Compagno zombi

Un horror di fantapolitica proletaria: prima parte (*)

di Gianni Sartori  

 

UN’ORDA FAMELICA, IN VIA DI DECOMPOSIZIONE, SI AGGIRA PER IL PIANETA…

Prologo? No, ma nemmeno conclusione

(anno settimo dall’inizio della Grande Tribolazione Olistica)

Non c’era brezza del mattino a far sventolare le stracciate, consunte bandiere e l’erba, morta e ingiallita, non ondeggiava.

Ma la brina (o forse galaverna) stava gelata sui rami offuscati da nebbia e fumo e i caprimulghi si lamentavano nella boscaglia. Avanzarono nella deserta spianata dove il Collettivo Autonomo Metropolitano Apocalittico aveva scelto di immolarsi.

Nebbia, brina e fumo…meglio che niente” pensava Militant 5 srotolando dall’asta un drappo rosso, ancora listato a lutto per l’ultimo caduto che si era trovato il tempo di seppellire decentemente.

La circostanza richiedeva comunque un minimo di solennità. Si guardarono, riconoscendosi gli uni negli altri forse per l’ultima volta. Come e cosa sarebbero stati nei giorni a venire? Un’anonima, reciproca comunanza di intenti, una radicale condivisione di risorse alimentari? “Se l’uomo è ciò che mangia – ragionava – tanto più doveva valere per gli zombi”.

O sarebbero forse divenuti automi posseduti da un eterno moto inconsapevole, perennemente affamati e mai sazi?

Militant 5 osservò che molti compagni, apparentemente decisi e determinati fino alla sera prima, fino all’ultima assemblea, avevano approfittato del buio per defilarsi. Inevitabile, pensò: la coscienza politica è fragile, quello delle sirene capitaliste e riformiste resta pur sempre un forte richiamo, anche quando rimane poco o niente su cui illudersi. Ma forse, concluse, era solo un malinteso spirito di sopravvivenza che tradiva una sostanziale incapacità di superamento.

E ora? La totale condivisione, la scomparsa di ogni gerarchia, di ogni forma di sfruttamento, accumulazione e profitto? La fine dello “stato di cose presente” e del suo indispensabile corollario, lo Stato?

Finalmente quel “Tutti o Nessuno!” sempre auspicato insieme al “Tutto o Niente!”? Anche se da ora in avanti quel “Tutto”, presumibilmente, non sarebbe stato altro che un brandello di carne, interiora da spartirsi, in un concerto primordiale di versi gutturali…(“sempre meglio che il Niente”, si sforzò, invano, di pensare).

Si avviarono; un fiacco tentativo di canto corale, dissoltosi in pochi passi, fu sufficiente per risvegliare l’istinto antropofago dell’Orda. Maschere di volti decomposti e insanguinati si animarono febbrili alle voci provenienti dalle nebbia. Volgendosi verso il suono indistinto, l’Orda avanzò brancolante sommergendo la piccola coorte di militanti. L’incontro ravvicinato smorzò ogni residuo entusiasmo per l’abbraccio fatale e lo sbandamento fu notevole, per quanto tardivo.

Eppure l’amato leader, il “Vecchio Negro” l’aveva spiegato fuori da ogni ragionevole dubbio: la conclusione non poteva essere che un definitivo “andare al Popolo”, ricalcando le antiche orme dei populisti russi. Andare dove ogni sovrastruttura era stata cancellata, ogni inganno sociale smascherato, ogni contraddizione travolta; condividendo e confondendosi con i totalmente diseredati, espropriati, proletarizzati, alienati: gli Zombi.

Unirsi, anima e corpo, soprattutto corpo, al Nuovo Proletariato che svelava finalmente il suo volto autentico, anonimo e terribile. Non più “in sé”, ma “per sé” (o magari “completamente fuori di sé”, aveva commentato caustico Militant 9, subitamente messo al muro per questa imperdonabile deviazione di destra). Meno che mai era poi stata sollevata la questione del sostanziale interclassismo vigente nell’orda zombi. Già superata (in cuor suo Militant 5 pensava “accantonata”) da quando al Proletariato si era sostituita la Multitudine (al leader piaceva la forma arcaica) come soggetto collettivo di riferimento per radicali trasformazioni sociali, quelle che in passato venivano pomposamente chiamate “Rivoluzioni”. Quale che fosse l’origine sociale di qualsivoglia zombi, ora e per sempre era soltanto zombi.

Qualche perplessità era sorta soltanto quando l’amato leader aveva annunciato, con signorile indifferenza: “personalmente resterò al di qua delle linee”. Certo, per studiare i processi di definitiva dissoluzione del capitalismo, osservarne le convulsioni finali, controllare che “tutto proceda secondo il piano” e per eventuali aggiustamenti al fine di garantire comunque la vittoria finale.

Un sacrificio – spiegò – a cui mi sottopongo con dedizione rivoluzionaria e per il bene della causa, ca va sans dire”.

Militant 5 si era chiesto se nella nuova, estrema e definitiva condizione avrebbe ancora riconosciuto il verbo dell’amato leader o se tutto invece sarebbe apparso smorzato e attutito, un “eterno meriggio” (o meglio: vespro) avvolto nelle ombre, ma privo comunque di dubbi, incertezze o paure.

Ma non appena lo seppe, smise anche di saperlo.

CAPITOLO PRIMO

COSI’ ERA COMINCIATA…

(da qualche parte, in qualche momento…)

Anche se nessuno sembrava rendersene conto, tantomeno ammetterlo, tutto era stato chiaro fin dall’inizio. Qualunque cosa li avesse generati (un maleficio, l’inquinamento chimico e/o elettromagnetico, esperimenti biotecnologici avventati, influenze astrali negative, internet, i Rettiliani o il Guardiano del Faro…) erano quanto di più simile agli zombi fosse mai apparso sulla Terra.

Zombi, semplicemente zombi. Niente di più e niente di meno. Una premonizione, una profezia con cui letteratura e cinema si erano gingillati e trastullati a lungo. Fino a quando si era fatalmente avverata.

Come in qualche incubo di serie B, proliferavano stile pestilenza invadendo implacabilmente ogni angolo del pianeta. Il vicino di casa, la baby sitter, il commesso del negozio, il parroco, la vecchia zia invalida…da un momento all’altro trasmutavano in esseri scomposti, vaganti e gorgoglianti, aggressivi e famelici. Per alcuni l’incubazione era durata pochi giorni. Altri in un primo tempo sembravano immuni, apparentemente almeno. Ma intanto, portatori sani, infettavano le persone vicine. Quando la cosa prese forma e adeguata consistenza nelle menti intorpidite delle masse intorpidite era troppo tardi. Cresciuti in maniera esponenziale, gli zombi, sbavando e mugugnando, sciamavano ovunque.

Chi era troppo lento, sovrappeso o sovrappensiero finiva rapidissimamente morto e talvolta anche sepolto. Ma per poco. Non proprio tutti, ma quasi, erano sempre di più coloro che “risorgevano”.

Incredibile, ma solo per chi prima ci credeva, il modo in cui si estinsero le istituzioni, le chiese, le banche, le polisportive, gli eserciti, gli stati.

Quasi fossero stati soltanto fantasmagorici ed effimeri ologrammi. Per qualche giorno ressero ancora, ma poi l’irruzione nuda, cruda e soprattutto cruenta della nuova realtà spazzò via insieme a ogni sovrastruttura anche ogni sua rappresentazione. Fine dello Spettacolo e anche della sua Società.

Mentre la malinconia divorava gran parte dei superstiti, non mancavano considerevoli eccezioni. In alcuni l’inedito scenario sembrava suscitare energie latenti, quasi una scarica perenne di adrenalina. Li vedevi allora lanciarsi, ricoperti di improvvisate armature, alla caccia di zombi isolati.

Ben presto gruppi organizzati alquanto eterogenei (composti da ex militari, ergastolani evasi, direttori di banca disoccupati, trafficanti di carne e manager di estinte multinazionali), quasi non attendessero altro, si dedicarono a una sistematica opera di sterminio. E non solamente di zombi. Anche molti superstiti rimasti a vagare per le desolate (già da prima, ma ora si notava di più) poltiglie urbane di sconfinate periferie, una metastasi di capannoni, autostrade, discariche, inceneritori e basi militari, caddero attoniti sotto i colpi delle nuove milizie. “Par condicio”, la chiamarono con macabra ironia.

O anche “la prosecuzione della guerra e della concorrenza di mercato con altri mezzi”.

Solo col tempo e la crescita esponenziale di zombi e affini, rastrellare le metropoli diffuse e le campagne urbanizzate divenne uno sport un tantino più pericoloso dei safari africani. Dopo i cimiteri cominciavano a rianimarsi anche le catacombe, le fosse comuni, gli ossari militari e perfino qualche necropoli preistorica sfuggita agli scavi dei ricercatori.

Averlo saputo prima sarebbe stato quanto mai opportuno praticare la cremazione, l’incenerimento di massa. Ma naturalmente “del senno di poi son piene le fosse” che ora appunto si andavano svuotando.

Si videro cadaveri ambulanti ricoperti, magari solo in parte, da brandelli di abiti inequivocabilmente risalenti a qualche secolo precedente, poi da cigolanti armature medievali, elmi frastagliati, tuniche e gambali. Attorno ai fuochi si raccontava che da alcune grotte sulle colline di tanto in tanto fuoriusciva anche qualche perplesso gruppetto di neandertaliani, tutto sommato tra i meno aggressivi, bisognava pur dirlo. Parallelamente al numero di zombi in attività crescevano anche i rischi. Una giornata di nebbia, una imprevista variante del percorso, la perdita dell’orientamento, una banale storta, magari cacciarsi in un tunnel… e da cacciatori ci si ritrovava di colpo nello scomodo ruolo di preda, inerme e appetibile. Tra un’incursione e un agguato, alcuni superstiti si arroccavano ai piani alti dei vasti Ipermercati e Città commerciali – così familiari e rassicuranti, con scaffali e magazzini ancora riforniti di merci di ogni genere – o nei vasti capannoni vuoti (abbandonati già da molto prima dell’invasione zombi, sintomo terminale di una malattia cronica: il capitalismo), spalmati a centinaia su quanto rimaneva delle campagne in agonia. Murando ogni apertura e lasciando solo una via di entrata e uscita, difesa da barricate e controllata da uomini armati, speravano di potersi isolare, almeno temporaneamente, dalla generale Apocalisse. Nelle poche finestre che non vennero ermeticamente chiuse furono installate solide inferriate Con il tempo le sortite all’esterno non furono più spedizioni di caccia agli zombi, ma rapide incursioni per recuperare viveri e rifornirsi di acqua. L’ipotesi di mangiare, in mancanza di meglio, anche qualche zombi ben cotto, venne universalmente scartata per timore del contagio. Il virus, se di virus si trattava, poteva essere in perenne mutazione e resistere anche alle temperature di spiedi e barbecue.

La speranza che gradualmente si estinguessero per inedia venne delusa. Soprattutto nei primi anni, i più devastanti, quando l’umanità comunemente intesa rischiò veramente di estinguersi, pareva che aumentassero a dismisura, ormai vera specie dominante. Evidentemente erano ben altre le forze oscure che li alimentavano, forze che in qualche modo sembravano sfuggire alle leggi della biologia. Varie leggende, mai seriamente verificate, venivano raccontate attorno ai fuochi dei bivacchi da improvvisati cantastorie.

Quasi tutti attribuivano una data e un’ora precise e inquietanti a quando il dramma era iniziato: le sei di mattina del 6 giugno!

Anche nelle menti più razionali e positiviste prendeva via via consistenza la convinzione che le mostruose creature fossero possedute da entità di altre dimensioni. Entità che si nutrivano più della paura e del terrore che della carne e del sangue, o meglio della paura e del terrore che insaporivano i corpi terrorizzati di quanti venivano sbranati. Come potessero emergere dalle oscure lande infernali dove risiedevano da sempre, attraverso quali varchi, era oggetto di acceso dibattito (sempre intorno ai fuochi da bivacco).

Presso alcune sette divenne pratica abituale l’esegesi di due-tre libri ritenuti profetici, o quasi.

Alcune rare copie erano miracolosamente scampate sia ai roghi preventivi della rifondata Santa Inquisizione che al largamente diffuso uso improprio dettato dalla necessità: il riscaldamento quotidiano, un’emergenza planetaria.

In particolare venivano consultati “Il mattino dei Maghi” di Pauwels e Bergier e “Il libro dei dannati” di Charles Fort. Molto apprezzato anche “La luce di Orione” dove un certo Valerio Evangelisti, quasi sicuramente uno pseudonimo, saccheggiava svariati sottoprodotti della meccanica quantistica, teorie elaborate da oscuri neo-alchimisti come A. Aspect, R. Ruyer e R. Sheldrake.

Fornendone nel contempo una versione accessibile anche alle larghe masse abbruttite. Grazie al lavoro di pazienti amanuensi questo romanzo, sicuramente un caso di camouflage, ritornò in circolazione, se pur in ambiti ristretti, rianimando astruse e dimenticate teorie come il “tempo universale”, la quarta dimensione, la “mente estesa”, la correlazione tra particelle, la risonanza morfica, l’esistenza di Dio.

Visto e considerato poi che la diffusione degli zombi procedeva esattamente come le antiche pestilenze, non mancavano i cultori di un testo divulgativo e di facile lettura: “Il quarto cavaliere” di A. Nikiforuk.

Ma comunque, pontificavano i Nuovi Filosofi Catastrofisti di scuola francese, in qualche maniera dovevano entrarci i computer e Internet. Se non proprio scientificamente accertata, l’ipotesi era almeno accreditata come probabile. Ma attraverso quali inedite e oscene alchimie? Questione, ormai, puramente accademica. I morti-viventi popolavano il pianeta e parevano intenzionati a rimanerci chissà per quanto tempo ancora. Non era il più momento di porsi domande, ma di sopravvivere. O almeno di provarci, qui e ora.

Per quanto scarsamente prese in considerazione, circolavano anche altre ipotesi, qualcuna al limite dell’assurdo (ma in questa storia l’assurdo è di casa, quindi…).

Con una certa dose di macabro umorismo, magari involontario, una setta esoterica produsse un comunicato sostenendo che si trattava soltanto di “segni premonitori che preannunciavano la vera Apocalisse”. Chissà, magari voleva essere rassicurante…

Un altro movimento eretico, di matrice buddista, propose una interpretazione più condivisibile. La condizione di zombi non sarebbe altro che un “concentrato di karma negativo”. Ossia, in soldoni: l’interessato ne aveva combinate tante e tante, tra questa vita e quelle precedenti, che perfino reincarnarsi in lombrico sarebbe stato troppo onorevole. Quindi non restava che farne uno zombi. Non chiarivano però se in tal maniera si acquistassero punti-premio per vedere migliorata la propria condizione futura. “Almeno rinascere lucertola, cazzo!” si udì commentare un adepto ancora piuttosto grezzo.

Soltanto dopo decenni emerse una plausibile, per quanto confusa, spiegazione. Se non proprio dalle origini, da un certo punto in poi lo zombi, quello cinematografico, era diventato simulacro della classica valvola di sfogo. Il rientro, blandamente camuffato, del politicamente scorretto nell’immaginario collettivo.

Comportamenti universalmente – e ipocritamente – sotto perenne ostracismo riemergevano sotto mentite spoglie. Nei film, nei video-clip…da tempo non era più possibile assistere a quei superbi, grandiosi massacri di “indiani, “selvaggi”, “musi gialli” che avevano fornito una compensazione virtuale all’addomesticamento coatto delle masse popolari. Si era provato a sostituirli con allegre stragi di alieni, ma non funzionava. Troppo “alieni” appunto. Meglio gli zombi, abbastanza umani nell’aspetto da gratificare lo spirito di violenta rivalsa, di sadismo superficialmente rimosso che tuttavia continuava a scorrere, carsicamente, nelle menti e nei cuori delle moltitudini frustrate e insoddisfatte.

Dalla convergenza tra imprenditori rampanti, ben disposti a finanziare il progetto che prometteva utili favolosi e un ceto politico pronto a tutto pur di conservare il controllo sulla popolazione, sgorgò l’idea per rendere la cosa ancora più funzionale: costruire una rete di parco-zombi dove consentire il libero sfogo degli istinti primordiali in costosi safari organizzati. Ottima sia come compensazione esistenziale di massa, sia come fonte di profitto.

Mancava solo la materia prima, gli zombi. Si scoprì che in realtà un laboratorio militare li produceva da tempo anche se non in quantità industriale. Effetto collaterale, materiale di scarto di esperimenti mai giunti a buon punto. E allora, invece di continuare a sprecarli nei forni crematori, perché non impiegarli come attrazione di un parco a tema? Per il nome si ricorse, con evidente mancanza di fantasia, al già collaudato e classico “Zombieland”.

Ma poi doveva essere accaduto qualcosa: una massiccia fuga improvvisa? Un contagio? O forse la deliberata scelta di metterne un certo numero in circolazione in qualità di “arma di distrazione” pensando che comunque si potevano tenere sempre sotto controllo?

Come si ebbe modo di constatare, le cose ben presto sfuggirono di mano e andarono assai diversamente. Avvenne quanto era già accaduto con l’eroina nel secolo precedente. Distribuita nei ghetti per disinnescare probabili rivolte sociali, dilagò ben presto anche nei quartieri alti.

E così fu per gli zombi.

L’arma di distrazione divenne presto arma di distruzione, travolgendo come una nemesi barriere e steccati, divieti e posti di blocco, frontiere e reticolati. Quanto agli audaci imprenditori, la loro sorte fu alquanto triste, meritatamente.

Uno venne morso dalla donna delle pulizie (una “prosecuzione della lotta di classe con altri mezzi” da manuale) già infettata a sua stessa insaputa; un altro finì con le gambe spezzate in un pozzo nero, a vagare nella merda per il resto dei suoi giorni; un terzo, ben noto per aver versato per decenni sostanze inquinanti nelle falde acquifere, venne sorpreso da alcuni eco-guerrieri nei pressi del fiume diventato, per causa sua, maleodorante canale di scolo. Immerso fino alla cintola, si decompose dolorosamente nel giro di qualche giorno.

Di altri ancora, semplicemente, si persero le tracce.

CAPITOLO SECONDO

L’ATTACCO

(anno trentesimo, circa, dall’inizio della G.T.O.)

Giorno più, giorno meno, erano ormai trascorsi 30 anni. Per i superstiti la situazione rimaneva drammatica, ma in parte stabilizzata. Del resto non è che prima fosse tutto rose e fiori. Tra guerre, epidemie, inquinamento, stragi, tasse e attentati non c’era mai stato il tempo per annoiarsi.

E poi ci si abitua a tutto. Soprattutto in mancanza di alternative.

Non essendoci poi limite alla Provvidenza, quella degli zombi era soltanto una delle piaghe che affliggevano i pochi sapiens rimasti in circolazione. Inseguiti e braccati, gli ultimi scampati alla crisi planetaria, sopravvivevano in piccole comunità sparse su un pianeta ostile, alieno. Percorso da orde vaganti di mutanti, teppisti, lebbrosi, appestati, sfollati, milizie e da ogni possibile, varia e post-apocalittica sub-umanità.

Lei, Francisque, con l’Apocalisse-zombi poteva dire di esserci cresciuta. Era ancora bambina quando i suoi, alle prime avvisaglie e non fidandosi delle rassicuranti spiegazioni governative (“solo pochi gruppi disorganizzati di punk e di luddisti, niente di cui preoccuparsi” la prima; “una circoscritta epidemia di rabbia che verrà presto debellata”, la seconda; per la terza mancò il tempo materiale di stilare un comunicato), si erano trincerati in un covolo fortificato della Val Susana, retaggio delle guerre di secessione padane. Era raggiungibile soltanto con scalette in filo d’acciaio e gradini di alluminio, leggere e ri-avvolgibili, un reperto gelosamente conservato in solaio dal nonno paleo-speleogo. Qui erano sopravvissuti mentre intorno dilagavano morte, incendi e distruzione. Poi, gradualmente, si erano riuniti con altri scampati, temprati nella lotta quotidiana per la sopravvivenza, individui dotati di una certa personalità, in grado sia di collaborare che di agire autonomamente. Ora il gruppo, divenuto più consistente, poteva dirsi consolidato, sperimentato, in grado di guardare all’immediato futuro, oltre non era concesso, con una certa dose di moderata sicurezza.

Francisque ci stava giusto rimuginando quando venne distolta dal richiamo del corno. Tre suoni brevi: segnale di pericolo zombi. “Di nuovo – mormorò, ricordando che solo due giorni prima un gruppo di morti-che-ciondolano si era spinto fin quasi alla palizzata.

Come tra tutti coloro che non ricordavano, se non vagamente, i tempi lontani pre-apocalisse, anche in lei era prevalso un rassegnato fatalismo. Se in primavera sbocciavano fiori dagli aromi mortiferi e in estate orde di mutanti emergevano dalle boscaglie per ragioni insondabili, così in autunno, con le nebbie vespertine, apparivano gli zombi. Dopo la virulenza del primo decennio, la proliferazione sembrava rallentare. In genere si trattava di casi isolati, presto scoperti ed estirpati, nemmeno il tempo di “riprodursi”. E se malauguratamente riuscivano a mordere qualche disgraziato costui veniva immediatamente individuato e incenerito.

Eppure nell’anno trentesimo dalla Grande Tribolazione Olistica gli zombi dilagarono nuovamente, come agli albori della loro prima invasione. A decine apparivano lungo le piste, tra gli ultimi campi e i boschetti di ailanto rosso e biloba nera, attraversavano goffamente i canali incuranti di nutrie carnivore e natrici giganti, risalivano le sponde e si infilavano tra i filari di granoturco. Nei primi giorni, per quanto numerosi, non apparivano intenzionati ad avvicinarsi alla palizzata e con la neve, si credeva, sarebbero sicuramente rientrati nelle loro tane per svernare, in letargo. Tuttavia la preoccupazione era tangibile. Volontari armati vigilavano al confine della contrada costituita da capanne e casupole in legno. Costruzioni precariamente assemblate intorno e all’interno del corpo solido di una grande villa rinascimentale posta su di un modesto rialzo roccioso e sovrastante la piana parzialmente coltivata. Tutto intorno, lungo l’orizzonte, colline infestate da zecche velenose, mantidi antropofaghe, orchi assassini e altre sgradevoli mutazioni in gran parte fuoriuscite dai laboratori segreti dove da anni venivano creati e allevati.

Francisque uscì scavalcando il rudimentale cavallo di frisia, incoraggiata dal cenno di approvazione della prozia Carmela. Leggermente claudicante, ma ancora vitale e combattiva, l’ultrasettantenne si era piazzata a guardia dell’entrata imbracciando il vecchio AK 47, residuato bellico di qualche guerra di liberazione mediorientale di cui si era persa anche la memoria. Oltre che la guerra, come da manuale. Stringendo l’arco nella mano sinistra e un fascio di frecce dalla punta aguzza nell’altra, una corta bipenne di cui tanto orgogliosamente portava il nome infilata nella cinta, discese la breve scarpata per appostarsi dove due totem segnalavano il confine del loro prezioso territorio. Qualche metro più in là Kocis, dall’alto del vecchio trattore rimasto impantanato qualche mese prima (e di cui si discuteva ancora se fosse più utile lasciarlo dov’era – come riparo e punto esterno di osservazione – o rimuoverlo in quanto poteva fornire un nascondiglio a predatori (zombi o non zombi) in agguato) stava di vedetta con la freccia già incoccata nell’arco puntato verso la linea degli alberi. Due volontari con il volto coperto per maggior prudenza sanitaria, armati di scure e lancia, vigilavano sulla destra. Dall’alto della mura di protezione, rinforzata con tronchi appuntiti, apparivano canne di fucile, qualche ascia e un pittoresco forcone “da lancio”. La guarnigione vigilava.

I canali, una rete che attraversava l’area coltivata e poi si ramificava disperdendosi nelle paludi, vomitavano una densa nebbia. Un primo zombi apparve ciondolante sul bordo del canale piombandovi a faccia in giù. Lo si vide annaspare nell’aria e giunse un tonfo attutito quando il corpo finì in acqua. Non riapparve sulla sponda opposta e la donna lo immaginò avvinghiato dalle ninfee carnivore o sprofondato nella fanghiglia, assorbito lentamente dai rapidi processi digestivi di qualche ameba gigante.

Un grido la distolse da tali supposizioni. Kocis ora puntava l’arco in direzione dell’argine dove si erano materializzati una decina di spettrali corpi in movimento, barcollanti e silenziosi.

Il primo dardo, troppo alto, sibilò sopra la testa di una donna scarmigliata, con il volto devastato da un’antica esplosione. Imperterrita, proseguì la sua marcia. Una seconda freccia non fu altrettanto benevola e, colpita in quanto rimaneva dell’occhio sinistro, la gorgone crollò sul sentiero provocando la caduta di altri due ritornanti. Non concedendogli nemmeno il tempo per rialzarsi, Kocis trafisse entrambi con due-tre tiri in rapida successione. Ben sapendo di non possedere la medesima mira del giovane guerriero, Francisque attese di averne uno ben a tiro prima di scoccare una freccia. Ma questa, infilatasi nella spalla di un grasso cadavere ambulante (un “sacco di carne frollata” pensò) con brandelli di trippe fuoriuscite e penzolanti, non sortì alcune effetto. Stava per lanciarsi sul ributtante malcapitato per stroncarlo a colpi d’ascia quando un colpo di carabina partito dall’alto della palizzata le risparmiò il sempre pericoloso corpo a corpo.

Intanto altri colpi di fucile, una raffica del kalashnikov della prozia bolscevica, frecce micidiali e soprattutto qualche molotov lanciata con destrezza avevano posto fine all’incursione. “Incredibile – pensava Francisque ammirando l’elegante parabola delle bottiglie incendiarie non averci pensato subito”. Altro che fucili, mazze, balestre, machete, roncole e spadoni. Utilissimi quando si era aggrediti da pochi esemplari, non potevano competere con la vecchia e rudimentale arma che a Stalingrado aveva fermato i carri nazisti. Lanciate nel mucchio, un paio bastavano per rompere un assedio. E poi, da non trascurare, contribuivano a ridurne sensibilmente il numero o comunque a renderli quasi inoffensivi. Se anche qualche zombo (lei preferiva chiamarli così, affettuosamente) riusciva a fuoriuscire dalle fiamme, lo vedevi poi strisciare, lasciando una scia di nerofumo sull’erba, incapace di aggredire alcunché. Veramente strano, si ripeteva, non averle usate fin dai primi giorni, quando di benzina ce n’era in abbondanza. Bottiglie vuote non mancavano nemmeno ora, ma il carburante stava diventando più raro. Forse si starà lentamente volatilizzando, pensò. Ma l’ingegnosità dei sopravvissuti aveva già individuato altri combustibili, non meno micidiali. Utilissimi alcuni manuali per la “guerra di guerriglia” conservati dall’eremita che li riforniva di erbe medicinali e che in gioventù era stato militante rivoluzionario. Lo ricordava andarsene scalzo per i boschi in ogni stagione dell’anno. “Ormai se lo saranno mangiato e digerito – si rammaricava talvolta.

La carneficina si era conclusa. “Un vero barbecue” – per la vegetariana Francisque che non sopportava l’odore della carne abbrustolita. Seminascosto dal trattore, Kocis vomitava copiosamente. Gli capitava sempre più spesso, non solo dopo uno scontro. “Sarà bene tenerlo d’occhio – si disse. Poteva essere un effetto dell’eccessiva concentrazione dell’arciere, ma anche un brutto sintomo. Talvolta la trasformazione cominciava così.

I repellenti cadaveri, in parte già cremati, vennero lasciati sul posto. L’esperienza aveva insegnato ai sopravvissuti che nutrie carnivore e varani giganti, in feroce concorrenza con altri necrofori frutto di incontrollate mutazioni, non disdegnavano nulla, nemmeno i corpi in perenne putrefazione degli zombi. Si poteva quindi star certi che al mattino successivo il sentiero sarebbe apparso completamente ripulito e incontaminato. Meglio perfino della leggendaria “raccolta differenziata” dell’epoca precedente alla Apocalisse.

Calava il buio e tutti rientrarono all’interno della palizzata mentre venivano distribuiti i turni di guardia e si accendevano le torce anche all’esterno. Un giovane varano-tigre lungo solo cinque-sei metri, praticamente un cucciolo, attraversò di corsa la spianata antistante stringendo tra le fauci il cadavere ancora gesticolante di un piccolo zombi. Una nutria dalle dimensioni di un vitello, a cui evidentemente il rettile aveva sottratto la preda, si lanciò all’inseguimento. I rumori di una zuffa furiosa, strilli e sibili, si protrassero a lungo nella notte, insieme ai familiari, rauchi lamenti delle anguane, le donne-serpente. Frutto di dissennati esperimenti risalenti al periodo immediatamente successivo all’inizio della Grande Tribolazione Olistica, quando medici, genetisti, e veterinari si illusero di poter rimediare agli innumerevoli guasti prodotti da radiazioni e contaminazioni.

(*) SECONDA PARTE E CONCLUSIONE FRA 7 GIORNI

L’IMMAGINE E’ RIPRESA da “DODICI” DI ZEROCALCARE

Redazione
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Un commento

  • https://www.youtube.com/watch?v=RNFOTlwaEHk
    TALLAHASSEE, forse c’era un precedente… Mi sia consentita un’autocitazione.

    “Se non proprio dalle origini, da un certo punto in poi lo zombi, quello cinematografico, era diventato simulacro della classica valvola di sfogo. Il rientro, blandamente camuffato, del politicamente scorretto nell’immaginario collettivo.
    Comportamenti universalmente – e ipocritamente – sotto perenne ostracismo riemergevano sotto mentite spoglie. Nei film, nei video-clip…da tempo non era più possibile assistere a quei superbi, grandiosi massacri di “indiani, “selvaggi”, “musi gialli” che avevano fornito una compensazione virtuale all’addomesticamento coatto delle masse popolari. Si era provato a sostituirli con allegre stragi di alieni, ma non funzionava. Troppo “alieni” appunto. Meglio gli zombi, abbastanza umani nell’aspetto da gratificare lo spirito di violenta rivalsa, di sadismo superficialmente rimosso che tuttavia continuava a scorrere, carsicamente, nelle menti e nei cuori delle moltitudini frustrate e insoddisfatte”.
    Scrivendo ‘sta roba pensavo in particolare a ZOMBIELAND (italianizzato in “Benvenuti a Zombieland”) di R. Fleischer dove l’epidemia di zombi è generata da una mutazione del virus della “mucca pazza” (niente male come idea, sa di Nemesi).
    Nel film i personaggi si chiamano con il nome del luogo di origine (Columbus, Wichita…).
    Il personaggio principale, diciamo l’Eroe, è un autentico castiga-zombi. Ne elimina in quantità industriale (ho rinunciato a tenere il conto), dando anche prova inizialmente di una certa creatività, per poi scatenarsi in classiche sparatorie che neanche nei film di Sergio Leone…
    E’ interpretato da Woody Harrelson, già serial killer in “Natural Born Killers” di O. Stone. In questo, vero figlio d’arte: il padre, ex agente CIA, coinvolto nell’uccisione di J.F. Kennedy, morì in galera dopo aver assassinato un giudice.
    Ma, strana coincidenza, in Zombieland porta il nome della città natale: Tallahassee, cittadina recentemente agli onori della cronaca per la strage compiuta da un fascistoide psicolabile.
    Che sia un caso di eccessiva identificazione?
    GS

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