Chi lavora (da 15 anni) contro la salute pubblica
di Mario Sossella (*)
Come l’Italia sta trasformando un diritto universale in un privilegio (e come possiamo rimetterlo in piedi)
Se c’è un termometro capace di misurare la temperatura civile di un Paese, quello è il suo Servizio sanitario. Il nostro, nato per essere universale, sta perdendo pezzi e senso: tempi d’attesa ingestibili, personale allo stremo, famiglie che rinunciano a curarsi o pagano di tasca propria. Non è sfortuna. È il risultato di quindici anni di scelte e omissioni che hanno definanziato la sanità pubblica, allargato le diseguaglianze e reso la malattia un costo privato. L’8º Rapporto GIMBE sul SSN mette in fila – con la freddezza dei numeri e la chiarezza delle analisi – perché siamo arrivati fin qui e cosa serve, adesso, per invertire la rotta.
Che cosa dice il Rapporto GIMBE (oltre i titoli)
Il cuore del problema è semplice: abbiamo trattato la sanità come una voce da limare, non come l’investimento che tiene insieme salute, produttività, dignità sociale. In termini nominali il Fondo Sanitario Nazionale (FSN) è cresciuto di 11,1 miliardi tra 2023 e 2025, toccando 136,5 miliardi; ma l’inflazione e l’energia hanno mangiato i progressi. In rapporto al PIL, il FSN è sceso dal 6,3% (2022) al 6,0% (2023) e si ferma al 6,1% nel 2024-2025; la stessa Legge di Bilancio 2025 proietta un calo al 5,9% nel 2027 e 5,7% nel 2029. Traduzione: fabbisogni in aumento, coperta più corta.
La salute: da diritto universale a privilegio per pochi” restituisce in chiave divulgativa ciò che i dati dimostrano: se la quota di spesa sanitaria sul PIL cala e il finanziamento effettivo del FSN resta sotto le necessità, il conto ricade su Regioni e cittadini. Prima si sfilaccia la qualità, poi l’accesso, infine il diritto.
Liste d’attesa e rinunce: dove l’uguaglianza formale diventa disuguaglianza reale
Nel 2024 oltre 5,8 milioni di persone hanno rinunciato a prestazioni sanitarie (quasi una su dieci). Il balzo più inquietante riguarda le rinunce per liste d’attesa: dal 4,5% nel 2023 al 6,8% nel 2024 (+51%). Pesano anche i motivi economici (dal 4,2% al 5,3%). Quando i tempi del pubblico sono insostenibili, chi può paga il privato; chi non può rinuncia. E la rinuncia, in sanità, non è mai neutra.
La strozzatura vera: il personale nel SSN.
Sui numeri generali l’Italia non è “senza medici”: guardando ai professionisti attivi nel Paese, il dato OCSE ci colloca sopra le medie europee per medici (circa 5,4 per 1.000 abitanti nelle serie più recenti utilizzate da GIMBE), mentre restiamo molto sotto per infermieri (circa 6,9 per 1.000). Il rapporto infermieri/medici è appena 1,3, tra i più bassi d’Europa. È qui la falla strutturale.
Ma la carenza che i cittadini toccano con mano è nel Servizio Sanitario Nazionale e nelle specialità “chiave”: emergenza-urgenza, medicina generale, alcune discipline chirurgiche e di comunità. A inizio 2024 i medici di famiglia in attività erano 37.260, con una media di 1.374 assistiti per medico e punte che superano 1.500; la carenza stimata per garantire un rapporto ottimale 1:1.200 è di 5.575 MMG, concentrata nelle grandi Regioni. Nel 2025, inoltre, molte scuole di specializzazione essenziali per il SSN restano poco attrattive: emergenza-urgenza al 56% delle assegnazioni, medicina e cure palliative al 41%, medicina di comunità al 36%. Segnali lampanti di un SSN meno attrattivo, con professionisti che chiedono informazioni per andare all’estero.
In breve: non mancano “medici” in astratto; mancano medici e soprattutto infermieri “nel” SSN, nei luoghi e nei turni dove servono. E con pochi infermieri, anche molti medici diventano inefficaci: senza squadra non c’è cura che tenga. Per inciso, nei paesi OCSE in media ci sono 2,5 infermieri per ogni medico; da noi poco più di 1. Un’anomalia che si paga in qualità e tempi.
Privato: il binario parallelo che scardina l’universalismo
Laddove il pubblico arretra, il privato accreditato avanza e fa cassa. Nel 2022 oltre metà del valore della mobilità “attiva” (cioè i crediti per prestazioni rese a cittadini di altre Regioni) è stato erogato da strutture private accreditate: 54,5% contro il 45,5% del pubblico; nei ricoveri, il privato ha incassato il 26% in più del pubblico. Non è “libertà di scelta”, è spesso costrizione geografica: chi vive in territori fragili migra lì dove l’offerta c’è, e a incassare sono, sempre più spesso, poli privati.
Il fenomeno siede su una frattura Nord-Sud profonda: nel 2010-2022 quattordici Regioni hanno accumulato un saldo negativo complessivo di 19,03 miliardi, di cui 14,55 nel Mezzogiorno. Soldi che viaggiano con i pazienti, impoverendo i sistemi più deboli. È la sanità “a doppio binario” denunciata da GIMBE: chi ha disponibilità economica e mobilità si cura, gli altri aspettano o rinunciano.
Non basta. La sanità “integrativa” – agevolata fiscalmente – può coprire fino all’80% di prestazioni sostitutive dei LEA, pur continuando a chiamarsi “integrativa”. Con oltre 16 milioni di iscritti, di fatto scava un canale preferenziale a chi è già tutelato da contratti e welfare aziendali, drenando domanda (e risorse) dal SSN.
PNRR: muri senza servizi non curano
La partita del territorio è decisiva. Al 30 giugno 2025 solo 218 Case della Comunità avevano dichiarato attivi tutti i servizi previsti; tra queste, appena 46 con vere équipe medico-infermieristiche. Gli Ospedali di Comunità “attivi” sono 153 su 592 programmati. Se non si riempiono gli edifici di professionisti, orari, responsabilità e presa in carico, avremo inaugurazioni e nessuna prossimità.
Digitale: Fascicolo Sanitario Elettronico a metà del guado
Senza interoperabilità e uso reale, il digitale non accorcia le liste né migliora l’assistenza. A marzo 2025 solo 6 documenti su 16 erano disponibili in tutte le Regioni e il consenso dei cittadini alla consultazione dei propri dati si fermava al 42%, con divari enormi tra territori. Anche qui, senza governance nazionale e accompagnamento, il rischio è un’innovazione di facciata.
Dove intervenire subito (tre priorità che non ammettono rinvii)
1. Rimettere soldi veri nel pubblico. Traiettoria pluriennale e vincolata per personale, LEA e digitale, bloccando la discesa sotto il 6% del PIL e tornando a crescere. Non “una tantum”, ma un piano.
2. Squadra completa sul territorio. Piano straordinario infermieri (formazione, assunzioni, carriere, retribuzioni), stabilizzazioni e incentivi mirati su emergenza-urgenza, medicina generale e pediatria di libera scelta; obiettivi di presa in carico (MMG 1:1.200; PLS 1:850) come vincolo di programmazione.
3. PNRR che cura davvero. Milestone legate non ai metri quadri ma ai servizi attivi e alle équipe complete; FSE interoperabile e usabile ovunque; telemedicina che riduca davvero le disuguaglianze nelle aree interne.
Dodici azioni strutturali (brevi, ma misurabili)
– Prevenzione come politica-paese (One Health), con budget dedicato e non comprimibile.
– LEA vivi: aggiornamento continuo, tariffe coerenti, disinvestimento da prestazioni a basso valore.
– Stato-Regioni: riparto più giusto (più peso a povertà, mortalità precoce, aree interne) e quota premiale vera.
– Liste d’attesa: regia nazionale, agende uniche digitali, tetti coerenti col fabbisogno, auditing su priorità clinica; stop alle soluzioni che sottraggono risorse al FSN senza fissare risultati.
– Pubblico/privato: contratti che obblighino il privato accreditato a recuperare liste e rispettare priorità cliniche, con massima trasparenza sui flussi.
– Sanità integrativa davvero integrativa: vantaggi fiscali solo se integra i LEA, non se li sostituisce.
– Dati aperti e confrontabili per monitoraggi indipendenti e partecipazione civica.
– Ricerca e valutazione d’impatto delle politiche (organizzazione, esiti, equità).
– Digitale che semplifica: formazione per clinici e cittadini; FSE usabile e completo.
– Mobilità sanitaria: piani regionali di rientro nelle aree cliniche critiche, investimenti mirati dove i flussi in uscita sono più alti.
– Lavoro nel SSN attrattivo: retribuzioni, carriere e ambienti sicuri; colmare i buchi nelle specialità scoperte.
– Educazione sanitaria pubblica contro fake news e consumismo sanitario.
Nota metodologica sul punto “medici vs infermieri” (per evitare equivoci)
I dati che abbiamo utilizzato distinguono tra:
a) “professionisti attivi” nel Paese (benchmark OCSE, dove l’Italia risulta con molti medici ma pochi infermieri);
b) personale “nel SSN” (cioè medici e infermieri dipendenti/contrattualizzati o convenzionati).
La carenza percepita nasce nel b), cioè dentro il Servizio, con squilibri territoriali e di disciplina. Il rapporto infermieri/medici resta l’indicatore più allarmante: 1,3 in Italia contro 2,4 OCSE; senza il giusto numero di infermieri, nessun modello organizzativo regge.
La sanità privata non è “il male” in assoluto, ma prosperare sulle crepe del pubblico significa smontare l’universalismo pezzo dopo pezzo. O rimettiamo al centro il Servizio – con risorse stabili, personale valorizzato e prossimità reale – o accettiamo una sanità a doppio binario, dove chi ha paga e chi non ha aspetta o rinuncia. La Costituzione non contempla questa opzione. E neppure la nostra coscienza civile.
FONTI
– Fondazione GIMBE: 8° Rapporto sul Servizio Sanitario Nazionale (aggiornato al 30 settembre 2025): finanziamento, personale, liste d’attesa, mobilità, PNRR, sanità integrativa.
– Volere la Luna: “La salute: da diritto universale a privilegio per pochi” (24 ottobre 2025).
– OCSE: quadro comparato su medici, infermieri e rapporto infermieri/medico.
PS (di pancia): le liste non sono code, sono barriere; i ticket non sono contributi, sono porte girevoli verso il privato; i muri nuovi senza équipe dentro sono scenografie. Non servono slogan: servono soldi veri, persone e responsabilità. Altrimenti il diritto resta un abbonamento per pochi.
(*) ripreso da «Un blog di Rivoluzionari Ottimisti. Quando l’ingiustizia si fa legge, ribellarsi diventa un dovere»: mariosommella.wordpress.com
L’IMMAGINE – scelta dalla “bottega” – è di MAURO BIANI
