Alessandra Sciurba: «Dove le cose accadono»

«Storie di razzismo istituzionale e lotte di comunità nella Sicilia di inizio millennio»: la partecipata  recensione di Angelo Maddalena..

Dove le cose accadono…di Alessandra Sciurba, c’ero anch’io e “non lo sapevo”.
Ho letto, anzi, ho bevuto il libro di Alessandra Sciurba tra un viaggio in nave da Livorno a Palermo e i primi due giorni dopo il mio arrivo, a Pietraperzia, proprio nei luoghi… dove le cose accadono! È infatti tra Caltanissetta, Palermo, Lampedusa, Porto Empedocle, Ragusa e Licata che si svolgono i fatti narrati in questo romanzo-verità (la dicitura “romanzo” in copertina è forse riduttiva, anche se, devo dire, che si legge…come un romanzo!).
Alessandra l’ho ritrovata al meeting antirazzista a Cecina, dopo circa vent’anni, ma il libro l’ho comprato al banchetto prima di rivedere lei, lì presente come relatrice in uno dei molti panel del meeting, tra il 10 e il 14 settembre. In quello stesso meeting, un ragazzo mi ha chiesto cosa io pensassi della mafia, in quanto siciliano. Gli ho risposto con un racconto che avevo appena pubblicato su Il Giornale di Rodafà, che lui poi ha letto e apprezzato.
A me il libro di Alessandra ha fatto bene perché mi ha “ricordato” che anche io c’ero, anche io facevo parte della Rete Antirazzista siciliana, benché in modo un po’ distante e forse anche distratto. Però ci sono voluto essere a tal punto da dormire fuori, una notte, con Nicola Arboscelli (citato, insieme a tanti altri e altre, con nome e cognome, all’inizio di questo libro corale), nella piazza di Caltanissetta. Non posso mai dimenticare che la mattina, dopo aver dormito nella tenda con Nicola, accanto alla fontana con la statua di Plutone che rapisce Proserpina, appena alzato, incontrai cinque miei compaesani che stavano per entrare nel loro ufficio, al Credito Cooperativo di Caltanissetta, e li salutai fiero di un gesto che poteva sembrare strambo a uno sguardo borghese.
Poi, dieci anni dopo, quando sono arrivato a Ventimiglia, e ci sono rimasto per un anno (nel 2018 ho pubblicato il libro Un anno di frontiera), mi chiedevo come mai non fossi mai andato a Lampedusa, a due passi da casa mia (anche se a casa mia, cioè a Pietraperzia, ci ero tornato nel 2000, dopo la laurea a Milano e ci sono rimasto fino al 2005).
Ecco che nelle pagine di Alessandra ritrovo la “mia” Lampedusa, la frontiera siciliana, dove tutto ebbe inizio, cioè dove il movimento antirazzista (che poi si sarebbe chiamato No borders a Ventimiglia e altrove) fece le sue prime prove, dove sperimentò fino in fondo la forza di poche persone che, dal basso, spingevano per alzare il livello dei discorsi, della dignità, con i loro corpi, senza risparmiarsi, fino al cuore della rivolta!
A quel ragazzo che mi ha chiesto cosa ne pensassi della mafia in Sicilia, oltre che consigliare di leggere questo libro, gli farei ascoltare il concerto di Alessio Lega del 7 settembre del 2025, al camping Eden di Torricella sul Trasimeno, in chiusura del festival della Malanotte, quella parte in cui Alessio rivendica che “il movimento dei fasci dei lavoratori siciliani sviluppatosi tra il 1892 e il 1893 in Sicilia, fu la madre di tanti altri movimenti di rivolta dal basso”.
Leggendo il libro della Sciurba, viene da pensare a quello che molti studiosi poco visibilizzati hanno detto della Sicilia e del Sud e cioè che da oltre due secoli c’è una tendenza a distruggere l’immagine di un Sud ribelle, di lotta e di rivolta, per paura che tutto ciò faccia scuola, e quindi si tende a stuprare l’immagine del Sud con le narrazioni di rassegnazione, di malavita, di indolenza e si pigia a oltranza il tasto dei  “meridionali fannulloni”, “nati stanchi” e via “cabarettando” (quanta complicità, in questo, che molti non vedono o non vogliono vedere, in film, spettacolini di basso cabaret con comici degli ultimi venti anni che da Zelig in poi si riempiono i conti correnti con facili battute che alla lunga diventano aspetto dominante del Sud).
Alessandra Sciurba riscatta alla grande tutto questo “inferno” che nasconde il paradiso, dove per paradiso si intende lotta corale, instancabile, come quella portata avanti dall’autrice del libro e tanti altri e altre (anche il sottoscritto), tra il 2003 e il 2005, tra la Cap Anamur e il campeggio antirazzista di Licata di fine luglio/inizio agosto del 2005, con in mezzo le notti trascorse davanti il CPT Pian del Lago di Caltanissetta, le incursioni al CPT di Ragusa, partendo, almeno Alessandra e altri palermitani, dal Laboratorio Zeta, centro sociale occupato, dove furono accolti, dal 2023, 53 richiedenti asilo provenienti dal Sudan e in particolare dalla regione del Darfur (il primo capitolo si intitola: Laboratorio Zeta, 2003-2005).
A pagina 60 c’è una frase che traduce il senso di una strofa della canzone Partono gli emigranti di Alfredo Bandelli: “partono gli emigranti, partono per l’Europa, sotto lo sguardo della polizia”, canzone scritta cinquant’anni prima, cioè all’inizio degli anni Settanta, e riferita agli emigrati italiani in Belgio, Germania, Svizzera, Francia, e che molti di noi faticano a immaginare circondati da poliziotti, sia perché spesso conviene rimuovere la nostra miseria che ci accomuna a tanti emigranti di oggi, sia perché non ce la raccontano giusta, la storia, in molti libri di scuola e in molti giornali: “Alla fin fine, sono sempre uomini in divisa ad accompagnare l’esistenza di chi viene considerato un immigrato. Da qui comincia l’opera di criminalizzazione della loro semplice presenza sul territorio”.
L’autrice spesso ricorda a sé stessa una certa ingenuità dei gesti di quei pochi giovani determinati a sfidare, “l’estate della Cap Anamur, l’Italia e l’Europa”. Ma non come forma di autocritica, piuttosto per ricordare la deriva devastante in cui, nel giro di pochi anni, si è impantanata la civilità europea, dalle politiche istituzionali sui migranti (fino al memorandum con la Libia del 2017) all’orrore di molti cittadini anche giovani e anche di circuiti sedicenti solidali che dal 2013 in poi hanno vomitato parole di odio contro i più deboli venuti dal mare, parole forse inimmaginabili fino a pochi anni prima neanche per un leghista sfegatato? Riporto una data precisa perché ho documentato tutto con reportage, brevi racconti, libri e anche una canzone, molte cose scritte proprio nel 2013.
In quell’anno ci siamo ritrovati dopo tanti anni con Riccardo, uno di quelli che stava al Laboratorio Zeta, e siamo andati a Modica, dove una nostra coetanea vendeva pasta biologica in una festa di una cooperativa equo e solidale. Tra me e lei era nata una certa tenerezza, ma durante la cena con pochi amici, alla quale partecipò anche Riccardo, mi ero allontanato dalla tavola dove stavamo mangiando perché non riuscivo a digerire le parole orrende di lei sui migranti, scrissi una canzone che riporta il suo nome nel titolo, la mia unica canzone erotico-politica perché tra le altre cose, si prospettava una notte romantica tra me e lei ma sono uno di quelli che ancora non riesce a vivere una relazione intima se non c’è una complicità intellettuale!
Ebbene credo che in quegli anni lì si stesse consumando un ulteriore mutamento antropologico, era l’onda lunga della crisi del 2008 che si abbatteva su di noi sotto forma di esacerbazione della guerra tra poveri. A pagina 184, dopo tante frustrazioni e tante sconfitte, inizia ad arrivare il riscatto, chi la dura la vince o, come insegna la vedova molesta del Vangelo di Luca, “pregare vuol dire lottare, insistere, non arrendersi alla prima o alla seconda o alla terza sconfitta, sperare oltre la disperazione, spes contra spem”. Ed è così che al campeggio di Licata di fine agosto del 2005, diventati molti di più dei “pochissimi” della Cap Anamur, finalmente i partecipanti al campeggio entrano dentro la Palestra di Porto Empedocle che è stata adibita a centro di accoglienza di emergenza.
“Dopo un’ora di contrattazioni ottenemmo la possibilità di entrare. Due delegazioni da tre persone, con un medico, un avvocato e gli interpreti […]. Il nostro scopo era quello di informare ogni singola persona di ciò che stava avvenendo e dei diritti che poteva rivendicare, e poi volevamo raccogliere le tracce di tutta quella gente, non permettere che scomparissero nel nulla, come ogni volta”. Tra giornalismo di inchiesta e militanza, Alessandra Sciurba ci racconta quello che siamo e quello che possiamo essere se solo lo vogliamo. Non posso dimenticare una scena alla quale ho assistito ad Avignon, in Francia, nel 2009, nei giorni del festival del teatro più prestigioso d’Europa. Due poliziotti fermano un ragazzo africano e gli chiedono i documenti, un signore francese che vede la scena interviene e con buon senso provoca i poliziotti dicendo: “Perché chiedete i documenti a lui? Chiedeteli a me, perché non li chiedete a me?”.
Al di là di tutto, per una visione oggettiva delle cose, in quel periodo uscirono dei dati pubblicati sul Corriere della sera, e dicevano che in Francia, su cinque persone a cui la polizia chiede i documenti per strada, così, spontaneamente, senza indizi o motivi particolari, ebbene, su cinque, quattro sono di pelle nera! Questa consapevolezza e questa voglia di dire BASTA, di non restare a guardare, perché la rassegnazione è complicità, spinsero quei giovani fino al cuore della rivolta nonviolenta, e la descrizione si trova nelle ultime pagine del libro di Alessandra Sciurba, siamo sempre a Porto Empedocle, al Porto, la nave che viene da Lampedusa che porta i profughi sta per attraccare, ma questa volta: “Buttammo giù le transenne che caddero in acqua, il percorso confinato, quel giorno, si ritrovò a deragliare all’improvviso. [I poliziotti] Cercarono di fermarci. Di fare salire comunque i migranti sui pullman approntati per loro. Li prendevano a uno a uno, due poliziotti per ogni persona, e li spingevano dentro”.
A un certo punto però succede qualcosa che getta la polvere negli ingranaggi: “Nicola si siede sul gradino d’ingresso del pullman, e la grande portiera che cercava di chiudersi a intervalli regolari trovava invece quell’ostacolo imprevisto. Era in sciopero della fame da settimane, per protesta contro i centri di detenzione amministrativa”. Gli avvocati entrano nel pullman per fare delle domande ai migranti. “Enrico filmava tutto, la polizia ci si stringeva intorno”. Dopo che i militanti hanno bussato sui lati dell’autobus, succede qualcosa “che andava al di là di ogni nostra aspettativa”. Inizia l’insurrezione e la fuga: “I ragazzi imprigionati cominciarono a rispondere ai nostri colpi. Una, due, tre botte contro il vetro. Anche loro a urlare: LIBERTA’! E poi, d’un tratto, i finestroni che vanno in mille pezzi, e il silenzio, che, all’improvviso, avvolge ogni cosa”. Anche la gente di Porto Empedocle, questa volta, fa il tifo per loro: “Ce la fanno, possono farcela, nessuno li fermi”, si sentiva gridare. L’epilogo di questo libro è tragico e poetico insieme, lo lascio a chi lo leggerà, ma c’è un finale che volevo riportare: “Un giorno ce lo racconterai, un giorno ci racconterai tutto. Ma non ti chiederemo mai perché sei partito. Non ce ne importa niente del perché sei partito. Qualunque ragione va sempre bene per cominciare un viaggio”.
Si rivolge, l’autrice che è anche “operatrice” improvvisata, a un uomo che dorme all’Ospedale Civico di Palermo, in una stanza insieme ad altri, in coma, senza un braccio, amputatogli perché sbattendo contro uno scoglio, durante la traversata tra Libia e Lampedusa, aveva perso metà braccio ed era stato necessario amputarglielo. Un altro finale di questo libro che spiazza e incoraggia è che la Rete Antirazzista siciliana si era costituita spontaneamente e, come scrive l’autrice, si scioglie dopo il campeggio di Licata, dopo la festa finale con bagno in spiaggia, liberazione collettiva, personale e politica culminata nella fuga dei ragazzi dal pullman di Porto Empedocle. Due cose: lo scioglimento della RAS vuol dire anche, forse, evitare un’istituzionalizzazione di qualcosa che era nato spontaneamente, per emergenza ma anche per denunciare, testimoniare e agire.
Ecco, l’ultima cosa: forse si tratta di uno degli ultimi esempi di un campeggio politico che è militante quotidianamente e a tutti gli effetti, poi sarebbero venuti altre militanze, altri campeggi, in altri luoghi, dalla Val di Susa in poi, a Ventimiglia, ma quella dimensione della militanza quotidiana (ogni giorno al campeggio di Licata, racconta a Alessandra, tutti andavano a tentare un’azione diretta al CPT di Ragusa, al Porto di Porto Empedocle o al CPT di Caltanissetta), forse, è rimasta in un’epoca che dal 2010 in poi e, soprattutto, dopo la pandemia del 2020, non tornerà più, semplicemente perché c’è stato un passaggio epocale, uno spartiacque. Ma, come c’è scritto nel risvolto di copertina: “Da questa memoria straordinariamente attuale, chi crede sia necessario sentire sulla propria pelle le ingiustizie del mondo, indignarsi, agire per cambiarle, può trarre qualcosa che aiuti e incoraggi lungo la strada”.
Dove le cose accadono, Storie di razzismo istituzionale e lotte di comunità nella Sicilia di inizio millennio
di Alessandra Sciurba
pagg. 211, con foto di repertorio in b/n
Navarra editore, dicembre 2024
Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *