E se spuntasse un arcobaleno, senza guerre?

articoli, appuntamenti (a Milano), analisi e video di Barbara Spinelli, Enrico Tomaselli, Marco Pondrelli, Gabriel Popham, Alastair Crooke, Lucio Caracciolo, Caitlin Johnstone, Alberto Capece, Mario Di Vito, Piero Bevilacqua, Domenico Quirico, Daniela Ranieri, Luigi Lupo, Aurelien, Alessandro Orsini, Raniero La Valle, Ennio Cabiddu, Ginevra Bompiani, Luigi De Magistris, Michele Santoro, Nicola Rangeloni, Pubble, Jesús López Almejo, Giulietto Chiesa, Andrea Lucidi, Francesco Masala, Stefano Orsi, Mara Morini, Domenico Gallo, Massimo Mazzucco, Chris Hedges.

 

E se spuntasse un arcobaleno? Un appello di Raniero La Valle – Domenico Gallo

I have a dream! A sessant’anni dallo storico discorso di Martin Luther King, il 28 agosto del 1963 a Washington, si ripresenta di nuovo la necessità di articolare un sogno che ci dia la forza di attraversare l’oscurità del tempo presente, guidati dalla visione di un tempo nuovo e di una storia nuova. A proporci questo sogno è l’intervento appassionato di Raniero La Valle convocato da Michele Santoro alla Versiliana in una calda notte di fine estate.

Quello che ci illustra La Valle non è il suo sogno, ma il nostro sogno, per cui alla fine della serata possiamo tutti dire: we have a dream. Il tema è quello dell’aspettativa che spunti un arcobaleno. «Un arcobaleno – argomenta La Valle – è un simbolo potente (perché) riunisce la terra col cielo». Il sogno è di chiedere che l’arcobaleno porti sulla Terra tre cose: la pace, la salvaguardia della Terra e della dignità umana. «Prima di tutto la pace, la pace […] è la condizione di tutto e quella per la quale viviamo speriamo e amiamo. La seconda cosa è proprio la terra […] questa terra che è la nostra madre la dobbiamo recuperare difendere salvare. La terza cosa è la dignità, la dignità delle persone».

Da questo sogno nasce un appello che non è rivolto ai pacifisti, ma a tutti, perché si dia rappresentanza a questi tre beni che stiamo perdendo. Non si può neanche pensare alla pace se non si pone fine alla guerra in Ucraina. La pace si costruisce nell’ordinamento politico, e perciò è sempre imperfetta e sempre a rischio. L’antagonista della pace non è semplicemente la guerra ma è il sistema di guerra, che ormai è diventato il vero sovrano. La pace implica «assenza di violenza delle armi e di pratiche di guerra, vuol dire che non devono esserci rapporti antagonistici né sfide militari o sanzioni genocide tra gli Stati».

Questo sogno per prendere piede sulla terra deve incontrarsi con la politica e con i partiti…

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Maui, nelle Hawaii, come l’Ucraina – Massimo Mazzucco

 

 

Pensando a Giulietto Chiesa, ricordando una storiella ebraica – Francesco Masala

I Padroni Universali (mascherati nella Nato) chiamarono uno ad uno gli Stati Europei e dissero loro: “di quello che darò a te, al tuo nemico darò il doppio”.

Ciascuno Stato, debitamente istruito, nelle persone dei suoi governanti, liberamente scelse il nemico (la Russia), e disse ai Padroni Universali (che parlano inglese) cosa voleva avere, purché il nemico avesse il doppio: “Cavami un occhio!”.

I Padroni Universali, per la prima volta nella storia, non poterono dare il doppio al nemico.

ps: pare che stasera, in una località segreta, i Padroni Universali, nella loro riunione periodica, festeggeranno l’omicidio di Nicola Calipari, a 18 anni e sei mesi dal fatto.

 

 

 

Ucraina, il cinismo dei falchi Nato e Usa – Barbara Spinelli

In apparenza sembra davvero un’estate di sconfitte, quella subita dai falchi occidentali che pretendono di stabilizzare il pianeta scatenando guerre distruttive a ripetizione o inasprendo guerre iniziate da altri. Lo constata Seymour Hersh, che in un articolo del 17 agosto parla di Africa oltre che di Ucraina, e conferma quanto vanno dicendo da giorni i servizi Usa: la controffensiva ucraina sta fallendo, e c’è chi nella Nato comincia a prospettare cessioni di territori a Mosca, per metter fine a una guerra che Kiev combatte e prolunga per procura. Biden ancora non si espone, ma si espongono gli uomini della sua intelligence, che smettono di incensare Zelensky: il Washington Post riporta la loro opinione, secondo cui Kiev, non potendo riprendersi la porta d’accesso alla Crimea che è Melitopol, sta mancando la riconquista che si era promessa.

Negli stessi giorni, ricorda Hersh, la Francia di Macron è espulsa quasi completamente dalla sua sfera d’interesse nelle nazioni del Sahel. Dopo aver perso il Mali a seguito del golpe del 2022, dopo aver perso alleati stabili in Ciad, ora perde il Niger, ricco di uranio e crocevia delle migrazioni dal Sahel. Il golpe militare del 26 luglio ha spodestato il presidente Mohamed Bazoum, amico obbediente di Parigi e Washington. Le popolazioni hanno festeggiato la liberazione dal neocolonialismo francese in Africa centro-occidentale.

A ciò si aggiunga che il cosiddetto Sud Globale si riconosce sempre più nel gruppo non allineato dei Brics (Russia, Cina, Brasile, India, Sudafrica: il 40%della popolazione mondiale) riunito da martedì 22 agosto a Johannesburg. Sono circa 23 gli Stati che chiedono di entrare nel gruppo, ritenendolo l’unica alternativa al disordine prodotto dalla bellicosità Usa contro Russia e Cina, e dal dominio globale del dollaro. Aggressività e dominio che sottendono quella che Washington considera la missione sua e della Nato: il rules based international order. La regola base può essere riassunta così: se gli Stati Uniti vogliono dominare il mondo, come nel 1945 quando abbatterono Hitler e sganciarono l’atomica su Hiroshima e Nagasaki, devono ripetere senza sosta, spalleggiati da Europa e alcuni Paesi asiatici, le guerre “di civiltà” contro il Male Assoluto che da allora incessantemente si reincarna. Male che assume di volta in volta il volto di Milosevic, di Saddam Hussein, dei Talebani, di Gheddafi, e oggi di Putin e Xi Jinping. Sembrerebbe dunque l’estate dello scontento, per i neo conservatori occidentali, se non fosse che questi ultimi già stanno cercando il modo di uscire immacolati dalla prova ucraina, pronti per nuovi disordini e guerre. Come potranno riuscirvi? Come già hanno fatto in Vietnam o Afghanistan: scaricando le colpe sul Paese belligerante a cui è stata affidata la delega di combattere a oltranza, non solo per proteggere le sue terre dall’invasore ma per difendere addirittura la civiltà occidentale fino a piegare la potenza russa. Zelensky si è infilato volontariamente nella micidiale trappola e per questo punta ancora sulla guerra lunga: se non fosse così, Danimarca e Olanda non gli darebbero i caccia F-16 utilizzabili solo nel 2024…

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La NATO tra autismo e disimpegno – Enrico Tomaselli

Di fronte all’ormai evidente impossibilità di recuperare anche solo in parte i territori persi dall’Ucraina, la NATO cerca disperatamente una via d’uscita che non la demolisca politicamente. Ma, intrappolata nella propria propaganda, sembra preda di una sorta di autismo che le impedisce di vedere/accettare la realtà strategica – sia quella del conflitto, sia quella dell’emergente multipolarismo. La conseguenza è una pericolosa impasse, che trascinerà la guerra almeno sino al prossimo anno.

* * * *

La trappola dello storytelling

Quando – dopo otto anni di guerra civile – il conflitto ucraino è finalmente divampato in guerra aperta con la Russia, l’obiettivo statunitense era quello di schiacciare Mosca attraverso una guerra ibrida, la cui durata si stimava in meno di un anno. E, ovviamente, parte di questa guerra era una mobilitazione senza precedenti dell’apparato propagandistico e mediatico anglo-americano. Tenendo presente che il sistema dei media, praticamente a livello globale, ma certamente nei paesi occidentali, è totalmente in mano ad un ristretto numero di produttori/distributori di notizie (tutti di paesi NATO), e che questi sono a loro volta controllati – in modo diretto o indiretto – dalle agenzie di intelligence britanniche e statunitensi, è facile comprendere come ciò fosse logico oltre che necessario.

Ovviamente, anche la guerra mediatica è stata concepita e messa in atto sulla base del disegno complessivo, che come detto aveva un orizzonte temporale relativamente breve. La funzione della propaganda era relativamente semplice: non soltanto fornire un senso al conflitto, ma costruire una narrazione fondata su due pilastri: la demonizzazione del nemico e la certezza della vittoria.

Questi due elementi fondanti della narrazione bellica occidentale sono strettamente e funzionalmente connessi, in quanto – se dai per scontata la sconfitta nemica – la sua virulenta demonizzazione diventa non solo utile, ma possibile. Il presupposto, infatti, è che se l’avversario sarà schiacciato ed umiliato, dipingerlo come un mostro legittimerà ulteriormente tale approccio; e, per converso, essendo esclusa a priori l’eventualità del negoziato, non sarà in alcun modo di ostacolo.

È in fondo la medesima logica per la quale il governo Zelensky fece approvare una legge che vietava ogni trattativa con la Russia (finché alla presidenza di questa vi fosse Putin).

Il problema di questa postura è che se poi le cose vanno diversamente dal previsto, ci si ritrova incastrati nei propri presupposti; in parole povere, la trattativa (con Putin) dovrà farla un governo diverso, o quello attuale, ma dopo aver smentito se stesso.

Avendo fatto del conflitto ucraino una proxy war, la NATO si trova oggi in una duplice trappola, costruita dai propri stessi errori. In primo luogo, la guerra si è rivelata non solo tutt’altro che breve, ma anche assai sanguinosa e dispendiosa, cosa che ha messo a dura prova l’intero sistema militare-industriale dell’Alleanza Atlantica e la pone oggi dinanzi alla impossibilità di mantenere nel tempo un tale livello di sostegno economico e militare.

In secondo luogo, avendo martellato per un anno e mezzo sui due suddetti pilastri (“Putin = Hitler”, “L’Ucraina vincerà”), dinanzi all’evidenza che la vittoria ucraina è letteralmente impossibile, non può facilmente operare una conversione a 180° e, oltre a dover accettare la sconfitta, dover anche trattare con Hitler

Il gigantesco problema in cui si dibatte oggi la NATO è, quindi, fondamentalmente trovare una exit strategy praticabile. Ma, ancora una volta, a renderlo assai complicato è proprio l’auto-narrazione in cui persiste la leadership atlantica.

Se guardiamo ad esempio agli USA, che rimangono il fulcro di ogni decisione reale, osserviamo che la estrema polarizzazione che si è determinata (Biden vs Trump, democratici contro repubblicani) fa sì che i due elettorati tendano a far proprie le posizioni dei leader, a prescindere dalle convinzioni personali. Così abbiamo l’elettorato pro-Trump prevalentemente critico verso il prosieguo del sostegno a Kiev, mentre quello democratico è fortemente schierato a favore. Il risultato è che Biden, ormai lanciato nella campagna presidenziale per il secondo mandato, non può facilmente rovesciare la propria posizione in merito per non rischiare di perdere le elezioni. Il suo elettorato, infatti, è stato spinto ad irrigidirsi sul sostegno incondizionato (proprio dalla propaganda Democrat), e non glielo perdonerebbe.

L’amministrazione Biden, ed al suo interno soprattutto i neocon, era talmente sicura che tutto sarebbe andato come previsto, da non predisporre neanche una vera e propria strategia complessiva atta a conseguire gli obiettivi prefissi, figuriamoci poi dal pensare ad un possibile piano B.

La NATO, insomma, è rimasta prigioniera della sua stessa “retorica iperbolica”, come l’ha acutamente definita Branko Marcetic [1] su ‘Responsible Statecraft’ [2], la quale ha fatto sì che l’opinione pubblica fosse “indotta a pensare che l’esito della guerra non riguardi solo Kiev e la sua riconquista del territorio perduto, ma abbia una posta in gioco esistenziale, per la sicurezza degli Stati Uniti, per l’intero ordine globale e persino per la stessa democrazia” [3].

L’estrema radicalizzazione del discorso pubblico sulla guerra, insomma, determina un effetto boomerang, agendo non solo come strumento motivazionale per le opinioni pubbliche occidentali, ma di rimando anche sulle sue leadership, che sono in qualche misura costrette ad attenersi alla propria narrazione del conflitto.

E questa trappola agisce su due livelli, corrispondenti appunto ai due pilastri della guerra mediatica…

da qui

 

 

 

 

scrive Paolo Selmi:

Sempre meno carne da cannone fra le fila delle forze armate di Kiev, sempre più bisogno di sbatterne di nuovi al fronte.

E mentre sono gli stessi canali ucraini ad ammettere che ben l’83% dei cittadini ancora su suolo ucraino è CONTRARIO a nuove chiamate alle armi,
https://t.me/legitimniy/16167

MENTRE È PROPRIO NOTIZIA DI OGGI CHE 163.000 UOMINI UCRAINI ADULTI SONO RIUSCITI A SCAPPARE IN GERMANIA,
https://t.me/ukraina_ru/167308

il regime non perde tempo e pensa già ad arruolare cittadini precedentemente dichiarati non idonei.
https://t.me/boris_rozhin/96539

C’è chi ha sborsato fino a cinquemila dollari per certificati sanitari falsi o comunque per farsi dichiarare non idoneo,
https://t.me/ukraina_ru/167274
e per cui le recenti purghe fra i voenkom, i distretti militari, hanno azzerato il valore di tutti i fogli da essi rilasciati, e che ne dovrà sborsare altri cinquemila, o forse più per sfangarla questa volta.
https://t.me/rezident_ua/19494

Ma ci sono anche gli invalidi veri. Gente con problemi di cuore conclamati, con effettive invalidità riconosciute, che sarà sbattuta al fronte. Anche perché un impiegato statale fra le categorie protette difficilmente ha cinquemila dollari da dare al funzionario corrotto di turno. L’UCRAINA MUORE, ERODENDO TUTTE LE INFRASTRUTTURE CHE LA RENDEVANO UN PAESE CIVILE, TRASFORMANDOSI IN UN SERBATOIO A PERDERE DI CARNE DA CANNONE PER I SUOI PADRONI. NULLA PIÙ.

ANCHE LE SCUOLE A COSA SERVONO? QUESTI I VOLANTINI CHE I DISTRETTI MILITARI DISTRIBUISCONO FUORI DALLE SCUOLE SUPERIORI DI CHARKOV PER GLI STUDENTI DELL’ULTIMO ANNO: “L’ISTRUZIONE NON SALVA IL PAESE! ARRUOLATI NELLE FORZE ARMATE”.
https://t.me/ukraina_ru/167263

Si, arruolati per essere sbattuto a crepare sopra Rabotino, o a Verbovoe, dove anche oggi ne son morti a centinaia senza spostare la linea di fronte di un metro. Ma avere un serbatoio di carne da cannone a perdere, all’U-ccidente, va bene…

…SEMPRE IN QUESTA IDENTICA, CRIMINALE, MANIERA! Un omicidio continuo, programmato, intensivo di soldati altrui (perché se fossero stati USA o GB si sarebbero guardati bene dal dare certi ordini) ridotti a carne da cannone a perdere…

…Si tratta senza dubbio di un episodio increscioso, senza mezzi termini, di un crimine efferato. A Dnepropetrovsk forze dell’ordine fermano una macchina, uomo al volante con moglie e figli sui sedili posteriori. Il video parte con i poliziotti che cercano di tirare fuori la donna afferrandola per le braccia, mentre il marito si frappone opponendo resistenza. Segue una colluttazione alla fine della quale il marito muore davanti a moglie e figli.
https://t.me/dva_majors/24552

Da Pinelli a Cucchi, piuttosto che da Rodney King a George Floyd, niente di nuovo sotto il sole. Avrebbero potuto tenere sotto fermo la macchina e chiedere nel frattempo l’arrivo di rinforzi, ma così non è stato. L’esercizio della violenza si è trasformato sin da subito in un esercizio della prepotenza, fino al tragico finale.

Quel che fa specie è che negli USA fu un episodio del genere che diede il via al movimento BLM, con tutto il mondo che si inchinava prima di iniziare manifestazioni di qualsiasi tipo. In Francia probabilmente sarebbe andata a fuoco mezza Parigi. Anni e anni prima, l’incendio che attraversò l’intero Maghreb nelle sue cosiddette, tragiche, manipolate sin da subito (creative chaos) “primavere”, ebbe il preludio proprio in un episodio simile, occorso in Tunisia e con vittima un ambulante. Infine, la stessa MAIDAN del 2014 nasceva contro i soprusi della polizia, del potere, eccetera: fa niente che i cecchini autori degli spari sui manifestanti fossero baltici e georgiani coperti dalla CIA, fa niente che il tutto sfociò in un colpo di Stato dove al potere salì la cricca più reazionaria e antidemocratica da oltre vent’anni a quella parte, all’epoca andava bene tutto.

Qui invece niente. Ai padroni, e al regime che tengono in piedi, non solo tutto questo va bene, ma questa DELIBERATA STRATEGIA DEL TERRORE CONTRO IL SUO STESSO POPOLO serve a tenerlo a bada, a farlo vivere nel sospetto, nella delazione, nel “si salvi chi può” e speriamo di esser noi fra i “chi può”.

E al popolo ucraino? Quanto è e sarà disposto ancora a subire queste angherie? Quanto subirà l’ennesima “mobilitazione generale”, l’ennesima chiamata alle armi dove POCHI, POCHISSIMI potranno bellamente STRACCIARE QUATTRO CARTOLINE DI PRECETTO UNA DIETRO L’ALTRA, COME ZELENSKIJ FRA IL 2014 E IL 2015 (grazie ancora Faber), e MOLTI, MOLTISSIMI invece SARANNO SBATTUTI AL FRONTE UNA SETTIMANA DOPO ESSER STATI RASTRELLATI E SBATTUTI DENTRO LA CAMIONETTA?…

BIZANTINISMI E IPOCRISIA IN SCENA IERI SUI TELESCHERMI (SU DIVERSI TELESCHERMI…)

Ieri sera, nei titoli di apertura, sentivo il cinegiornale luce che si professa più “libero” annunciare ai quattro venti la notizia che il patàca si accontenterebbe anche solo di “arrivare alla Crimea”, perché così si potrebbe “far ragionare i russi” intorno a un tavolo. Questa la sostanza.
Se arrivassimo alla Crimea… se l’arcivescovo di Costantinopoli si arcivescoviscotantinopolizzasse… siamo a questi livelli, ma molto più beceri. L’intera campagna NATO, sin dalle decine di migliaia di soldati ucraini mandati al macello ad ARTEMOVSK, è da almeno dicembre dell’anno scorso che è stata impostata per ENTRARE in CRIMEA.
Non riporto neppure più i DRONI che OGNI NOTTE vengono abbattuti dai russi su territorio crimeano. Solo una settimana fa ha mandato al massacro marò in un’operazione che, fosse stata fatta da chiunque altro, anche un presidente u-ccidentale di seconda fascia (“tocca i fanti, ma lascia stare i santi”…), sarebbe stata oggetto di totale esecrazione, così come la rivendicazione aperta, ancorché agostana, dell’attentato al ponte di Crimea dello scorso anno.
Ora però l’U-ccidente ha bisogno che il suo burattino reciti il seguente copione, a beneficio delle sue telecamere: “noi siamo quelli ‘ragionevoli’, a noi basterebbe arrivare alla Crimea”.
Questo, ovviamente, NON riduce la mattanza in corso a RABOTINO, ma ne riduce la portata. LO FACCIO NON PER ARRIVARE PROPRIO LÌ DOVE AVEVO ANNUNCIATO… MA UN PO’ PIÙ IN SU. Come per dire, È TUTTO PIÙ PROPORZIONATO ADESSO… CI STA. Oltre che dare quella patina di ragionevolezza a un massacro, a una mattanza completamente illogica.
Bizantinismi.

E mentre l’uselin de la comare cerca di convincerci sul vero posto dove volea volare e i suoi uomini continuano a crepare senza neanche vederlo col lanternino, neanche quel posto ma i primi cento metri dopo il via…
NELLO STESSO MOMENTO IL NAZISTA PODOLJAK ANNUNCIA, ALLA TELEVISIONE UCRAINA: “NOI POSSIAMO ANNIENTARE TUTTI I RUSSI IN CRIMEA” (Ми можемо знищувати все російське в Криму) E AGGIUNGE CHE IN QUESTO GLI ALLEATI SONO D’ACCORDO.
https://t.me/polk105/10575

CHE L’U-CCIDENTE SIA D’ACCORDO CON LA STRATEGIA DEL TERRORE DEI NAZIFASCISTI CHE HANNO MANDATO AL POTERE COL COLPO DI STATO DEL 2014, È COSA NOTA SIN DAL 2014! Ma fa sempre specie guardare un cinegiornale luce italiano che dice una cosa, poi guardare la televisione ucraina e vedere esattamente l’opposto, un opposto coerente peraltro con quanto accade ogni giorno in quella martoriata terra. Ipocriti. Di un’ipocrisia cronica, maledettamente cronica, e che altrettanto maledettamente impesta ogni mezzo di comunicazione di massa…

…per garantirne la continuità, nella prossima tornata di coscrizione rientreranno malati cronici come i pazienti affetti da
– TBC
– malattie del sangue
– malattie endocrinologiche
– malattie psichiche,
eccetera eccetera (elenco completo qui sotto a cura del canale ucraino ZeRada).
https://t.me/ZeRada1/15561
Legitimnyj riprendendo questa notizia invita apertamente alla diserzione, all’imboscamento e alla fuga laddove possibile.
https://t.me/legitimniy/16176

Il regime di KIEV ha passato da tempo il punto di non ritorno. In questi ultimi scampoli di kontrastup, dopo le bombe a grappolo, dopo aver buttato nella mischia i reparti d’élite mandandoli a crepare esattamente come un mese fa le brigate di difesa territoriale, dopo aver alzato in volo gli ultimi caccia con i lanciamissili modificati per gli HARM NATO e vedere anch’essi fare la stessa fine dei precedenti, ora ha raggiunto livelli di crudeltà, verso il suo stesso popolo, a dir poco inauditi…

 

ULTIMI DATI SUI PROFITTI DELLE LOBBY DELLE ARMI IN UCRAINA

Dati raccolti dalla rivista turca Evrensel
https://www.evrensel.net/yazi/93470/ukraynada-baris-neden-uzak-bir-ihtimal

e ripresi da Fondsk.ru
https://fondsk.ru/news/2023/08/27/evrensel-voennyy-konflikt-na-ukraine-umnozhaet-pribyli-zapadnogo-oruzheynogo

Che esordisce citando il costo di un singolo missile TAURUS da 500 km di gittata: un milione di dollari. A godere, nel caso di forniture in “lend-lease” alle casse colabrodo di Kiev con garanzia NATO (di cui mi pare faccia parte anche l’italico stivale), sarebbero la teutonica MBDA Deutschland e la svedese SAAB Dynamics.

A godere già, e solo loro per decine di miliardi di dollari (già 50 a inizio 2023), sono invece: Lockheed Martin, Northrop Grumman, General Dynamics e Raytheon Technologies.

OLTRE ALLE FORNITURE AUMENTANO, OVVIAMENTE, ANCHE I PREZZI. Sicuramente anche questo ha influito sul quasi raddoppio del volume di affari delle armi USA fornite ai Paesi NATO: da 15,5 MILIARDI di dollari (2021) 28 MILIARDI (2022).

STESSO ANDAMENTO PER LA TEUTONICA RHEINMETALL, che ha goduto come non mai nella sua storia: fatturato + 13% (+6,4 MILIARDI di euro) e profitto + 27% (+754 MILIONI DI EURO). Avran dato il premio di produzione ai dipendenti e messo a tacere tutti, sindacati compresi? A pensar male si fa peccato…

… ma intanto Rheinmetall apre nuove fabbriche in Ungheria e Spagna. D’altronde, DUE TERZI DEI SUOI UTILI VENGONO DAI MERCATI ESTERI, NON TEDESCHI!

Conclude Evrensel:

“I monopoli dell’energia e delle armi di EUROPA E USA, che hanno il potere decisionale su questo conflitto, continueranno a far finta di niente finché potranno aggiungere profitto ai loro profitti attuali.”
Savaşa karar veren Avrupa ve ABD’nin silah ve enerji tekelleri kârlarına kâr katmaya devam ettikçe de uzak kalmaya devam edecek.

UNA CONCENTRAZIONE E ACCUMULAZIONE DI PROFITTI A SENSO UNICO, denuncia la rivista:

“Pertanto, questa condizione di guerra a bassa intensità su un lungo periodo AVVANTAGGIA L’Occidente e i suoi monopoli e DANNEGGIA Russia, Ucraina e le regioni e i popoli del mondo.”
Bu nedenle, mevcut düşük yoğunluklu savaş halinin uzun bir sürece yayılması Batı ve onun tekellerinin lehine, Rusya, Ukrayna, bölge ve dünya halklarının aleyhine.

Uno potrebbe obbiettare: “ma il boccino in mano ce l’hanno i russi, son loro che non attaccano a tutta e chiudono la partita”, aggiungo. Si e no. In primo luogo, il loro esercito se lo stanno “formando” in gran parte sul campo in questo conflitto. Ricordiamo che inizialmente alle vicende belliche han partecipato gli uomini chiamati alle manovre coi bielorussi (gruppi Z – zapad, V – vostok) cui si sono aggiunti man mano altri, ma in numero completamente insufficiente a garantire alcunché. I risultati sono stati unicamente frutto dell’insipienza dei padroni NATO che hanno continuato, fino all’ultimo, nel loro piano di RISOLUZIONE “AZERA” del conflitto nel Donbass accumulando su quella linea il grosso delle truppe e lasciando COLPEVOLMENTE sguarnite le vie d’accesso a Kiev e alle regioni del Sud. Se i risultati sono arrivati inizialmente, nella loro guerra al risparmio, NONOSTANTE i loro errori e le loro scarse forze, è stato unicamente perché gli ERRORI TATTICO-STRATEGICI NATO, figli delle loro ambizioni (e ossessioni) su Donbass, Crimea e territorio russo in generale, portavano altrove.

In secondo luogo, ora la guerra si è trasformata in una guerra per l’esistenza della Russia stessa. E’ stata la NATO a portarla su questo piano. In una guerra per l’esistenza occorre tenere maggiormente conto delle proprie risorse, specialmente in un periodo come questo. Dal punto di vista militare ciò si concretizza nella necessità di RIFORMARE e SVILUPPARE le proprie forze armate ADATTANDOLE alle nuove esigenze emerse dalla guerra NATO contro di loro. E’ EVIDENTE, peraltro, questa tendenza. Questo, mentre DALL’ALTRO LATO SI DISTRUGGE PROGRESSIVAMENTE (DEMILITARIZACIJA) IL POTENZIALE BELLICO NEMICO. Direi che di carne al fuoco ce n’è già SIN TROPPA.

Dal punto di vista economico, infine, il riferimento va alla SOSTENIBILITA’ (anche se nessun economista russo utilizzerebbe mai questo termine) dell’operazione stessa sul quadro economico, sociale, politico generale. Ditte statali, non private, che posseggono o partecipano (Kalashnikov, x es. 25%) con quote di maggioranza o di controllo l’intero complesso militare industriale russo, con una mano raccolgono e con la stessa, medesima mano, finanziano… il complesso militare industriale russo avrebbe tutt’altro interesse: tornare a produrre per vendere all’estero, a prezzi non calmierati, e a incamerare profitti “nuovi” e, soprattutto, “veri”. Quello che fa la lobby delle armi USA e, più in generale, occidentale. La Russia non è crollata, nonostante le sanzioni, i blocchi, i gasdotti saltati (A DIFFERENZA DELLE LOBBY DELL’ENERGIA USA CHE SI SONO PRESI FETTE DI TORTA IN EUROPA SINO A UN ANNO FA INIMMAGINABILI), l’aumento delle spese militari a bilancio. Ma ciò non vuol dire che possa ingranare altre due o tre marce in più di quella attuale. Anzi!

In quest’ottica la Russia nell’accettare lo scontro con la NATO a questo ritmo, senza andare a tutta, sta semplicemente SCEGLIENDO IL MALE MINORE, in base al fiato e alle risorse che intende conservare in vista di sviluppi assolutamente imprevedibili e indipendenti dalla sua volontà. Persino un’offerta di tregua, oggi, sarebbe deleteria per i russi. Una specie di congelamento temporaneo, dove la NATO continuerebbe a logorarne confini e uomini come fa ora in Crimea e come ha fatto per i nove anni in cui si è riarmata infischiandosene bellamente di Minsk-1 e Minsk-2, come peraltro ammesso da Sarkozy, Merkel e non solo. La pace a cui dovranno condurre i negoziati, se e quando si intavoleranno, dovrà essere duratura e basata sia su impegni precisi (ritiro di entrambi gli schieramenti per centinaia di km) che su garanzie materiali degli stessi (la famosa Ucraina con un esercito di 100.000 uomini per autodifesa, neutrale, non ostile alla Russia e ai russi che in essa vi abitano da secoli, già firmata dai negoziatori ucraini e che i padroni USA e UE hanno stracciato).

Del resto, conclude (e questa volta per davvero) Evrensel:

“Pertanto, occorre prestare molta attenzione al fatto che, fino al primo di settembre, a beneficiare di questa guerra, siano stati i Paesi imperialisti Occidentali e i loro monopoli delle armi e dell’energia”…

 

da qui

 

 

Chris Hedges – “Il trauma collettivo della società Usa è la strada verso la tirannia”

La società americana genera traumi e questo trauma si esprime in una varietà di patologie autodistruttive, tra cui l’erosione della democrazia e l’ascesa del neofascismo.

Il capitalismo aziendale, definito dal culto del sé e dallo sfruttamento spietato del mondo naturale e di tutte le forme di vita a scopo di lucro, prospera favorendo disturbi psicologici e fisici cronici. Le malattie e le patologie della disperazione: l’alienazione, l’ipertensione, il diabete, l’ansia, la depressione, l’obesità patologica, le sparatorie di massa (oggi  quasi  due al giorno in media), la violenza domestica e sessuale, le overdose di droga ( oltre  100.000 all’anno) e il suicidio ( 49.000 morti  nel 2022) – sono le conseguenze di una società profondamente traumatizzata.

Vengono “celebrati” i tratti fondamentali degli psicopatici: fascino superficiale, grandiosità e importanza personale, bisogno di stimolazione costante, propensione alla menzogna, all’inganno, alla manipolazione e incapacità di provare rimorso o senso di colpa. Le virtù dell’empatia, della compassione e del sacrificio di sé vengono sminuite, trascurate e schiacciate. Le professioni che sostengono la comunità, come l’insegnamento, il lavoro manuale, le arti, il giornalismo e l’assistenza infermieristica, sono sottopagate e sovraccariche di lavoro. Le professioni che sfruttano, come quelle dell’alta finanza, delle Big Pharma, delle Big Oil e dell’informatica, sono elargite di prestigio, denaro e potere.

“Il fatto che milioni di persone condividano gli stessi vizi non rende questi vizi virtù, il fatto che condividano tanti errori non rende gli errori verità, e il fatto che milioni di persone condividano le stesse forme di patologia mentale non fa non rendere queste persone sane”,  scrive Eric Fromm  in The Sane Society…

continua qui

 

 

“La guerra in Ucraina non è iniziata ieri e nemmeno un anno fa, ma nel 2014, quando nazisti ucraini hanno iniziato a uccidere russi nel Donbass”

“La guerra in Ucraina non è iniziata ieri e nemmeno un anno fa, ma nel 2014, quando nazisti ucraini hanno iniziato a uccidere russi nel Donbass”, ha dichiarato l’ex e forse futuro premier slovacco Robert Fico.

A un mese dalle elezioni parlamentari straordinarie, il partito di Fico, “Direzione – Socialdemocrazia”, è saldamente in testa in tutti i sondaggi pre-elettorali.

da qui

 

Delirium tremens – Alberto Capece

Davvero l’occidente o meglio la sua testa situata oltre atlantico ora delira perché nella sua lunga carriera di serial killer della pace non si è mai trovata nella situazione di essere presa a bastonate dal diretto avversario che si sta rivelando più forte. E più si delinea sconfitta più si cerca in qualche modo di aumentare il massacro pur di non doverla ammettere: la capacità dell’Ucraina di sostenere una qualunque offensiva diminuisce ogni giorno che passa eppure come in un film dell’orrore l’occidente cerca di fare  pressione  affinché si mobilitino anche anziani e ragazzini  per mettere in piedi un nuovo esercito di 300.000 uomini  che dovrebbe ricevere un addestramento per forza di cose sommario e spesso – come il soldati ucraini  sostengono- completamente avulso dalla realtà del teatro di guerra effettivo: una massa di uomini mandata al macello per la maggior gloria di Biden e delle presidenziali americane.

La cosa totalmente folle è che questi personaggi delle forze armate o dei servizi pensano come se il nemico non esistesse e la Russia non potesse a sua volta disporre di un bacino di reclute assai più ampio di un’Ucraima  distrutto che conta ormai 18 milioni di abitanti dai quasi 50 che aveva al tempo dell’Unione Sovietica e che rappresenta benissimo le delizie del capitalismo, visto che il fenomeno di spopolamento ha colpito gli stati baltici e altri Paesi dell’Est- Anzi per la verità la Russia sta già addestrando altri 300 mila uomini per non farsi sorprendere da un ampliamento della guerra. Certo in questa ansia di sangue degli Usa e dell’occidente in generale, gioca anche la possibilità di guadagno che non passa solo attraverso la vendita gigantesca di armi, ma anche di strumenti finanziari come i titoli di stato ucraini che sarebbero meno della carta straccia se non fossero uno strumento finanziario che rimane dentro la speculazione occidentale, facendo arricchire i soliti noti. C’è però anche un elemento di follia nel non voler riconoscere una realtà che è assai semplice da  decifrare, c’è un ‘ostinazione patologica  che in psicoanalisi viete attribuito a forme estreme di narcisismo e di senso di superiorità che non viene scalfito nemmeno dall’evidenza…

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Il prossimo autunno – Marco Pondrelli

Alcuni opinionisti e politici italiani ricordano molto da vicino Kamasuka, il soldato giapponese protagonista di un film con Bud Spencer e Terence Hill, che continuava a combattere nonostante la guerra fosse finita da decenni, sappiamo che si ispirava ad un evento reale ma a renderlo più simile ai nostrani guerrafondai è l’ironica caricatura del film.

Oramai anche il capo di gabinetto di Stoltenberg è diventato putiniano (aspettiamo con ansia la denuncia di repubblica e corriere) avendo capito che la guerra non può essere vinta e Sarkozy ritiene necessario il dialogo con la Russia. Quando intervenne al teatro Lirico di Milano poco prima di essere arrestato e giustiziato dai partigiani, Mussolini continuava a parlare di vittoria, come direbbe Marx siamo passati dal dramma alla farsa: da Mussolini a Kamasuka.

Elena Basile ha scritto su ‘il fatto quotidiano’ che il vertice di Gedda non ha segnato l’avvicinamento della Cina all’Occidente come qualcuno voleva fare credere. Sarebbe stato strano visto che l’Occidente collettivo è lo stesso che addita Pechino come principale nemico, proprio per questo il piano di pace cinese rimane il tentativo più realistico per porre fine alla guerra iniziata nel 2014.

Siamo consapevoli che lo scontro mondiale difficilmente troverà una conclusione a breve termine, quindi anche se in forme diverse continuerà dopo la fine delle ostilità in Ucraina, in ogni caso oggi la priorità è chiudere questa guerra.

Arrivare ad un compromesso è negli interessi di tutti, compreso l’Occidente. In tanti hanno esultato per il recente deprezzamento del rublo, erano gli stessi che ci garantivano un anno fa che l’economia russa stava per crollare e ci dicevano anche che l’esercito di Putin, pronto a conquistare l’Europa intera, si sta disfacendo. La realtà è diversa, dopo la Germania anche l’Olanda è entrata in recessione, la situazione nel resto dell’eurozona non è migliore, come scritto su ‘il sole 24 ore’ del 17 agosto ‘la produzione è di fatto diminuita se si escludono i dati volatili dell’Irlanda, che ha registrato un aumento a due cifre‘.

Come abbiamo più volte affermato questa è una guerra che gli USA stanno facendo contro la Russia ma anche contro l’Europa, purtroppo per loro anche oltreoceano le cose non vanno meglio, è stato sempre l’organo di Confindustria ad informarci che le bancherotte di aziende statunitensi sono al massimo dal 2010. L’economia statunitense rimane debole perché eccessivamente finanziarizzata, la povertà, le crescenti diseguaglianze che si sommano alle tensioni razziali formano un ritratto del Paese molto lontano dalle ‘mille luci di New York’, che ci raccontano di un benessere condiviso. La novità positiva è che l’estate che gli USA stanno vivendo è un’estate calda, non solo a causa del clima ma anche di una imponente ondata di scioperi partita proprio dalla fabbrica dei sogni (o degli incubi): Hollywood. Queste lotte si sono diffuse ad altre realtà come quelle alberghiere, dell’automotive e degli spedizionieri.

È sempre più chiaro che la lotta di classe oggi si lega alla lotta contro l’imperialismo. La classe operaia sa chi dovrà pagare i costi della guerra, lo sa perché non è una novità, in Grecia la Ue mentre con una mano affamava il popolo con l’altra imponeva l’aumento delle spese militari. Il governo Meloni ha dichiarato guerra ai poveri, si taglia il reddito di cittadinanza con la motivazione che chi non lavora e solo perché non ne ha voglia e preferisce girare in Ferrari grazie ai soldi pubblici (frasi realmente pronunciate), ma allo stesso tempo le forze politiche si sono impegnate ad aumentare il budget della difesa. Fra poco ci diranno che il 2% del PIL è insufficiente e che bisogna spendere ancora di più e questi soldi saranno trovati tagliando la spesa sociale. Sembra passato un secolo ma sono solo pochi anni da quando, durante la pandemia, tutti i politici facevano a gara nel difendere la sanità pubblica e nel promettere assunzioni di medici e infermieri.

Contro tutto questo bisogna lottare, come a Genova dove i portuali sono stati in grado di unire le lotte contro lo sfruttamento dei lavoratori al blocco delle navi cariche d’armi. Se l’autunno che abbiamo alle spalle è stato brutto quello che ci si prospetta è ancora peggiore, ripensando e attualizzando una famosa frase di Che Guevara oggi dobbiamo creare 10, 100, 1000 Genova.

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La lotta contro la guerra è lotta di tutti: note dal campeggio NO MUOS di Niscemi – Gabriel Popham

Niscemi, Sicilia – 46 enormi antenne sono distribuite su un vasto tratto di campagna siciliana, protette da alte recinzioni sovrastate dalle micidiali concertine. In lontananza, oltre le colline, tre enormi parabole satellitari ricevono e trasmettono le comunicazioni che dirigono i droni e gli aerei militari statunitensi attraverso il Mediterraneo, il Medio Oriente, l’Africa e l’Europa dell’Est. Qui, nel cuore della Sicilia, si trova uno dei più sensibili luoghi strategici del complesso militare-industriale statunitense, il Mobile User Objective System, o semplicemente MUOS, come lo chiamano tutti.

Negli ultimi quindici anni, il movimento NO MUOS ha riunito attivisti antimilitaristi di tutta Italia, in lotta per lo smantellamento del MUOS e per porre fine alla militarizzazione da tempo in corso in Sicilia e nell’Italia intera. Durante la prima settimana di agosto di quest’anno, si è tenuto a Niscemi un campeggio, a dieci anni dal primo campeggio che venne organizzato nel 2013.

Quest’anno, in un contesto di crescente escalation della corsa agli armamenti a livello globale, l’assemblea convocata dal movimento NO MUOS si è posta l’obiettivo di porre la guerra e la militarizzazione al centro di tutte le lotte in Italia oggi. Per il 21 ottobre è stata indetta una giornata d’azione a livello nazionale, che prevede numerose manifestazioni in tutto il Paese. Porre fine alla macchina da guerra transnazionale è considerate una causa comune che potrà unificare tutte le singole lotte dal basso che esistono nell’Italia di oggi, dalle lotte ambientaliste a quelle per la giustizia sociale e sul fronte del lavoro: l’appello che viene dal movimento NO MUOS è di riconoscere il ruolo centrale della guerra in tutte queste lotte, ed è quindi un appello all’unità in un movimento che riesca a rappresentarle tutte.

Per i portavoce del movimento NO MUOS, sfidare il consolidamento di un’economia di guerra in Italia non significa schierarsi da una parte o dall’altra dei conflitti in corso, ma piuttosto porre fine alla devastazione dei territori e della vita delle comunità che ci abitano. L’assemblea, che si è svolta sabato 5 agosto, ha riunito attivistǝ provenienti da movimenti di lotta contro l’espansione delle basi militari, contro lo sperpero di fondi pubblici indirizzati verso investimenti militari e contro il cosiddetto “dual use” delle infrastrutture civili per scopi militari, come il famigerato ponte sullo stretto di Messina, ora apertamente descritto come infrastruttura bellica. Nel tardo pomeriggio, una manifestazione ha visto  la partecipazione di diverse centinaia di manifestanti che a piedi si sono dirette verso la base militare, chiedendo a gran voce che venga smantellata, e che il territorio su cui sorge venga ripristinato. Smuntamulu, smontiamo la base, stave scritto sul lungo striscione che apriva il corteo.

Mentre gli attivisti italiani che si oppongo alla guerra lanciano l’allarme sul ruolo sempre più centrale del Paese nell’attuale corsa agli armamenti globali, il MUOS è solo uno dei tanti bersagli della protesta: sono ben 120 le basi militari statunitensi sparse tra le isole italiane e la terraferma, e le basi NATO in cui sono stoccate le testate nucleari nel Nord del Paese, e altre infrastrutture strategiche, sono considerate prioritarie dall’Unione Europea. Come se non bastasse, le forze armate italiane sono sempre più presenti ormai nel mondo della scuola, con eventi ‘speciali’ rivolti a bambini non più grandi di 10 anni, e molti dipartimenti universitari ricevono finanziamenti dai colossi dell’industria bellica, come nel caso della Leonardo a capitale pubblico-privato. Sono davvero tanti i casi che mostrano come la società italiana si stia orentando verso un’economia di guerra…

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Alastair Crooke – No, la gente non piangerà per l’occidente

Strategic Culture

[Traduzione a cura di: Nora Hoppe]

Michael Anton, ex consigliere presidenziale per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, ci offre questa analogia per la situazione odierna degli Stati Uniti e dell’Europa:

    “Il 20 settembre 1911, la RMS Olympic – nave gemella dello sfortunato Titanic – si scontrò con l’incrociatore della Royal Navy HMS Hawke, nonostante entrambe le navi viaggiassero a bassa velocità, in contatto visivo tra loro – per 80 minuti. ‘Si trattò’, scrive lo storico marittimo John Maxtone-Graham, ‘di una di quelle incredibili convergenze, in pieno giorno, su un mare calmo e in vista della terraferma, in cui due imbarcazioni che normalmente operavano, si avviarono allegramente verso il punto d’impatto – come ipnotizzate’.”

Anche noi sembriamo diretti verso un punto d’impatto simile, con la prospettiva di una collisione in piena vista – e una ovvia come lo era quel giorno del 1911. Allo stesso modo, la nostra classe dirigente non è favorevole a cambiare rotta. Deve volere questa percussione – o forse vede un Armageddon di collisione come destinato in ultima analisi a fornire la strada per il trionfo della “rettitudine”.

Di certo, il momento attuale è definito in modo cupo come un momento di gravi previsioni economiche, che coesistono con uno stato d’animo di impasse politica. È sempre più chiaro a un numero crescente di persone in Occidente che qualcosa è andato terribilmente storto con il “progetto Ucraina”. Le previsioni ottimistiche e le proiezioni di una vittoria certa non si sono concretizzate, e l’Occidente si trova invece di fronte alla realtà del sacrificio sanguinoso di centinaia di migliaia di uomini ucraini alla loro fantasia di un Osiride smembrato.

L’Occidente non sa cosa fare. Si aggira con aria smarrita.

L’intero pasticcio viene talvolta spiegato come il risultato di un errore di calcolo delle élite occidentali. La situazione, tuttavia, è ben peggiore: La pura e semplice disfunzionalità e la prevalenza dell’entropia istituzionale sono così evidenti che non c’è bisogno di aggiungere altro.

La disfunzione dell’Occidente va ben oltre la situazione del progetto ucraino. È assolutamente ovunque. Le istituzioni pubbliche e private, soprattutto quelle dello Stato, hanno difficoltà a portare a termine qualsiasi cosa; le politiche governative assomigliano a liste di desideri stilate frettolosamente, che tutti sanno avranno scarsi effetti pratici. Ecco perché i politici hanno una nuova priorità: “non perdere il controllo della narrazione”.

Il “neologismo” di Hartmut Rosa “frenetic standstill” [“una stasi frenetica”] sembra particolarmente azzeccato.

In parole povere, siamo in preda a una nuova iterazione della politica del 1968. Il commentatore statunitense Christopher Rufo osserva che,

 

“È come se avessimo vissuto una ricorrenza senza fine: il Black Panther Party riappare come movimento Black Lives Matter; i pamphlet dei Weather Underground si trasformano in documenti accademici; i guerriglieri marxisti-leninisti si scambiano le loro bandoliere e diventano gestori di una rivoluzione guidata dall’élite nei modi e nei costumi. L’ideologia e la narrativa hanno mantenuto la loro posizione di geloso egemone.”

 

Herbert Marcuse nel 1972 fu forse prematuro nel dichiarare la morte della rivoluzione del 1968. Tuttavia, anche verso la fine di quell’anno, la spinta è stata evidente con gli elettori che hanno votato per Richard Nixon, che aveva promesso di ripristinare la legge e l’ordine. Ebbene, Nixon è stato debitamente “rimosso” – e l’ideologia alla base del 1968 è gradualmente tornata in auge:

 

    “Gli attivisti di sinistra oggi hanno resuscitato la militanza e le tattiche degli anni ’60 – i movimenti radicali sono istanziati, organizzando manifestazioni e usando la minaccia della violenza per raggiungere gli obiettivi politici. Durante l’estate del 2020, il movimento Black Lives Matter ha condotto proteste in 140 città. Molte di queste manifestazioni sono diventate violente, la più grande esplosione di disordini razziali di sinistra dalla fine degli anni ’60”scrive Rufo.

 

“Il punto di partenza è percepire correttamente l’attuale situazione in America. L’amara ironia della Rivoluzione del 1968 è che ha raggiunto la ‘carica’ – ma non ha aperto nuove possibilità… La conquista apparentemente totale da parte della sinistra delle principali istituzioni – l’istruzione pubblica, le università, la leadership del settore privato, la cultura e, sempre più spesso, anche le scienze – fa apparire l’attuale campo di battaglia schiacciante.”

 

Eppure, “ha rinchiuso le principali istituzioni della società all’interno di un’ortodossia soffocante… Sebbene abbia accumulato significativi vantaggi amministrativi, non è riuscita a ottenere risultati”. Abbiamo un intenso livello di polarizzazione politica e culturale che coesiste con la sensazione di essere intrappolati nella stasi. La vita pubblica è sospesa e, con la “crisi” come norma, la politica mainstream scivola sempre più vicino al vecchio vizio europeo del nichilismo.

Ciò che distingue – e che deforma – la narrazione degli odierni discendenti intellettuali del ’68 è la loro insistenza non solo nel definire e controllare la narrazione, ma anche nel richiedere che la guerra culturale venga assimilata nell’insieme dei valori personali di ciascun individuo. E inoltre, di imporre che essi, come individui, riflettano questa ideologia nelle loro azioni e nel loro linguaggio quotidiani – o rischiano la cancellazione. Ovvero, una Guerra Culturale in piena regola.

I segni distintivi odierni del “razzismo sistemico” e del “privilegio bianco”, insieme ai diritti identitari, alla diversità e al transgenderismo, stanno dividendo gli Stati Uniti tra due norme identitarie: Quelle della “Repubblica”, cioè quella della rivoluzione del 1776, contro quelle della rivoluzione del 1968.

Anche in Europa c’è una profonda schizofrenia: Da un lato, l’élite di Davos è impegnata in una narrazione che sostiene che il passato dell’Europa è stato – fondamentalmente – un passato di supremazia coloniale razzista. E che questo richieda a enti pubblici e privati di offrire un risarcimento per gli atti storici di discriminazione e colonialismo – una visione che impone a tutti gli europei il dovere di “impegnarsi per la diversità, la protezione delle identità – e l’equità radicale”…

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Perché la pace Russia-Ucraina non è possibile – Lucio Caracciolo

La pace in Ucraina è impossibile. La guerra può finire solo in tre modi: collasso russo, collasso ucraino o cessate-il-fuoco per esaurimento di entrambi un minuto prima del loro cedimento strutturale. Nel primo caso crollerebbe non solo Putin ma forse la Federazione Russa. Nel secondo, insieme a Zelensky sarebbe eliminata anche la Repubblica Ucraina, spartita fra russi e altri vicini. Nel terzo, il grado di distruzione fisica e morale deciderebbe della sopravvivenza di Putin e Zelensky e impegnerebbe per molti anni i loro successori in una ricostruzione da quasi zero. Nessuno dei tre scenari implica negoziato, tantomeno trattato di pace. Solo capitolazione (casi uno e due) o tregua lungo la linea del fuoco garantita da un contingente internazionale, impregiudicate restando le incomponibili rivendicazioni territoriali di russi e ucraini.

Poiché la guerra è al grado strategico uno scontro sempre più diretto fra Stati Uniti e Russia, quindi si riflette sulla decisiva partita sino-americana, i tre esiti citati cambierebbero di molto la posizione del Numero Uno. Per Washington la terza ipotesi sarebbe la meno peggiore. La prima potrebbe parere ottimale, non fosse che implicherebbe il rischio di disintegrazione della superpotenza atomica rivale, con effetti imprevedibili, e la fine della motivazione con cui l’America ha sempre legittimato la sua egemonia in Europa: proteggerci dai russi, rossi o bianchi che siano. Non facile inventarsene un’altra. Insomma, Putin sarà un “figlio di puttana”, ma Biden non vuole certo fargli perdere la faccia. Tantomeno vuole perdere la Russia. Il problema è che non sa bene che cosa volere. Quanto a noi europei, divisi su quale sia lo scenario meno devastante, saremo comunque chiamati a pagare prezzi economici e ad assumerci responsabilità di sicurezza di cui preferiamo non avere idea. Far finta di nulla, quasi la partita investisse solo la nostra volontà/capacità di tenere in piedi l’Ucraina aggredita con armi e denari, rischia di provocare uno shock quando dovremo effettivamente pagare la nostra quota di conto. Quando, non se. Comunque molto più di quanto abbiamo già devoluto. Perché certo l’America non paga per noi.

Dopo vari mesi di inconclusiva controffensiva ucraina, siamo a questo trivio. L’Ucraina ha resistito eroicamente all’invasione russa, al prezzo però della perdita di un quinto del proprio territorio (il danno minore, considerando anche che sono spazi abitati in buona parte da cittadini ucraini non simpatizzanti per Kiev), oltre a milioni di rifugiati o sfollati (pari a circa un terzo degli abitanti al momento dell’indipendenza, nel 1991), a decine di migliaia di morti e alla fine della sovranità finanziaria (il Tesoro ucraino vive dei fondi americani ed europei). Visto il prevedibile stallo al fronte, Zelensky spera di ottenere ciò che non può avere con le armi attraverso una controffensiva diplomatica, che però si limita al dialogo con paesi amici o non avversi. Ma questa è propaganda, non politica. E’ col nemico che si negozia. Finora non se ne vede segno. Al massimo russi e ucraini bisbigliano in russo sotto il tavolo, senza produrre nulla.

La Russia dice di volersi “accontentare” dei territori annessi, una volta fallito il blitz su Kiev. Ma nessun governo ucraino può permettersi di cedere i territori occupati. I russi hanno subìto gravi perdite. Soprattutto, sono finiti nella tenaglia sino-americana. I due cari nemici godono dell’indebolimento della Russia, chi allargando la Nato chi mettendo le mani sulla sfera d’influenza ex sovietica, specie in Asia centrale. Nella guerra di attrito tuttavia la Russia dispone di risorse nettamente superiori all’Ucraina. Quindi potrebbe permettersi di proseguire il conflitto contando sul collasso di Kiev, ovvero sul non troppo graduale disimpegno degli occidentali. Scommessa ad alto rischio. Perché un conflitto che non si chiude spesso si allarga.

Quanto agli americani. Da quasi un anno hanno fatto sapere a Kiev che è meglio finirla qui. Soluzione “coreana”: cessate-il-fuoco a tempo indefinito, senza che nessuno debba concedere nulla. Il brusco “no” di Biden all’ingresso ucraino nella Nato, contro il parere di polacchi, baltici e altri europei, è segno esplicito di questa volontà. Inoltre, supportare la controffensiva ucraina con armi peraltro non decisive e insieme commentarne pubblicamente le scarse possibilità di successo rivela un eccesso di cinismo, per niente apprezzato da Zelensky. Ora Washington scopre di aver perso il controllo di Kiev, che in realtà non ha mai avuto. E teme che se l’Ucraina decidesse di battersi a tempo indefinito, fino all’ultimo uomo, rischierebbe di perdere tutto. A quel punto la sconfitta strategica sarebbe americana, visto il capitale di credibilità investito nella causa del paese aggredito. Altro che Afghanistan. La guerra non sta andando secondo i piani di nessuno, come quasi sempre. In carenza di una vera pace, il cessate-il-fuoco potrebbe arrivare troppo tardi per tutti. Sarebbe questo il tempo della diplomazia segreta diretta, unica alternativa alla catastrofe. O forse sarebbe stato, per esempio in tempo di guerra fredda. Ma quello era un ordine di pace e questo è il mondo della giungla.

https://infosannio.com/2023/09/01/perche-la-pace-russia-ucraina-non-e-possibile/

 

 

 

 

I grandi e coraggiosi guerrieri per procura occidentali si lamentano della codardia delle truppe ucraine – Caitlin Johnstone

Insieme alle continue notizie che la controffensiva ucraina iniziata a giugno non sta andando come sperato, il New York Times ha pubblicato un articolo intitolato “I morti e i feriti della guerra in Ucraina sfiorano i 500.000, secondo i funzionari statunitensi“.

Il New York Times riferisce che gli sforzi ucraini per riconquistare il territorio occupato dalla Russia si sono “impantanati nei fitti campi minati russi sotto il fuoco costante dell’artiglieria e degli elicotteri” e che le forze ucraine hanno cambiato tattica usando “l’artiglieria e i missili a lungo raggio invece di avanzare nei campi minati sotto il fuoco nemico”.

Poi l’articolo si fa davvero inquietante:

“I funzionari americani temono che questa modifica della tattica ucraina finisca con l’esaurire le preziose scorte di munizioni, il che potrebbe favorire il presidente russo Vladimir V. Putin e svantaggiare l’Ucraina in una guerra di logoramento. Ma i comandanti ucraini hanno deciso che il cambio di tattica ha ridotto le perdite e preservato la loro forza di combattimento in prima linea.

“I funzionari americani temono che l’Ucraina sia diventata avversa alle perdite, una delle ragioni per cui è stata cauta nel portare avanti la controffensiva. Ogni grande offensiva contro i difensori russi trincerati e protetti da campi minati comporterebbe un numero enorme di perdite”.

Scusate, i funzionari statunitensi “temono” che l’Ucraina sia diventata “avversa alle perdite”? Perché le tattiche più sicure sul campo di battaglia, che però consumano molte munizioni, non fanno perdere vite umane come una carica attraverso un campo minato sotto il fuoco dell’artiglieria pesante?

Cosa dovrebbero essere gli ucraini? Favorevoli a farsi ammazzare? Se l’Ucraina fosse più disponibile a sostenere perdite, sarebbe più disposta a gettare corpi umani negli ingranaggi di questa guerra per procura che l’impero statunitense ha volutamente provocato, facendo anche saltare ogni possibile accordo di pace pur di mantenerla?

Qualcosa mi dice che i funzionari statunitensi che hanno parlato al New York Times della loro “paura” dell’avversità ucraina a sostenere perdite non sanno cosa sia la vera paura. Qualcosa mi dice che se si facessero marciare questi funzionari statunitensi attraverso i campi minati russi sotto il fuoco costante dell’artiglieria e degli elicotteri, allora capirebbero cos’è la paura…

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La scacchiera di Brzezinski – Enrico Tomaselli

La grande partita anti-russa, le cui linee strategiche furono battezzate da Brzezinski oltre 25 anni fa, sembra aver superato (almeno in questa fase calda) il suo acme e si avvia ad un finale non proprio esaltante per l’occidente collettivo. Sullo scacchiere internazionale, infatti, sembra aleggiare lo scacco matto; resta solo da capire quando avverrà, e dove. La casella della mossa finale potrebbe essere Kharkov o, magari, Odessa.

* * * *

Spiazzati dalla guerra

Ci sono molte ragioni che spiegano l’afonia degli intellettuali occidentali, e delle stesse chiese cristiane, di fronte a quella che il Papa ha definito come terza guerra mondiale. Ma sono fondamentalmente due le ragioni per cui tale afonia si accompagna – non a caso – a quella di un movimento pacifista che non è mai stato così silente, anzi del tutto assente.

La prima è che questa guerra – diversamente da quella contro l’Iraq, o quella contro la Serbia – è percepita diversamente rispetto alle altre; mentre quelle erano guerre d’aggressione imperialista, in cui l’occidente era l’aggressore (cosa resa ancor più evidente dalla asimmetria dei conflitti), e quindi toccavano le corde della coscienza antimperialista, e più in generale della coscienza tout court, in questo caso – e non solo per effetto della propaganda – l’occidente si percepisce come l’aggredito.

La seconda è che questa guerra (im)pone la necessità di una riflessione differente, perché, sia pure confusamente, se ne coglie la portata assai più profonda, paragonabile a quella che ebbe la seconda guerra mondiale.

È chiaro a tutti, tranne forse che alle leadership occidentali (ed anche questo è sintomatico), che questa guerra, comunque vada, cambia l’ordine del mondo.

Ho qui più volte parlato dell’autismo dell’occidente – delle sue élite – da intendere nel senso di totale chiusura in sé stessi, di incapacità alla connessione col mondo esterno (la sua realtà). Paradigmatica, in tal senso, appare l’arroganza ed il deficit cognitivo con cui, ancora adesso, il giardiniere Borrell (la cui figura ricorda lo Chance interpretato da Peter Seller, ma priva della sua ingenua simpatia) definisce la Russia come “una stazione di servizio il cui proprietario ha la bomba atomica” [1].

Naturalmente, i servi sciocchi sono sempre in ritardo rispetto al padrone, il quale peraltro solo adesso sembra iniziare a svegliarsi dal suo sonno onirico. Perché poi il grande paradosso di questo tempo è proprio lo scarto enorme tra la lunga progettualità imperiale che sta dietro il conflitto (le cui basi furono gettate appunto da Brzezinski già nel 1997, col suo “La Grande scacchiera” [2]), e la raffazzonata improvvisazione con cui è stato messo in atto il progetto. In un certo senso, è come se gli USA avessero scambiato i propri desideri per una possibilità: lo voglio, quindi posso.

Se infatti oggi l’occidente collettivo, la NATO e quindi gli USA in particolare, si trovano ingabbiati nella propria stessa trappola, è perché fondamentalmente hanno sbagliato i calcoli sui tre livelli fondamentali nella pianificazione di una guerra. Hanno profondamente sottovalutato la capacità militare del nemico (soprattutto in relazione alla propria), sia sotto il profilo materiale che sotto quello dottrinale. Ne hanno sottovalutato la capacità di reazione economica, sia in termini di produzione industriale (ancora una volta, in relazione alla propria), sia in termini di resistenza ai meccanismi sanzionatori. Ed hanno data per scontata la propria capacità di isolare internazionalmente il nemico, scoprendo poi che invece il resto del mondo (al di fuori del miliardo d’oro occidentale) semplicemente se ne frega delle indicazioni imperiali, ormai indifferente sia al bastone che alla carota.

Il solo calcolo esatto, sul breve periodo, è stato il totale asservimento dell’Europa, ed il drenaggio delle sue ricchezze verso il cuore dell’impero. Ma questo è stato anche un calcolo fallace, perché ha fatto del vecchio continente una palla al piede, che dipende più che mai dagli USA per tutte le questioni essenziali. Ma che, allo stesso tempo, non può essere mollato, perché se gli Stati Uniti perdono la presa sull’Europa, sono finiti.

Adesso, quindi, Washington ha tre nuovi ordini di problemi. Il primo, più impellente, come tirarsi fuori dalla trappola ucraina, minimizzando il più possibile i danni. Il secondo, come non mollare la presa sulla Russia, continuando a tenerla impegnata in conflitti di varia intensità, sufficienti comunque ad impedirle un pieno sviluppo economico. Il terzo, come ripristinare la propria piena capacità di esercitare la supremazia militare, reindustrializzandosi e ripensando la propria dottrina strategica.

Sono ovviamente tutti compiti estremamente impegnativi, e non è detto che gli USA siano in condizione, politicamente e culturalmente, di portarli a termine. In ogni caso, sono problemi la cui soluzione richiede un certo margine di tempo, e che richiedono non solo la volontà di risolverli, ma soprattutto che si determinino le condizioni necessarie perché le soluzioni immaginate possano realizzarsi…

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Ucraina: cosa siamo diventati? – Alberto Capece

Siamo diventati dei mostri o lo siamo sempre stati e ce ne accorgiamo adesso che i nodi stanno irrimediabilmente  venendo al pettine? In Ucraina il conto del macellaio cresce ogni giorno e ogni giorno generali psicopatici e imbecilli che fino ad ora hanno maramaldeggiato con i deboli, incitano Kiev a mandare a morte migliaia di uomini per spezzarsi contro l’evidente superiorità russa. Ma questo carnaio che ci permette solo di allontanare il momento in cui dovremo ammettere la sconfitta non basta. Non basta  rappresentare la “battaglia per Rabotino” – un borgo che prima della guerra contava ben 480 abitanti  e che fisicamente non esiste più – come una sorta di strada per la vittoria quando in realtà attorno al villaggio ci sono solo alcuni soldati russi che guidano le artiglierie  e distruggono chiunque tenti di entrare tra le macerie. Adesso a Washington e dunque anche nelle terre coloniali dove si annidano ignobili scalzacani ignari di qualunque cosa e capaci solo di obbedire, sognano di mobilitare ciò che resta della popolazione, principalmente ragazzi di 16-17 anni e persone di età superiore a 60, nella speranza totalmente infondata che ciò che non è riuscito a truppe preparate, addestrate e armate fino ai denti possa riuscire  ad una massa informe di ragazzini e anziani, con armi raccogliticce. Posso capire che i generali americani siano degli analfabeti visto che non ci può aspettare nulla quando manuali e dottrine da campo vengono scritti per sconfiggere gente generalmente indifesa, ma in questo caso lo capisce anche un bambino che si cerca una strage totalmente inutile…

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TRE GIORNI PER LA PACE A MILANO da COORDINAMENTO PER LA PACE

Coordinamento per la Pace Milano  

     

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Terremoto, servono 26.5 miliardi. Quanto spendiamo per le armi – Mario Di Vito

Sette anni dopo la scossa che distrusse gli Appennini e uccise 299 persone restano quattro parole scritte su uno striscione: «Meno armi, più ricostruzione». È appeso a un cavalcavia lungo la Salaria, all’altezza di Amatrice. Era il 24 agosto del 2016 quando tutto venne giù: Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto, le frazioni. Due mesi dopo arrivarono le scosse del maceratese: zero morti ma decine di migliaia di sfollati.

ADESSO QUATTRO PAROLE sono troppe o troppo poche a seconda del proprio punto di vista: troppo poche se guardiamo alle trentamila persone ancora senza casa, ai comuni ormai abbandonati, alle macerie che non ci sono più ma che hanno lasciato spazio soltanto a buchi nel paesaggio, perché là dove c’erano case adesso non c’è più niente. Sono troppe se invece consideriamo che tutte queste cose vengono ripetute da anni, e al di là dei solenni annunci e di qualche pur utile ordinanza di semplificazione burocratica, la vita all’incrocio tra le Marche, l’Umbria, il Lazio e l’Abruzzo continua a essere stinta dall’attesa.A voler prendere sul serio lo striscione di Amatrice, la conclusione è desolante: si stima che nel cratere del terremoto (quasi ottomila chilometri quadrati per 138 comuni) ci siano 56.000 interventi da fare per un costo totale di 26.5 miliardi di euro. Curiosamente si tratta proprio della cifra che l’osservatorio Milex attribuisce alle spese militari italiane per il 2023: 26.5 miliardi, 800 milioni di euro in più rispetto al 2022.

Per il resto, la stessa premier Giorgia Meloni ammette che la situazione non è delle più felici. «Purtroppo la ricostruzione è ancora incompiuta, è una ferita che non si è chiusa e che fa ancora male – ha detto -, oltre quattordicimila famiglie vivono tuttora lontane dalle loro case, molti territori faticano a tornare alla normalità, diversi i ritardi da colmare e le criticità che rimangono da affrontare».

E AD AMATRICE si è fatto vedere il ministro per la Protezione civile Nello Musumeci: «Tenere vivo il ricordo del sisma è un dovere morale verso le centinaia di vittime, ma anche uno stimolo a capire quella lezione: prevenire e ridurre l’esposizione alla vulnerabilità del proprio territorio. È assurdo che l’Italia non abbia ancora un organico Piano nazionale per la mitigazione del rischio sismico, materia polverizzata in decine di leggi. Stiamo rimediando anche a questa lacuna ed entro poco tempo porteremo al Consiglio dei ministri un apposito ddl».

LA GIRANDOLA delle dichiarazioni è tutta così: molti cordoglio, qualche timido annuncio, la conferma che queste zone non verranno dimenticate. Ormai sembrano finite anche le parole, e i fatti ancora non parlano da soli. Anzi.

DOPO L’ APPREZZATO commissario Giovanni Legnini, dallo scorso gennaio a gestire la partita della ricostruzione è il senatore ed ex sindaco di Ascoli Guido Castelli, colomba di FdI che gode di buona reputazione nelle Marche ma che, per ora, si sta limitando a godere del lavoro del suo predecessore, che con le sue ordinanze di riordino ha fatto quantomeno partire la ricostruzione privata. Le liquidazioni degli interventi, infatti, sono cresciute del 22% nell’ultimo anno. I cantieri aperti, dall’inizio della storia, sono stati 17.442, di questi 9.453 sono stati anche completati. Il piano delle opere pubbliche vale invece 1.1 miliardi di euro e quasi tutte le opere sono in fase di progettazione.

QUELLO CHE DAL GOVERNO sventolano come grande successo, però, è «l’avanzamento puntale» del programma «Next Appennino», finanziato dal piano nazionale complementare del Pnrr per le aree dei terremoti del 2009 (L’Aquila) e del 2016. Sulle cifre non c’è alcuna chiarezza ma, assicura Meloni, il piano «sta dimostrando che è possibile mettere a terra le risorse pubbliche per stimolare investimenti privati e gettare le basi di un nuovo sviluppo».

Il nuovo sviluppo di cui si parla riguarda il turismo, nella convinzione – salda e trasversale sin dall’immediato dopo-sisma – che il futuro sia tutto qui. È in questo senso che va letta anche la recente decisione del ministero del Turismo di stanziare 30 milioni di euro per incentivare «la competitività e la sostenibilità del settore turistico» dell’Appennino.

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La Nato e l’Ucraina sono ormai in un vicolo cieco – Piero Bevilacqua

Non era necessaria la voce dal sen fuggita del capo di gabinetto del Segretario della Nato, Stian Jenssen, che ha prospettato la possibilità di cedere a Mosca parte dei territori già occupati, in cambio dell’ingresso nell’Alleanza, per comprendere quel che dovrebbe essere chiaro a tutti: la cosiddetta controffensiva ucraina è fallita. E questo non è l’unico degli obiettivi mancati dal progetto di guerra ideato dagli strateghi atlantici. La controffensiva ucraina non sfonda come è noto, perché i russi hanno eretto doppie e triple linee di difesa, scavato trincee, disseminato di mine migliaia di km di confine, si trovano nella posizione vantaggiosa di doversi difendere più che andare allo scoperto, conducono una logorante guerra di posizione con la potenza di una efficientissima artiglieria e con i mezzi militari di una industria bellica che è seconda solo a quella degli Usa. Sono gli ucraini che devono dare l’assalto e devono farlo con uomini in carne e ossa, i loro, non certo con gli uomini politici e i giornalisti che li incitano. E il numero crescente dei morti non li incoraggia. I russi non hanno commesso l’errore che paventavano tanti nostri analisti, o esperti di cose militari del rango di Beppe Severgnini o Gianni Riotta, di volere invadere l’Ucraina: Paese troppo grande, abitato da una popolazione nemica, che avrebbe dato vita a una logorante guerriglia. Hanno occupato territori abitati da popolazione amiche, da cui non temono nulla, dove potranno anche avviare la ricostruzione, trovandosi già in casa propria. Ma la novità ideale e politica più importante è il rovesciamento completo della narrazione sul conflitto. Nel corso di quest’anno il racconto dell’esercito russo che il 22 febbraio 2022 invade l’Ucraina si è trasformato nella guerra che tutto l’Occidente muove contro la Russia, per abbattere Putin, invadere e smembrare il Paese. Durante questa primavera, non si sa se con più arroganza o ingenuità, gli uomini della Nato e la stampa europea – al seguito come le masserizie dietro la fanteria – hanno apertamente prospettato la volontà di liquidare prima la Russia per poi fare i conti con la Cina. Gli inni alla vittoria su Mosca come obiettivo a portata di mano hanno non solo strappato il velo pubblicitario sul cosiddetto sostegno alla resistenza ucraina, ma hanno ricreato in Russia un sentimento che costituisce forse lo stampo antropologico più profondo del suo popolo: la paura dell’invasione del suo territorio. Non c’era propaganda più efficace per rendere granitico il consenso di Valdimir Putin. Un popolo che si sente minacciato, come lo fu dalle armate napoleoniche, così come dai carri armati di Hitler, si raccoglie dietro al suo capo, è pronto a combattere come pochi altri cittadini europei sarebbero disposti a fare.

Ma a oggi quasi tutti gli obiettivi degli Usa e della Nato appaiono clamorosamente mancati. L’economia russa doveva crollare in pochi mesi e il Fmi ha appena certificato che quest’anno crescerà dell’1,5%, più di quella della Germania e dell’Italia. È l’Europa, invece, a stare poco bene. Secondo dati del Financial Times le imprese europee hanno avuto 100 miliardi di soli danni diretti dalla guerra (European companies suffer €100 bn hit from Russia operations, F.T. 6.8).

Neppure negli Usa, che hanno lucrato dal conflitto (oltre al risultato strategico di aver separato l’Europa dalla Russia), le cose vanno benissimo. L’agenzia di rating Fitcht ha declassato sia pur di poco il dollaro, allarmata dall’enormità del debito americano e dalla prospettiva di recessione per il prossimo anno. Ma non è l’unica novità. Secondo un sondaggio della Cnn dei primi di agosto, il 55% dell’elettorato statunitense è contrario all’invio di altre armi in Ucraina. Un dato destinato a impennarsi quando gli americani conosceranno come stanno realmente le cose al fronte, e quando Trump ne farà un tema della sua campagna elettorale nel 2024.

Ebbene, se così stanno le cose dovrebbe apparire chiaro agli uomini dotati di ragione (benché la specie pare estinta presso il ceto politico Ue) che il tempo lavora contro le speranze degli ucraini. L’autunno è alle porte, e se è difficile attaccare oggi le postazioni russe, figuriamoci con i campi impantanati e disseminati di mine. In pochi mesi con le elezioni Usa del 2024, l’alleato americano potrebbe venir meno. Ma è soprattutto il gruppo dei Paesi fornitori di armi all’Ucraina che si troverà sempre più privo di motivazioni di fronte alle proprie opinioni pubbliche. Inviare ancora armi non solo appare sempre più inutile, visto lo stallo al fronte, la tenuta della Russia, i danni all’economia europea, la stanchezza degli americani, ma diventa evidente quel che è stato chiaro fin dal primo momento. Nuove armi vuol dire più soldati che debbono usarle e perciò l’inutile massacro della gioventù ucraina (e anche di quella russa) e la distruzione materiale di quel Paese. I danni incalcolabili al pianeta non li conta più nessuno, tantomeno i Verdi europei.

E invece questo sarebbe il momento, come esortava Marco Travaglio (Il Fatto, 17.8), di una iniziativa di pace. È urgente oggi perché è ormai possibile prevedere come andrà a finire. È necessario, perché inviare ancora armi all’Ucraina non equivale più ad avere a cuore le sorti di quel Paese, ma la sua distruzione. Le opinioni pubbliche non si possono ingannare più di tanto e chi si batte per la pace ha oggi moltissime più ragioni della Nato, finita in un vicolo cieco.

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Russia-Ucraina, il fantasma della soluzione diplomatica si aggira senza coraggio né sostanza – Domenico Quirico

Un fantasma, l’ennesimo, si aggira per l’Europa: la soluzione diplomatica. Come purtroppo accade per i fantasmi tutti sostengono di averli visti, li descrivono perfino nella incorporea materialità, li invitano a farsi sostanza e voce per poter dialogare con loro, evocare, ricevere vaticini e suggerimenti, esplorare il futuro, cambiare il fato. Godono la vertigine di una stupefacente esistenza. Poi, nel momento in cui la luce della realtà fa svanire l’ombra dei sogni, tutto si conferma per ciò che era: nulla.

I fantasmi d’Ucraina si declinano sotto molte specie: la sospirata “iniziativa diplomatica’’ in cui incliti e colti, generali e pacifisti, progressisti, populisti e perfino i nicodemiti del putinismo scorgono il principio del lieto fine. Proprio perché non vuol dir nulla, non impegna a niente. Poi c’è l’invocazione «è ora di dar spazio alla diplomazia», una specie di «ita missa est» che incuba con loquela furba e tortuosa ogni comizio, intervista e senatoconsulto. E da rinviare cronologicamente a calende greche. Si aggiunga all’elenco l’obbligatorio «una diplomazia che “naturalmente” porti a una pace giusta». Bello, ma quale? E c’è chi, volpe machiavellica di buona pelliccia, suggerisce senza batter ciglio di «affiancare la guerra e la diplomazia».

I fantasmi purtroppo son rimasti finora fantasmi. Per dar corpo alla iniziativa diplomatica occorrerebbero furberie, cavilli, tattiche anche impudenti, e soprattutto tanto coraggio politico. Per fare un esempio: poiché la diplomazia non è teratologia, ovvero la scienza dei mostri, si dovrebbe attribuire al mostro Putin, internazionalmente ricercato per furto di bambini, la qualifica di controparte. Altrimenti, in attesa della reincarnazione di Prigozhin o della mano dell’Onnipotente, senza questa opportunistica riabilitazione con chi la si esercita, la diplomazia? Anatema, tradimento, condanna, punizione!

La resa incondizionata non ha bisogno di nessuna diplomazia. Si dettano ordini. Il vinto obbedisce. Non ha scelta. Anche gli orbi vedono dove si miri. Se questo è lo scopo si lascino i fantasmi diplomatici nel loro inutile limbo. Ma siamo in grado di imporre alla Russia la resa senza condizioni? E come? E la vittoria totale non rischia di diventare un incubo? La soluzione si aggroviglia.

Intanto la guerra accumula il suo arsenale di orribili fatti. I soliti: morti bombardamenti avanzate minuscole e ritirate minuscole, ci si consola con la conquista di un villaggio «fondamentale perché si vedono le posizioni russe dall’alto», come se fossimo ai tempi di Borodino. Intanto la guerra cresce con i suoi lieviti cattivi, non perde tempo in cineserie verbali, punta al pratico. Prendiamo questa notizia come circola. Gli alti comandi ucraini nella persona del capo di stato maggiore Valeriy Zaluzhnyi con tutti suoi generali sono stati convocati al confine polacco dagli alti comandi della Nato. Si è scomodato per trasmettere loro ordini il pensatoio dell’Alleanza con il capo di stato maggiore Christopher Cavoli e il capo dell’esercito britannico. Attenzione alla forma, è fondamentale. Non il solito incontro per discutere quanti missili e quante munizioni mancano, eternamente, agli ucraini per vincere. È stata la convocazione di un esercito vassallo per dare ordini, in particolare, pare, l’ingiunzione a cambiare radicalmente la strategia, non più perder tempo a Est ma provare a colpire a Sud per spaccare in due le linee, peraltro assi munite, dei russi. La risposta degli scolaretti ucraini di alto grado è stata ovviamente: Geniale! Obbedisco.

Che sia una buona idea tattica si vedrà. Quello che è verificabile subito è che la non belligeranza, peraltro assai ipocrita e puntellata su acrobazie definitorie con cui si copriva la attività della coalizione occidentale, è caduta. La guerra è nuda.

Si può bere la favola che fornire armi all’aggredito non significhi essere in guerra con la Russia. Anche la fornitura di informazioni fondamentali agli ucraini usando lo sbalorditivo apparato di satelliti e droni sui movimenti russi, la dislocazione delle truppe, i depositi di Putin, può esser difeso da plauditori e servidorame della guerra a tutti i costi come legittimo. In fondo le spie, che siano elettroniche, spaziali o antropomorfe, sono al di là dell’etica e del diritto. Fanno il loro mestiere.

Ma se l’esercito ucraino prende ordini dai comandi occidentali su come operare sul campo allora cade il tabù: da tredici giorni siamo in guerra con la Russia. E non ce ne siamo accorti. Che Kiev faccia parte formalmente dell’Alleanza diventa cosa giuridicamente irrilevante. E sull’argomento non può calare l’oblio…

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Alessandro Orsini: ” Una documentazione esorbitante dimostra che l’informazione in Italia sulla politica internazionale è organizzata e controllata come nelle dittature”

Nelle dittature, quando scoppia una guerra, quasi tutti i conduttori televisivi, gli speaker radiofonici e i direttori di quotidiani, sostengono che il nemico abbia soltanto colpe e che le buone ragioni siano soltanto dalla propria parte. In Italia, quando scoppia una guerra, quasi tutti i conduttori televisivi, gli speaker radiofonici e i direttori di quotidiani, sostengono che il nemico abbia soltanto colpe e che le buone ragioni siano soltanto dalla propria parte.

Nelle dittature, quando scoppia una guerra, quasi tutti i conduttori televisivi, gli speaker radiofonici e i direttori di quotidiani, diffamano, insultano e calunniano i pacifisti manipolando il loro pensiero e inventando notizie false su di loro. In Italia, quando scoppia una guerra, quasi tutti i conduttori televisivi, gli speaker radiofonici e i direttori di quotidiani, diffamano, insultano e calunniano i pacifisti manipolando il loro pensiero e inventando notizie false su di loro.

Nelle dittature, quando scoppia una guerra, quasi tutti i conduttori televisivi, gli speaker radiofonici e i direttori di quotidiani, condannano l’uso delle scienze sociali per ricostruire le cause profonde della guerra. In Italia, quando scoppia una guerra, quasi tutti i conduttori televisivi, gli speaker radiofonici e i direttori di quotidiani, condannano l’uso delle scienze sociali per ricostruire le cause profonde della guerra.

Nelle dittature, quando scoppia una guerra, quasi tutti i conduttori televisivi, gli speaker radiofonici e i direttori di quotidiani, operano per distruggere l’immagine pubblica di chi usa la ragione critica per analizzare gli eventi in modo oggettivo e decostruire la propaganda di regime. In Italia, quando scoppia una guerra, quasi tutti i conduttori televisivi, gli speaker radiofonici e i direttori dei quotidiani operano per distruggere l’immagine pubblica di chi usa la ragione critica per analizzare gli eventi in modo oggettivo e decostruire la propaganda di regime.

L’Italia è una dittatura? Sotto il profilo scientifico questa domanda non è feconda di risultati poiché non consente una risposta sì/no.

L’informazione in Italia presenta analogie con le dittature? Sotto il profilo scientifico, questa domanda è feconda di risultati poiché consente una risposta basata sull’analisi delle analogie e dei punti di contatto tra sistemi politici ritenuti differenti.

Non è possibile rispondere alla domanda se la Vespa Piaggio sia veloce oppure no (scusate l’esempio, ma sono un “vespista”). Tuttavia, è possibile rispondere alla domanda se la Vespa Piaggio sia più veloce del T-Max.

Una documentazione scritta esorbitante dimostra che l’informazione in Italia sulla politica internazionale è organizzata e controllata come nelle dittature.

*Post Facebook del 1 settembre 2023

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Francesco sgamato da Kiev: anche lui fa propaganda a Putin – Daniela Ranieri

Ormai è certo: il Papa fa propaganda a favore della Russia. Poiché il 25 agosto, in collegamento video per la Giornata della gioventù russa San Pietroburgo, ha osato esortare i giovani a non dimenticare di essere eredi della “grande Russia dei santi, dei re, la grande Russia di Pietro I, Caterina II, quell’impero grande, colto, di grande cultura e grande umanità”, ha praticamente confessato di tifare per Putin.

Il portavoce del ministero degli Affari esteri ucraino, Oleg Nikolenko, lo ha smascherato su Facebook: “È con tale propaganda imperialista e la ‘necessità’ di salvare ‘la grande Madre Russia’ che il Cremlino giustifica l’assassinio di migliaia di uomini e donne ucraini e la distruzione di centinaia di città e villaggi ucraini”. Perbacco. A parte il dettaglio che il Papa non ha parlato di necessità di salvare alcunché, se vale la proprietà transitiva deve ritenersi che anch’egli “giustifichi” assassinî e distruzione. Importa poco che il Papa abbia precisato cosa intendesse invitando i giovani a essere “costruttori di ponti tra le generazioni”: non certo essere imperialisti e zaristi, ma “mantenere viva la storia e la cultura di un popolo” per diventare “artigiani di pace in mezzo a tanti conflitti”, “seminatori di riconciliazione”; per le autorità ucraine, invece, celebrando la grandezza del popolo russo intendeva proprio lodare la volontà di potenza di Putin.

La Chiesa cattolica ucraina ha chiesto alla Santa Sede immediate “spiegazioni”. Come già un anno fa, quando pretese di educare il Papa su come si fa la Via Crucis (il Vaticano aveva scandalosamente deciso di far portare la croce a una donna russa e una donna ucraina insieme), l’arcivescovo di Kiev Sviatoslav Shevchuk ha espresso “dolore e preoccupazione” perché quelle parole possono essere “comprese da alcuni come un incoraggiamento di nazionalismo e imperialismo” e “ispirare le ambizioni neocoloniali del Paese aggressore”. Cioè, ricordare ai giovani che vengono da un grande passato, come è scritto su tutti i libri firmati da storici e non da propagandisti Nato, vuol dire esortarli a sostenere Putin e, perché no, a invadere l’Europa “fino a Lisbona”.

La pistola fumante del filo-putinismo del Papa, secondo un’interpretazione pedestre pari solo a quella dei nostri commentatori (Galli della Loggia definì la posizione del Papa “filo-russa” tout court), è che Mosca ha accolto favorevolmente le sue parole (avrebbe dovuto rigettarle).

Questa polemica è la prova che la guerra (comprensibilmente per chi la vive, meno comprensibilmente per chi la fomenta da casa) causa la resa del pensiero, la capitolazione dello spirito critico. Non si accorgono nemmeno, i russofobi, di cadere in contraddizione: non solo perché già da erede al trono Pietro viaggiò si aprì alla cultura occidentale, ciò che lo porterà a operare una rivoluzione economica, sociale, culturale; ma anche perché il popolo russo e quello ucraino, lungi dall’essere “la stessa cosa” per ragioni etniche e culturali, non erano certo popoli irriducibilmente distinti che Pietro Il Grande unificò d’imperio (infatti nei territori contesi esistono popolazioni russofone, ciò che è all’origine del conflitto nel Donbass). Gogol’ era ucraino, così Bulgakov: non sono forse scrittori di quella grande Russia?

Ma cosa avrebbe dovuto raccomandare il Papa ai giovani russi: di essere indegni del Paese che ha prodotto cultura e bellezza eterne, patrimonio dell’umanità? Di rifiutarsi di dirsi russi per fare un dispetto a Putin? Di guardare la fiction di Zelensky?

La verità è che il Papa è uno dei pochi cercatori di pace e la sua è una delle poche voci che si oppongono al riarmo (una “follia”), quindi per i fanatici degli eserciti è amico di Putin e nemico dell’Ucraina, della Nato e dell’Europa che ne è succuba. Poco importa che abbia definito l’aggressione russa un “atto sacrilego e ripugnante”; se non offende il popolo russo e la sua grande storia, è un agente della propaganda imperialista. Così va ultimamente.

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Caitlin Johnstone: In un mondo governato dalla propaganda dei “centristi moderati”

Uno dei peggiori errori che puoi commettere nel formulare la tua comprensione del mondo è iniziare con il presupposto che la posizione più vera e accurata debba trovarsi da qualche parte vicino al centro delle due principali prospettive politiche che vedi disposte intorno a te.

È un errore non solo perché presumere che la posizione centrale debba essere la migliore è un tipo di ragionamento fallace noto come errore della via di mezzo  (la posizione corretta tra “Bevi un litro di candeggina al giorno per una buona salute” e “Bevi zero candeggina al giorno”) per una buona salute” non è Bevi mezzo litro di candeggina al giorno per una buona salute”); è anche un errore perché l’intera inquadratura nasce da una situazione architettata artificialmente dai potenti.

È un fatto ben documentato che i ricchi e i potenti riversano ingenti fortune nella  manipolazione  del  panorama politico  e  mediatico  in  modi che servano i loro interessi. Il loro controllo sui media e sulle piattaforme tecnologiche della Silicon Valley  viene utilizzato per  definire l’agenda  e influenzare la percezione del pubblico determinando quali questioni riceveranno attenzione e quali no, in modo da preservare lo status quo politico su cui hanno costruito il loro impero, in tal modo riducendo la  finestra di Overton del dibattito accettabile fino a uno spettro molto ristretto i cui risultati non possono minacciare in alcun modo i loro interessi…

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La svolta militarista (e filo-governativa) di Giochi Preziosi sbarca nelle scuole – Luigi Lupo

“L’esclusiva collezione zaini esercito per sentirsi sempre in missione”, è lo slogan che si legge in una storia pubblicata dal profilo @giochitaliani.store

La febbre Vannacci contagia Giochi Preziosi. La famosa azienda di giocattoli e articoli per ragazzi ha lanciato una linea di zaini in partnership con l’esercito italiano. “L’esclusiva collezione zaini esercito per sentirsi sempre in missione“, è lo slogan che si legge in una storia pubblicata dal profilo @giochitaliani.store. Accompagnato dall’ironica “Tutti sull’attenti“. Lo spot è stato subito ripreso sui social dove stanno fioccando le polemiche.

Giochi Preziosi e Esercito: le tre tipologie di zaino

Per i bambini pronti ad andare a scuola come se fossero in missione, ci sono ben tre tipologie: una dedicata agli Alpini, l’altra alla Folgore e la terza, in generale, all’esercito. Insomma, ce n’è per ogni corpo dell’esercito.

I commenti sui social

Tra i commenti, monta l’indignazione. Scrive un utente su Twitter: “La banalizzazione della guerra e del militarismo: lanciare una collezione di zaini per la scuola dell’esercito, «per sentirsi sempre in missione». Da bambini”. C’è anche chi la prende con sarcasmo: “Con quello degli alpini in omaggio il “manuale del bravo molestatore”.

Potere al Popolo: “Se siamo nell’Italia del 2023, si può arrivare ad accostare istruzione, scuola, giocattoli e guerra!”

Dura la reazione di Potere al Popolo che su Facebook scrive: “Cosa dovrebbe insegnare la scuola?  Quali valori dovrebbe trasmettere?
Cosa ci aspettiamo da un marchio che vende giocattoli per bambini? Se siamo nell’Italia del 2023, si può arrivare ad accostare istruzione, scuola, giocattoli e guerra! E così Giochi Preziosi ha ben pensato non solo di vendere zaini militari (la pensata arriva direttamente dalle nostre Forze Armate), ma di esaltare la cosa per far apparire la guerra come una cosa divertente ai bambini”.

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IL DISADATTAMENTO DELLE ÉLITES OCCIDENTALI. INTERVISTA AD AURELIEN _ A CURA DI ROBERTO BUFFAGNI

INTERVISTA A AURELIEN

Italiaeilmondo.com segue da tempo con vivo interesse le pubblicazioni settimanali di “Aurelien” sul suo substack[1], e ne ha tradotto diversi articoli. Abbiamo proposto ad Aurelien quattro domande, alle quali egli ha risposto con la sua consueta chiarezza e perspicacia. Lo ringraziamo di cuore per la sua gentilezza e generosità. Buona lettura. Roberto Buffagni

1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?

Su questo argomento si scriveranno libri! Dovremmo innanzitutto definire gli errori, poiché non tutti avranno lo stesso elenco e non tutti considereranno certe decisioni come errori.

Tuttavia, credo che la maggior parte delle persone sia d’accordo sul fatto che ci sono stati due errori fondamentali. Il primo è stato l’incapacità di anticipare correttamente la reazione russa sia al rafforzamento militare dell’Ucraina da parte della NATO dopo il 2014, sia alla serie di eventi che hanno avuto inizio con la presentazione da parte russa della bozza di trattato alla fine del 2021. So che secondo alcuni la guerra non è stata in realtà un errore, ma un piano deliberato per attirare la Russia in un conflitto. Non lo credo: la politica non funziona in questo modo, e un complotto simile, che avrebbe dovuto esser tenuto segreto, non si sa come, all’interno della NATO, e per anni, sarebbe impensabilmente complicato e comunque di fatto impossibile da nascondere. Ci sono certamente persone che hanno fantasticato su una guerra con la Russia e altri che hanno cercato, quando erano al potere, di perseguire una politica conflittuale, ma continuo a credere che la reazione effettiva della Russia non sia stata prevista, e che questo sia stato davvero un errore. Il secondo errore credo sia condiviso da quasi tutti: la totale incapacità di rendersi conto delle dimensioni, della complessità e della sofisticazione del complesso militare-industriale russo e delle risorse umane e materiali dell’esercito russo.

Per molti versi, entrambi gli errori derivano dalla stessa serie di fattori. Il primo è, semplicemente, che i governi occidentali non erano molto interessati alla Russia e non la ritenevano un paese particolarmente importante.  Da tempo l’attenzione si era spostata sulla Cina, dal punto di vista economico e strategico, e sul Medio Oriente e il terrorismo islamico.  Non si potevano più fare buone carriere specializzandosi sulla Russia, e il tipo di russi che gli occidentali del governo e dei media incontravano di solito erano ricchi, istruiti e anglofoni, spesso formatisi negli Stati Uniti o in Europa. Con tante altre priorità, i governi semplicemente non potevano riservare allo studio della Russia lo sforzo che gli avrebbero dedicato quarant’anni fa, e comunque non lo ritenevano necessario. Diventare un esperto di produzione militare russa, ad esempio, richiede anni di formazione specialistica e di esperienza, in un’epoca in cui altre cose erano considerate più importanti. I governi occidentali avevano un’immagine della Russia che non era cambiata quasi per niente dagli anni ’90, e che contrastava con l’immagine più positiva di quella che vedevano come un’Ucraina moderna e filo-occidentale. A ciò si collega quello che posso solo descrivere come una tradizionale disistima razzista europea degli slavi russi, come primitivi e arretrati. Dal punto di vista militare, non erano considerati un avversario serio, si pensava che fossero stati sconfitti in Afghanistan e in Cecenia e che fossero notevolmente indietro rispetto all’Occidente in termini di tecnologia militare. Un piccolo ma importante punto è che l’immagine occidentale dell’Armata Rossa nella Seconda guerra mondiale è tratta in gran parte da interviste con generali tedeschi e da documenti tedeschi (in assenza degli equivalenti sovietici) e che questa immagine era molto fuorviante.

2) Sono errori di una classe dirigente o di un’intera cultura?

Chiaramente, gli errori più tecnici di valutazione e comprensione sono stati, per definizione, quelli del governo e dei suoi consiglieri, nonché dei media: la classe dirigente, se vogliamo. Si sono comportati con un dilettantismo e una mancanza di intelligenza che i loro predecessori, anche trenta o quarant’anni prima, si sarebbero vergognati di esibire. Ma qualsiasi classe dirigente riflette necessariamente i valori culturali di una società, perché tale classe (se intendiamo “classe” come etichetta sociale e professionale, non come classe economica) è costituita dalle persone che hanno avuto il miglior successo secondo le regole culturali del tempo. In parole povere, un alto ufficiale militare o un diplomatico, nella maggior parte dei Paesi occidentali, sono arrivati alla loro posizione sapendo che cosa si vuole, come si deve parlare, cosa si deve dire alla classe politica, e di fatto sono stati socializzati in un modo di pensare culturalmente dominante. In una cultura di questo tipo, in cui regnano il breve termine, il managerialismo e la presentazione, la classe dirigente è impreparata all’insorgere di problemi veramente seri, ed è incapace di affrontarli. E questo è un vero cambiamento. La classe dirigente europea di cento anni fa aveva una serietà di fondo, fondata sulle sue convinzioni religiose, politiche, etiche o nazionalistiche, che fa sembrare quella di oggi un gruppo di bambini.

3) La guerra in Ucraina manifesta una crisi dell’Occidente. È reversibile? Se sì, come? Se no, perché?

Se sia reversibile, dipende da che cosa si pensa della crisi. Credo che in realtà sia composta da tre parti.

La prima è una crisi di influenza. Dico influenza piuttosto che “potere” perché è più complessa del solo potere. Per un periodo relativamente breve ma significativo, l’Occidente collettivo è stato la forza politica ed economica più influente del pianeta. È stato militarmente dominante (almeno contro coloro che lo hanno combattuto) e politicamente potente a livello internazionale. La sua influenza all’interno delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali è stata di gran lunga superiore a quella di qualsiasi altro blocco, ed è abituato ad avere una voce importante nella gestione dei problemi in altre parti del mondo: in Medio Oriente, ad esempio. Questa situazione non cambierà all’istante, poiché, ad esempio, l’esperienza occidentale accumulata nella gestione delle crisi in alcune parti del mondo non può essere sostituita da un giorno all’altro. Ma l’Occidente sarà sempre più costretto a condividere il potere, a competere per l’influenza o, più probabilmente, a imparare a cooperare con altri attori e a riconoscere i propri limiti. Questo potrebbe non essere facile, anzi potrebbe non essere possibile.

La seconda è una crisi dell’universalismo. La particolare forma di liberalismo sociale ed economico che domina oggi ha la pretesa di essere un sistema di valori universale, con un destino teleologico che prevede che un giorno sarà adottato da tutto il mondo. La storia suggerisce che qualsiasi sistema di valori che pretenda di essere universale deve sempre andare avanti, e, quando smette di andare avanti, è propenso a tornare indietro. È difficile per un sistema universalista riconoscere di aver raggiunto i propri limiti e di doversi fermare, eppure credo che sia proprio questa la posizione in cui si trova ora l’ideologia dell’Occidente. La maggior parte del mondo non condivide questa ideologia, anche se le élite di molti Paesi non occidentali, a parole, vi aderiscono; e sarà molto difficile per l’Occidente, e in particolare per istituzioni come l’UE, abbandonare queste aspirazioni universalistiche.

La terza è una crisi economica. Per molto tempo l’Occidente ha vissuto della sua prima industrializzazione, della sua forza lavoro istruita e del suo sistema finanziario sviluppato. Tuttavia, negli ultimi tempi tutti questi elementi sono in declino. Anche Paesi europei come la Germania e l’Italia, con importanti settori industriali, hanno seguito la tendenza alla deindustrializzazione e alla finanziarizzazione, e naturalmente l’esperienza della crisi ucraina ha accelerato questo processo. L’Occidente si trova a dipendere sia per le materie prime che per le importazioni di prodotti finiti da altre parti del mondo, e ha scoperto che non si possono mangiare i derivati finanziari. La reindustrializzazione, per quanto se ne parli, richiederebbe un livello di mobilitazione da economia di guerra, forse su un periodo di 10-15 anni, per avere qualche possibilità di successo; l’Occidente dovrà abituarsi a dipendere economicamente da altri, che potrebbero a loro volta decidere di fare uso politico della nostra debolezza. Non sono sicuro che le nostre élite al potere siano pronte per questo.

In generale, credo che nessuna di queste tre cose sia reversibile. La vera questione è fino a che punto possiamo convivere con il relativo declino e adattarci ad esso. Con “noi” intendo ovviamente le nostre élite politiche, con le loro ben note debolezze. Ma più in generale, penso che ci sia il rischio che l’incompetenza di queste élite, e la loro difficoltà ad affrontare la realtà, possano portare a tensioni tali per cui almeno una parte dell’Occidente potrebbe non sopravvivere.

4) Cina e Russia, le due potenze emergenti che sfidano il dominio unipolare degli Stati Uniti e dell’Occidente, dopo il crollo del comunismo si sono ricollegate alle loro tradizioni culturali premoderne: Il confucianesimo per la Cina, il cristianesimo ortodosso per la Russia. Perché? Il ritorno all’indietro, letteralmente “reazionario”, può attecchire in una moderna società industriale?

Non sono sicuro che questi due Paesi (soprattutto la Cina) abbiano mai abbandonato del tutto le loro tradizioni storiche, e naturalmente il Partito Comunista Cinese è ancora al potere, ma non sono un esperto di nessuno dei due Paesi. Per quanto riguarda l’Occidente, non dovremmo enfatizzare troppo l’idea di unipolarismo. L’Occidente è diviso su molte questioni (anche gli stessi Stati Uniti sono divisi su molte questioni) e molto di ciò che accade sotto la superficie della politica internazionale riflette dinamiche multilaterali molto complesse. Tuttavia, l’Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, sono inclini a vedere questa situazione in termini molto netti, e spesso a credere di avere più potere e influenza di quanto non sia in realtà. Per questo motivo, l’inevitabile adattamento a un mondo in cui il potere sarà distribuito in modo diverso sarà un problema per le élite occidentali.

Così come non dovremmo dare per scontato che il mondo sia semplicemente “unipolare” ora, allo stesso modo non dovremmo dare per scontato che sarà semplicemente “multipolare” in futuro. Preferisco parlare di potere “distribuito” in forme diverse tra i vari attori. Tuttavia, le due nazioni da lei citate (a cui si potrebbe aggiungere l’India, e naturalmente anche la Corea e il Giappone hanno mantenuto le loro tradizioni) hanno una solida base di civiltà su cui appoggiarsi. Fino a forse cinquant’anni fa si poteva dire lo stesso dell’Occidente, ma il punto centrale del liberalismo moderno è, ovviamente, che è post-nazionale, post-culturale, post-identitario e interamente tecnocratico nella sua concezione ed esecuzione. Trovo davvero difficile capire come si possa costruire un’identità attorno a un dogma che nega specificamente l’identità. Non è che la gente in Occidente abbia perso la voglia di identità collettiva: l’incoronazione di Re Carlo III, all’inizio di quest’anno, è stata un esempio di quanto la gente comune cerchi punti di riferimento comuni. Il problema è che per quanto ci siano diversi tipi di interesse, in questo momento, per le religioni tradizionali, per certi tipi di politica partecipativa o per questioni come l’ambientalismo, essi sono tutti interessi minoritari, e spesso in opposizione tra loro. Una volta distrutte le tradizioni, non mi sembra che sia facile crearne di nuove o far rivivere quelle vecchie. In effetti, la rapidità del crollo del comunismo in Europa è un buon esempio di come le tradizioni non basate su fondamenti storici possano crollare in modo rapido e irreversibile. Posso immaginare una politica reazionaria nel senso da lei descritto, ma purtroppo è probabile che ce ne siano diverse, probabilmente reciprocamente ostili, piuttosto che una sola.

[1] https://aurelien2022.substack.com/

 

da qui

 

 

Alessandro Orsini – Ursula Von der Leyen e la diplomazia: 45 a 0

Quarantacinque (45) a zero (0)

Credo che il modo migliore per rappresentare su base documentale il fallimento totale dell’Unione Europea e la sua estrema corruzione sia quello di riportare qui sotto le armi che Biden ha deciso di inviare ieri a Kiev per un totale di 43 miliardi di dollari dall’inizio della guerra.

Biden ha deciso di trasformare l’Ucraina nella Siria d’Europa con il sostegno di Ursula von der Leyen.

Qualcuno dice: “Ursula von der Leyen non fa niente e sta a guardare il popolo ucraino che muore lentamente”. Magari! Ursula von der Leyen fa moltissimo.

E’ una pedina di Biden ed è attivamente impegnata a creare un futuro di guerra per i nostri figli.

Candidandosi, prenderebbe zero voti. Il problema è che nessuno può mandare via questa classe dirigente europea perché nessuno può eleggerla, nonostante operi contro l’Europa e i suoi interessi.

Da qui la trasformazione della Commissione europea in una lobby che si riproduce per cooptazione e che non rappresenta nessuno se non se stessa. Ecco le armi che Biden ha deciso di inviare a Kiev al posto della diplomazia nel 45° pacchetto di aiuti militari.

Dicasi quarantacinque e zero iniziative diplomatiche:

missili da difesa aerea AIM-9M

proiettili d’artiglieria da 155 e 105mm

oltre 3 milioni di munizioni per armi di piccolo calibro

missili anticarro Javelin e TOW

razzi campali guidati per i sistemi HIMARS

razzi da 70 mm Hydra per impiego da aerei ed elicotteri

mezzi per lo sminamento

cariche esplosive da demolizione

*Post Facebook del 31 agosto 2023

da qui

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