John Ford: uno di noi

di Fabio Troncarelli

Il 31 agosto 2023 sono trascorsi 50 anni dalla morte di John Ford, avvenuta il 31 agosto 1973. Legioni di esaltati mitomani, convinti che l’unico scopo della vita di Ford sia stato solo quello di spianare la strada a Sergio Leone, stanno già arrotando i coltelli e preparano uno sfragello di iniziative, proiezioni all’aperto e al chiuso, convegni e convegnicoli, zeppi di luoghi comuni, di retorica e di entusiasmo, per svoltare la serata co’ l’amichi e fare casino tra ‘na biretta e ‘n supplì. Non mancano neppure i furbacchioni che hanno deciso di rilanciare la versione western dei Canti dell’Olgiata, nei quali si ammanniscono agli inebetiti spettatori contenuti reazionari pieni di strizzate d’occhio un sacco di sinistra: e allora ecco un Ford nuovo di zecca che non ci azzecca un tubo col Ford di una volta, ma piace ai piacioni mainstream, il patrono di tutto quello che succede oggi, uno che ha previsto tutto in anticipo, anche i movimenti LGBT, perchè si può essere un genio solo se si pensa quello che pensiamo noi oggi e il resto è silenzio.

E’ tempo di ritornare, malinconici e dolenti, sulla tomba di Ford e parlare con la sua ombra, come John Wayne sulla tomba della moglie nei Cavalieri del Nord-Ovest. E’ tempo di mestizia, di riflessioni, di nostalgia. Il tempo per dire a noi stessi ed agli altri che chi è scomparso ci manca, che non ce ne sarà un altro come lui, che abbiamo ancora tanto da imparare da lui, tanto da capire, a cominciare dal fatto che lui non è come noi, non può essere come noi e per questo pensava e sentiva cose diverse da quelle che pensiamo e sentiamo noi, senza che questo sia motivo di scandalo. L’agiografia va bene solo per i poveri di spirito, per chi ha paura del respiro rovente della storia, con le sue contraddizioni, con la sua violenza, con la sua grandezza. Guardiamo in faccia il passato, senza enfasi, senza moralismo, con coraggio. Scopriremo subito la differenza tra chi ha avuto il coraggio di vivere una vita dolorosa ma autentica e chi è rimasto sempre indietro, nascosto nel suo nido, aspettando di essere imboccato. Basta solo ripercorrere la biografia di Ford, per comprenderlo. E per renderci conto che dietro ll’apparenza, dietro alle immagini di repertorio e ai luoghi comuni che lo presentano come un autore di film western senza troppi problemi, si cela invece la figura di individuo tormentato e complesso, molto più colto e consapevole di quello che si crede.

John Ford è sempre stato audace, un pioniere coraggioso e spregiudicato, anche se di carattere era timido e schivo, abituato a chinare il capo e inghiottire il rospo. Ogni gesto della sua vita lo testimonia. Non aveva neppure finito la scuola ed già era celebre tra i compagni perchè era un leader, che non aveva paura di riempire di botte uno più grande e grosso di lui, perchè era uno sporco razzista. Lo chiamavano John il Toro e il piccolo torello non si faceva pregare e stendeva tutti i suoi avversari giocando a rugby nella squadra dei Bull Dogs, un nome che è tutto un programma. Ma era capace anche di incantare i suoi compagni, recitando da ragazzino brani di Shakespeare imparati a memoria, facendo la maschera al teatro di Portland, Maine, dove lavorava mentre ancora andava a scuola, perchè non aveva un soldo Veniva da una caotica famiglia di immigrati irlandesi, i Feeney: una nidiata di ragazzini scatenati che scappavano da tutte la parti a una madre analfabeta, ma solenne e grandiosa, come solo sanno essere gli abitanti stralunati delle isole Aran. Il padre invece, che veniva da Spiddal, attaccata alla ridente Galway, città di traffici, di navi e di avventurieri, era un uomo di mondo: reggeva con pugno di ferro un saloon, un’anomalia in uno stato proibizionista; il che voleva dire che era un contrabbandiere di liquori e soprattutto il tenutario di un bordello, mascherato da pub, in cui comunque si infrangeva la legge dando da bere di nascosto. Era stimato da tutti; era un capopolo che controllava i voti degli immigrati irlandesi e dava del tu ai politicanti più boriosi. Ma tutti pensavano, sotto, sotto, che fosse una canaglia. E tutti pensarono che fosse una canaglia anche Francis, il fratello più grande di Ford: una canaglia, degno figlio di questa canaglia. Infatti abbandonò senza scrupoli la moglie giovanissima, incinta, per fare l’attore: ebbe un grande successo, ma nessuno a Portland dimenticò la sua fuga ingloriosa. Il piccolo John, così fiero delle sue origini irlandesi, ebbe sempre una grande vergogna dei lati poco nobili della sua famiglia, anche se non lo confessò mai esplicitamente. Il padre era un uomo rispettabile perché era «un uomo di rispetto». Un leader perché era un boss. Lottava contro la prepotenza yankee: ma andava contro la legge dell’America democratica di Franklin e di Lincoln, quella stessa America che lo aveva accolto ed ospitato. E suo figlio, che si batteva per stare alla pari coi suoi compagni, aveva un handicap insormontabile sulle spalle che gli avrebbe impedito per sempre di riscattarsi.

Fu proprio per liberarsi da questo marchio d’infamia che John il Toro cercò di redimersi, senza fortuna cercando di entrare all’Accademia Navale di Annapolis. La carriera militare gli avrebbe permesso di accedere ad un mondo che le sue origini gli precludevano. Il figlio di emigrati irlandesi sognava, in pieno accordo coi suoi genitori, di diventare un uomo importante, rispettabile, alla pari con gli Wasp (White, Anglosaxon, Protestant). Ed invece proprio la società americana mandò in fumo i suoi sogni. Ford fu sempre un disastro in matematica: a scuola fu bocciato due volte in algebra e per tutta la vita ebbe sempre un pessimo rapporto coi numeri. In simili condizioni la via dell’Accademia era preclusa e l’esito del concorso di ammissione scontato. La società lo respingeva ancora: non era degno di elevarsi dalle sue origini.

Il trauma fu decisivo per la vita del regista. Dopo qualche mese di sbandamento, provando un lavoro dopo l’altro, il ragazzo con l’orgoglio ferito fuggì a Hollywood dal fratello Francis, per fare l’artista. Non aveva in tasca letteralmente i soldi per pagarsi la cena. E si sentiva, come ha finemente osservato Gallagher, nelle condizioni di suo padre quando abbandonò l’Irlanda per tentare l’avventura in America, visto che chiamava il suo viaggio a Hollywood la «traversata dell’Atlantico». Un emigrante. Un esule. E anche un maledetto. Infatti «fare l’artista» non era la più rispettabile delle professioni. Non solo perché per la società puritana del New England, da cui Ford proveniva, l’uomo di spettacolo era poco più di un saltimbanco o di uno zingaro. Ma soprattutto perché nella famiglia Ford artista era sinonimo di traditore: il fratello Francis, la «pecora nera» scegliendo la via dell’arte aveva disonorato il suo nome. Come ha scritto Dan Ford, egli: «si sentì sempre in colpa per aver lasciato la sua donna, per essere stato un fallimento rispetto agli standard di una città di provincia. Si vergognava di aver cambiato nome ed era sicuro che la sua famiglia avrebbe disapprovato la nuova vita nel teatro. Così ruppe i contatti con la famiglia» (D. Ford, Pappy, pp. 6-7).. Per anni non si seppe più nulla di lui. Poi, all’improvviso, la madre lo riconobbe in un film. Il padre gli scrisse e Francis tornò a Portland come un trionfatore, su una macchina di lusso, con a fianco una bellissima donna. Fu uno shock per tutti. Ma non cancellò il giudizio negativo sulla sua fuga. Quando John partì per Hollywood erano passati tre mesi dal ritorno di Francis a Portland. I pettegolezzi sul fratello non si erano ancora spenti, ed ecco, un altro Feeney che fugge, altri pettegolezzi che nascono! La vergogna accompagnò sempre, in segreto, la vita del ragazzo che era stato bocciato ad Annapolis.

È probabile che la molla che spingeva Ford ad entrare in Marina fosse proprio l’esigenza di tagliare i ponti con la sua infanzia. La figura del militare di carriera era un’immagine pubblica rassicurante, l’incarnazione della Legge e dell’Ordine opposta alla figura del fuorilegge riflessa in suo padre. Non è un caso, da questo punto di vista, che anche il fratello Francis avesse tentato di arruolarsi nell’esercito, prima di fuggire di casa. Per i figli dell’equivoco John Feeney senior, l’identità di militare era una via di scampo rispetto all’identificazione col padre e alla conseguente anarchia delle spinte dell’inconscio verso la zona opaca del crimine e dell’abiezione.

Ciò è in una certa misura confermato anche dall’inclinazione verso l’alcolismo di John e di Francis. Ubriacarsi significava restare vistosamente vittime proprio di quell’anarchia istintuale cui entrambi cercavano di sfuggire. Ma forse poteva essere un modo di sfuggire al padre. In fondo, ubriacare il prossimo era il mestiere di John Feeney senior; un mestiere che sapeva svolgere egregiamente anche perché si asteneva rigorosamente dal bere sul lavoro. Francis e John non furono all’altezza di tanto rigore. Si comportarono come due miserabili clienti del saloon del padre. Preferirono la strada dell’abiezione evidente ed esibita, piuttosto che quella della vendetta. In qualche modo, bevendo, si sottomettevano al padre e ne giustificavano l’esistenza. Ma cedendo ad un istinto distruttivo (o autodistruttivo) potevano mascherare tendenze ancora più distruttive (o autodistruttive), quelle rivolte contro il padre. La fuga nell’alcool era un’altra manifestazione del bisogno di fuggire da una situazione insostenibile: quello che aveva portato Francis a sbattere la porta del saloon del padre-padrone. Quello che aveva scaraventato John a Hollywood.

La via dell’arte, come la via dell’alcool, era dunque una via di scampo: ma percorrerla significava voltare le spalle a tutto, abbandonare la famiglia, tradire la fiducia e le aspettative dei genitori, dei compagni, degli amici, della società. Per tutta la vita John Ford si affannò ad aiutare economicamente la sua famiglia e cercò di farsi approvare dai genitori. I suoi sforzi non riuscirono a vincere la profonda diffidenza della madre, che pure era stata molto legata al figlio da piccolo. Nonostante tutto, John non riuscì mai ad essere il Figliol Prodigo.

La vergogna di Ford fu sempre nascosta da una maschera: la maschera del coraggio burbero e dello sprezzo del pericolo. A fianco dell’esercito (ufficiale della Marina) Ford fu senza dubbio audace e spericolato. A modo suo diede un contributo notevole durante la seconda guerra mondiale. Con fulminea scelta di tempo mise in piedi efficienti unità di fotografi ed operatori che accompagnavano le truppe e documentavano la loro attività. Per realizzare foto e documentari bisognava esporsi al fuoco del nemico, col rischio di essere feriti, come accadde a Ford stesso, o addirittura uccisi, come

accadde ai suoi collaboratori. In questo modo il regista entrò a far parte di una strana organizzazione di sostegno alle truppe, diretta da un bizzarro personaggio, William Donovan, con cui Ford stringerà in seguito un altrettanto bizzarro connubio associandolo alla sua casa di produzione. L’organizzazione svolgeva attività di spionaggio e di fiancheggiamento di attività belliche ed anche in questo campo Ford si distinse. Nessuno avrebbe potuto rimproverare il figlio di John Feeney di codardia e neppure di esibizionismo, come accadde al «soldato della domenica» Darryl Zanuck. No: Ford fu un vero leale, prode soldato degli Stati Uniti.

Dopo la guerra continua a proclamarsi un patriota, ostentando un militarismo a volte reazionario, che i suoi stessi amici, come Nichols, giudicavano «adolescenziale». Alla fine della sua esistenza, fu premiato. Poco prima di morire fu nominato ammiraglio ed ottenne la Medaglia della Libertà dal presidente Nixon. Il vecchio regista, che aveva invano cercato di girare l’ultimo film sulla storia del primo negro diplomato a West Point, aveva simbolicamente raggiunto l’onore che gli era stato negato da ragazzo. Ora non era più il tipico irlandese. Spaccone, prepotente, egoista, pronto a tradire per trenta denari, come fa Victor McLagen nel celeberrimo Il traditore (The informer, 1935). Questo tipo d’uomo e di personaggio, come ha confessato Ford, aveva dei tratti del carattere del padre, l’ambiguo John Feeney senior.

Eppure non era questo l’unico volto del vecchio Feeney. Ford ci ha lasciato infatti un ritratto di suo padre di segno del tutto opposto in Com’era verde la mia valle. Sappiamo per esplicita ammissione del regista, conferma ta dalla testimonianza del nipote, che la famiglia Morgan del film è ispirata alla famiglia Feeney. L’anziano Gwillym assomiglierebbe dunque a John Feeney senior. E un uomo severo, giusto, pieno di dignità e di attaccamento ai valori della tradizione. Un vero padre. Anche in altri film fordiani ritroviamo lo stesso personaggio di padre irlandese, fiero, leale, nobile, come ad esempio il sergente O’Rourke in Il massacro di Fort Apache (Fort Apache, 1948) o Martin Maher senior (omologo del figlio, come John Feeney senior) in La lunga linea grigia. Attraverso tali personaggi Ford esprime un ideale di padre degno di rispetto ed ammirazione che mal si concilia con lo sgomento morale nei confronti di personaggi come Gypo Nolan, il traditore.

E tuttavia la svalutazione del Padre ritorna ossessivamente nelle opere fordiane ed evoca sentimenti simmetricamente opposti rispetto a quelli suscitati dal padre onesto ed autorevole. Da un lato Ford ci ha lasciato infatti numerose raffigurazioni negative di uomini che hanno in mano il potere e svolgono una funzione equivalente a quella paterna: veri e propri tiranni, come il colonnello Thursday, in Il massacro di Fort Apache (che oltre ad essere prepotente e fanatico è uno spergiuro) oppure il governatore De Laage di Uragano, razzista e dispotico. Dall’altro lato troviamo spesso padri vecchi e deboli, che non ce la fanno a tenere le redini della famiglia, come il vecchio Joad in Furore (The grapes of wrath, 1940) o il capo indiano Albero Alto in Il grande sentiero (Cheyenne autumn, 1964); o capifamiglia criminali, come il vecchio Clayton in Sfida infernale (My darling Clementine, 1946), o Shiloh Clegg in La carovana dei mormoni (Wagonmaster, 1950).

Ford manifesta nelle sue opere una profonda ambivalenza nei confronti del Padre. Il regista sembra non essere riuscito a conciliare le spinte contrastanti che ogni uomo prova nei confronti del proprio genitore, che portano all’amore o all’odio, al rispetto o alla sfida. Ciò è in una qualche misura confermato dal film che maggiormente riflette, a mio parere, l’atteggiamento fordiano verso il padre e che, nello stesso tempo, ci dà il ritratto «dal vero» più attendibile di John Feeney senior: L’ultimo urrà (The last hurrah, 1958). L’opera narra l’ultimo segmento dell’esistenza di un grande leader politico, il vecchio Frank Skeffington. Capo della comunità irlandese di una città del New England (un ruolo che fu anche di John Feeney senior), Skeffington è un personaggio complesso: suscita la nostra simpatia per la sua umanità, per la sua dignità, per la sua vitalità, contrapposta al mondo arido e spietato dei puritani bigotti. Ma suscita anche la nostra perplessità per la sua spregiudicatezza che non è riscattata dalla sua nobiltà d’animo. L’uomo è un demagogo furbo e senza scrupoli, prepotente e pronto al ricatto. E soprattutto è un terribile egocentrico che ha sempre ragione qualunque cosa accada. In un certo senso la sua figura ricorda (sia pure in chiave meno drammatica) quella di John Foster Kane in Quarto potere di Orson Welles: un uomo di genio condannato alla solitudine a causa del suo narcisismo megalomane. Il legame con Quarto potere è esplicitamente sottolineato da Ford, che cita una scena del film di Welles nel comizio di Skeffington: l’uomo parla dietro a una gigantografia del suo volto come fa Kane in una celebre scena. La citazione sarebbe risultata ancora più evidente se il protagonista del film fosse stato, come voleva Ford, lo stesso Welles, cui venne alla fine preferito Spencer Tracy. Il richiamo alla fosca grandezza shakespeariana del villain Kane è necessario per comprendere che il ritratto di Skeffington non è del tutto positivo. Senza dubbio Ford prova simpatia per il suo personaggio (e del resto chi potrebbe negare che, a modo suo, anche Welles provi una strana simpatia per Kane?), ma tale simpatia non elimina il giudizio morale. In ogni caso simpatia e antipatia sono travolte da un sentimento di pietà, di trepidazione, di commossa nostalgia di fronte alla morte dell’autocratico Skeffington. Di fronte alla scomparsa fisica del padre-padrone ogni conflitto si attenua e lascia il posto al rimpianto, alla melanconia. La morte si incarica di risolvere il problema del conflitto edipico mettendo il figlio di fronte al fatto compiuto. E in fondo permettendo al figlio di emanciparsi.

Questa soluzione del contrasto è tipicamente fordiana. La ritroviamo in diverse occasioni. Un caso emblematico è rappresentato dalla conclusione de Il massacro di Fort Apache: il capitano York prende il posto del colonnello Thursday, quando questi viene ucciso. Durante tutto il film avevamo assistito allo scontro irreconciliabile tra i due uomini: il tirannico colonnello, nel ruolo di padre-padrone, aveva angariato il capitano, nel ruolo di subordinato ma insofferente figlio simbolico. Ma dopo la morte di Thursday la figura del caparbio e ottuso militare di carriera è circonfusa dell’alone della leggenda, della memoria commossa e nostalgica di chi preferisce dimenticare. Così, sotto l’epigrafe del parce sepulto, all’insegna della pietà dovuta ai morti, il padre si riconcilia col figlio ed esce definitivamente di scena. In molti altri film la morte «provvidenziale» del padre permette la libertà del figlio o di chi ne fa le veci: una libertà che, guarda caso, consiste nel ripetere il destino del padre, assumerne le funzioni, ricalcarne la figura. Così, il giovane Brandon realizza il sogno del padre in Il cavallo d’acciaio (The iron horse, 1924); così la morte del vecchio ed amato Gwillym Morgan è il crudele suggello che chiude l’infanzia di Huw e spalanca la porta alla vita da adulti in Com’era verde la mia valle; così la morte dei genitori trasforma i tre banditi di In nome di Dio in tre padrini pronti al sacrificio pur di salvare il neonato loro affidato. Anche quando il padre non muore, è sempre una sua ferita, piena di significati simbolici, che permette al figlio di crescere: in Rio Bravo il giovane Yorke guadagna «sul campo» il diritto ad essere adulto strappando una freccia dalla spalla del padre: allo stesso modo in Sentieri selvaggi il giovane Martin Pawley viene nominato erede da Ethan Edwards dopo avergli estratto una freccia dalla spalla. Insomma in un modo o nell’altro è solo la castrazione del Padre Cronos che permette al giovane Zeus di affermarsi.

La mancata risoluzione del conflitto edipico e l’ambivalenza tra odio e amore per la figura del Padre sono alla base dell’ambivalenza fordiana nei confronti della famiglia e della madre. Ford ostenta una vera e propria religione della famiglia che sembrerebbe agli antipodi delle rappresentazioni tipiche della cultura moderna. Il regista sottolinea in ogni occasione l’importanza del mondo familiare con una fede tutta irlandese negli affetti e nella casa. Come ha scritto Bourget: «la memoria sfida il tempo e la famiglia… resta unita malgrado la separazione geografica e la morte» (J. L. Bourget, John Ford, Paris 1990, p. 75). Eppure, l’esibizione del culto della famiglia cela profondi problemi che prima o poi affiorano. Alcuni critici hanno messo in rilievo che la famiglia «non si risolve in un gruppo di persone legate da rapporti di consanguineità» e quindi «per divenire forza positiva ed arma sociale deve respingere le istanze arcaiche che ne provocano la regressione al rango di clan… dominato da un’autoritaria ed irsuta figura di patriarca». In realtà la famiglia suscita sentimenti contrastanti analoghi a quelli suscitati dal Padre; il calore umano, l’amore, la protezione che la famiglia assicura sono controbilanciate dalla chiusura verso l’esterno, da pregiudizi, soprattutto dalla ostilità verso chi è diverso dagli altri. Nella famiglia si ripete in picco¬lo ciò che avviene nella società: le prerogative dei singo¬li possono essere crudelmente schiacciate per colpa di ottuse incomprensioni o fanatiche persecuzioni. Agli outsiders come Ringo Kid o come Terangi in Uragano non resta che la via della fuga, come ai figli di Gwillym Morgan in Com’era verde la mia valle.

La famiglia è un luogo di tensioni e di conflitti: per questo è potenzialmente minacciata dalla disgregazione e dalla frantumazione in ogni momento. Anche se le cause della distruzione sono incarnate in forze esterne ai singoli, a ben guardare si comprende che le drammatiche vicende esteriori non sono che uno specchio delle lotte che si svolgono all’interno degli individui e del gruppo. Un caso tipico in tal senso è Furore. L’opera racconta l’epica odissea di una famiglia travolta da problemi economici e sociali. Ma forse è possibile anche un’altra chiave di lettura. Non a caso il film attenua la problematica sociale del romanzo di Steinbeck. A Ford interessa molto più il conflitto che c’è nei cuori degli uomini di quello che c’è al di fuori di loro. Il giovane Tom Joad è costretto ad assumere il ruolo del padre perché, come gli dice sua madre, il capo della famiglia è troppo vecchio e stanco per farlo. Costretto a crescere precocemente Joad è solo, in balia dei suoi istinti. La sua figura, segretamente, ha i tratti di Edipo, incapace di frenare i suoi desideri incestuosi. La riprova evidente di tale sfumatura edipica sta nella bellissima scena in cui Joad (Henry Fonda) come un galante fidanzato, fa danzare sua madre (Jane Darwell) prendendo il posto del padre. I due sono uniti da un’intimità profonda e commovente, che traspare attraverso il sorriso timido del figlio e l’espressione accorata della donna. Il ragazzo sussurra alla vecchia signora i versi della canzone che viene suonata, Red river valley. Tom, anziché dire: «you remember… the cowboy you loved so true» (cfr. Songs for America, a cura di H. Frey, New York 1941, p. 82), dice: «you remember.. the boy you have loved so true». Il ragazzo che ha sostituito il padre dice alla madre «ricorda il giovane che tu amavi». Solo, di fronte all’enormità dei suoi impulsi, Tom Joad è predestinato alla sconfitta. Uccide un tutore della legge e dell’Ordine. Ed è costretto alla fuga.

L’eroe fordiano vive nel continuo, lacerante desiderio della casa, la terra promessa. Ma difficilmente riesce a raggiungerla. Come ha detto Jacques Goimard: «Tutti i suoi personaggi senza eccezione sono degli sradicati che cercano eternamente il porto» (J. Goimard, cit. in J. P. Bourget, John Ford, p. 57) . Se riescono ad arrivarci, la loro felicità dura poco. Possono essere costretti a ripartire come Odisseo o Ethan Edwards di Sentieri selvaggi. E il sogno del Paradiso Perduto, del Tir na Og celtico, «senza dolore, senza tristezza, senza morte » è destinato a rimanere un sogno.

È qui la radice principale del conflitto irrisolto e della perenne dissimulazione fordiana. Vittima di un profondo dissidio interiore, strutturale alla sua personalità, Ford si preoccupa di nascondere ciò che lo fa eccellere e lo pone in contrasto con i sentimenti e gli ideali della sua famiglia. Per lui la figura dell’artista non ha i caratteri positivi del demiurgo: l’artista è uno sbandato, un outsider, un bohémien, un perdente. Uno dei tanti esuli che sognano di tornare alla terra promessa e che non riusci¬ranno mai a tornarvi. Ogni volta che nei film fordiani compare il personaggio dell’artista, esso ha i tratti del ciarlatano, come Granville Thorndyke in Sfida infernale o A. Locksley Hall in La carovana dei mormoni. Inoltre, l’artista suscita la violenza degli altri, che lo rifiuta¬no e lo aggrediscono moralmente e perfino fisicamente. È questo il destino dei due personaggi citati, e soprattut¬to è questo il destino riservato al grande Sean O’ Casey in un film che Ford non ha realizzato (è stato terminato da Jack Cardiff) ma che ha sceneggiato, Il magnifico irlandese (Young Cassidy, 1965). O’ Casey viene rifiutato dai suoi compatrioti che non accettano la sua brutale sincerità: la sua arte lo condanna alla solitudine.

Per tutta la vita Ford ostentò questa maschera, dimostrando la più scarsa considerazione per la vita da artista. Tale atteggiamento era considerato un vero e proprio blasone da esibire in pubblico, il segno sotto cui andava posta tutta la sua carriera. È proprio sotto tale insegna che si conclude la sua bizzarra e contraddittoria intervista a Bogdanovich: «L’unica cosa che avevo era l’occhio per la composizione (non so dove l’ho preso) ed era tutto ciò che possedevo. Da ragazzo pensavo che sarei diventato un artista: disegnavo e dipingevo continuamente e, in effetti, per essere così giovane lavoravo decisamente bene: perlomeno ricevevo un sacco di complimenti per quello che facevo. Ma non ho mai pensato a ciò che facevo in termini di arte, o “questa è una cosa magnifica”, o “avrà risonanza mondiale” o cose del genere. Per me si trattava sempre di lavori che dovevo fare, cose che mi piacevano immensamente, tutto qua».

Ford si traveste e dissimula i suoi veri sentimenti. A dispetto delle sue parole, il ragazzo che dipingeva e sognava di essere un artista è sopravvissuto. Ma è rimasto nell’ombra. Di ciò abbiamo evidenti testimonianze nei film fordiani. Non solo perché essi sono in gran parte delle opere d’arte e godono quindi dello statuto riservato ai capolavori. Ma anche e soprattutto perché in essi Ford tributa più volte un omaggio alla pittura, spia del suo antico amore giovanile. I critici hanno messo in luce solo occasionalmente le citazioni o le allusioni a quadri celebri e meno celebri dei film fordiani, sottolineando soprattutto i rapporti (ammessi da Ford) con come Frederic Remington (1861-1909). Ma nessuno ha fatto caso al rapporto strettissimo con un pittore che visse a poca distanza dalla sua casa quando egli era ancora un ragazzo: Wisnlow Homer (1836-1910).

Il pittore veniva da un’illustre famiglia del New England ed aveva gettato alle ortiche il suo rango per fare l’artista. Era un autodidatta che aveva fatto la gavetta presso un litografo e si era affermato molto giovane per il suo impegno di cronista en plein air della Guerra di Secessione. I suoi ritratti di Lincoln o dei sudisti prigionieri avevano avuto successo e l’avevano lanciato in America. Mai pago di se stesso, Homer andò in Francia e poté assistere allo scandalo delle mostre antiaccademiche di Courbet e di Manet. Tornato in patria, fece tesoro della lezione e iniziò a dipingere scene all’aria aperta che risentono del gusto realistico dei pittori francesi. Di nuovo in Europa, soggiornò in Inghilterra, a Tynemouth, dove si dedicò con un vigore degno di Victor Hugo a ritrarre con realismo le fatiche dei «lavoratori del mare». Celebre per i suoi quadri di pescatori e di donne che guardano sgomente il mare in tempesta, si stabilì a Prouts Neck nel Maine, dove visse per più di venticinque anni (fino al 1910), alternando lunghi soggiorni tra le nevi dell’Essex County e piacevoli viaggi in Florida e alle Bahamas. I quadri dell’ultimo periodo riflettono la duplice fonte di ispirazione della sua arte: da un lato i paesaggi maestosi della costa battuta dal vento del Maine; dall’altra il mondo pieno di colore e di vita di Nassau, di Cuba e della Florida, con i corpi guizzanti dei negri, l’incandescenza del cielo, la ferocia degli squali. L’arte realistica di Homer somiglia a quella di Courbet, scopertamente imitato. Franca, decisa, antiretorica, semplice e grandiosa, la sua pittura si può definire naturalistica, nel senso che mette in primo piano lo scatenarsi delle forze della natura e considera gli esseri umani quasi forze della natura essi stessi. Tuttavia non mancano in Homer altre influenze ed altri accenti: certe scene all’aria aperta risentono della lezione di Manet, così come certe raffigurazioni bucoliche risentono di Millet; e d’altro canto il vitalismo epico dei suoi pionieri, dei suoi soldati, dei suoi cacciatori stagliati sullo sfondo delle grandi montagne americane, ha un’intensità che fa pensare a Walt Whitman.

Nella vita di tutti i giorni, l’uomo era all’altezza della fama del pittore. Homer viveva in assoluta solitudine, sdegnoso di ogni onore accademico, fiero come Thoreau di bastare a se stesso, di provare a produrre da solo ciò di cui aveva bisogno. Le uniche persone con cui aveva rapporti erano, oltre ai parenti e agli amici fidati, gli umili abitanti della zona dov’era il suo cottage. Homer respingeva addirittura con villania i visitatori che giungevano da ogni parte dell’America; ma si compiaceva di sedere allo stesso tavolo dei pescatori e dei contadini che avrebbe ritratto nei suoi quadri. Disponibile con tutti, come si conviene ad un populista democratico, pronto ad aiutare il suo prossimo perfino nel lavoro manuale, Homer era benvoluto da tutti i suoi poveri compaesani ed era considerato una leggenda vivente.

Un personaggio del genere aveva tutti i requisiti per piacere a Ford. È possibile che il giovanissimo Ford abbia conosciuto Homer. Si ricorda infatti che il pittore ricevette a Prouts Neck, in una data imprecisata negli ultimi anni di vita, un misterioso ragazzino che gli mostrò i suoi disegni ed ebbe tali lodi e calorosa accoglienza, che fuggì via per la vergogna. Dal momento che il pittore riceveva solo amici fidati o abitanti del luogo, è verosimile che il ragazzino, che non era certo un amico, fosse uno che viveva in quella zona, qualcuno che dipingeva e disegnava quasi per caso e che non era abituato ai complimenti di un grande pittore, né alla disinvoltura di chi frequenta il mondo superiore dell’arte. Come Ford, che aveva sedici anni alla morte di Homer nel 1910. Ma anche se l’incontro non è mai avvenuto nella realtà, come possiamo negare che possa essere avvenuto nell’immaginazione? Homer era un mito: un grande pittore ed un uomo di cuore, un artista di fama mondiale ed un democratico aperto verso il popolo e sprezzante verso i borghesi delle puritane città del New England. Ce n’era abbastanza per affascinare un ragazzino di umili origini che sogna di «diventare un artista».

Ma a parte le idealizzazioni dell’adolescenza, la lezione di Homer è stata estremamente importante per l’estetica cinematografica fordiana. Il realismo di Homer, come il realismo di Maupassant, depura la materia trattata da Ford dal romanticismo e dall’enfasi, additando la via della schiettezza dell’espressione: se un personaggio o un gruppo di uomini compaiono in una posa che sembra del tutto naturale senza essere ieratica, anche se solenne ed epica, come gli indiani e i cavalleggeri de Il massacro di Fort Apache, questo è il frutto dell’assimilazione dell’arte di Homer, delle sue immagini senza retorica, maestose ma spontanee

Le allusioni a dipinti o incisioni di Homer sono molto frequenti nei film fordiani ed è singolare che non siano state messe in evidenza. Molte scene idilliche nei suoi film pagano un tributo alle rappresentazioni a carattere bucolico di Homer: la prima apparizione di Kate Danaher in Un uomo tranquillo (The quiet man, 1952) e l’esordio de Il cavallo d’acciaio sono in relazione a celebri acquerelli con scene pastorali (CFR FOTO).

 

La lezione di Homer è visibile anche nelle raffigurazioni di gruppi di donne in ansiosa attesa di qualche evento fatale, come il terzetto de Il massacro di Fort Apache simile al terzetto di A voice from the cliffs o come le squaw de Il grande sentiero simili alle mogli dei pescatori col capo coperto dei Perils of the sea. In altri casi i quadri di Homer offrono un prezioso punto di riferimento per l’inquadratura, con soluzioni prospettiche analoghe: così ad esempio le ultime scene del film Le ali delle aquile (The wings of the eagles, 1957) che mostrano Spig Wead trasportato in salvo da una nave all’altra grazie a un carrello sospeso su due funi sono in relazione con il celebre quadro di Homer di un salvataggio grazie a un carrello su due funi chiamato The life line .

Homer è il nume tutelare di Ford. Come Virgilio nella Commedia accompagna severo e silenzioso il suo pupillo, mostrandogli l’erta via della salvezza e insegnandogli l’arte di disporre le figure in gruppo senza enfasi, anche se sono in una posa plastica; o l’arte di inquadrare una scena, di scegliere il punto di vista più vantaggioso, lo scorcio più originale. Ma a differenza di Dante, Ford non osa nominare il suo maestro, esprimere la sua gratitudine, il suo rimpianto. Ce ne sarebbe stato motivo. Homer era un nobile esempio per un uomo come Ford: il Padre che avrebbe desiderato avere. E c’è di più: una volta appresa la lezione, l’allievo può superare il maestro. Imparato il segreto del realismo pittorico, Ford può avviarsi sulla strada dell’istantanea, che coglie l’essenza del movimento o l’anima di un volto con l’impassibile occhio dell’osservazione diretta. Può raccontarci una storia in un’immagine, come quando ci fa vedere la vecchia Ma Joad che si prova gli orecchini della giovinezza in Furore. Così Ford, nato alla fine dell’Ottocento, entra a buon diritto nel Novecento e nell’arte moderna. Il suo sguardo senza veli è pieno di quella desolata pietà che porta alla luce della ribalta le figure senza storia, le esistenze futili o sprecate che popolano i quadri di Degas. Non a caso il celebre L’assenzio è un modello iconografico più volte citato in Ombre rosse (CFR FOTO QUI SOTTO).

Se tutto ciò che abbiamo detto è vero non possiamo meravigliarci della presenza esplicita di riferimenti alla psicoanalisi da parte di un regista così tormentato. Una simile affermazione può sembrare incredibile: che cosa c’entra la psicoanalis col western? a psicoanalisi diffida del western. L’aria aperta, il gusto per l’azione, le sparatorie, i duelli, le spacconate, il maschilismo…Che cosa ha che vedere tutto questo con l’analisi dell’inconscio? Non si tratta, in fondo, di un intrattenimento superficiale fatto di personaggi stereotipati e di storie a cliché? A ben guardare, le cose non stanno così. Le storie western sono paragonabili alle storie della Commedia dell’Arte italiana. Il principio guida è quello della variazione sul tema: il pubblico si affeziona alle infinite rielaborazioni di trame e maschere fisse che gli permettono di divertirsi senza pensare, di identificarsi senza riserve, di sognare senza paura. Ecco, il western delle origini è questo: un meraviglioso congegno che genera emozioni, una macchina straordinaria che fa piangere o ridere senza freni, una fonte di divertimento e di intrattenimento senza limiti. In una parola, spettacolo allo stato puro. Dunque non dobbiamo disprezzare le sparatorie, gli inseguimenti, le forti tinte, il manicheismo del western: è questa la materia di cui sono fatti i sogni di esseri umani che hanno diritto ad essere ascoltati.

Ma se questo è vero come dobbiamo guardare al western? Dobbiamo rinunciare alle profondità metafisiche di un dialogo degno di Ingmar Bergman e dobbiamo stare attenti ai dettagli, agli sguardi, ai sentimenti, alle parole che non sono mai dette. Prendiamo un capolavoro di John Ford: Sentieri selvaggi. Ethan Edwards, un razzista spietato, insieme a Marty, un trovatello con sangue indiano, cerca forsennatamente la nipote Debbie, rapita dai comanches e sposata al capo tribù Scar: non vuole salvarla, vuole ucciderla per lavare il disonore e vendicarsi degli indiani. Ma al momento in cui la ritrova dopo un’autentica odissea durata anni e anni, viene sopraffatto dal sentimento e segue il consiglio di Marty: salva la ragazza e la riporta a casa.

Ridotta all’osso la storia è tutta qui. Ma se sappiamo guardare scopriamo ben altro. I critici hanno notato più volte che il capo indiano Scar è rappresentato come una sorta di “doppio” di Ethan. In questo modo la lotta tra due individui opposti è simbolicamente la lotta di un solo individuo con sé stesso: il bianco civilizzato e represso se la prende con il suo alter ego selvaggio e disinibito, con la sua ombra, perché realizza ciò che egli desidera e non osa confessare: l’incesto con la nipote. Il conflitto di Ethan è dunque una sorta di allegoria del conflitto tra l’Io e l’Es.

Nel film ci sono molti messaggi cifrati di questo genere, comprensibili solo se si conoscono Ford e Freud. Perché Ethan non riesce mai a spendere i suoi soldi e alla fine gioca compulsivamente con una monetina? Perché pur conoscendo benissimo la cultura degli indiani e parlando bene la lingua comanche è razzista? E Scar, il grande capo, perché è così cattivo? Perché ha la collana che Ethan ha regalato alla nipote? E perché Debbie ha perduto la sua bambola? Perché Debbie dice che i comanches sono la sua famiglia? Perché Marty non riesce mai a coprirsi con una coperta e si arrabbatta sempre combinando pasticci? E perché alla fine è solo grazie a lui, il bastardo con sangue indiano, che il conflitto tragico si scioglie?

E’ impossibile rispondere a queste domande in poche righe: posso solo suggerire qualche idea al lettore, rimandandolo a studi più approfonditi sull’argomento (Le maschere della malinconia. John Ford tra Shakespeare e Hollywood, Bari, Dedalo, 1994; Searching his soul: John Ford et la mort de l’Objet Transitionel, in Proceedings of the Eleventh International Conference on Literature and Psychoanalysis, Lisboa, ISPA, 1994, pp. 207-212). Il filo conduttore del film è la perdita dell’oggetto transizionale e con esso la perdita dell’infanzia, dell’illusione e della speranza. I personaggi del dramma infatti sono vittime di traumi violenti che distruggono le loro illusioni “transizionali” e li inchiodano in un furore in cui non è possibile alcuna “transizione” e alcun futuro. Ethan, che era amico degli indiani, ha avuto la madre uccisa dai comanches (lo sappiamo da una lapide su una tomba: basta saper guardare con attenzione!) che uccideranno anche la donne che amava in segreto e porteranno via sua nipote, trasformandolo in un bruto assetato di vendetta; Scar, che ha avuto i figli assassinati dai bianchi, sa solo uccidere e odiare e strappa feticisticamente scalpi ai bianchi in cambio dei figli perduti, senza riuscire mai a andare in pareggio in questa macabra contabilità; Debbie, che ha perso l’infanzia e la sua bambola, ha solo l’imbarazzo della scelta tra la schiavitù al servizio del suo rapitore e l’assassinio da parte dello zio; e Marty, che ha perso i genitori e perde la famiglia che lo ha adottato, non riesce mai a coprirsi perché non sa che cosa sia la “coperta di Linus”. In questa condizione è sintomatico che il denaro di Ethan non sia mai speso: senza la “transizione” non c’è più “transazione”! Ed è altrettanto significativo che sia un ragazzo senza famiglia e senza onore colui che sa amare con più sincerità: colui che risolve tutto con un gesto impulsivo, lo slancio di chi non ha da perdere neppure le sue catene.

A conferma dell’atmosfera “freudiana” del film vanno segnalate due “citazioni” da opere a carattere psicoanalitico, che nessuno ha mai notato. La prima è nella bellissima scena in cui Ethan salva la nipote: il gesto che fa l’uomo è una chiara citazione dal celebre I misteri di un’anima di Pabst.( Foto 3).

Ethan solleva in alto Debbie esattamente come il protagonista del film di Pabst, che solleva la figlia, alla fine dell’opera, dopo essere guarito dalle sue ossessioni grazie alla psicoanalisi. La seconda “citazione” è quella di un saggio giovanile di Freud, Le neuropsicosi da difesa (Ossessioni, fobie e paranoia, Roma Newton Compton 2006, pp. 15-27), nel quale compaiono due personaggi femminili che ritroviamo del film: la prima è “la madre che si è ammalata per la perdita di un figlio ed ora culla incessantemente un pezzo di legno tra le sue braccia” (p. 26) protagonista di una scena drammatica, tra le donne bianche salvate dai soldati americani; la seconda è “la sposa abbandonata, che abbigliata col vestito da sposa, aspetta da anni il promesso sposo”(ibid.) che non è altri che Laurie, l’eterna fidanzata di Marty che lo aspetta per anni e anni e alla fine rivede Marty vestita con l’abito delle nozze (anche se la sua intenzione sarebbe stata sposare un altro).

Qualcuno potrebbe chiedersi: com’è possibile che un uomo come Ford, che si faceva passare per semianalfabeta ed era amico di personaggi non certo intellettuali come John Wayne, potesse conoscere Freud e le sue dottrine? Gli increduli devono ricredersi. Guardate con attenzione (la solita “dovuta attenzione) un altro film di Ford, L’Ultimo urrà: nell’ufficio di uno spudorato Spencer Tracy, che recita la parte di un vecchio marpione della politica, c’è il ritratto di Freud. E’ questo il nume tutelare dei vecchi volponi che si sono fatti da sé e che devono nascondere la loro cultura, la loro vulnerabilità, la loro fragilità psichica, siano essi i Tribuni della Plebe dal cuore d’oro come lo Skeffingon di Spencer Tracy o gli autodidatti che vengono dalla gavetta come Ford, che si faceva passare per ignorante perché aveva paura, in un mondo di pescecani, di essere giudicato debole ed effeminato se dimostrava di un uomo colto e sensibile (CFR FOTO SOTTO).

Freud è onnipresente nei film di Ford, anche se sotto mentite spoglie. E’ presente nel geniale Pilgrimage, nel quale la madre tiranna ammette, in un amaro monologo, di aver provocato la morte del figlio per il suo morboso attaccamento edipico. E’ presente nel meraviglioso Judge Priest, che sembra un’allegoria del concetto freudiano di Apres-coup. E’ presente nel pirandelliano, struggente, bellissimo L’uomo che uccise Liberty Valance, che ripropone un’altra volta il tema del doppio, del sosia, dell’alter ego (che Ford peraltro affronta anche in altri film, come Tutta la città ne parla).

Gli esempi si potrebbero moltiplicare ma non c’è lo spazio per esaminarli adeguatamente. Nei limiti consentiti da quest’articolo è necessario, comunque, rispondere a una legittima domanda: da dove veniva l’infarinatura psicoanalitica di Ford?

Innanzi tutto va considerato l’influsso della cultura espressionista tedesca. Ford fu sempre un grande ammiratore dei registi tedeschi come Lang, Murnau e Pabst e studiò le loro opere con cura. Nel 1927 ebbe occasione di visitare gli studi dell’Ucla di Berlino e si fece proiettare in una saletta privata tutti i capolavori dell’espressionismo, in compagnia di Friederich Murnau che fu prodigo di spiegazioni e commenti: tra le opere proiettate c’era anche il discusso I Misteri di un’anima girato l’anno prima da Pabst.

Un’altra occasione per Ford di familiarizzarsi con Freud fu offerta dal lungo rapporto con lo sceneggiatore Dudley Nichols. Raffinato intellettuale, Nichols scrisse e diresse film esplicitamente ispirati dalla psicoanalisi, intrattenendo un rapporto personale con un autore altrettanto ispirato dalla psicoanalisi, il drammaturgo O’Neill.

Ma oltre a ciò ed oltre alle informazioni tratte dalle sue letture, sterminate anche se mascherate, Ford ebbe un’altra fonte di ispirazione insospettata in casa propria. La moglie Mary aveva infatti lavorato da giovane in una clinica che curava le nevrosi da stress postramuatico dei reduci delle battaglie sul fronte europeo. Testo base delle infermiere di questo genere era in quegli anni il manuale Shell shock and his lessons di Grafton Elliot Smith e di Tom Hatherly Pear, pubblicato a Londra nel 1917 che prendeva esplicita posizione a favore di Freud e ne divulgava le teorie.

Chi l’avrebbe detto che per John Ford il Toro, il timido spaccone che ostentava pose da bullo e non perdeva occasione per dire di essere ignorante, incolto e rozzo, la psicoanalisi era roba “fatta in casa”?

Ford il Toro, il timido spaccone che ostentava pose da bullo e non perdeva occasione per dire di essere ignorante, incolto e rozzo, la psicoanalisi era roba “fatta in casa”?

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