Chinnóe

Natalino Piras, da Piana di Chentomínes, Edizioni Castello, 1994

Nico Orunesu Battaglia, Fiumicino (Roma), Collez. privata.

Ossidiana era un nucleo di pietre nere che sporgevano dal verde della foresta come un tetto naturale, case e templi circondati da un muro di pietra bianca, tanto rilucente da abbacinare lo sguardo.

All’epoca che vi giunse Chinnóe, Ossidiana contava oltre diecimila abitanti che vivevano di agricoltura, pastorizia e  commerci con altre città e paesi vicini. All’interno di Ossidiana le strade erano in pietra nera, ben levigate. Originavano dal basso per risalire a gradoni verso punti alti disposti a raggiera così  da formare  un anello intorno alla zona mediana di una piramide tronca. C’era tensione verso le alturas. Alla sommità della piramide tronca fu costruito il  palazzo del re, un’ acropoli, edificio poggiante su ampie arcate.  Molte  fessure puntinavano i  muri della cittadella regale, come occhi d’aquila disseminati nella pietra nera.  Angolature e smussature si sovrapponevano, elementi di pietra ma pure  lastroni d’argilla e di creta, altre rotondità  a contrasto con i quadrati aperti sul tetto, primordiali pannelli solari.

Al tempo in cui Chinnóe giunse a Ossidiana, regnava sulla città Latàri, legittimo erede di Unnuvirde proveniente in linea diretta dal Sardus Pater, la prima divinità dei nativi. Chinnóe giunse a Ossidiana dopo un naufragio. La sua nave, comandata da Murmúsa, era entrata in un vortice di tempesta che infuriava  nel mare sardonio, al largo di Budòne. Gli uomini di Murmúsa erano predatori e mercanti.

Quanti scamparono all’annegamento si ritrovarono attorno a Chinnóe,  loro comandante naturale una volta che Murmusa era perito nel naufragio. Stettero poco sulla spiaggia e guadagnarono l’interno in meno che non si dica. La risalita e la scoperta  del bosco  furono i primi atti di quei padri fondatori. La foresta era  sconosciuta,  la prima acqua  di fiume in cui imbatterono  fu la potenza  fragorosa e selvaggia di una massa spumosa  che si buttava a precipizio  da una rocca emersa dai tempi della creazione del mondo. Un falco distendeva  le sue ali sopra quella visione tumultuosa che infondeva ardire nel cuore degli uomini. Sentirono il rumore del precipitare dell’acqua: tolòs tolòs tolòs schéne/tolòs tolòs tolòs schéne. Quel punto divenne Toloschéne. Lo battezzarono con  voce onomatopeica che dette origine alla specie degli oloscheni. Poi, scalando a forza di mani arrivarono in cima alla rocca: da quell’altura  il fondo della valle appariva ai loro occhi come argyroflebs, vene d’argento  nel verde, una immensità lontana. Erano riusciti a risalire l’aspra montagna in molti passaggi di sole e di luna. Battezzarono la cima come  rocca del falco. Poi continuarono il viaggio, spinti dall’istinto di sopravvivenza e dal desiderio di conoscenza.

Fu Iscorvì, abbacinato dalla pietra, ad intuire che pulsava una qualche vita oltre la muraglia di Ossidiana. Prima che la luce oscurasse, Iscorvì fece in tempo a vedere ombre in movimento dentro il palazzo di colui che doveva essere il re di quel luogo di pietra nera, mela melàs melàs melàsossi dana danà ossi melàs ossi danàos ossidiana. Le ombre di pietra nera venivano proiettate nel cielo e Iscorvì che vedeva e sentiva più degli altri  si inventava la cantilena  di parole senza senso basate sul fatto che c’era predominanza di nero, melàs, e che loro in fondo erano greci, danàos. Da una congiuntura favorevole nacque la parola Ossidiana, che significa appunto pietra nera.

Anche Okitzài, molosso barbuto, sentì delle voci provenire dal palazzo, e Gomorètza, poco più che un nano, rumore di sonagli, e Arre, il cuciniere esperto in farine, l’odore dell’uomo. Toccò ancora a Chinnóe,  che tutti li sovrastava in altezza,  petto largo attraversato da una striscia di cuoio, capelli corti e occhi cerulei, a dare senso e ordine al vedere e sentire dei compagni.

Decisero un piano ed entrarono nella città sconosciuta da quello che era l’unico ingresso naturale, un allargamento  nella muraglia grigia, una sella rovesciata fiorita di giunchi e asfodeli. Non ostilità. Le prime persone che vennero loro incontro vestivano simile: brandelli di tessuti colore porpora e azzurro tenuti insieme da fibbie in bronzo, lo stesso metallo di spade e pugnali che gli uomini facevano pendere lungo i fianchi: qualcuno li teneva a tracolla dentro fodere di cuoio finemente lavorato, con figure di caccia e danza intagliate a sequenza.

Dapprima si guardarono con indifferenza, quasi con naturalezza. Poi provarono a intendersi a segni e schegge di parole. Fu così che Chinnóe arrivò a parlamentare con Latàri, il re.  Sedeva costui su un trono di pietra coperto di porpora, spiccava imponente, ma aveva uno sguardo aperto, prospettico, disposto al dialogo. Chinnóe ottenne ospitalità per sé e per i suoi.

La vita di Ossidiana era quella di una città chiusa, al centro di terre in parte selvagge e in parte messe a coltivo. Okitzài e Arre andavano a lavorare nei campi, linee di terra grassa nel dorso della montagna, mentre Gomorètza faceva il pastore con la gente di Visòrke, uno dei più potenti alleati di Latàri. Chinnóe invece era diventato consigliere del re. Servendosi delle intuizioni e delle sensazioni di Iscorvì, che prevedeva il tempo a venire ed interpretava i sogni, estendeva su tutto il palazzo la capacità di organizzare e governare. Non c’era decisione che Latàri prendesse senza farla prima passare al vaglio di Chinnóe. Costui, “lo traniero”, misurava il lavoro della gente di campagna, dei cavatori di pietra,  degli impastatori di fango e paglia per farne mattoni. Là lò là pro La-tà-ri: làdiri è un nome sardo a indicare i mattoni di paglia e di terra cruda fatta fango.

Chinnóe conosceva la resa della fatica e sapeva pure come rendere abili gli uomini nell’uso delle armi, come adoperarle per difendersi e attaccare. Non tutti sarebbero venuti a Ossidiana in spirito di pace così  come erano entrati loro. In tal caso, se soffiava la guerra, i guerrieri dovevano essere consapevoli che  altri, fra-tres, avrebbero combattuto al loro fianco,  ma  altri ancora, ini-mikos,  sarebbero stati contro: bisognava contrapporgli spirito di kerta, che è la trasformazione in gherra, guerra,  della parola kirka, che fino ad allora aveva significato solo cercare.

Le parole evocate e dette, le antiche e le nuove, si materializzarono in quel tempo. L’acrocoro di Sonniana, quello su cui sorgeva Ossidiana, era  sì una fortezza naturale ma emanava fascino troppo forte di conquista e, per contrario, di fuga. Ai primi inevitabili dissensi con Latàri, Chinnóe e i suoi lasciarono la città che li aveva ospitati e ridiscesa tutta la  costa selvaggia fino a Tolòschene si inventarono, lì, al confine con il mare, nuovi orizzonti. Risalirono  un versante opposto sino a una latitudine che battezzarono  Mandria dei cervi,  in quella parte di foresta che sarebbe diventata di Chentomínes.

Vennero  suoni di guerra.  Chinnóe chiamò a raccolta i suoi.  Erano aumentati di numero. Iscorvì, Gomorètza, Okitzài e Arre avevano trovato una compagna. Dettero origine alle stirpi della foresta.

Qualche figlio era già adolescente, pronto alla guerra. Uno aveva un profilo tutto particolare. Era figlio di Chinnóe e di Nivàta, la primogenita di Latàri. Lo avevano chiamato Dorveni.  Stanno là le fondamenta della leggenda, millenni prima che nascesse Istefane Dorveni, colui che risalì il Tirso, prima ancora che esistesse il nome circolare di Istefane, collocabile in differenti epoche.

Il figlio di Chinnóe e di Nivata era longilineo, i lunghi  capelli color del grano, gli occhi verdi a mescolare il ceruleo di quelli del padre e quelli di foresta intensa della madre. Le ossa erano forti. Il ragazzo Dorveni si muoveva leggero, danzante, veloce. Sembrava volasse quasi le sue ossa fossero piene d’aria come quelle degli uccelli. Prima di muovere alla battaglia, gli uomini decisero di dare un nome al luogo dove lasciavano le donne e i bambini. Di quanti sbarcarono nella spiaggia prospiciente Toloschéne nessuno aveva fatto a tempo a diventare vecchio. Prima di partire dettero un nome al luogo dove non sapevano se sarebbero tornati. Lo chiamarono con il nome del loro condottiero, Chinnóe. Il messaggero di Amsicora venuto per chiamarli alla guerra disse  che in battaglia dovevano essere forti ancor più del dovuto. Il  nemico disponeva di armi molto più dure del bronzo, ottenute da una lega temprata nel fuoco che chiamavano ferro.

Mossero consapevoli.  Fu Iscorvì,  pronto in armi, a dire che Amsicora e i cartaginesi  fuggivano dai romani.  Iscorvì interpretava segni,  rumori, eco,  suoni prodotti dal nuovo metallo, nell’aria propalati, consegnati alla memoria dei corsi d’acqua che dalla costa occidentale, dove si ammassava l’esercito di Amsicora e dei cartaginesi, risalivano l’Isola e la ridiscendevano.

Natalino Piras

*“Chinnóe” è il primo dei 12 racconti della “Piana di Chentomínes”. Prima ancora delle Edizioni Castello, 1994, i racconti  erano stati letti a Radio Sardegna  tra il 1989 e il 1990 in un programma chiamato “Il viaggio immobile”, accompagnati dalle musiche di Brian Eno e dalla tromba di Paolo Fresu, regia di Mauro Schirru.

immagine di Nico Orunesu

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