Ergonomia e Covid

di Vito Totire (*)

L’ergonomia ai tempi del Covid passa necessariamente attraverso (anche) pause e riduzione dell’orario di lavoro.

In tanti hanno sottolineato l’ineluttabiltà di cambiamenti nell’era post-covid. Il cambiamento è il portato inevitabile della crisi e va gestito correttamente perché se la crisi porta a un bivio è anche possibile che il cambiamento sia solo o prevalentemente peggiorativo.

Difficile un approccio esaustivo a un tema così vasto che interessa l’architettura, la sociologia, le relazioni umane, l’ambiente di vita come quello di lavoro.

La crisi ha evidenziato – assieme a un impatto sanitario drammatico che ha colpito, come spesso accade, le persone fisicamente e socialmente più vulnerabili – anche una mitigazione dell’impatto ambientale (nonostante si dovrà fare i conti con la gestione della enorme quantità di rifiuti/ddppii che, verosimilmente, finirà negli inceneritori). Come esempio evidente di riduzione di impatto – fino all’insperata compatibilizzazione fra attività produttiva e salute – possiamo citare l’areoporto di Bologna: il traffico di giugno 2020 è -90% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Citabile anche l’azienda Laminam (ceramica) di BorgoTaro dove “magicamente” i sintomi accusati dalla popolazione – sulla cui eziologia un “tavolo tecnico” istituzionale / padronale aveva espresso dubbi amletici, fino alla negazione del nesso – si sono azzerat !

QUANDO SI DICE “TEST ARRESTO-RIPRESA” !

Vediamo il mondo del lavoro:

  • Le organizzazioni hanno scoperto lo smart-warking; verrebbe da dire la (ennesima) scoperta dell’acqua calda; per decenni una organizzazione del lavoro “paranoica”, fondata sul sistema comando-controllo di tipo panottico visivo-carcerario, ha spesso negato ogni possibilità di telelavoro nonostante i palesi vantaggi sociali e ambientali che questo avrebbe comportato, costringendo spesso i lavoratori a forme defatiganti di pendolarismo (che all’epoca definimmo “estremo”, anche a volte più di quattro ore al giorno, tutti i giorni); certo queste forme di pendolarismo erano spesso conseguenza e strumento punitivo associato a ristrutturazioni/delocalizzazioni (se vuoi mantenere il posto con la tua qualifica devi fare 400 km al giorno!)
  • Persa – volutamente – questa opportunità (il telelavoro come forma ergonomica ed ecologica di gestione della produzione) con il Covid le organizzazioni sono andate verso l’estremo opposto (lavoro dal domicilio ma coatto a prescindere dal consenso del lavoratore e dalla effettiva fattibilità in relazione a spazi / coabitazioni /condizioni socio-ambientali, interpretazione estensiva e opportunista del concetto di “lavoratore fragile”, forme esasperate di controllo telematico); si è cercato di “sorvolare” sulla necessità del consenso da parte dei lavoratori mostrando totale indifferenza per quelli che avrebbero sofferto per la evidente riduzione di socialità; la questione deve comunque essere considerata ancora aperta e suscettibile di miglioramenti;
  • Molto particolare rimane però la questione dei lavoratori impegnati nei comparti in cui lo smart-working non è materialmente possibile; in questo comparto, nel 2020, lo scenario è molto mutato e il cambiamento pare orientarsi a diventare stabile non solo per il rischio di ritorno di un andamento epidemico della malattia (paventato per questo o quell’altro mese prossimo futuro) ma forse soprattutto perché nessuno ha sostenuto la eventuale infondatezza di una previsione formulata all’inizio della epidemia da Paolo Vineis: che questa possa essere la prima di una futura serie più o meno ravvicinata di nuovi eventi epidemici; in effetti le istituzioni sono concentrate sulla terapia ma molto disattente nel ragionare sulle strategie per evitare il “prossimo” (solo possibile ma non probabile?) evento;
  • È dunque il caso di ragionare su ergonomia ai tempi del covid anche fuori da una logica emergenziale; cerchiamo di esaminare i diversi aspetti della questione:

1) LO SPAZIO. In anni in cui l’evento Covid pareva inimmaginabile, se non nella cinematografia, abbiamo visto luoghi di lavoro in cui si abusava palesemente in termini di sovraffollamento; vedevamo il sovraffollamento come fattore di distress e infatti aggiungemmo alcuni items al questionario modello Karasek sulla valutazione appunto del distress lavorativo; in relazione ai call-center dell’epoca fu coniata l’immagine suggestiva di “pollaio telematico”; quel pollaio che i datori di lavoro imponevano per “risparmiare” e che i servizi di vigilanza contrastarono nei territori in cui avevano intenzione e possibilità di farlo, oggi rappresenta un modello “cancellato” ma purtroppo non per scelta quanto per causa di forza maggiore (appunto l’epidemia); una nuova gestione degli spazi – effetto del distanziamento sociale – comporterà anche minore inquinamento acustico ma pure in questo caso il percorso non è stato virtuoso ma coatto; le pagine di economia dei quotidiani abbondano di messaggi bucolici che inneggiano alla strategia secondo la quale –assicurando il benessere del lavoratore – migliorano anche i profitti della azienda; ma si tratta di mera propaganda nel senso deteriore del termine; a parte le vastissime aree di lavoro schiavistico esistenti (agricoltura, allevamento, logistica, riders, manifatturiero ecc) le aziende che svettano nelle classifiche del “top employer” – un meccanismo di autocelebrazione narcisistica – sono spesso quelle che hanno semplicemente delegato al sistema degli appalti gli spezzoni di “bad job” (lavoro sporco); esempio lampante HERA…. azienda sempre in vetta alla classifiche che delega ad altri gli interventi su cemento-amianto (senza però farci sapere quale sia il posto nella graduatoria top employer di queste);

2) LE PAUSE. Questo pare essere oggi – dal punto di vista contingente – un elemento di grande rilievo; ci risulta che tutta la legislazione di emergenza abbia ignorato il problema della fatica (cioè della MAGGIORE FATICA) in tempi di Covid; mesi fa sollevammo l’inopportunità del lavoro notturno (vi fu una denuncia aperta da Davide Fabbri contro la Amadori di Cesena); argomentammo che le difese immunitarie contro il contagio siano di notte più deboli che di giorno; ha senso lavorare di notte, oltretutto, per macellare polli? Ma le istituzioni, nonostante l’oggettività dell’argomentazione, non risposero; la stessa questione del lavoro notturno – per definirne e pesarne il ruolo – andrebbe approfondita per la Bartolini di Bologna e per tutti gli infortuni professionali da Covid; oltre a questo importante problema dei turni di lavoro c’è quello dello SPAZIO MORTO RESPIRATORIO INDOTTO DALL’USO DEL DPI PER LE VIE RESPIRATORIE; la questione è ovviamente “storica” e non recente ; da sempre i lavoratori e la medicina del lavoro sono consapevoli della fatica insita nell’uso delle maschere protettive; spesso – con una punta di cinismo – consulenti ed avvocati difensori di imputati nei vari processi penali per omicidio colposo o strage mettono il dito nella piaga cercando di spostare le responsabilità del datore di lavoro sulla condotta presuntivamente sbagliata del lavoratore; abbiamo sempre detto – non per valutazione soggettiva ma per un ragionamento coerente con le norme di prevenzione – che i ddppii sono la “ultima spiaggia”, indispensabili ma da utilizzare in un contesto in cui vengono rispettate tutte le altre procedure di prevenzione primaria; per fare un esempio semplice: non posso bucare una lastra di cemento-amianto con il trapano elettrico “tanto indosso la mascherina…”; veniamo dunque all’uso del dpi per le vie respiratorie, previo intervento di contenimento del rischio alla fonte; se il dpi si usa – correttamente – come ultima e ulteriore garanzia occorre calcolare la fatica connessa all’indossarlo; non è facile ma gli effetti del “calcolo” sono inevitabilmente: a) introduzione di congrue pause b) riduzione dell’orario di lavoro;

a) per quello che riguarda le pause: si accennava prima ad una proposta compensatoria ventilata da un gruppo di psicologi e sociologi per mitigare il distress del pendolarismo estremo (30% di retribuzione in più); la proposta purtroppo ha circolato poco (risulta diffusa in Italia da una sola fonte, la rivista Internazionale) ma era interessante; non andava letta in termini di monetizzazione del rischio né in termini economicistici; era “interessante” in quanto rompeva il muro di silenzio circa la fatica gratuita del pendolarismo coatto; ancora migliore sarebbe l’ipotesi di includere il pendolarismo nell’orario di lavoro (alcune fonti riferiscono che questa giusta misura sia stata adottata in qualche Paese nordeuropeo); non a caso da molti anni è riconosciuto l’infortunio in itinere a chiarire appunto che il tempo utilizzato per raggiungere il posto di lavoro non è certamente da considerare “tempo di vita” ma lavorativo; la proposta citata in verità non fece molta strada a causa, da un lato, della ritrosia degli organi di vigilanza a “invadere” la cosiddetta e malintesa autonomia dei datori di lavoro – ritrosia nefasta che non è stata superata neppure dall’introduzione dell’obbligo di valutazione del distress di cui all’articolo 28 Tuls 2008 (**) – e dall’altro a causa della analoga ritrosia di certe organizzazioni sindacali nel dare “preoccupazioni” al datore di lavoro con la scusa della crisi e dei rischi incombenti di delocalizzazione (troppo facile dire che nel mondo ci sono lavoratori di Paesi poveri che magari fanno dieci kilometri a piedi per andare a lavorare, quindi “chiudiamo un occhio”…); dunque come misurare la fatica connessa allo spazio morto respiratorio? per approfondire la questione (che è comunque ancora da studiare meglio) occorrerebbe anche distinguere tra i vari ddppii essendo la fatica minore con la mascherina chirurgica che con la FFP2 o FFP3 senza valvola; qui c’è un primo problema: è possibile che si opti per la chirurgica piuttosto che per la FFP2 / FFP3 non in relazione a una effettiva valutazione dl rischio ma per un problema di “opportunismo” (il datore di lavoro perché costa meno e il lavoratore – più o meno consciamente – perché fa meno fatica)? Né possiamo far finta di non vedere lavoratrici e lavoratori che dopo un po’ “annaspano” penosamente anche con la mascherina chirurgica e che altrettanto penosamente la collocano sotto il naso quasi che la via del contagio fossero i baffi (per chi li ha) o la bocca! Nessuno, neanche tra gli operatori dei servizi di vigilanza ha osservato questa scene? Piuttosto pare che il problema sia una grave tendenza alla rimozione. E’ EVIDENTE CHE LA SCELTA DEBBA ESSERE CONGRUA RISPETTO ALLA VALUTAZIONE DEL RISCHIO, UN TERRENO SUL QUALE NEGL ULTIMI MESI ABBIAMO ASSISTITO A PERICOLOSE OSCLLAZIONI E A VOLTE DEFAILLANCES: dal documento (28 marzo 2020) dell’Istituto Superiore di Sanità – giustamente contestato in tutta Italia – che considerava la FFP2 un optional anche in rischiosissime attività ospedaliere, alla linea guida (questa volta giusta ma estremamente tardiva del governo) che indica come necessaria per le estetiste visiera e FFP2; in linea di massima dunque, se parliamo di pause e di riduzione dell’orario di lavoro, dobbiamo considerare una forbice compensatoria con un gradiente che cresce in relazione alla fatica (maggiore per ddppii più impegnativi).

3) NON SOLO VIE RESPIRATORIE. L’interlocuzione con lavoratori e lavoratrici ci ha fatto riflettere sul fatto che la fatica non dipende solo dalle vie respiratorie; in generale c’è un aumento della tensione nervosa perché occorre prestare maggiore attenzione al rischio biologico e questo comporta comunque maggiore distress, maggiore lentezza, tempi di preparazione ecc ma in particolare occorre anche considerare gli effetti dei ddppi sulla cute, già evidenti in relazione all’uso prolungato di mascherine respiratorie e specifici poi per quel che riguarda la protezione delle mani; la cute – dopo ogni periodo di protezione con ddppii – va nuovamente protetta e reidratata con creme e anche questo tempo va considerato tempo di lavoro con la speranza, peraltro, che reidratazione e protezione possano garantire lo status quo che invece è a rischio nelle persone che dall’uso prolungato dei guanti subiscono effetti non del tutto rimediabili e più precisamente peggioramento di patologie pregresse (esempio vitiligine o accentuazione di altre problematiche preesistenti); vanno calcolati anche i tempi della doccia, misura igienica , a fine lavoro, oggi più necessaria di ieri in relazione alla consistenza delle “bardature” necessarie: una misura che rende necessaria anche una precisa e puntuale efficienza dei sistemi di riscaldamento dell’acqua nei luoghi di lavoro;

4) un ulteriore elemento di riflessione è costituito dall’assistenza a pazienti che non possono o non riescono ad indossare ddppii per i quali le indicazioni e le prassi della sanità pubblica sono ondivaghe; in alcuni casi (noi siamo contrari a interventi coatti) per questi pazienti viene fatto un monitoraggio della condizione clinica, in altri casi no; la situazione complessiva si riverbera ancora una volta in termini di maggior rischio biologico ma ancor più in termini di maggiore fatica ambientale riproducendo situazioni analoghe già viste (ricordiamo la vecchia questione della protezione degli operatori da fumo passivo in certe strutture psichiatriche); anche questa ulteriore questione deve entrare nel discorso generale della riduzione d’orario.

CONCLUSIONI

Con la logica e con la pratica della “validazione consensuale” (di antica data ma sempre valida) e quindi con la logica del confronto fra tecnici e lavoratori che possa creare sinergie tra conoscenze e soggettività, questo documento ha il senso di una “proposta” ai lavoratori, ai loro rappresentanti sindacali, agli rrllss (i rappresentanti per la sicurezza), agli operatori della prevenzione e, perché no, anche ai medici competenti e i servizi di prevenzione e protezione (chè anche questi avrebbero “una testa con cui pensare” a scanso della scarsa autonomia che hanno – non per loro scelta ma per decisione del legislatore – nei confronti del datore di lavoro);

Le proposte su cui lavorare paiono evidenti:

  • Il post Covid necessita di una riorganizzazione ergonomica necessaria ma anche formalmente obbligatoria ai sensi del TULS 81/2008 in quanto le condizioni di lavoro sono cambiate e devono essere rivalutate
  • LA FATICA PSICOFISICA DEI LAVORATORI E’ CRESCIUTA E LA QUESTIONE VA AFFRONTATA IN MANIERA RAGIONEVOLE CON LA RIDUZIONE DELL’ORARIO E DEL CARICO DI LAVORO (risulta che in qualche Paese europeo la questione dell’aumento degli organici sia già all’ordine del giorno)
  • OCCORRE ASSUMERE ULTERIORE PERSONALE RISPETTO ALLE PIANTE ORGANICHE PRE-COVID
  • OCCORRE RIDURRE IL CARICO ORARIO E INTRODURRE PAUSE ADEGUATE CHE POSSIAMO IPOTIZZARE IN ALMENO ½ ORA DI “RESPIRO LIBERO” IN AREA RELAX DEDICATA (OVVIAMENTE EVITANDO DI FARLA ASSOMIGLIARE ALLA ORA D’ARIA CARCERARIA) OGNI DUE ORE E/O COMUNQUE OCCORRE PROGRAMMARE UNA RIDUZIONE A DUE TERZI RISPETTO A QUELLO ATTUALE IN PARTICOLARE PER ALCUNI COMPARTI LAVORATIVI E SENZA ALCUNA RIDUZIONE DI SALARIO
  • OCCORRE PREVEDERE E GARANTIRE UN TEMPO ADEGUATO (IN ORARIO DI LAVORO) PER LE MISURE DI VESTIZIONE, SVESTIZIONE, DOCCIA, REIDRATAZIONE CUTANEA E GENERALE E PROTEZIONE CUTANEA).

La proposta, che pure necessita di approfondimenti in particolare per un migliore calcolo dalla fatica, appare assolutamente ragionevole e utile per evitare che la ripartenza ci collochi in un contesto “peggiore” di quello precedente (che con morti e malattie professionali era già ampiamente oltre i livelli dell’umana tollerabilità).

La “proposta” è rivolta all’attenzione di lavoratrici e lavoratori; dunque è aperta a contributi e osservazioni che auspichiamo.

(*) Vito Totire, medico del lavoro, è portavoce della «Rete per l’ecologia sociale»

(**) ovvero la legge 101 del 6 giugno 2008 che modifica e “converte” il decreto legge 59 dell’8 aprile (2008)

Redazione
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Un commento

  • Gian Marco Martignoni

    Decisamente stimolante e ricco di indicazioni – soprattutto per la contrattazione nei luoghi di lavoro organizzati sindacalmente – il contributo di Vito Totire. Sulle pause, la riduzione di orario e l’utilizzo dei dispositivi di protezione bisogna concentrare l’attenzione delle organizzazioni sindacali.Al contempo la questione del consenso nel telelavoro necessita di un approfondimento di carattere nazionale, al fine di intervenire su una gestione padronale di carattere più che unilaterale.Altrimenti rischiamo quanto è avvenuto peril part-time : la sua estensione quantitativa sul piano numerico si è purtroppo contraddistinta , come è noto , per la prevalenza dell’involontarietà sul piano della scelta da parte dei lavoratori e delle lavoratrici.Come ho potuto verificare sul piano empirico in provincia di Varese, ga partire dalla crisi sviluppatasi nel 2008-9, richiedendo ogni anno come Cgil alla Provincia i dati a consuntivo dell’anno precedente rispetto alla trasformazione dei rapporti di lavoro.

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