America latina-Usa: cannoniere, dazi e narcotraffico
Questa nuova aggressione, anche con caratteristiche di guerra psicologica (PsyOps) si verifica in un contesto regionale di offensiva statunitense contro i governi “progressisti” per un “regime change”.
di Marco Consolo (*)
Mentre continuano il conflitto in Ucraina e il genocidio in Palestina, anche sul versante latino-americano soffiano venti di guerra. Una guerra ibrida, con caratteristiche militari, mediatiche e psicologiche.
Secondo il New York Times, all’inizio di agosto il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, avrebbe firmato una direttiva segreta che permette al Pentagono di utilizzare le Forze Armate nella “lotta contro i cartelli del narco-traffico”, classificati da Washington come organizzazioni terroristiche. Secondo il giornale, la direttiva di Trump autorizza le forze armate statunitensi a condurre “missioni anti-cartello” anche al di fuori dei confini nazionali, senza specificare quali siano i gruppi criminali presi di mira. Qualche giorno dopo, l’Agenzia di notizie Reuters ha diffuso la notizia dell’invio da parte del Pentagono di un contingente militare navale nel Mar dei Caraibi in coordinamento con il Comando Sud. Sarebbero in navigazione diversi cacciatorpedinieri, alcuni incrociatori ed un sottomarino ad attacco rapido a propulsione nucleare.
L’ennesima minaccia aggressiva rappresenta una delle ingerenze più esplicite degli Stati Uniti nella regione negli ultimi anni. Secondo fonti ufficiali, l’obiettivo dichiarato è contrastare le “minacce alla sicurezza nazionale”. Tuttavia, l’attenzione sull’area caraibica suggerisce un possibile spostamento del mirino dall’America centrale alle coste del Venezuela, soprattutto alla luce delle ultime minacce statunitensi contro Caracas. La direttiva rilancerebbe la pressione militare da parte di un settore dell’amministrazione Trump, con particolare attenzione a paesi come il Messico (protagonista di un duro braccio di ferro con gli USA sui dazi) e il Venezuela. Il Segretario di Stato, Marco Rubio, ha appena annunciato una visita la prossima settimana in Messico ed Ecuador per “contrastare gli attori maligni extracontinentali” in riferimento agli accordi presi tra Ecuador e Cina durante il precedente mandato presidenziale di Rafael Correa.
A conferma dell’escalation, in stile “Far West”, la Casa Bianca aveva appena aumentato a 50 milioni di dollari la ricompensa a chi fornisce informazioni utili alla cattura del presidente venezuelano Nicolás Maduro. Il mandatario bolivariano è accusato senza prove di essere a capo del fantomatico Cartello de los Soles e di avere legami con il Tren de Aragua ed il Cartello di Sinaloa, entrambi dichiarati da Washington come organizzazioni terroristiche. La procuratrice generale degli Stati Uniti, Pam Bondi, ha definito “storica” la ricompensa, sottolineando che “Maduro utilizza organizzazioni terroristiche straniere come il Cartello di Sinaloa e quello de los Soles per introdurre droghe letali e violenza nel nostro Paese”. Ma le bugie hanno le gambe corte, visto che l’esistenza del Cartello de los Soles non appare neanche di striscio in nessuna delle relazioni annuali dell’Agenzia antidroga degli Stati Uniti (DEA), né in quella dell’ONU (UNODC) e non è mai stata dimostrata.
Per quanto riguarda il Venezuela, il rapporto UNODC afferma che solo “una parte marginale della produzione di droga colombiana transita attraverso il Paese verso gli Stati Uniti e l’Europa. Secondo l’ONU, il Venezuela ha consolidato la sua posizione di territorio libero da coltivazioni di foglie di coca, marijuana e simili, nonché dalla presenza di cartelli criminali internazionali” [i]. Il documento conferma i 30 rapporti annuali precedenti, che non menzionano il narco-traffico venezuelano, semplicemente perché non esiste. E solo il 5% della droga colombiana transita attraverso il Venezuela.
Le vene aperte dell’America Latina
Al di là del pretesto del narcotraffico, il possibile bottino è consistente. L’America Latina e i Caraibi concentrano più di un quarto delle riserve minerarie di metalli strategici del mondo e ospita quasi un quinto delle riserve di idrocarburi, poco meno di un sesto dei terreni agricoli del mondo e un quarto dell’area forestale globale. La regione possiede anche circa un terzo delle zone di pesca e un terzo dell’acqua dolce del mondo. Inoltre, in questo territorio c’è un terzo dei Paesi con la più alta bio-diversità del pianeta.
Una minaccia alla pace
In un contesto in cui l’influenza statunitense nell’emisfero occidentale è sempre più indebolita, le minacce di un’offensiva militare sono quindi una ulteriore provocazione, palesemente illegale, frutto di una volontà egemonica. Una seria minaccia alla pace ed alla sicurezza regionale, che viola il “Trattato di Tlatelolco” (Trattato per la proibizione di armi nucleari in America Latina e nei Carabi), firmato a Città del Messico nel 1967 ed in vigore dal 25 aprile 1969. Nonché la proclamazione del continente come zona di pace, ufficialmente dichiarato tale nel vertice della Comunità degli Stati latino-americani e dei Caraibi (CELAC) nel 2014 a La Avana.
La necessità urgente di un disarmo generale e completo, e l’impegno a favore dell’agenda strategica dell’Agenzia per la proibizione delle armi nucleari in America Latina e nei Caraibi (OPANAL) è stato ribadito in un ordine del giorno dai 33 Stati membri dell’Agenzia durante la Conferenza generale di Buenos Aires nel 2013. Tra i suoi contenuti, l’impegno degli Stati della regione a rispettare rigorosamente il loro obbligo di non intervenire, direttamente o indirettamente, negli affari interni di qualsiasi altro Stato e di osservare i principi della sovranità nazionale, dell’uguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli. Da qui, l’impegno a rispettare pienamente il diritto di ogni Stato di scegliere il proprio sistema politico, economico, sociale e culturale, come condizione essenziale per garantire la coesistenza pacifica tra le nazioni, l’impegno per la risoluzione pacifica delle controversie al fine di bandire per sempre l’uso e la minaccia dell’uso della forza nella regione.
Le “guerre alla droga made in Usa”
Il pretesto della lotta al narcotraffico per promuovere l’ingerenza in altri Paesi non è affatto nuovo. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, negli ultimi cinquanta anni c’è stata la “guerra alla droga” di Richard Nixon (iniziata nel 1971), quella di Ronald Reagan (sin dal 1981, poi con l’Anti-Drug Abuse Act del 1986) ed il “Plan Colombia” di Bill Clinton. Con quest’ultimo, tra il 2001 e il 2016, gli Stati Uniti hanno investito 10 miliardi di dollari in Colombia in aiuti militari, il più grande aiuto in armamenti degli Stati Uniti dopo quello concesso a Israele.
Una “guerra alla droga” che, com’è evidente, è stata un fallimento. Ma nonostante i ripetuti insuccessi, la Casa Bianca non fa alcun riferimento né al versante della domanda di narcotici negli Stati Uniti (quindi non solo sul versante dell’offerta dai Paesi terzi), né alle carenze nei meccanismi di controllo interni per impedire l’ingresso di sostanze stupefacenti nel Paese (una responsabilità dello Stato).
Viceversa, anche nelle ultime settimane, Caracas ha riferito di sequestri storici di cocaina e ha stretto un’alleanza con la Colombia per frenare il traffico di droga.
La guerra con la droga
Al contrario, è più appropriato parlare di “guerra con la droga” nel contesto dello scandalo Iran-Contras, o Irangate. In quel caso, durante la presidenza di Ronald Reagan, negli anni ’85-86 alti funzionari dell’amministrazione furono coinvolti nel traffico illegale di armi verso l’Iran, violando un embargo. I profitti di queste vendite finanziavano i “Contras” anti-sandinisti in Nicaragua, un’azione vietata dal Congresso. Sotto la direzione del tenente colonnello Oliver North [i], allora Vicedirettore per gli affari politico-militari del National Security Council (NSC), l’operazione si avvaleva del supporto del Mossad israeliano, in particolare di Amiram Nir [ii], vicino al primo ministro Shimon Peres. North convertì miliardi di dollari provenienti dai paesi arabi in armi per l’Iran e per i “Contras”. Nonché in tonnellate di cocaina che giungevano negli Stati Uniti attraverso Panama, con l’assistenza del generale Manuel Antonio Noriega (poi ripagato con il carcere statunitense) e dall’Honduras. Per il trasporto della droga furono anche utilizzati aerei militari, la base statunitense di Ilopango in El Salvador e mercenari della CIA.
Navi da guerra per la lotta alla droga?
Oggi, è a dir poco inverosimile che la lotta al narco-traffico sia fatta con incrociatori, cacciatorpedinieri e sottomarini nucleari, con dimensioni che li rendono inutili in questo tipo di operazioni e con armamenti e una potenza di fuoco sproporzionata rispetto alla presunta missione. Si tratterebbe di navi da guerra, costruite per attacchi terrestri, guerra antiaerea, guerra antisommergibile, equipaggiati con armamenti antisatellite, nonché missili antibalistici. O di navi d’assalto anfibie, per il trasporto di truppe e del materiale necessario per un’invasione su qualsiasi tipo di costa.
Dulcis in fundo, mentre lo spiegamento navale di Washington sarebbe nell’Oceano Atlantico, secondo il World Drug Report annuale dell’Agenzia dell’ONU (UNODC) [ii] più del 70% della cocaina prodotta nei Paesi andini e diretta verso gli USA passa dall’Oceano Pacifico, verso la costa ovest degli Stati Uniti.
Trump, petrolio e scandali
È chiaro che l’obiettivo statunitense è rafforzare la pressione per rovesciare il governo bolivariano, attraverso l’intervento diretto, come dichiarato dallo stesso Trump alla fine del suo primo mandato.
Durante quel mandato (2017-2021), Trump ha promosso una politica di massima pressione contro il Venezuela, con una serie di misure coercitive che includevano un embargo petrolifero, ancora in vigore. Tuttavia, in questo secondo mandato ha avviato i contatti con il chavismo per coordinare la deportazione degli immigrati venezuelani dagli Stati Uniti. Nonostante la tensione, gli aerei con i deportati non hanno smesso di arrivare in Venezuela. Lo stesso vale per il petrolio, visto che, dopo aver ordinato la sospensione delle operazioni della compagnia petrolifera statunitense Chevron, Trump ha autorizzato il rinnovo di un permesso speciale che elude il blocco. “Ogni giorno aspettiamo una nave e la verità è che le navi che stanno partendo sono quelle che trasportano petrolio, alcune delle quali sono della Chevron per gli Stati Uniti”, ha sottolineato la Vicepresidente e Ministra degli Idrocarburi, Delcy Rodríguez. Paradossalmente, dato il fabbisogno statunitense di petrolio, fino a qualche settimana fa, le uniche navi battenti bandiera a stelle e strisce nelle acque venezuelane sono state le petroliere della Chevron.
Questa operazione di guerra psicologica, allo stesso tempo, cerca di distogliere l’attenzione interna e mondiale dai gravi scandali che scuotono lo stesso sistema statunitense: l’enorme trama di corruzione e insabbiamento del “caso Epstein” e l’imbarazzo internazionale provocato da uno scandalo di narcotraffico scoperto a Fort Bragg [iii], centro militare delle Forze Speciali dell’esercito.
Il contesto regionale
Questa nuova aggressione, anche con caratteristiche di guerra psicologica (PsyOps) si verifica in un contesto regionale di offensiva statunitense contro i governi “progressisti” per un “regime change”. Un’offensiva che viene da lontano, in alleanza con le destre e le oligarchie “vende-patria” del continente. Nel caso del Venezuela, dalla vittoria elettorale di Hugo Chávez nel 1998, la Casabianca ha provato di tutto per destabilizzare il processo bolivariano e far cadere il governo. Le nuove minacce militari (mascherate da operazione anti-droga) sono parte della strategia di “guerra ibrida” o “guerra di quinta generazione” che la Casabianca porta avanti contro i processi di trasformazione che difendono la sovranità nazionale. Una strategia reazionaria di cui l’ultimo risultato è la vittoria della destra in Bolivia. Parallelamente, sia in Colombia che in Honduras, la strategia di attacco per ora si è concentrata in una aggressiva campagna di disinformazione, rispettivamente contro il governo di Gustavo Petro e della Presidentessa Xiomara Castro, viste le prossime scadenze elettorali in entrambi i Paesi.
Sul versante internazionale Washington ha chiamato a raccolta i governi alleati nel continente (Argentina, Ecuador, Panama, Paraguay, Guyana). Sulla falsa riga della legislazione antiterrorista imposta al mondo dopo l’11 settembre 2001, la Casabianca ha fatto pressione affinché gli alleati latinoamericani classificassero i cartelli del narco-traffico come minacce terroriste, aprendo così le porte ad un possibile intervento diretto.
In Ecuador, nel frattempo, il governo di Daniel Noboa ha disposto che le isole Galápagos diventino una base militare degli Stati Uniti, in base ai trattati di cooperazione militare tra i due Paesi firmati nel febbraio 2024. In questo modo, navi, personale militare, armamenti e sottomarini potranno installarsi nell’arcipelago, dichiarato Patrimonio Naturale dell’Umanità dall’Unesco nel 1978. Non solo, Noboa ha anche contrattato il noto mercenario statunitense Erik Prince, a capo della famigerata “Blackwater” (oggi ribattezzata Constellis Holdings [iv]). In entrambi i casi, la motivazione ufficiale è “la lotta al narco-traffico”.
La risposta venezuelana ed internazionale
Il governo venezuelano non ha sottovalutato la minaccia e la sua risposta non si è fatta attendere. In base alla dottrina militare che prevede il coinvolgimento della popolazione, il governo ha mobilitato la milizia popolare, composta da circa 4 milioni di persone, oltre ad aver schierato la marina bolivariana nelle proprie acque territoriali.
La minaccia della Casa Bianca ha prodotto interrogativi e dichiarazioni in tutta la regione e non solo. Oltre ai Paesi dell’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America (ALBA), sono stati numerosi gli Stati e le Organizzazioni internazionali che hanno espresso la loro solidarietà al governo venezuelano.
Il più netto è stato il principale vicino del Venezuela, la Colombia. Il Cartel de los Soles «non esiste, è solo una scusa inventata dall’estrema destra per rovesciare i governi che non le obbediscono», ha dichiarato il Presidente Gustavo Petro. Il mandatario ha avvertito che qualsiasi aggressione contro il Venezuela sarebbe un attacco anche al Paese confinante e che un intervento trasformerebbe il Venezuela in una nuova Siria.
Nell’aprile 2025, durante l’apertura dell’IX Vertice della CELAC in Honduras, il Presidente brasiliano Lula Da Silva aveva ricordato la necessità di rafforzare l’unità dei Paesi dell’America Latina e dei Caraibi di fronte al rischio di tornare ad essere solo uno spazio di influenza. E per quanto riguarda il Brasile, dopo l’annuncio dei forti aumenti dei dazi USA, delle sanzioni contro alcuni alti magistrati e del ricatto sul processo contro Jair Bolsonaro per il tentato golpe, Lula ha indurito la propria posizione, affermando che “non sarà un gringo a dare gli ordini a questo Presidente”. Una posizione che ha fatto aumentare il suo consenso interno, mentre, sul versante commerciale, Brasile e Messico cercano di approfondire i rapporti per diversificare i mercati. Oggi, Venezuela e Brasile chiedono la fine “immediata” delle “aggressioni” degli Stati Uniti contro l’America Latina e i Caraibi, ha affermato il ministro degli Esteri venezuelano, Yván Gil, dopo una telefonata con il suo omologo brasiliano, Mauro Vieira. Si tratta di un significativo riavvicinamento diplomatico tra i due Paesi, dopo l’opposizione del Brasile all’entrata del Venezuela nei BRICS.
Dal Messico, la presidente Claudia Sheinbaum ha ribadito la posizione storica del suo Paese contro ogni forma di intervento straniero in Venezuela. “Non saremo mai favorevoli all’intervento di un governo straniero in un Paese sovrano. E ripeto, non solo per convinzione personale, ma perché questa deve essere la posizione di qualsiasi presidente del Messico, perché è sancita dalla Costituzione”.
Anche la Cina ha rilasciato una dichiarazione di condanna, sottolineando che “il continente non è il cortile di casa di nessuno”, mentre il ministro degli Esteri della Federazione Russa (con cui il Venezuela ha stretti rapporti, anche militari) ha manifestato la solidarietà.
Tra i movimenti internazionali, l’alleanza continentale ALBA Movimientos ha denunciato il possibile dispiegamento di forze aeree e navali degli Stati Uniti ed ha invitato i movimenti e le organizzazioni del mondo a mobilitarsi per la fine immediata delle minacce di guerra.
Le mani sul canale interoceanico di Panama.
La Casabianca dà molta importanza al controllo del canale interoceanico di Panama, per recuperare egemonia sul continente, difendere i propri interessi e garantire un flusso commerciale delle merci statunitensi. Come si ricorderà, le ultime basi militari statunitensi a Panama furono lasciate nel 1999, in base ai trattati Torrijos-Carter del 1977, che sancivano il passaggio del canale alla sovranità panamense. In base ai trattati, nessuna potenza straniera può “mantenere forze militari, siti di difesa o installazioni militari sul territorio nazionale”. Le dichiarazioni di Trump hanno quindi provocato indignazione nel Paese, dato che il ritorno delle forze armate statunitensi rievoca la sanguinosa invasione del 1989 (Operazione Just Cause), quando i marines assassinarono migliaia di civili. Anche in quell’occasione, il pretesto era stato quello di assicurare alla giustizia l’ex-alleato narco-trafficante Manuel Noriega.
Non c’è quindi da stupirsi per il via vai (mai interrotto) di funzionari politici ed alti gradi militari statunitensi, oltre alla loro battaglia per riprendere in mano il canale e cacciare le grandi imprese cinesi che vi operavano.
Ad aprile, c’era stata una visita a Panama di tre giorni del Segretario alla Difesa statunitense, Pete Hegseth. In quell’occasione, Donald Trump aveva confermato il trasferimento di personale militare statunitense nel Paese. Da parte sua, Hegseth aveva affermato che gli Stati Uniti avrebbero aumentato la propria presenza militare in tre ex basi statunitensi nel Paese per “proteggere il canale di Panama dall’influenza cinese”. Detto e fatto.
Gli scorsi 17 e 18 agosto, l’ex base militare statunitense di Fort Sherman a Panama è stata attivata per un’esercitazione delle forze statunitensi, che espande la strategia di controllo di Washington sul canale interoceanico. Le manovre si sono tenute con la supervisione dell’ammiraglio Alvin Hosley, capo del Comando Sud degli Stati Uniti. Nella sua terza visita a Panama durante il 2025, Hosley ha avuto incontri con alti funzionari della sicurezza ed ha effettuato un’ispezione del cacciatorpediniere USS Sampson, nel mezzo delle crescenti minacce di Washington a Caracas. Le fotografie della nave da guerra, ormeggiata nella base panamense Vasco Núñez de Balboa, avevano sbugiardato il Ministro della Sicurezza panamense, Frank Ábrego, che affermava di non essere a conoscenza della presenza della nave in acque nazionali.
L’arrivo di Hosley è quindi una nuova puntata del braccio di ferro per il controllo geostrategico del Canale di Panama e del Cono Sud del continente.
USA e NATO alla conquista dell’Antartide
L’ossessione statunitense è quella di rafforzare la propria presenza nella regione, anche in funzione anti-Cina e anti-Russia. Negli ultimi anni, l’Atlantico meridionale è diventato particolarmente importante per la sua vicinanza all’Antartide, (presenza regolata da un trattato terminato nel 1941), all’Amazzonia (la principale riserva di ossigeno e biodiversità del pianeta) ed alla triplice frontiera (Argentina, Brasile, Paraguay), dove si trova la falda acquifera del Guaraní, la più grande riserva mondiale d’acqua. A questo, occorre aggiungere la Guyana, che ha affidato alla Exxon Mobil statunitense lo sfruttamento di ingenti quantità di petrolio, proprio in una parte del territorio in annosa disputa con il Venezuela nei tribunali internazionali.
Nel caso dell’Argentina, la nomina di Peter Lamelas a nuovo ambasciatore statunitense a Buenos Aires è stata accompagnata dalle sue arroganti dichiarazioni. A fine luglio, il medico e imprenditore di origine cubana ha dichiarato alla Commissione Affari Esteri del Senato che cercherà di combattere la “corruzione da parte dei cinesi” in tutta l’Argentina, chiedendo di sostenere il presidente Javier Milei nelle elezioni legislative di ottobre e di assicurarsi che “Cristina Kirchner riceva la condanna che merita”. L’ennesima inaccettabile ingerenza nella politica interna, che marca da vicino il miglior alleato di Israele nella regione. Peccato che risulti quantomeno imbarazzante difendere Milei ed il suo governo che, proprio in questi giorni, sono sotto i riflettori per un enorme scandalo di tangenti su forniture mediche destinate ai portatori di handicap.
Non è quindi un caso che, dopo Panama, il capo del Comando Sud si sia recato in Argentina, dove ha partecipato a una conferenza sulla difesa regionale in Sud America, oltre a tenere un incontro con il Capo di Stato Maggiore argentino, Xavier Isaac, per affrontare le questioni relative alla “sicurezza continentale”.
Inoltre, nelle acque territoriali argentine e nelle Isole Malvine (occupate dal Regno Unito come Falkland), la NATO è presente con un sistema di basi nelle isole di Ascensión, Santa Elena e Tristán da Acuña, che “sorveglia” l’intero Atlantico dal nord alla zona antartica.
Nel continente, gli Stati Uniti hanno una presenza militare (e basi con vari cappelli) in Cile, Colombia, Ecuador, Honduras, Panama, Porto Rico, Paraguay e Perù, oltre a installazioni ad Aruba, Costa Rica, El Salvador, Cuba (Guantanamo) e Perù, con l’obiettivo di una copertura totale della superficie terrestre e marittima della regione.
Nel continente, c’è la sensazione che il disimpegno statunitense dal fronte dell’Ucraina potrebbe significare una rinnovata presenza aggressiva nel “cortile di casa” latino-americano.
NOTE
[i] https://estrategia.la/?na=v&nk=7300-fe1dfe1b79&id=62
[ii] https://www.unodc.org/unodc/data-and-analysis/world-drug-report-2025.html
i] https://www.britannica.com/biography/Oliver-North
[ii] https://en.wikipedia.org/wiki/Amiram_Nir
[iii] https://www.newamerica.org/the-thread/fort-bragg-cartel-drug-trafficking-seth-harp/
(*) Testo e immagine originali: