuti umanitari. L’AFP lancia un appello disperato: i suoi giornalisti rischiano di morire di stenti. “Non posso più lavorare – scrive Bashar, 30 anni – il mio corpo è troppo magro”. Il fratello è morto di fame. Gli operatori dell’informazione, unici testimoni rimasti, consumati come i civili che raccontano.
Il capo dell’IDF annuncia “risultati significativi” nella guerra più complessa mai combattuta. L’obiettivo resta lo “smantellamento di Hamas”. Intanto, l’esercito israeliano uccide civili disarmati in attesa di cibo, bombarda ospedali, vieta ai media internazionali l’accesso alla Striscia. Il fotografo muore di fame, il bambino muore nel sonno, e il mondo continua a parlare d’altro.
Ogni giorno che passa segna un passo oltre il confine che separa la guerra dal genocidio. Non è un’accusa: è un dato. Le Nazioni Unite denunciano la carestia indotta, i crimini di guerra, l’annientamento deliberato della popolazione. Gaza è diventata il luogo dove si sperimenta l’impunità in diretta.
Nel frattempo, gli Stati Uniti versano milioni per costruire nuove basi militari israeliane, e l’82% degli ebrei israeliani – secondo un sondaggio – sostiene l’espulsione dei palestinesi da Gaza. Anche questo è un fatto. La morte non fa più rumore. La fame, ancora meno. Ma la Storia, quella sì, terrà memoria di ogni omissione.
L’atroce pubblicità del produttore di armi israeliano Rafael. Video di uomo colpito per mostrare le doti del sistema – Mauro Del Corno
È noto che armi “testate” con successo su reali scenari di guerra si vendono con più facilità
A proposito di “business del genocidio”. Il produttore di armi israeliano Rafael Advanced Defense Systems, ha pubblicato su X un video che mostra una persona disarmata colpita con precisione dal sistema SPIKE FIREFLY di sua realizzazione. Lo scenario dove avviene l’azione di guerra sembra essere quello di Gaza, dove il sistema è stato molto utilizzato, o comunque una delle aree mediorientali in cui operano le forze armate israeliane.
Il video è accompagnato da un testo che decanta le capacità, l’affidabilità e la precisione del sistema. “In numerose zone di combattimento, FIREFLY ha cambiato le carte in tavola, favorendo il successo operativo, la protezione delle forze e la superiorità tattica sui moderni campi di battaglia”, si legge nel testo.
È noto che armi “testate” con successo su reali scenari di guerra si vendono con più facilità e Israele è il primo paese al mondo per valore di export di armi pro capite (97 dollari), davanti a Russia (57 dollari) e Svezia (53 dollari). Rafael, azienda controllata dal governo, costruisce, tra l’altro, il noto sistema antimissilistico Iron Dome, insieme ad Israel Aerospace Industries. Per quanto concerne nello specifico il sistema Spike pubblicizzato, si tratta di un sistema di missili guidati da aria a terra, utilizzato anche per colpire le persone all’interno delle abitazioni della Striscia. I missili possono essere montati sia su aerei che su droni.
GAZA: MORIRE NEL RISPETTO DELLE LINEE GUIDA – Pasquale Liguori
A Gaza la gente muore di fame, ma non è carestia. Bambini, donne, anziani, uomini, tutti smettono di respirare uno dopo l’altro, ma non è genocidio. Perché? Perché lo dice il regolamento.
Per essere una carestia vera, servono almeno due morti ogni 10.000 al giorno, un 30% di corpi malnutriti, e un 20% della popolazione che digiuna con sufficiente disperazione. Se sei solo al 29%, riprova domani.
La fame, per contare, deve superare le soglie stabilite da chi il frigo ce l’ha pieno.
E il genocidio? Anche lì, non basta distruggere intere città, devastare ospedali, tagliare il cibo, bombardare tendopoli, disintegrare famiglie. Serve il timbro dell’intenzione dichiarata, il dolo specifico. Non puoi semplicemente sterminare un popolo: devi facilitare l’inchiesta certificando gli atti con una formula giuridicamente compatibile.
Per esempio:
“In qualità di Stato democratico e alleato dell’Occidente, dichiaro di voler eliminare sistematicamente i palestinesi in quanto tali”, firmato: Israele. Solo allora, e dopo il vaglio di almeno due commissioni di esperti, potremo dirlo: genocidio.
D’altronde, l’umanitarismo liberale ha la sua metodologia. La morte non si misura in carne, ma in grafici. Il crimine non è tale se manca l’indice di riferimento.
Così l’Onu osserva, i potenti negoziano, i giuristi ponderano, Ong ed esperti redigono report. E Gaza si svuota. Ma con metodo, rigore e trasparenza. Nel rispetto delle linee guida. Il dolore, se certificato, è tollerabile. La fame, documentata, è gestibile. Il genocidio, fintantoché lento, è discutibile.
E quando sarà troppo tardi, verranno anche le scuse. Le condanne postume, le risoluzioni simboliche, le giornate della memoria.
Ci sarà anche, tra questi, l’eroico funzionario che troverà il coraggio – o l’impudenza – di esclamare: “Io l’avevo detto!”.
Ecco: se esiste ancora un frammento di dignità che voglia dirsi all’altezza della resistenza palestinese, questo intero apparato di ipocrisia codificata, questo sistema complice travestito da neutralità, dovrà essere smantellato fino all’ultima sigla, all’ultimo regolamento, all’ultima menzogna istituzionale. Non un funzionario, non un organismo, non un tribunale che ha permesso tutto questo potrà più rivendicare legittimità, né parlare in nome dell’umano. Questo ordine deve cadere. Non riformato, non migliorato: distrutto. Perché chi ha saputo resistere al fuoco, alla fame e al silenzio del mondo, non ha bisogno di essere rappresentato da chi ha guardato e calcolato mentre si consumava il massacro.
scrive Franco Berardi:
L’infamia europea
Il cancelliere tedesco ha detto che Israele sta facendo il lavoro sporco per conto nostro, di noi europei. Come no. Un cancelliere che lo ha preceduto ha insegnato come si compie un genocidio, e i nipoti di coloro che subirono quell’orrore hanno imparato così bene che sono adesso in grado di rifarlo, per difendere il Regno della Libertà Occidentale.
Frederick Merz è probabilmente il miglior rappresentante del bestiale cinismo dell’Unione Europea che si sta preparando alla guerra, che sta investendo il 5% del prodotto nell’acquisto di armi dal migliore amico di Putin, allo scopo di combattere la guerra futura contro Putin.
L’infame Unione Europa ha fretta di armarsi, ma non ha nessuna fretta di fermare il genocidio in corso a Gaza, e rimanda a chissà quando le misure di protesta contro gli assassini. I quali, come dice Merz, altro non fanno che il lavoro sporco di cui gli europei hanno bisogno.
Sporco è un eufemismo che vuol dire: genocidio nazista.
https://francoberardi.substack.com/i/166481150/linfamia-europea