Diario di un gilet giallo italiano

di Felice, un gilet giallo italiano (*).

Non filmo in manifestazione, non lo faccio da quando ho vent’anni e di manifestazioni ne ho già fatte un bel po’…
Ma con me, da un anno a questa parte, porto una camerina come difesa e arma di dissuasione…
Dopo l’8 dicembre 2018… Per me l’8 dicembre è sempre stato un giorno importante.
È il giorno in cui i pescatori del mio paese, in Calabria, portano a mare l’Immacolata, quella Madonna, ma più ancora quella statua, venuta dal mare, moderna Afrodite, a cui i miei paesani affidano l’azzardo della loro esistenza.
E ogni 8 dicembre della mia infanzia mi ritrovo scalzo sulla spiaggia a vedere quella statua bianca e azzurra ritornare al mare portata in spalla da quei pescatori che, leggenda vuole, l’hanno trovata sulla battigia a seguito di un naufragio.
«Uno due tre… evviva Maria!», gridano levando la mano al cielo con l’acqua alle ginocchia, quando finalmente quel feticcio di gesso ritorna all’elemento che l’ha partorita e che da noi, nonostante tutto, è ancora fonte di vita.

LA PAGINA NERA
L’8 dicembre 2018 ho quasi quarant’anni e sono a Parigi, dove vivo da otto anni. Da una settimana gli Champs-Élysées sono stati conquistati da una folla di persone che è riuscita a sorprendere, fino quasi a farlo cadere, un governo che pensava di aver domato ogni istinto di rivolta.
Le umiliazioni e violenze poliziesche e giudiziarie avevano accompagnato le “nuits debout” parigine e le rivolte contro la “loi travail” (Macron all’epoca era il ministro dell’economia di Hollande…), e in quel dì di dicembre il governo aveva deciso, in linea col partito socialista che di quelle scelte aveva poi pagato il duro scotto alle elezioni presidenziali (il 6% di consensi al voto), che lo spazio pubblico dopo gli attentati del 2015 non poteva essere più vissuto come luogo di elaborazione e dissenso, conflitto e confronto.

L’8 dicembre è la pagina nera della quinta repubblica: centoventisei feriti al volto a seguito di LBD, palle di caucciù grandi come un pugno, sparate alla velocità di un proiettile; quattro occhi persi; oltre cento fratture multiple di mascella e zigomi; oltre mille fermi preventivi (una misura inventata dal governo Sarkozy che permette l’arresto e la detenzione per ventiquattro ore in caso di sospetto di pericolosità di un individuo: l’articolo recita testualmente “participation à un groupement en vue de commettre des dégradations et des violences”, più che un processo, una condanna alle intenzioni).

Giusto per chiarezza, l’LBD è un fucile di precisione il cui utilizzo è previsto in caso di pericolo per le forze dell’ordine, dotato di un mirino laser che permette di andare facilmente a bersaglio a quaranta metri di distanza perché si possano colpire agli arti i possibili attentatori all’incolumità dei corpi di polizia.
Quasi tutti i colpi sono stati sparati a meno di venticinque metri (almeno quelli andati a bersaglio) e oltre il settanta per cento al corpo e alla testa.

L’8 dicembre segna una svolta qui in Francia, un innalzamento di quella pericolosa discrezionalità lasciata alla polizia di cui già da tempo sono vittime indiscusse neri e arabi, non solo nelle periferie. Una legittimazione a colpire chiunque osi scendere in piazza a manifestare.
La linea del governo è chiara. Terrorizzare. Ferire almeno, quando non si possa mutilare a vita chi ha osato investire lo spazio pubblico di dissenso e conflitto.
E, infatti, così ci dicono i compagni della banlieue, quelli del comitato “Giustizia per Adama Traoré”, in una delle prime convergenze di lotta dei gilet gialli: «Iniziate a conoscere qui al centro quello che da anni noi viviamo in periferia».
Gli LBD hanno iniziato a essere sperimentati proprio in banlieue dalla BAC (Brigata anti-crimine, creata nel ’94 per la banlieue nord di Parigi da un veterano della guerra d’Algeria).

«Sapevi che era una manifestazione in cui l’allerta era alta, se vieni a manifestare sei un coglione!», così mi intima un poliziotto della BRAV (la Brigata anti-violenze creata apposta per i gilet gialli da Macron, proprio dopo quell’8 dicembre dell’anno scorso).


Rispondo tenendo saldo il mio cellulare sul gruppo di poliziotti che arresta due ragazzi, colpevoli di aver lanciato una bottiglia di plastica al passaggio di quelli che un tempo, qui in Francia, si sarebbero chiamati voltigeur (squadre mobili su due ruote, vietate in Francia dopo la morte di Malik Oussekine, nel 1986, ma che si sono di nuovo imposti come uno degli strumenti privilegiati del mantenimento dell’ordine).

«Manifestare sarebbe ancora un diritto costituzionale e fino a prova contraria sareste voi a doverne garantire il pieno esercizio», rispondo, ma il voltigeur neanche mi guarda.
Parla alla camera convinto forse di una possibile diretta Facebook: «Vedete? Li arrestiamo gentilmente i black-bloc!».
I black-bloc… Per chi come me è cresciuto in Italia negli anni 1990-2000 il termine si colloca in un preciso immaginario politico-spettacolare: la creazione del mostro col quale dividere opinione pubblica e manifestanti.
Ma qui è diverso, le signore che incontro in corteo, che a volte assomigliano alle paesane delle mie parti (e che sono un’imponente presenza nei cortei dei gilet gialli) sono coscienti, dopo tanti sabati di manifestazioni, che senza un cortège de tête (letteralmente corteo di testa), delle formazioni improvvisate ma pronte a rispondere alla violenza con la violenza (Santa Giovanna dei macelli ora pro nobis!), il bilancio dei feriti sarebbe stato drammaticamente più alto.
Così una settantenne energica, in quella trappola diventata place de la République dopo qualche mese di sabati gialli, al mio indicarle la vistosa bruciatura che deturpa il suo vestito a fiori da pochi euro commenta: «Ah, oggi è veramente la totale (la qualunque)! Mi son beccata una granata, due manganellate e una perquisizione… mi manca solo l’arresto e oggi le ho fatte tutte!». Ridiamo sotto il sole forte che a maggio scalda, con un po’ di fortuna, la piazza; ridiamo mentre tutto intorno è un susseguirsi ininterrotto di lacrimogeni e cariche, cariche e lacrimogeni.

MANIFESTAZIONI SELVAGGE
Questa è una delle situazioni tipo che porterà una grande parte del movimento a smettere di dichiarare le manifestazioni:

1. Si autorizza un corteo.

2. Si smembra e spacca lo stesso con uso massiccio di cariche e lacrimogeni.

3. Si convoglia la gente dentro la piazza più vicina disponibile.

4. Si chiudono tutte le vie di fuga.

5. Si gassa, si carica e, quando possibile, si arresta tutti i poveri sorci caduti nell’agguato.

Questa la stessa scena vista ancora a place d’Italie durante l’ultima manifestazione per il compleanno del movimento, prima dello sciopero generale qualche settimana fa.

Ma io non ci sono a place d’Italie quel giorno.
Non sto bene, anche se come buona parte dei gilet gialli ho già smesso di andare a manifestazioni dichiarate in cui il copione è sempre lo stesso. Col crescere della repressione e col conseguente calare della partecipazione ai cortei, anche le tecniche di manifestazione, disturbo e guerriglia sono cambiate.
Ci si dà appuntamento in una zona di Parigi più o meno ampia e appena si hanno un minimo di numeri si parte in manif sauvage (manifestazione selvaggia).
Senza un percorso dichiarato, di strada in strada si decide il percorso da investire.
La polizia, la BAC e la BRAV non riescono a starci dietro, bloccate dal traffico e dalle barricate improvvisate durante il corteo.
«Siate come l’acqua…», ci lasciamo ispirare dai racconti dei manifestanti di Hong Kong e così in un secondo siamo un blocco giallo imponente che avanza e il secondo dopo, levato il gilet, ridiventiamo folla (grazie ai compagni cinesi scopriamo anche che gli ombrelli sono un’ottima arma contro i lanci di LBD o, almeno, la più difficilmente confiscabile in caso di perquisizione).

Appuntamento sul binario della linea 3 in direzione Levallois, lì troverete una coppia di gilet gialli che vi indicherà il luogo dell’azione”. Insieme alle manifestazioni, dal rientro estivo sono cominciati anche i blocchi insieme agli ecologisti di Extinction Rebellion. Nel mirino delle azioni, soprattutto i grossi centri commerciali parigini.

Ci vediamo al terzo anello delle gallerie La Fayette, proprio sotto la cupola alle 13, guardatevi intorno senza dare nell’occhio e appena scatta il segnale pronti a partire!”.
Le immagini degli Champs-Elysées in fiamme del novembre dell’anno scorso sono talmente impresse nell’immaginario parigino da ribaltare totalmente ogni rapporto logico di forza. È così, in appena duecento, mentre gridiamo lanciando dei coriandoli gialli giù nell’androne sotto il grande albero di natale del centro commerciale, il panico si diffonde veloce.
Anche il buttafuori della sicurezza che mi intima di uscire ha le mani che tremano e il fiato corto della paura e non riesce nemmeno a guardami in faccia nonostante i suoi due metri e centocinquanta chili di spalle. Le gallerie La Fayette sono costrette a chiudere con un cordone di CRS (polizia anti-sommossa) che ne presidia le entrate per un buon paio d’ore.

LO SCIOPERO GENERALE
Ma la verità è che, nonostante queste azioni, i numeri in un anno di mobilitazione sono calati. La repressione, il terrore, le persecuzioni giudiziarie hanno fatto il loro lavoro.
Qui ogni sabato è una piccola Genova 2001. Ogni sabato che scendo in piazza ho paura e il corpo, che non dimentica, mi riporta ogni sabato a quel G8.
Più che l’anniversario del movimento questa fine novembre 2019 sembra la consacrazione di quel maledetto 8 dicembre dell’anno scorso.
Ci sentiamo isolati, sempre meno, sempre più stanchi che l’anno è stato lungo e senza tregua…
Per questo mi commuovo quando leggo che dall’ADA (l’Assemblea delle Assemblee, organo decisionale dei gilet gialli) è uscito fuori un documento di convergenza col sindacato e con gli ecologisti per uno sciopero generale il 5 dicembre.
E così iniziano le chiamate e i messaggi a tutti quei compagni e amici che non se la sentivano più di venire in piazza. Adesso, con l’ombrello del sindacato (e del suo servizio d’ordine), sono tutti lì: insegnanti, ferrovieri, autisti, disoccupati, pompieri, studenti, infermieri, settore pubblico e privato, ecologisti, gilet gialli, cortege de tete, sindacati, anarchici e cani sciolti.
E il corteo è un immenso fiume che esonda nella città.
Siamo duecentocinquantamila per le strade di Parigi, oltre un milione in tutta la Francia.
E anche se il prefetto Lallement ci ha preparato una trappola all’imbocco di place de la République, così come aveva fatto il primo maggio, disperdendo e massacrando a corteo non ancora partito quanti si trovassero in strada, siamo troppi per contenerci tutti.
Il peggio lo evitano, però, i pompieri con noi in manifestazione (e da una settimana accampati nella piazza per protesta) prendendo la testa del corteo con le loro divise rosse e i caschi argentati, avanzando a mani alzate verso le camionette della polizia, costringendole così a indietreggiare lasciando ripartire il corteo.

Per questo mi torno a commuovere durante l’assemblea interprofessionale e intersindacale del giorno dopo sui binari della stazione Saint Lazare quando un compagno ferroviere ringrazia noi gilet gialli di aver tenuta accesa la fiamma della rivolta per un lunghissimo anno.
L’obiettivo comune è chiaro e non è la riforma delle pensioni, ultima goccia a far traboccare un vaso che già faceva acqua da tutte le parti. L’obiettivo è la destituzione del governo, la testa del petit roi (il piccolo re, come chiamiamo qui Macron).
Molti guardano ancora più in là: «Il nostro riferimento non è il 1995 (anno dell’ultimo storico sciopero generale) ma il 1871!».

Le assemblee interprofessionali si moltiplicano col passare dei giorni.
Vi partecipano tutti i rappresentanti di piccole o grandi categorie in sciopero.
È così che si costruisce la convergenza ed è così che è nato lo sciopero generale (lo apprendiamo da un altro compagno dell’RATP, l’azienda di trasporti pubblici, in assemblea): «Parliamoci chiaro: lo sciopero l’abbiamo imposto dalla base ai vertici della CGT e degli altri sindacati dopo un mese e mezzo di assemblee e riunioni con i ferrovieri».
E così gli insegnanti si ritrovano con gli studenti universitari, lavoratori del settore pubblico e privato, a bloccare gli autobus all’uscita dei depositi. I ferrovieri sono presenti insieme ai lavoratori del trasporto pubblico alle assemblee e alle occupazioni degli studenti nei licei e nelle università, i porti di Marsiglia, Rouen, La Rochelle e Le Havre sono chiusi ed è in atto una turnazione di scioperanti per permettere il blocco continuo dei cancelli, il rettorato della Sorbona è occupato, i lavoratori della EDF e ERGF (luce e gas) tagliano la corrente e il gas alla prefettura e al commissariato di Versailles, e sette delle otto raffinerie del paese hanno già interrotto la produzione.
Per entrare e uscire da Parigi ci sono code chilometriche.
La metro è chiusa e dei treni che collegano le periferie alla città ne viaggia uno ogni ora. Al centro amministrativo e al comune di Bordeaux è stato tagliato il gas.

«Tutti a fare shopping sabato pomeriggio al centro commerciale di Les Halles!», ironizza un gilet giallo “in borghese”.
Ci siamo dati appuntamento intorno alle 16 in centro nel giorno dello sciopero generale. Ci si riconosce fischiettandoci l’un l’altro i motivetti dei canti intonati in manifestazione.
Non c’è più bisogno di un segno o di un gilet, al primo «Macron dimission!» siamo già folla compatta, pronta però a dissolversi tra i turisti e i consumatori abituali appena arrivano i CRS e di nuovo pronta a ricompattarsi poco più in là qualche minuto dopo.
Il centro commerciale resterà, così, chiuso durante tutta la fine del pomeriggio di sabato. I blocchi sono parte integrante dello sciopero che, da solo, probabilmente non produrrebbe la paralisi dell’economia che ha provocato in tutto il paese.

«Oleeee! Oleeee!», il nuovo corteo di martedì, naso in aria, incita e commenta così gli attacchi di tre gabbiani contro un drone inviato dalla polizia a filmare i manifestanti, in un’inattesa corrida tra i cieli parigini. «Allez vas-y! Allez! Allez! Ouiiiiiiii!». I gabbiani hanno la meglio e il drone è costretto alla ritirata tra le risate e gli abbracci della folla, quasi duecentomila persone, che riprendono la marcia tra canti e slogan. Anche gli uccelli sono dalla nostra parte.

«On est là, on est là,

Meme si Macron ne le veut pas nous on est là!

Pour l’honneur des travailleurs

Et pour un monde meilleur

Meme si Macron ne le veut pas nous on est là!».

(Siamo qui, siamo qui/ anche se Macron non vuole siamo qui!/ per l’onore dei lavoratori/ e per un mondo migliore/ anche se Macron non lo vuole siamo qui!)

A ogni passo ci sentiamo più forti e i chilometri sono tanti «Non siamo stanchi!», ci gridiamo e gridiamo ai poliziotti. E si sorride e si parla e ci si confronta nel corteo che torna a essere momento di ricomposizione, comunicazione e organizzazione, e non solo di contestazione.

È il 10 dicembre e di nuovo come cinque giorni fa in più di un milione siamo scesi in piazza in tutta la Francia.
È il 10 dicembre e l’8 è già solo un ricordo, un passato doloroso ma lontano… e non fa più così male adesso… adesso che stiamo ridisegnando un orizzonte che fino a qualche tempo fa pareva non esistere più. Lo stesso che si ridisegna in questi mesi in Cile, in Libano, in Algeria, in Ecuador, a Hong Kong…

È il 10 dicembre e al paese la Madonna è ritornata in chiesa al lato dell’altare. Anche lì un comitato cittadino lotta da ormai tre anni contro la corruzione politico-mafiosa che soffoca il paese da troppo tempo. Il comitato si chiama “14 luglio”, perché nato spontaneamente in quel giorno d’estate.

È il 10 dicembre. Non siamo stanchi. Fino alla vittoria!

Tratto da: Napoli Monitor.
In apertura disegno di Zoe.

alexik

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