Città in svendita: l’impero della finanza urbana e il suicidio democratico
di Mario Sommella (*)
C’è un filo rosso – anzi, dorato – che collega le trasformazioni urbane di Milano agli assetti emergenti di molte città italiane ed europee: la finanziarizzazione integrale dello spazio urbano. Non è più la città a plasmare la vita dei suoi abitanti, ma la rendita a modellare la città secondo i desideri di chi detiene capitale, fondi d’investimento e algoritmi predatori.
Il “modello Milano”, finito oggi al centro di nuove inchieste giudiziarie che coinvolgono l’assessore Tancredi e l’imprenditore Catella (Coima), non è il fallimento di una politica urbanistica: è il successo pieno di una strategia neoliberale che ha scelto di abbandonare ogni funzione pubblica in nome del profitto.
Dietro le vetrine scintillanti di Porta Nuova e CityLife si cela infatti una guerra silenziosa: quella contro gli abitanti reali, contro i lavoratori, contro i quartieri popolari, contro la partecipazione democratica. Un conflitto senza sangue ma dagli effetti letali, che ha già prodotto sfratti di massa, desertificazione sociale, iper-gentrificazione e un aumento sistemico delle disuguaglianze. La parola d’ordine è “valorizzazione”, ma il significato autentico è esproprio: dei beni comuni, del diritto alla casa, dello spazio pubblico.
La città come asset finanziario
Milano è solo l’archetipo di un meccanismo ben più esteso: la città trasformata in un asset class, una categoria d’investimento come lo sono le miniere, i derivati, le fonti d’acqua. Non si progettano quartieri, si assemblano pacchetti immobiliari da piazzare sui mercati globali. Non si costruisce per abitare, si edifica per vendere, ipotecare, rivendere. Ogni edificio deve essere redditizio, ogni strada deve attrarre investimenti, ogni metro quadro deve produrre plusvalore.
In questo scenario, le amministrazioni comunali smettono di essere organismi di governo per diventare “facilitatori” del capitale. Le “semplificazioni” normative, evocate come modernizzazione, sono in realtà processi sistematici di deregolamentazione che abbattono le difese sociali e ambientali, aggirano la pianificazione democratica, neutralizzano ogni possibilità di conflitto e partecipazione. La politica urbanistica diventa una questione privata, affidata a tecnici, advisor, banche d’affari e studi legali. I cittadini? Ridotti a spettatori passivi o espulsi oltre la tangenziale.
Il linguaggio della truffa: rigenerazione, resilienza, sostenibilità
A rendere ancora più insidioso questo processo è il lessico usato per giustificarlo. Le parole che un tempo evocavano emancipazione – “rigenerazione”, “resilienza”, “inclusione” – sono oggi le maschere di una predazione pianificata. Ogni piano di trasformazione urbana si presenta come “green”, ogni progetto come “smart”, ogni insediamento come “sostenibile”. Ma sotto questi slogan si cela spesso la logica della svendita: vendere aree pubbliche a privati, costruire grattacieli in cambio di parchetti verticali, chiudere mercati rionali per aprire food courts da 20 euro al panino.
E mentre le città diventano vetrine per il turismo di lusso e i grandi eventi internazionali – Expo, Olimpiadi, Cop – cresce il divario tra centro e periferia, tra chi può vivere in città e chi è costretto a fuggirne. I lavoratori dei servizi, i migranti, le famiglie monoreddito, i giovani precari vengono cacciati da un mercato immobiliare che non ha più nulla di urbano, se per urbano intendiamo il diritto alla città.
Roma, Napoli, Bologna: l’epidemia si allarga
Il vero dramma è che Milano non è un’eccezione, ma un paradigma esportabile. Napoli, Torino, Bologna, Roma stanno adottando lo stesso modello. Sotto la retorica della “semplificazione” si replicano gli stessi meccanismi: riduzione delle funzioni pubbliche, esternalizzazioni selvagge, alienazione del patrimonio comune, creazione di “cabine di regia” fuori controllo democratico. Le città vengono gestite come start-up territoriali, in cui il cittadino è un cliente e l’amministrazione un’agenzia di marketing territoriale. Lo spazio urbano diventa il teatro di una guerra per attrarre investimenti esteri, speculazioni immobiliari e flussi turistici di breve durata. E chi si oppone, viene bollato come “nemico del progresso”.
Ma questo progresso è velenoso. Come ricorda la denuncia dei magistrati, la linea di confine tra lobbying legale e corruzione strutturale è sempre più sottile. I grandi player finanziari si muovono con gli strumenti del potere morbido: cooptazione delle élite locali, produzione di “visioni strategiche” a uso e consumo delle rendite, controllo delle informazioni e dell’agenda pubblica. La trasparenza viene erosa, il dissenso silenziato, la pianificazione svuotata.
Verso una nuova urbanistica popolare
Contro questa deriva, occorre ricostruire una nuova idea di città, fondata non sul valore di scambio ma su quello d’uso. Un’urbanistica dei bisogni, non dei profitti. Un’idea che restituisca centralità alla pianificazione democratica, al diritto alla casa, alla tutela del paesaggio, all’equilibrio ambientale. La città non può essere un campo di battaglia per l’estrazione di rendita, ma deve tornare a essere un laboratorio di convivenza, equità, giustizia sociale.
Il “modello Milano” non va solo smascherato: va respinto, rifiutato, disinnescato. Non con la nostalgia delle città che furono, ma con l’intelligenza collettiva di chi sa immaginare alternative. Perché un’altra città è possibile. E non ha bisogno di grattacieli.
(*) Tratto da Un blog di Rivoluzionari Ottimisti.
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Bibliografia e fonti consultate:
• Lucia Tozzi, Il modello Milano: la finanza padrona del territorio, Il Manifesto, 17 luglio 2025
• David Harvey, Beni comuni e diritto alla città
• Saskia Sassen, Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale
• Anna Marson, Città pubblica. Per una nuova urbanistica
• Urbanistica Informazioni, INU, n. 303
• Dati Istat su prezzi immobiliari, disuguaglianze e popolazione urbana
• Osservatorio Nazionale sulla Rigenerazione Urbana – Legambiente e INU (2023–2025)
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