Da Berkeley a Maggio

Una narrazione cinematografica dalla rivolta nel campus universitario della California al Maggio francese sino al nostro tempo di forzate inerzie ma pure di speranza, nonostante tutto.

di Natalino Piras

Nico Orunesu, acquerello e inchiostro, 1981

Sono compagni di viaggio don Lorenzo Milani, Battore Carzedda, don Andrea Gallo e Sophie Scholl della Rosa Bianca, in nome di tutti i testimoni del Primo Maggio come Paska Manna.

«…Ché loro non hanno/memoria del lavoro/e dei suoi abiti/di quando davvero il Capitale/ ebbe paura di noi/- o finse? – /dei nostri muchos Vietnam/da Berkeley alla Primavera di Praga/mica noi ci siamo dimenticati…»

Il tempo di primavera inoltrata non perde le rudezze di aprile, il più crudele dei mesi, anche se il Primo Maggio resta, così canta il poeta Peppino Marotto, sa Paska Manna, Pasqua Grande, de su munnu proletariu. Specie al tempo della peste che tutto tende a fare diventare assenza. Se non ci fosse la memoria di Maggio, “carico di fiori, di rose e di viole”, cantava il Canzoniere Internazionale, a rendere fatto storico l’assenza, a dare voce ai silenzi.

Il cinema attiva di continuo questa memoria storica individuale e collettiva, del singolo e di una e più comunità, in un interscambio di continenti. Il cinema rende vicino il lontano, specie nel tempo di maggio.

Ancora prima del maggio francese, i prodromi del ’68, quello che da due differenti punti di vista cantano Fabrizio De André (Storia di un impiegato, 1973) e Ivan Della Mea (Venne maggio, 1969) ci fu, nel settembre 1964 la rivolta di Berkeley, in California, nei campus universitari, i giovani che iniziano a manifestare per i diritti civili, contro il razzismo, contro la guerra in Vietnam. La repressione di quella rivolta viene raccontata in Fragole e sangue (The Strawberry Statement, 1970, Premio della giuria a Cannes) di Stuart Hagmann.

È l’altra faccia di Berkeley quale ci mostra invece, ordinata e elegante quanto ipocrita, Il laureato (The Graduate, 1967, regia di Mike Nichols dall’omonimo romanzo di Charles Webb, 1963). La ricomposizione del film di Nichols con Fragole e sangue a contestazione del sistema la dà Mrs. Robinson di Simon&Garfunkel che scandisce il correre di Dustin Hoffman su un’Alfa Romeo Duetto diretto a Berkeley per riconquistare Katharine Ross.

Due anni dopo Il laureato, nell’afflato di questa nostra Berkeley ci fu Easy Rider (1969, Premio opera prima a Cannes) di Dennis Hopper, dove è la repressione opera dei padri e di gente del profondo sud a uccidere i sogni e con questi i corpi dei figli. Molte delle canzoni di Easy Rider ci sono in The Big Chill (Il grande freddo, 1983) di Lawrence Kasdan, dolente raduno di reduci del Sessantotto. Una per tutte la canzone The Weight, nell’album Music from Big Pink del gruppo canadese The Band. The Weight è considerata una delle canzoni più celebri della controcultura che ha il 68 come centro. La rivista “Rolling Stone” la mette al 41° posto nella classifica delle migliori 500 canzoni della storia del rock. Tra le migliori incisioni quelle di Bruce Springsteen, Cassandra Wilson, Aretha Franklin, Eric Clapton, Bob Dylan.

The Weight è un canto ebbro. Così la prima strofa, in una traduzione letterale in italiano: «Mi spinsi verso Nazareth, mi sentivo quasi mezzo morto, avevo bisogno di un posto dove posare la testa. “Ehi, signore, può dirmi dove un uomo potrebbe trovare un letto?” Con una faccia da grinfia mi strinse la mano, e, “No!” fu tutto quello che disse. Togliti il peso Fannie, toglilo liberamente, togliti il peso Fannie e lascia che il peso cada su di me».

In questa linea ebbra di The Weight potremmo allora dire che era di maggio quando a Berkeley, a Londra, a Parigi, a Berlino, persino da noi in Italia, iniziarono moti di speranza. La contestazione del sistema occidentale, un canone capitalistico – per invertire qui la terminologia letteraria di Harold Bloom – era sostenuta dall’altrimenti impossibile binomio: studenti-lavoratori. Insieme a coltivare l’utopia di un mondo se non senza guerre perlomeno di progressiva affermazione dei diritti dell’uomo. C’è stata una forte spinta planetaria verso il raggiungimento di questa utopia nel mentre però che rinfocolava la guerra in Vietnam, la Cia organizzava un golpe dietro l’altro in America Latina e combatteva in Africa contro il comunismo cubano, nel mentre che in Italia la strategia della tensione la faceva da padrona. Tutti ladri della speranza, profanatori del tempo di maggio. Gli utopisti, via via scemanti, diradatisi, sempre meno massa coesa, cedevano al capitalismo liberista e guerrafondaio proprio sul terreno della speranza, sul diritto alla dignità, al lavoro, alla coltivazione del sogno dell’utopia. Addirittura in Italia il berlusconismo ha demonizzato la parola “utopia”, ha voluto cancellarla dal vocabolario.

Noi la rilanciamo. Come fenomeno del globale e del locale. Paret unu maju vioritu, dice una canzone in lingua sarda, sembra tutto un fiorito maggio. Dico di quelli che adesso abbiamo settant’anni e però non la smettiamo di credere possibile un mondo nuovo.

Abbiamo anche noi le scansioni, storiche e cinematografiche, da mettere nel discorso.

C’è il maggio di Peppino Impastato e di Aldo Moro che raccontano tra gli altri i film ll caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara, I cento passi (2000) di Marco Tullio Giordana, Buongiorno, notte (2003) di Marco Bellocchio

Il 9 maggio del 1978, fu ritrovato in via Caetani a Roma il corpo di Aldo Moro ucciso dopo 55 giorni di sequestro ad opera delle Brigate Rosse. Nel mentre che l’Italia e il mondo consumavano in diretta l’elaborazione del lutto per la morte del Presidente della Democrazia Cristiana, nella notte tra l’8 e il 9, a Cinisi, in Sicilia, la mafia ammazzava facendolo esplodere col tritolo, un ragazzo di trent’anni, Peppino Impastato. La stessa mafia pensava a come far credere all’opinione pubblica che la morte di Peppino Impastato fosse stata un suicidio. Già, Peppino Impastato, quello di Radio Aut, radio libera, quello dei cento passi, il comunista che si metteva contro il suo stesso padre, un mafioso al sevizio di Tano Badalamenti, e martellava nella sua denuncia a voce insieme forte e gioiosa. Questo aveva compreso Peppino Impastato, il potere di comunicare opposizione e dissenso. Combatteva a voce forte ma a mani nude. E lo faceva con il senso dell’eroismo quotidiano che è nei combattenti clandestini, nel banale e nell’oscuro però spinti, come i veri partigiani, da un’esigenza di giustizia e liberà, di eguaglianza. Quanto l’esposizione lunga del cadavere di Aldo Moro nasconde o in qualche maniera tende a velare è la carica sentimentale, prima che progetto politico, che la vita e la morte di Peppino Impastato in effetti sono: un esempio per la gente di buona volontà

Aldo Moro era un uomo giusto e retto. Ma era una persona di potere, del Potere: con quanto di terribile e devastante, di scandali e stragi, anche potere mafioso, la parola comportava in quella notte della Repubblica. Peppino Impastato contro questo potere combatteva e per questo suo combattere è andato consapevolmente incontro alla morte.

Una storia che attende ancora di diventare film è quella di padre Salvatore Carzedda.

Sera del 20 maggio 1992, Zamboanga, nelle Filippine. Battore Carzedda, bittese, mio compaesano, torna a casa dopo una giornata di lavoro. È missionario del dialogo tra cristiani e musulmani. Testimone del proprio operare, Battore Carzedda avvertiva una costante esigenza di «riconciliazione e pace nel tempo della globalizzazione che rende sempre più insopportabili, assurdi, la guerra, la violenza, il terrorismo, le divisioni ideologiche ed economiche che separano i popoli». Quella sera, l’auto guidata da Battore si schianta contro un palo della luce. Non poteva essere più governata. Battore era già morto, ucciso a colpi di pistola sparatigli da motociclisti che si erano accostati, integralisti islamici. Battore Carzedda aveva 48 anni. Lo riportarono a Bitti a un mese esatto dalla morte, chiuso dentro una bara con il coperchio di vetro, vestito dei paramenti sacerdotali, il rosso del martirio. I funerali furono una cosa solenne, di immensa folla, una magnifica sequenza cinematografica.

Tutto si tiene nella memoria, specie in questo tempo di uscita dalla peste del Covid-19.

C’è il maggio della morte di don Lorenzo Milani, il 27 del 1967, presenza costante in Diari di Cineclub.

C’è il maggio, 22 del 2013, della morte di don Andrea Gallo e che sempre resta nei cuori di tutti noi di Diari. Perché stava con gli emarginati e con gli ultimi e tutti lo consideravano uno di loro. Perché era stato partigiano da giovane e sempre resterà giovane e partigiano, perché intonava Bella ciao in chiesa. Conosceva a memoria la Costituzione e alcuni articoli li recitava tutti i giorni come preghiera. Sappiate navigare nella Rete, incontrerete sempre don Andrea. Sia che vi accolga con un sorriso o con un rimbrotto, ditegli sempre grazie.

C’è il maggio della morte di Boris Pasternak, il 30 del 1960. Il dottor Živago, libro e film, torna spesso nelle nostre cronache.

C’è il 15 maggio 1886 quando muore a Amherst (Massachusetts) una delle più grandi potesse di sempre, Emily Dickinson: «Ho bevuto un unico sorso di vita/Ti dirò quanto l’ho pagato:/esattamente un’esistenza/il prezzo di mercato, mi han detto». A Quiet Passion (2016) di Terence Davies è un frammento di questa storia.

Si torna al 9 maggio, 1921, cento anni fa, come data di nascita di Sophie Scholl, segno vivificante del tempo storico e della sua necessaria narrazione. Una vita, quella di Sophie Scholl, che sarà sempre segnata dalla giovinezza, pienamente compiuta, mai recisa, neppure dalla lama della ghigliottina, quel 22 febbraio 1943, a Monaco di Baviera.

Sophie Scholl è nell’armata degli eroi. ll senso del dolore dell’individuo si fa uno con il senso di dolore della Storia. Il senso della giovinezza rimane integro guardando a Sophie Scholl. Come forza perenne della ribellione e del sacrificio di sé. Come beltà mai persa. Era della Rosa Bianca, di ispirazione cristiana, lei, il fratello Hans e un altro gruppo di giovani professori e studenti dell’università di Monaco. Lo racconta bene un film anche questo spesso nelle nostre cronache, La Rosa Bianca (Die letzten Tage, 2005) di Marc Rothemund. I giovani della Rosa Bianca erano dentro la Germania in sfacelo, il quotidiano sordido della guerra combattuta altrove che però pretendeva obbedienza assoluta da parte di tutti. Il terrore del nazismo: la primaria mancanza di libertà. Una nazione in guerra, la logica dello sterminio come metodo. Il livido predomina, il colore della fame a contrasto con i rossi accesi che preludono all’ispessimento del buio. Il gruppo della Rosa Bianca si forma nel 1942. Sono già entrati in funzione lager e forni per ebrei, zingari, omosessuali, malati di mente, inabili al combattimento e prigionieri politici. La Rosa Bianca sa e intuisce di come terrore e livore generino il tremore nella massa ossequiente. Impossibile pensare alla Resistenza. Eppure la Rosa Bianca organizza la Resistenza. La loro pratica summa di antinazismo è scrivere e diffondere opuscoli e volantini contro la guerra e contro Hitler. Parola e scrittura sono la loro unica arma. Deflagreranno nel silenzio, nel terrore e tremore. Un bidello dell’università di Monaco scoprì gli autori e i diffusori dei volantini. Li denunciò e consegnò alla Gestapo i fratelli Scholl e gli altri professori e studenti. Quattro giorni di torture per Sophie. Nessuna ritrattazione. Salì il patibolo con una gamba rotta dicendo: «Come possiamo aspettarci che la giustizia prevalga quando non c’è quasi nessuno disposto a dare se stesso individualmente per una giusta causa? È una giornata di sole così bella, e devo andare, ma che importa la mia morte, se attraverso di noi migliaia di persone sono risvegliate e suscitate all’azione?»

Un coraggio indicibile, da vera combattente della Resistenza. Sophie Scholl avrà per sempre 21 anni. Unu maiu vioritu.

Natalino Piras, Diari di Cineclub, maggio 2021, n. 94

 

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Immagini: Nico Orunesu

 

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