Erode Netanyhau non si ferma

articoli e video di John J. Mearsheimer, Hadar Morag, Alain Gabon, Raffaele Oriani, Pino Cabras, David Hearst, Alessandro Orsini, Giacomo Gabellini, Enzo Traverso, Lana Tatour, Jeremy Scahill, Farah Nabulsi, Alberto Negri, Franco Fortini, Heba Akila, Ramzy Baroud, Geraldina Colotti, Clara Statello, Gideon Levy, Alberto Bradanini, Lorenzo Maria Pacini, Cristiano Sabino, Amro Ali, Davide Malacaria, Disarmisti Esigenti

IL GENOCIDIO DI GAZA – John J. Mearsheimer

Scrivo per segnalare un documento veramente importante che dovrebbe essere diffuso e letto attentamente da chiunque sia interessato alla guerra di Gaza attualmente in corso.

Nello specifico, mi riferisco alla “istanza” di 84 pagine che il Sudafrica ha presentato alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) il 29 dicembre 2023, accusando Israele di aver commesso un genocidio contro i palestinesi di Gaza [1]. In essa si sostiene che le azioni di Israele dall’inizio della guerra il 7 ottobre 2023 “sono destinate a portare alla distruzione di una parte sostanziale del gruppo nazionale, razziale ed etnico palestinese … nella Striscia di Gaza”. (pagina 1) Questa accusa rientra chiaramente nella definizione di genocidio della Convenzione di Ginevra, di cui Israele è firmatario [2].

Il ricorso è una superba descrizione di ciò che Israele sta facendo a Gaza. È completa, ben scritta, ben argomentata e accuratamente documentata. La domanda è composta da tre parti principali.

In primo luogo, descrive in dettaglio gli orrori che l’IDF ha inflitto ai palestinesi dal 7 ottobre 2023 e spiega perché per loro si prospettano ancora morte e distruzione.

In secondo luogo, l’applicazione fornisce una serie di prove sostanziali che dimostrano che i leader israeliani hanno intenzioni genocide nei confronti dei palestinesi. (59-69) In effetti, i commenti dei leader israeliani – tutti scrupolosamente documentati – sono scioccanti. Leggendo i commenti sui palestinesi degli israeliani in “posizioni di massima responsabilità”, ci si ricorda di come i nazisti parlavano di come trattare gli ebrei. (59) In sostanza, il documento sostiene che le azioni di Israele a Gaza, combinate con le dichiarazioni di intenti dei suoi leader, rendono chiaro che la politica israeliana è “calcolata per portare alla distruzione fisica dei palestinesi a Gaza”. (39)

In terzo luogo, il documento si impegna a fondo per inserire la guerra di Gaza in un contesto storico più ampio, chiarendo che Israele per molti anni ha trattato i palestinesi di Gaza come animali in gabbia. Il documento cita numerosi rapporti delle Nazioni Unite che descrivono il crudele trattamento riservato da Israele ai palestinesi. In breve, l’istanza chiarisce che ciò che gli israeliani hanno fatto a Gaza dal 7 ottobre è una versione più estrema di ciò che facevano già da prima del 7 ottobre.

Indubbiamente molti dei fatti descritti nel documento sudafricano erano stati riportati in precedenza dai media. Ciò che rende la richiesta così importante, tuttavia, è che mette insieme tutti questi fatti e fornisce una descrizione generale e accuratamente supportata del genocidio israeliano. In altre parole, fornisce il quadro generale senza trascurare i dettagli.

Non sorprende che il governo israeliano abbia etichettato le accuse come una “accusa del sangue” senza “alcuna base fattuale e giudiziaria”. Inoltre, Israele sostiene che “il Sudafrica starebbe collaborando con un gruppo terroristico che chiede la distruzione dello Stato di Israele” [3]. Una lettura attenta del documento, tuttavia, rende chiaro che queste affermazioni non hanno alcun fondamento. In effetti, è difficile capire come Israele potrà difendersi in modo razionale e legale quando inizierà il procedimento. Dopo tutto, i fatti nudi e crudi sono difficili da contestare.

Permettetemi di fare alcune osservazioni aggiuntive sulle accuse sudafricane.

In primo luogo, il documento sottolinea che il genocidio è distinto dagli altri crimini di guerra e dai crimini contro l’umanità, sebbene “vi sia spesso una stretta connessione tra tutti questi atti”. (1) Ad esempio, prendere di mira una popolazione civile per cercare di vincere una guerra – come era accaduto quando la Gran Bretagna e gli Stati Uniti avevano bombardato le città tedesche e giapponesi nella Seconda Guerra Mondiale – è un crimine di guerra, ma non un genocidio. La Gran Bretagna e gli Stati Uniti non stavano cercando di distruggere “una parte sostanziale” o tutta la popolazione di quegli Stati presi di mira. Anche la pulizia etnica, sostenuta dalla violenza selettiva, è un crimine di guerra, sebbene non sia un genocidio, un’azione che Omer Bartov, l’esperto israeliano dell’Olocausto, definisce “il crimine di tutti i crimini “[4] .

Per la cronaca, durante i primi due mesi di guerra ritenevo che Israele fosse colpevole di gravi crimini di guerra – ma non di genocidio – anche se c’erano prove crescenti di quello che Bartov ha definito “intento genocida” da parte dei leader israeliani [5]. Ma mi era apparso chiaro, dopo la fine della tregua del 24-30 novembre 2023 e la ripresa dell’offensiva da parte di Israele, che i leader israeliani stavano effettivamente cercando di distruggere fisicamente una parte sostanziale della popolazione palestinese di Gaza.

In secondo luogo, anche se l’istanza sudafricana si concentra su Israele, ha enormi implicazioni per gli Stati Uniti, in particolare per il presidente Biden e i suoi principali luogotenenti. Perché? Perché ci sono pochi dubbi sul fatto che l’amministrazione Biden sia complice del genocidio di Israele, e [questo tipo di complicità] è essa stessa un atto punibile secondo la Convenzione sul genocidio. Nonostante abbia ammesso che Israele è impegnato in “bombardamenti indiscriminati”, il Presidente Biden ha anche dichiarato che “non faremo un accidente di niente se non proteggere Israele. Nient’altro” [6]. È stato fedele alla parola data, arrivando a scavalcare due volte il Congresso per far arrivare rapidamente ulteriori armamenti a Israele. A prescindere dalle implicazioni legali del suo comportamento, il nome di Biden – e quello dell’America – sarà per sempre associato a quello che probabilmente diventerà uno dei casi da manuale di tentato genocidio.

In terzo luogo, non avrei mai immaginato di vedere il giorno in cui Israele, un Paese pieno di sopravvissuti all’Olocausto e dei loro discendenti, avrebbe dovuto affrontare una seria accusa di genocidio. Indipendentemente da come si svolgerà il caso presso la Corte internazionale di giustizia – e qui sono pienamente consapevole delle manovre che gli Stati Uniti e Israele impiegheranno per evitare un processo equo – in futuro Israele sarà ampiamente considerato come il principale responsabile di uno dei casi canonici di genocidio.

In quarto luogo, il documento sudafricano sottolinea che non c’è motivo di pensare che questo genocidio finirà in tempi brevi, a meno che la Corte internazionale di giustizia non intervenga con successo. Il documento cita due volte le parole pronunciate dal Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu il 25 dicembre 2023 a sostegno di questo punto: “Non ci fermiamo, continuiamo a combattere, e intensificheremo i combattimenti nei prossimi giorni, e questa sarà una lunga battaglia e non è vicina alla fine”. (8, 82) Speriamo che il Sudafrica e la CIG mettano fine ai combattimenti, ma, in ultima analisi, il potere dei tribunali internazionali di costringere Paesi come Israele e gli Stati Uniti è estremamente limitato.

Infine, gli Stati Uniti sono una democrazia liberale piena di intellettuali, direttori di giornali, politici, opinionisti e studiosi che abitualmente proclamano il loro profondo impegno a proteggere i diritti umani nel mondo. Tendono a farsi sentire quando i Paesi commettono crimini di guerra, soprattutto se sono coinvolti gli Stati Uniti o i loro alleati. Nel caso del genocidio israeliano, tuttavia, la maggior parte dei leader liberali che si occupano di diritti umani ha parlato poco delle azioni selvagge di Israele a Gaza o della retorica genocida dei suoi leader. Speriamo che prima o poi giustifichino il loro inquietante silenzio. In ogni caso, la storia non sarà buona con loro, visto che non avevano detto quasi neanche una parola mentre il loro Paese diventava complice di un crimine orribile, perpetrato proprio sotto gli occhi di tutti.

Riferimenti:

https://www.icj-cij.org/sites/default/files/case-related/192/192-20231228-app-01-00-en.pdf

https://www.un.org/en/genocideprevention/documents/atrocity-crimes/Doc.1_Convention%20on%20the%20Prevention%20and%20Punishment%20of%20the%20Crime%20of%20Genocide.pdf

https://www.timesofisrael.com/blood-libel-israel-slams-south-africa-for-filing-icj-genocide-motion-over-gaza-war/

https://www.nytimes.com/2023/11/10/opinion/israel-gaza-genocide-war.html

https://mearsheimer.substack.com/p/death-and-destruction-in-gaza

https://www.motherjones.com/politics/2023/12/how-joe-biden-became-americas-top-israel-hawk/

Fonte: mearsheimer.substack.com
Link: https://mearsheimer.substack.com/p/genocide-in-gaza
04.01.2024
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

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scrive Hadar Morag, regista israeliana:

“Quando mia nonna arrivò qui, dopo l’Olocausto, l’Agenzia Ebraica le promise una casa. Non aveva niente, tutta la sua famiglia era stata sterminata. È rimasta in attesa per lungo tempo in una tenda, in una situazione estremamente precaria. La portarono quindi ad Ajami, a Jaffa, in una stupenda casa sulla spiaggia. Vide che sul tavolo c’erano ancora i piatti degli arabi che ci abitavano e che erano stati cacciati via. Allora lei tornò all’agenzia e disse: riportatemi nella tenda, non farò mai a qualcun altro ciò che è stato fatto a me. Questa è la mia eredità, ma non tutti hanno fatto quella scelta. Come possiamo essere diventati ciò che avversavamo? Questa è la grande domanda”.

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La pittrice palestinese Heba Zagout è stata uccisa in un attacco aereo israeliano il 13 ottobre. (screenshot di Hyperallergic tramite Palestine Artists su YouTube)

Genocidio culturale: Israele ha spazzato via una generazione d’oro di artisti, musicisti, attori e scrittori di Gaza (da The New Arab)

L’assalto genocida di Israele a Gaza assediata ha spazzato via una generazione di artisti che per decenni avevano rispecchiato la resilienza e la creatività palestinese.

Non molto tempo fa, la comunità artistica di Gaza costituiva un elemento vitale della società palestinese e un riflesso vibrante della sua resilienza; oggi lottano per sopravvivere: l’assalto genocida di Israele ha spazzato via una generazione di artisti dalla Striscia di Gaza.

Il Ministero della Cultura palestinese ha rivelato i dati statistici secondo cui il bombardamento brutale e indiscriminato della Striscia di Gaza da parte di Israele ha portato fino ad ora alla morte di 28 artisti, intellettuali e autori palestinesi.

Il rapporto sottolinea il profondo impatto che l’attuale attacco israeliano sta avendo sul tessuto culturale di Gaza e sottolinea la gravità della situazione attuale. Di seguito sono riportate alcune parole in testimonianza di alcuni importanti artisti, figure culturali e anime creative palestinesi che sono stati uccisi da Israele a partire dal 7 ottobre.

Heba Zaqout

L’artista visiva e insegnante di belle arti, Heba Ghazi Ibrahim Zaqout (39 anni) è stata uccisa il 13 ottobre insieme a suo figlio. Zaqout si era laureata in belle arti all’Università Al-Aqsa di Gaza. Molti dei suoi dipinti erano realizzati in acrilico e raffiguravano donne, la patria palestinese e la natura. I suoi dipinti enfatizzavano l’identità e l’esistenza palestinese, con paesaggi luminosi e gioiosi spesso pieni di moschee e chiese, minareti e cupole.

Heba Abu Nada

La scrittrice, poetessa e insegnante Heba Abu Nada (32 anni) è stata uccisa, insieme a suo figlio, in un raid aereo israeliano su Khan Younis il 20 ottobre. Il suo romanzo “L’ossigeno non è per i morti”, ha vinto il secondo posto allo Sharjah Award for Arab Creativity nel 2017

Nel suo ultimo tweet postato l’8 ottobre, aveva scritto in arabo: “La notte di Gaza è buia a parte il bagliore dei razzi, silenziosa a parte il rumore delle bombe, terrificante a parte il conforto della preghiera, nera a parte la luce dei martiri. Buonanotte, Gaza.”

Omar Abu Shawish

Allo stesso modo, il poeta, romanziere e attivista sociale Omar Fares Abu Shawish (36 anni) è stato martirizzato il 7 ottobre durante il bombardamento del campo profughi di Nuseirat a Gaza, dove era nato e vissuto. Abu Shawish era ben noto per la sua preoccupazione per le questioni che riguardavano i giovani e aveva partecipato alla creazione di diverse associazioni giovanili e ricevendo numerosi premi locali e internazionali.

A testimonianza della sua influenza, il Consiglio della Gioventù Araba per lo Sviluppo Integrato, affiliato alla Lega degli Stati Arabi (LAS), lo aveva insignito del premio “Gioventù araba illustre nel campo dei media, del giornalismo e della cultura” nel 2013. Nel 2016 aveva pubblicato diverse raccolte di poesie e un romanzo dal titolo “’Alā qayd al-mawt”.

Inas Saqqa

Inas Saqqa era una nota attrice, drammaturga e insegnante specializzata in teatro per bambini. È stata uccisa in un raid aereo israeliano alla fine di ottobre insieme a tre dei suoi figli, Sara, Leen e Ibrahim. Saqqa è stata una delle figure più influenti e di spicco sulla scena teatrale di Gaza e una pioniera delle arti creative per i bambini nella Striscia, organizzando numerosi laboratori teatrali estivi per i giovani.

Inas Saqqa è stata una delle attrici e drammaturghe più celebri di Gaza ed è stata uccisa con tre dei suoi figli in un attacco aereo israeliano il 31 ottobre 2023

Era anche un’abile attrice: i contributi di Saqqa al cinema includevano i suoi ruoli nei due film “Sara” e “Il passero della patria” nel 2014. “Sara” affrontava l’urgente questione sociale dei delitti d’onore, e “Il passero della patria” esaminava la lotta palestinese tra la Nakba del 1948 e l’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza nel 1967. Oltre alla recitazione, era nota per i suoi contributi culturali e la sua collaborazione con numerose compagnie teatrali nella Striscia di Gaza. Aveva anche  partecipato alla scrittura e produzione di diverse opere teatrali tra cui “The Bear”, “Women of Gaza and Ayoub’s Patience” e “Everything is Fine”.

Youssef Dawas

Il 14 ottobre, il musicista, scrittore, giornalista, fotografo e aspirante psicoanalista palestinese Yousef Dawas (20 anni) è stato ucciso in un attacco aereo israeliano contro la sua casa di famiglia nel nord di Gaza. Dawas parlava correntemente arabo e inglese, sia scritto che parlato, e scriveva articoli che trattavano una vasta gamma di argomenti.

Yousef Dawas è stato ucciso da un attacco aereo israeliano sulla sua casa di famiglia nel nord di Gaza il 14 ottobre 2023

Dawas ha anche prodotto brevi video che trattavano molti argomenti diversi, comprese le sue aspirazioni a viaggiare e scoprire il mondo – anche se in un videoclip sottolineava che sognava di visitare altre città e villaggi palestinesi ,più che lontane destinazioni oltreoceano. Israele ha messo  fine alla sua vita e ai suoi tanti sogni.

Mohammed Qraiqea

A soli 24 anni, l’innovativo fumettista, artista, fotografo, volontario e attivista Mohammed Sami Qraiqea è stato ucciso il 17 ottobre, una delle circa 500 vittime uccise quando l’ospedale arabo Al-Ahli fu bombardato mentre migliaia di civili vi si rifugiavano.

Mohammed Qraiqea era un artista interessato a fondere la tecnologia con l’arte. Ha trascorso i suoi ultimi giorni intrattenendo i bambini rifugiati nell’ospedale arabo di Al-Ahli

Anche nei suoi ultimi giorni, insieme ad altri che cercavano rifugio nel complesso ospedaliero, Qraiqea si è sforzato di alleggerire l’atmosfera di tensione e alleviare il terrore e l’ansia che consumavano i bambini e i feriti dell’ospedale, usando le sue capacità artistiche e la sua energia contagiosa. , che lui definiva come  “cercare di dare il primo soccorso psicologico ai bambini e alle famiglie”. In un video clip in uno dei suoi ultimi post su Instagram lo si può vedere al centro di un cerchio di bambini nel cortile dell’ospedale Al-Ahli, mentre li intrattiene per distrarsi dallo stress psicologico e dal trauma a cui erano sottoposti.

Nooraldeen Hajjaj

Il 2 dicembre, il giovane scrittore Nooraldeen Hajjaj (27) è stato martirizzato in un attacco aereo israeliano nella sua casa nel quartiere di Shujaiya. Aveva composto l’opera teatrale “I Grigi” nel 2022 e il romanzo “Le ali che non volano” nel 2021. Aveva partecipato attivamente anche a iniziative come l’Associazione Cordoba e la Fondazione Giornate del Teatro.

Il suo ultimo messaggio al mondo esterno è stato: “Mi chiamo Nour al Din Hajjaj, sono uno scrittore palestinese, ho ventisette anni e ho tanti sogni.

Non sono un numero e non acconsento che la mia morte diventi notizia passeggera. Dite che amavo la vita, la felicità, la libertà, le risate dei bambini, il mare, il caffè, la scrittura, Fairouz, tutto ciò che è gioioso, anche se tutte queste cose scompariranno nello spazio di un momento.”

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org

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Gaza: 500mila morti se la guerra durerà per tutto il 2024

Se la guerra di Gaza continuerà per tutto il 2024, come peraltro annunciato dall’esercito israeliano, moriranno 500mila palestinesi. L’avvertimento arriva dalla professoressa Devi Sridhar, ordinario di Sanità pubblica globale presso l’Università di Edimburgo, che ne ha scritto sul Guardian il 29 dicembre.

Gaza: I morti attuali, solo un precursore…

Scrive il Guardian: “Secondo le stime dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione, circa l’85% degli abitanti di Gaza sono già sfollati. Gli esperti che analizzano i precedenti spostamenti di rifugiati hanno pubblicato una stima su Lancet secondo la quale i tassi approssimativi di mortalità (cioè morti ogni 1.000 persone) erano in media più alti di 60 volte rispetto agli inizi di ogni altro conflitto”.

“Estrapolando questo dato alla situazione attuale di Gaza – dove ,prima del conflitto, il tasso approssimativo di mortalità era di 3,82, cioè relativamente basso a motivo della popolazione per lo più giovane – i tassi di mortalità potrebbero raggiungere 229,2 nel 2024 se il conflitto e lo sfollamento continueranno con l’attuale intensità e gli abitanti di Gaza continueranno a non avere accesso a servizi igienico-sanitari, a strutture sanitarie e ad alloggi stabili”.

“In definitiva, a meno che qualcosa non cambi, il mondo si trova di fronte alla prospettiva che quasi un quarto dei 2 milioni di abitanti di Gaza – circa mezzo milione di esseri umani – muoia entro un anno. Per lo più tali decessi sarebbero provocati da cause sanitarie prevenibili e dal collasso del sistema sanitario. È una stima approssimativa, ma fondata su dati, calcolata in base al numero spaventosamente reale di morti registrati in conflitti precedenti e comparabili”.

Nel rilanciare l’avvertimento della Sridhar, Odeh Bisharat, su Haaretz dell’8 gennaio, commenta: “In altre parole, i 22.000 abitanti di Gaza uccisi nella prima ondata di bombardamenti su Gaza sono (scusate l’espressione) una piccola cosa rispetto a ciò che si prospetta. Sono solo un precursore della catastrofe che attende la Striscia di Gaza. Non dobbiamo aspettare, perché siamo già testimoni della distruzione di gran parte di Gaza, una territorio che assomiglia più all’inferno che alla terra”.

Il silenzio calerà sull’abisso 

Eppure, Bisharat sa, come annota, che tale allarme non troverà orecchie attente presso l’opinione pubblica del suo Paese. Infatti, scrive, con sconforto, che ormai in Israele “non c’è spazio per la misericordia” e che sa bene, “sulla base di amare esperienze, che a ogni richiesta di simpatia si risponderà essenzialmente con urla di indignazione e reazioni del tipo: ‘Se la sono cercata’, oppure “non provo empatia’, se non peggio. Questa durezza di cuore è ampiamente diffusa. Ogni espressione di empatia verso l’altro è considerata un tradimento, quindi chi ha un minimo di senso morale non ha altra scelta che rimanere in silenzio e autocensurarsi”.

Allora perché scriverne? Per “un’antica abitudine umana, quella di non tenersi dentro il dolore e di gridare, come canta la cantante libanese Fayrouz: ‘O voce mia, continua a scuotere la coscienza, racconta quello che sta succedendo, svegliati’”.

Non solo la noncuranza verso la tragedia provocata nella Striscia, “ancora peggio, c’è chi in Israele non è soddisfatto del disastro che ha colpito Gaza – un alto funzionario governativo non ha escluso di sganciare una bomba atomica – kaboom ed è tutto finito”

“Zvi Yehezkeli, reporter specializzato in affari arabi di Channel 13, sarebbe contento dell’eliminazione di 100.000 palestinesi, che verrebbero uccisi solo al primo colpo – ovviamente seguiranno altre morti. Fate un semplice calcolo: se 22.000 morti e tutta la distruzione connessa possono portare a 500.000 morti, allora secondo il multiplo discendente dalla richiesta di Yehezkeli, 100.000 vittime potrebbero portare a 2,5 milioni morti nel prossimo anno”.

“Allora Gaza sarà cancellata – non sarà più vista né più ascoltata. E il silenzio calerà sull’abisso. Gaza diventerà la terra dei morti”.

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Guerra a Gaza: gli otto metodi di genocidio di Israele – Alain Gabon

Giunto al terzo mese, il livellamento di Gaza, che ha causato una distruzione senza precedenti di persone, infrastrutture e habitat, sembra inarrestabile.

Né la pressione degli Stati Uniti volta a limitare le vittime civili, né la retorica degli stati arabi – che non sono riusciti nemmeno a mettersi d’accordo su azioni congiunte, come un embargo petrolifero o la temporanea rottura delle relazioni diplomatiche formali – sono riuscite a fermare, o addirittura a moderare, la feroce azione di Israele. Anche le risoluzioni delle Nazioni Unite e le proteste di massa globali si sono rivelate inefficaci.

Per quanto possa sembrare incredibile, sembra che il destino di milioni di palestinesi continuerà a essere deciso solo da due uomini: il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente degli Stati Uniti Joe Biden.

Israele ha dichiarato che la sua campagna durerà ancora per molti mesi, possibilmente senza ulteriori periodi di tregua. Lungi dal ridurre l’escalation dell’offensiva o dall’assicurare un bilancio delle vittime civili significativamente più basso – come hanno esortato a fare gli Stati Uniti, non tanto per preoccupazione per le vite dei palestinesi, quanto per paura di una guerra regionale più ampia e di danni al sostegno internazionale a Washington e Tel. Aviv, dopo la breve tregua di novembre Israele ha invece intensificato i suoi attacchi

È fuori dubbio che Israele abbia già commesso una serie di crimini di guerra. Ciò non sorprende per uno Stato che per decenni ha sviluppato e coltivato tale abitudine – e ancor meno se si ricorda che Israele è stato fondato sulla pulizia etnica.

Crimini di guerra, discriminazione contro i non ebrei e disprezzo per il diritto internazionale sono stati parti importanti del DNA di Israele sin dalla sua creazione nel 1948, e anche prima, se si ricordano i paramilitari sionisti come l’Irgun e l’Haganah. Ma ora si discute se i massacri di Israele abbiano raggiunto il livello di genocidio nel senso legale del termine.

Esistono molti malintesi popolari su ciò che costituisce un genocidio, il principale dei quali è che per essere tale, le atrocità devono raggiungere la portata e il livello dell’Olocausto o sterminare quasi un intero popolo o gruppo. Questo non è il caso.

Definire il genocidio

Secondo l’articolo II della Convenzione sul genocidio, per genocidio si intende uno qualsiasi dei seguenti atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso: uccidere membri del gruppo; causare loro gravi danni fisici o mentali; infliggere deliberatamente condizioni di vita volte a provocare la distruzione del gruppo; imporre misure intese a prevenire le nascite; o trasferire forzatamente i bambini ad un altro gruppo.

Le azioni di Israele a Gaza e le loro terribili conseguenze sull’intera popolazione civile, insieme alle ripetute dichiarazioni di funzionari statali israeliani che suggeriscono fortemente l’intento deliberato di spazzare via o almeno danneggiare il maggior numero possibile di palestinesi, lasciano pochi dubbi sul fatto che il limite sia stato raggiunto e ormai superato da tempo. Molti funzionari, giornalisti e membri della società civile lo hanno pubblicamente definito un genocidio.

Nonostante alcune riserve, sembra emergere un consenso tra accademici, studiosi di diritto e persino ex procuratori della Corte penale internazionale, che certamente sono in grado riconoscere un genocidio quando si sta svolgendo davanti ai loro occhi.

Israele combina sistematicamente e metodicamente tutti questi metodi di morte, con risultati orribili

La storia ci ha insegnato che esistono molti modi per sterminare un gruppo di persone o impoverire una popolazione. Ma la campagna di genocidio di Israele, in corso dal 1948, è definita da diverse caratteristiche: la sua natura permanente, la variazione tra genocidio “al rallentatore” e ondate di massacri brutali, e la ricca gamma di tecniche di morte di massa.

Nel momento attuale, Israele sta combinando sistematicamente e metodicamente tutti questi metodi di morte, con risultati orribili. Si possono identificare almeno otto tecniche genocide che sono confluite nella reazione dello Stato all’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas, definito organizzazione terroristica nel Regno Unito e in altri paesi.

Sembra che Israele abbia colto questa opportunità per portare il suo “genocidio al rallentatore” a un livello completamente nuovo di brutalità.

Le otto tecniche

  1. Ucciderli: bombardare i palestinesi indiscriminatamente (qui, l’attenzione dei media, la pressione di alleati come gli Stati Uniti e le proteste internazionali possono avere una certa efficacia nel frenare Israele). Nonostante le affermazioni di Israele secondo cui sta adottando misure per proteggere i civili, la realtà sul campo dimostra il contrario, con i non combattenti che rappresentano la maggior parte delle vittime. Scuole, ospedali e condomini sono stati presi di mira direttamente.
  2. Farli morire di fame: questo viene fatto attraverso il blocco delle forniture di cibo e acqua. Ancora una volta, questa non è una novità; è stato a lungo parte di una politica israeliana concertata e organizzata volta a privare i palestinesi anche della più fondamentale di tutte le risorse di sostentamento, l’acqua.
  3. Privare loro delle cure mediche: Israele sta massimizzando il numero delle vittime distruggendo le infrastrutture mediche, compresi gli ospedali, garantendo così che molti che avrebbero potuto essere salvati moriranno invece per ferite non curate.
  4. Diffondere le malattia : il collasso delle infrastrutture mediche, insieme a condizioni di vita catastrofiche, ha garantito la diffusione delle malattie, rischiando un’altra significativa ondata di morti.
  5. Esaurirli attraverso gli sgomberi forzati: prendendo spunto dal genocidio armeno, Israele sta ora utilizzando il trasferimento forzato, prima dal nord di Gaza al sud, poi all’interno del sud, per far sì che le persone esauste e spesso ferite si spostino da una presunta “area sicura”. ” alla successiva. Una mappa a griglia pubblicata da Israele ha diviso il sud di Gaza in centinaia di minuscoli appezzamenti, tra i quali le persone sono costrette a spostarsi con breve preavviso per evitare le bombe.
  6. Distruggere il loro ambiente: quello che sta accadendo a Gaza è un vero ecocidio. La quantità di distruzione ambientale, che va dall’inquinamento durevole alle munizioni militari, è enorme e potrebbe colpire le generazioni future.
  7. Atomizzare la loro società: la distruzione sistematica delle strutture governative e amministrative con il pretesto di combattere Hamas ha sconvolto la società palestinese. Sfollando la maggior parte dei 2,3 milioni di abitanti di Gaza, Israele sta recidendo i loro legami sociali; non è chiaro come potranno ricreare una società in futuro, soprattutto perché Israele ha cercato di legare tutti i civili ad Hamas e intende mantenere il controllo sul territorio e sulle sue risorse per il prossimo futuro.
  8. Spezzare il loro spirito: per decenni Israele ha utilizzato la guerra psicologica per alimentare un senso di disperazione e impotenza tra la popolazione. Ciò è stato terribilmente efficace tra i più vulnerabili: i bambini di Gaza, molti dei quali soffrivano di grave depressione e pensieri suicidi anche prima dell’attuale offensiva. Dato che Israele rende quasi impossibile il trattamento di questi pazienti, la maggior parte subirà traumi a lungo termine.

Gli otto metodi sopra menzionati sono tutte forme di punizione collettiva, con conseguenze destinate a durare almeno una generazione, anche se la guerra dovesse finire oggi.

Il dottor Alain Gabon è professore associato di studi francesi e presidente del dipartimento di lingue e letterature straniere presso la Virginia Wesleyan University di Virginia Beach, USA. Ha scritto e tenuto numerose conferenze negli Stati Uniti, in Europa e altrove sulla cultura, la politica, la letteratura e le arti francesi contemporanee e, più recentemente, sull’Islam e i musulmani. I suoi lavori sono stati pubblicati in diversi paesi su riviste accademiche, think tank e media mainstream e specializzati come Saphirnews, Milestones. Commentari sul mondo islamico e Les Cahiers de l’Islam. Il suo recente saggio intitolato “I miti gemelli della ‘minaccia jihadista’ occidentale e della ‘radicalizzazione islamica’” è disponibile in francese e inglese sul sito della Cordoba Foundation britannica.

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org

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Gaza. La lettera con cui il giornalista Raffaele Oriani interrompe la sua collaborazione con il Venerdì di Repubblica

Un plauso della redazione de l’AntiDiplomatico al giornalista Raffaele Oriani che ha deciso di lasciare Repubblica dopo 12 anni, facendo onore alla sua professione e alla sua integrità morale. La sua lettera in cui motiva la decisione è un meraviglioso J’Accuse alla stampa italiana ed europea sul genocidio in corso a Gaza.

Di seguito la lettera:

“Care colleghe e colleghi -ha scritto nella sua lettera alla redazione- ci tengo a farvi sapere che a malincuore interrompo la mia collaborazione con il Venerdì. Collaboro con il newsmagazine di Repubblica ormai da dodici anni ed è sempre un grande onore vedere i propri articoli pubblicati su questo splendido settimanale. Eppure chiudo qua, perchè la strage in corso a Gaza è accompagnata dall’incredibile reticenza di gran parte della stampa europea, compresa Repubblica (oggi due famiglie massacrate in ultima riga a pagina 15). Sono 90 giorni che non capisco. Muoiono e vengono mutilate migliaia di persone, travolte da una piena di violenza che ci vuole pigrizia a chiamare guerra. Penso che raramente si sia vista una cosa del genere, così, sotto gli occhi di tutti. E penso che tutto questo non abbia nulla a che fare con Israele, né con la  Palestina, né con la geopolitica, ma solo con i limiti della nostra tenuta etica. Magari fra decenni, ma in tanti si domanderanno dove eravamo, cosa facevamo, cosa pensavamo mentre decine di migliaia di persone finivano sotto le macerie. Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi. Non avendo alcuna possibilità di cambiare le cose, con colpevole ritardo mi chiamo fuori”.

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Deportare nel deserto del Sinai la gente di Gaza? Per il Sionismo Reale è da fare – Pino Cabras

E poi ci sono i professori che vorrebbero relegare gli abitanti di Gaza nel deserto della penisola del Sinai. Lo ha suggerito in un pensoso editoriale su «The Jerusalem Post» che sta facendo parecchio rumore il professore israeliano Joel Roskin, un geologo-geografo (e immagino anche geoparaculo) del Dipartimento di Geografia e Ambiente dell’Università Bar-Ilan di Tel Aviv.

Gli stati coloniali non funzionerebbero un solo minuto se dovessero basare i loro regimi di occupazione sulla sola forza dei loro soldati. Hanno bisogno anche di finanzieri, di organi di stampa compiacenti, di dirigenti collaborazionisti, di intellettuali organici che fiancheggino l’ideologia coloniale e le sue pianificazioni. Sono loro a fornire alle potenze colonialiste il balsamo che ammorbidisce con altisonante e visionaria “progettualità” anche le più bieche e crudeli pulizie etniche, i genocidi, le rapine minerali e territoriali realizzate con la liquidazione di intere comunità.

Joel Roskin e il «Jerusalem Post» non fanno eccezione. E quindi non si vergognano. Non hanno nessun imbarazzo a dichiarare tutto già nel titolo dell’articolo: «Perché spostarsi verso la penisola del Sinai è la soluzione per i palestinesi di Gaza». Un atto volontario, insomma, che deve andare contro l’insistenza a rimanere, una qualità degli abitanti di Gaza definita da Roskin come mera «stubborness», cocciutaggine.

Il geoparaculo attinge alle sue conoscenze per descrivere le mirabolanti caratteristiche che avrebbe quella scatola di sabbia del Sinai per ospitare – come mai ha fatto nella storia – addirittura due milioni di persone. E che sarà mai, sradicare quei cocciuti da Gaza, resa inabitabile da Sor Netanyahu? Allegri, suvvia! Mentre a Gaza stanno strettini e con un vicino leggermente stronzetto che gli fa i dispettucci, nel Sinai potranno finalmente distendere i piedi. Fra le sue sabbie polverose li attende una specie di terra vergine, certo un aridissimo prolungamento del Sahara, ma dotato di insospettabili e inesplorate riserve d’acqua che Roskin e pochi altri saggi conoscono bene. Fidatevi!

L’importante è che in nessun punto dell’articolo questa sia definita come una “deportazione”, che sarebbe un crimine di guerra e non sta mica bene, bensì come «un luogo ideale per sviluppare uno spazioso reinsediamento». Vedete come suona figo? Spazioso reinsediamento, «spacious resettlement». Sembra quasi la prolusione di un agente immobiliare che vi illustra un appartamento più ampio del triste monolocale dove stavate sinora. Strano però che altri agenti immobiliari stiano già illustrando ai coloni israeliani fanatici il “rendering” delle case da costruire a Gaza, una volta sfrattati o seppelliti i cocciuti. Si vede che ai coloni piace invece stare stretti, sono fatti così. Solo i maliziosi pensano che vogliano appropriarsi anche dei vasti giacimenti di gas (anche loro “spaziosi”) nella piattaforma marina davanti a Gaza che ad oggi spetterebbe ai palestinesi.

Appare evidente che il geografo ha una specie di amnesia selettiva, quella geografia lì non la ricorda. Potrebbe essere un problema della sua corteccia prefrontale dorso-laterale o un problema di geografia. Nel primo caso, proprio nell’Università Bar-Ilan c’è un’ottima facoltà di medicina dove andare. Nel secondo, c’è la sua facoltà dove andare.

Per parte mia, ho un’idea ben precisa di dove il prof. Roskin dovrebbe andare.

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Netanyahu voleva distruggere Hamas. Questa guerra potrebbe distruggere Israele – David Hearst

La guerra di Gaza è stata un enorme errore di valutazione di Israele. Oltre a essere un disastro morale e militare, sta rinfocolando la resistenza e riaccendendo le braci della rabbia in tutto il mondo arabo.

Durante l’assedio di Beirut nel luglio 1982, dopo un bombardamento israeliano particolarmente intenso, il presidente degli USA Ronald Reagan chiamò il primo ministro israeliano Menachem Begin per chiedergli di porvi fine.

“Notte dopo notte qui sulle nostre televisioni vengono mostrati al nostro popolo i segni di questa guerra ed è un olocausto,” disse Reagan.

A differenza del democratico che siede oggi alla Casa Bianca, il presidente repubblicano poteva ed era pronto a sostenere con l’azione le proprie parole. Gli USA misero fine alle bombe a grappolo e alla vendita di F16 a Israele.

Il numero dei morti nella guerra del Libano varia enormemente. Secondo le stime libanesi nei quattro mesi che seguirono il lancio dell’invasione furono uccisi 18.085 libanesi e palestinesi. Le cifre dell’OLP sono di 49.600 civili uccisi o feriti.

In appena due mesi Israele ha ucciso lo stesso numero di persone, ma ha inflitto a Gaza un livello di distruzione molto maggiore.

Secondo gli analisti militari intervistati dal Financial Times la devastazione di Israele nel nord di Gaza, dove dal 4 dicembre è stato distrutto il 68% degli edifici, è paragonabile al bombardamento alleato di Amburgo (75%), Colonia (61%), e Dresda (59%) avvenuto in quelle città dopo due anni di bombardamenti.

Circa 20.000 palestinesi, il 70% donne e minori, sono stati uccisi in metà del tempo che ci volle a costringere l’OLP a lasciare Beirut ovest nel 1982. Eppure la sete di sangue di Israele dopo l’attacco di Hamas il 7 ottobre non è ancora stata saziata.

Interpretando un sentimento diffuso, Zvi Yehezkeli, corrispondente per gli affari arabi di Channel 13, ha detto che Israele dovrebbe uccidere 100.000 palestinesi. Daniella Weiss, capo del Movimento dei Coloni Israeliani, ha detto che Gaza deve essere rasa al suolo, in modo che i coloni possano vedere il mare.

Terra sacra

A differenza dell’assedio di Beirut o del massacro del 1982 nei campi profughi di Sabra e Shatila, il bombardamento notturno di Gaza viene trasmesso in diretta da Al Jazeera.

Milioni di arabi non riescono a distogliere gli occhi dalle scene di orrore in tempo reale. Una signora di 91 anni ad Amman, in Giordania, ha detto al figlio di vergognarsi di mangiare davanti alla televisione mentre Israele sta riducendo Gaza alla fame.

La fame forzata di massa non è un’esagerazione.

Human Rights Watch ha accusato Israele di usare la fame di massa come arma di guerra. La politica governativa di affamare Gaza è stata confermata da Miri Regev, ministra dei Trasporti, che, in un recente incontro di gabinetto ha chiesto se la fame potrebbe influenzare i leader di Hamas. I suoi colleghi hanno dovuto correggerla precisando che la fame è un crimine di guerra.

L’effetto che queste immagini sta avendo è una catastrofe non solo per questo governo, o per ogni futuro governo di Israele, ma anche per tutti quegli ebrei che decideranno di restare in questa terra quando il conflitto sarà finalmente terminato.

La distruzione di Gaza sta gettando le fondamenta per altri 50 anni di guerra. Generazioni di palestinesi, arabi e musulmani non dimenticheranno mai la barbarie con cui oggi Israele sta smantellando l’enclave. Gaza, di per sé un grande campo profughi, sta diventando terra sacra…

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Alessandro Orsini – I 5 fatti che dimostrano il terrorismo dello stato di Israele

Questa è una sfida alla mefitica lobby israeliana, basata in Italia, che sostiene il massacro dei bambini palestinesi a Gaza raccogliendo firme per chiudermi la bocca. Io sono ancora qui. Non siete ancora riusciti a silenziarmi, a ottenere il mio licenziamento dall’Università, la chiusura dei miei social e la mia espulsione dalla televisione. Dato l’impegno profuso in questo senso e la violenta campagna diffamatoria, condita da minacce e insulti violentissimi che ricevo tutti i giorni, io sono autorizzato ad affermare che la tanto temuta mefitica lobby israeliana, basata in Italia, altro non è che un gruppo di falliti.

Diecimila contro uno mi fanno un baffo. Quindi, a partire da oggi, mi riferirò a questi falliti con la seguente locuzione: “Mefitica lobby israeliana di falliti totali”. Infatti questi gran falliti corrotti sostenitori del governo terrorista d’Israele se ne torna a casa con la coda tra le gambe mentre io continuo a dire che l’esercito israeliano è una cloaca per i seguenti 5 fatti documentati attraverso il metodo scientifico:

1) L’esercito israeliano è un esercito cloaca perché, prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, sparava in testa ai bambini palestinesi di tre anni nei territori occupati come Mohammed Haitham al-Tamimi, cui l’esercito feccia ha sparato un proiettile nel cranio il 5 giugno 2023 in Cisgiordania dove Hamas non c’è (vedi video qui sotto). Dal 1° gennaio al 5 giugno 2023, i soldati israeliani avevano già ucciso 20 bambini palestinesi e, secondo le proiezioni statistiche, erano avvviati a superare il record di bambini palestinesi massacrati nel 2022.

 

2) L’esercito israeliano è un esercito cloaca perché, dall’8 ottobre a oggi, ha massacrato più di 10.000 bambini musulmani a Gaza lasciando altri mille bambini di Gaza con gli arti amputati.

3) L’esercito israeliano è un esercito cloaca perché il medico-chirurgo britannico-palestinese Abu-Sittah ha testimoniato di avere dovuto amputare i bambini a Gaza senza anestesia perché il governo terrorista d’Israele ha ridotto gli ospedali di Gaza al collasso causando persino la morte dei bambini palestinesi nelle incubatrici.

4) L’esercito israeliano è un esercito cloaca perché sta sparando intenzionalmente sui civili palestinesi. I soldati israeliani hanno sganciato più di 29.000 bombe su Gaza in tre mesi, di cui la metà circa sono bombe non guidate, tra cui le potentisisme bombe MK-84.

5) L’esercito israeliano è un esercito cloaca perché difende un governo che include un ministro razzista come Ben-Gvir, ammiratore del terrorista Baruch Goldstein, l’autore della strage contro la moschea di Hebron del 1994, di cui Ben-Gvir ha sfoggiato il poster nel proprio salone di casa per anni, rimosso soltanto per assumere incarichi di governo (vedi video qui sotto)

Io non ho paura della feccia. È per questo che la sfido e la irrido perché la società libera, senza il coraggio degli studiosi, è morta.

Solidarietà con Gaza.

Abbasso l’esercito cloaca d’Israele.

1) Questo è il video del funerale di Mohammed Haitham al Tamimi, due anni e mezzo, ucciso con un colpo alla testa dai soldati israeliani il 5 giugno 2023

https://www.aljazeera.com/…/palestinians-mourn-two-year…

2) Questo è il video sul ministro razzista d’Israele Ben-Gvir che sfoggia il poster del terrorista Baruch Goldstein nel salone di casa. Potrete vedere il poster feccia al minuto 03:44

https://www.youtube.com/watch?v=OplM9oNmTfQ

* Post Facebook del 4 gennaio 2023

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Lo scenario più temuto da Israele – Giacomo Gabellini

Lo scorso 12 dicembre, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant assicurava che Hamas si trovava ormai sull’orlo del collasso. «Abbiamo – dichiarò trionfalmente Gallant – circondato le ultime roccaforti di Hamas a Jabaliya e Shejaiya. Le stese forze considerate invincibili, preparatesi per anni a combatterci, sono sul punto di essere smantellate».

A un mese di distanza, sembra che il conflitto abbia preso una piega ben diversa da quella ricavabile dalle dichiarazioni del ministro della Difesa di Tel Aviv. Non soltanto perché l’Israeli Defense Force è ancora lontano dall’acquisire il completo controllo dei territori della Striscia di Gaza, ma anche in virtù delle fughe di notizie dal contenuto tutt’altro che rassicurante che giungono dal fronte.  Anzitutto per quanto concerne il numero reale dei caduti tra le fila israeliane.

Il 10 dicembre, il Ministero della Difesa israeliano informava che, a partire dal 7 ottobre, le forze armate israeliane avevano registrato in 425 morti e 1.593 feriti. Nello specifico,  255 soldati avevano riportato lesioni gravi, 446 ferite moderate e 892 escoriazioni o poco più. Cifre tutto sommato “contenute”, divenute tuttavia oggetti di pesanti contestazioni da parte di «Haaretz», che in una sua inchiesta ha sottolineato una macroscopica discrepanza tra i dati forniti dal Ministero della Difesa di Tel Aviv e quanto si ricava dall’analisi dei registri ospedalieri. Secondo cui le strutture israeliane avrebbero ricevuto ben 4.591 feriti, e non 1.593 come annunciato dall’esercito. Indicazioni ancor più allarmanti sono state fornite dal «Yedioth Ahronot», secondo cui, a partire dal 7 ottobre, gli ospedali israeliani avevano accolto oltre 5.000 soldati, di cui più di 2.000 ufficialmente riconosciuti come disabili dal Ministero della Difesa…

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PALESTINA: “LIBERTA’ PER KHALIDA JARRAR, COMPAGNA, FEMMINISTA E RICERCATRICE” ARRESTATA NUOVAMENTE DALL’OCCUPAZIONE ISRAELIANA CON ALTRI COMPAGNI DELL’FPLP

Gli occupanti israeliani hanno arrestato nuovamente – senza alcuna accusa, come capita a migliaia di palestinesi – la parlamentare, compagna e femminista palestinese Khalida Jarrar.

La Jarrar è stata rapita, nella notte tra il 25 e il 26 dicembre, dalla sua abitazione a Ramallah – in Cisgiordania – e portata in carcere, assieme ad altri compagni e compagne del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, principale forza politica della sinistra marxista palestinese.

Oggi, 27 dicembre, la Jarrar – ricercatrice all’Università di Birzeit – avrebbe dovuto partecipare a un panel dedicato proprio ai prigionieri politici, organizzato dall’Arab Studies Institute di Washington e Beirut e dal titolo “Prisons and incarceration in a time of genocide” (prigioni e incarcerazione in tempi di genocidio).

Khalida Jarrar – eletta membro del Consiglio legislativo nelle ultime elezioni parlamentari che in Palestina risalgono ormai al 2006 – è stata arrestata almeno quattro volte negli scorsi anni, sempre senza alcuna accusa specifica, se non il fatto di essere una militante politica della sinistra palestinese, quella dell’FPLP, organizzazione politica che Israele (e quindi a ruota Ue e Usa) bollano come “terroristica”.

L’ultima volta nel 2019, con due anni di carcere preventivo per “attività che mettono a repentaglio la sicurezza” (questa la giustificazione di Tel Aviv) prima del rilascio, nel 2021. In quell’ultima detenzione le fu impedito di partecipare al funerale della figlia, Suha Ghassan Jarrar, deceduta poche settimane prima che la madre uscisse dalle carceri israeliane, dove era entrata, per la prima volta, nel 1989.

Durante le sue detenzioni, la Jarrar ha curato in carcere programmi educativi indipendenti per insegnare alle ragazze minorenni detenute l’istruzione superiore (negata da Israele) oltre che per insegnare alle donne adulte i loro diritti ai sensi del diritto internazionale…

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L’eurodeputato spagnolo Pineda: Netanyahu deve essere giudicato alla Corte penale internazionale

L’eurodeputato spagnolo Manuel Pineda sul suo account X ha paragonato la punizione collettiva che Israele sta infliggendo ai palestinesi nella Striscia di Gaza a quella dei nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale nel ghetto ebraico di Varsavia.

“Lasciare la popolazione di Gaza senza elettricità, senza acqua e senza carburante, che il regime israeliano aveva già bloccato dal 2007, è una punizione collettiva paragonabile a quella attuata dai nazisti nel ghetto di Varsavia”, ha scritto Pineda.

L’europarlamentare comunista ha ricordato che fra i 19.000 palestinesi uccisi “più del 70% sono donne e bambini”. “E tutto senza contare gli oltre 7.500 abitanti di Gaza sotto le macerie”.

Secondo Pineda, dal momento che “non possiamo lasciare questi crimini impuniti”, ha chiesto che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, e i suoi complici, siano portati davanti alla Corte penale internazionale.

Pineda, attualmente è presidente della delegazione per le relazioni Unione Europea-Palestina, da anni denuncia l’aggressione israeliana contro la Palestina occupata nella Striscia di Gaza così come in Cisgiordania. Inoltre, ha lamentato nel corso di questi mesi l’appoggio dell’Unione Europea a Israele che ha “convertito Gaza in un campo di sterminio”.

Con il belga Marc Botenga e gli irlandesi Mick Wallace e Clare Daly, Pineda è in prima linea nel denunciare nel parlamento europeo il genocidio di Israele a Gaza.

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Orientalismo e sionismo per giustificare un genocidio – Enzo Traverso

Chi pensava che nel mondo globale del XXI secolo l’orientalismo fosse morto si è dovuto ricredere: l’orientalismo è vivo e gode di ottima salute. I media ne sono saturi. Il suo principale assioma – gli occidentali sono incapaci di definire sé stessi se non ponendosi di fronte ai rappresentanti di un’umanità radicalmente altra, non-bianca, considerata incivile e gerarchicamente inferiore – viene declinato quotidianamente in tutte le forme possibili.

Ferita dall’attacco “barbaro” di Hamas, “la sola democrazia del Medio Oriente” ha il diritto di difendersi: tutti i nostri capi di Stato e di governo sono andati in pellegrinaggio a Tel Aviv per assicurare Netanyahu del nostro sostegno incondizionato. Non si discute quando sono in gioco la morale e la civiltà. Nel 1896, Theodor Herzl, il padre spirituale di Israele, pubblicava Lo Stato degli ebrei, il testo fondatore del sionismo, in cui definiva questo futuro Stato come «un bastione dell’Europa contro l’Asia, una sentinella della civiltà contro la barbarie». Nel 2023 i termini della questione non sono affatto cambiati.

In un’intervista ai media israeliani +972 e Local Call (https://volerelaluna.it/materiali/2023/12/22/gaza-operazione-spade-di-ferro/) un ufficiale di Tsahal (le forze armate di Israele, ndr) è stato chiaro: i barbari di Hamas uccidono i civili e lanciano razzi alla cieca sulle città israeliane, nella speranza che non vengano intercettati e possano fare qualche danno. Tsahal incarna invece la civiltà: mica sgozza i civili; lancia bombe scegliendo i bersagli con l’aiuto dell’intelligenza artificiale. Ha elaborato un programma chiamato Habsora (Vangelo) che genera automaticamente i suoi obiettivi e funziona come una “fabbrica del massacro” (mass assassination factory). «Nulla accade per caso – spiega l’ufficiale – quando una bambina di tre anni viene uccisa in una casa a Gaza, è perché qualcuno nell’esercito ha deciso che non era un grosso problema ucciderla, che era un prezzo da pagare per colpire un altro obiettivo. Noi non siamo Hamas. Questi non sono razzi casuali. Tutto è intenzionale. Sappiamo esattamente quanti danni collaterali ci sono in ogni casa». Ecco un esempio efficace di quella “razionalità strumentale” in cui Theodor W. Adorno coglieva appunto il nocciolo dell’Occidente. Dopo il 7 ottobre, la soglia di tolleranza dei “danni collaterali” è notevolmente aumentata e non si contano più i bambini morti sotto le bombe. I barbari di Hamas hanno barbaramente ucciso 1.200 israeliani, di cui 800 civili; Tsahal ha ucciso, ad oggi, 18.000 palestinesi, di cui non più di 3/4.000 combattenti di Hamas. Tutto è pianificato: la distruzione di strade, scuole, ospedali; l’interruzione o l’erogazione a singhiozzo di acqua, elettricità, gas, combustibile, internet; l’accesso degli sfollati al cibo e alle medicine; l’evacuazione di oltre un milione e mezzo di persone sui 2,3 milioni che vivono a Gaza verso il sud della striscia, dove sono nuovamente bombardate; le malattie e le epidemie. Ormai si pianifica l’eliminazione dell’intellighenzia palestinese: non solo i dirigenti di Hamas, ma medici, giornalisti, intellettuali e poeti. Molti osservatori dell’Onu presenti a Gaza hanno lanciato l’allarme: la popolazione palestinese è sottoposta a un massacro organizzato e implacabile, sradicata e privata delle più elementari condizioni di sopravvivenza. A Gaza, la guerra israeliana sta prendendo i tratti di un genocidio.

Quando nacque il mito orientalista, gli ebrei facevano parte dell’Occidente come ospiti non grati, esclusi, umiliati e disprezzati, sempre spinti ai margini. Dell’Occidente erano la coscienza critica. Oggi ne fanno parte a pieno titolo, ne sono anzi diventati il simbolo, amati e adulati da chi un tempo li stigmatizzava e perseguitava, e guardati con diffidenza nel Sud del mondo – odiati nel Medio oriente – da chi li considerava come compagni di sventura, uniti da un’evidente «affinità elettiva». In Europa, la lotta contro l’antisemitismo è diventata la bandiera dietro alla quale si coalizzano tutte le estreme destre neo- e post-fasciste, pronte a manifestare contro la “barbarie islamica” prima ancora di essersi liberate del loro antico pregiudizio antisemita. La memoria dell’Olocausto è celebrata ritualmente come una religione civile dell’Unione europea e la difesa di Israele è diventata, come hanno ripetutamente affermato Angela Merkel e Olaf Scholz, la “ragion di stato” tedesca. In nome di questa memoria si invoca il sostegno a uno Stato che sta perpetrando un genocidio, con gli effetti devastanti che si possono immaginare per le nostre culture, le nostre memorie collettive e la nostra pedagogia democratica. Questo spiega perché, soprattutto negli Stati Uniti, molti ebrei hanno levato la loro voce per dire «non in mio nome»…

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Come le organizzazioni per i diritti umani stanno aiutando l’assalto israeliano a Gaza – Lana Tatour

I recenti rapporti di Physicians for Human Rights Israel e Human Rights Watch sul presunto stupro di massa e sull’attacco all’ospedale Ahli non soddisfano gli standard fondamentali della denuncia dei diritti umani e alimentano le campagne di propaganda israeliane che giustificano il genocidio.

 

Il 26 novembre, Human Rights Watch (HRW) e Physicians for Human Rights Israel (PHRI) hanno pubblicato ciascuno un rapporto. Entrambi i rapporti avanzano gravi accuse contro i palestinesi, sostenendo che essi sono coinvolti in crimini di guerra e potenzialmente crimini contro l’umanità. Il rapporto di HRW, “Risultati sull’esplosione dell’ospedale al-Ahli del 17 ottobre”, sostiene che l’ospedale arabo di Al-Ahli a Gaza è stato colpito da un razzo lanciato in modo errato dai palestinesi il 17 ottobre, mentre il rapporto del PHRI, “La violenza di genere come Arma di guerra durante gli attacchi di Hamas del 7 ottobre”, accusa Hamas di aver commesso violenze sessuali, compreso lo stupro.

Per essere chiari, le accuse di violenza sessuale e stupro durante il 7 ottobre dovrebbero certamente essere indagate. Guidata da principi antirazzisti e femministi, affermo che gli autori di violenza di genere devono essere ritenuti responsabili. Le vittime, tutte le vittime – comprese le palestinesi che subiscono violenza sessuale – meritano giustizia. Anche le vittime dell’ospedale arabo Al-Ahli meritano giustizia. Ma non è questo ciò che fanno questi rapporti.

Una lettura attenta di questi rapporti mostra che nessuno dei due soddisfa gli standard delle migliori pratiche di reporting e ricerca sui diritti umani nel settore, che HRW e PHRI  solitamente sostengono. Questa volta, tuttavia, le due organizzazioni hanno consapevolmente applicato un livello di prove diverso e significativamente più basso per quanto riguarda i palestinesi. Questi rapporti si basano su speculazioni piuttosto che su prove e su una metodologia errata che equivale a una condotta non etica. Nessuno dei rapporti fornisce prove affidabili o sufficienti a sostegno delle gravi accuse avanzate.

Sebbene i titoli e i riassunti esecutivi dei rapporti siano conclusivi, nei rapporti si possono trovare dichiarazioni di non responsabilità in cui le organizzazioni effettivamente ammettono che i rapporti sono inconcludenti. HRW, ad esempio, scrive che “è necessaria un’indagine completa” sull’esplosione di Al-Ahli. Allo stesso modo, PHRI scrive che il rapporto “non tenta né mira a raggiungere conclusioni legali” – un avvertimento che non include in nessuno dei suoi altri rapporti, compresi quelli che trattano di violenza di genere.

HRW e PHRI sono rispettati nella comunità dei diritti umani e non avrebbero mai pubblicato rapporti con una base probatoria così debole se l’oggetto dell’indagine fosse stato Israele. La condotta non etica di HRW e PHRI è resa possibile dal razzismo anti-palestinese. Questi rapporti rappresentano e si inseriscono in un contesto globale di supremazia bianca, islamofobia e razzismo anti-palestinese. Queste organizzazioni sanno che quando si tratta di palestinesi, non dovranno affrontare un serio controllo o richieste di responsabilità da parte dei governi, dei media e della società civile occidentali.

I rapporti non possono essere visti separatamente dagli eventi attuali e alimentano pericolosamente le campagne di propaganda orchestrate da Israele, che mirano a disumanizzare i palestinesi come mezzo per distogliere l’attenzione e giustificare il genocidio di Gaza.

Di seguito, analizzerò ogni rapporto in dettaglio per dimostrare dove non rispettano gli standard di rendicontazione sui diritti umani.

La tempistica

L’impegno di HRW e PHRI nei confronti del diritto internazionale li ha sempre visti adottare un approccio liberale e ristretto, spesso ignorando il contesto e la politica. Un esempio significativo è il rapporto HRW sull’apartheid, che ignora la causa principale dell’apartheid in Palestina: l’ideologia razziale del colonialismo dei coloni israeliani. Invece, considerano tutte le parti come uguali, tracciando una simmetria tra le “parti in conflitto” (come lo definiscono loro) indipendentemente dalle relazioni di potere…

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Questa non è una guerra contro Hamas – Jeremy Scahill

L’idea che la guerra finirebbe se Hamas venisse rovesciato o si arrendesse è tanto antistorica quanto falsa.

Immagine di copertina: palestinesi piangono accanto ai corpi dei i loro familiari all’Ospedale Nasser dopo gli attacchi aerei israeliani a Khan Younis, Gaza, il 10 dicembre 2023. Foto: Belal Khaled/Anadolu via Getty Images

Gli eventi della scorsa settimana dovrebbero cancellare ogni dubbio sul fatto che la guerra contro i palestinesi di Gaza sia un’operazione congiunta USA-Israele. Venerdì, mentre l’amministrazione Biden si trovava da sola tra le nazioni del mondo a porre il veto su una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che chiedeva un cessate il fuoco immediato, il Segretario di Stato Antony Blinken era impegnato a eludere la revisione del Congresso per ottenere l’approvazione di una vendita “di emergenza” di 13.000 carri armati a Israele. Per settimane, Blinken ha viaggiato per il Medio Oriente ed è apparso su decine di reti televisive in una tornata di pubbliche relazioni volto a vendere al mondo l’idea che la Casa Bianca è profondamente preoccupata per il destino dei 2,2 milioni di abitanti di Gaza. “Troppi palestinesi sono stati uccisi; troppi hanno sofferto nelle ultime settimane e vogliamo fare tutto il possibile per prevenire loro danni”, ha dichiarato Blinken il 10 novembre. Un mese dopo, con il bilancio delle vittime alle stelle e le richieste di cessate il fuoco che montavano, Blinken ha assicurato al mondo che Israele stava implementando nuove misure per proteggere i civili e che gli Stati Uniti stavano facendo tutto il possibile per incoraggiare Israele a impiegare un po’ più di moderazione nella sua diffusa campagna di uccisioni. Gli eventi di venerdì hanno decisamente gettato quelle rassicurazioni in un tempestoso vortice di sangue.

Negli ultimi due mesi Benjamin Netanyahu ha sostenuto, anche sui canali di informazione statunitensi che: “La nostra guerra è la vostra guerra”. Col senno di poi, questo non era un appello alla Casa Bianca. Netanyahu stava affermando un fatto. Dal momento in cui il Presidente Joe Biden ha parlato con il suo “grande, grande amico” Netanyahu il 7 ottobre, all’indomani dei mortali attacchi guidati da Hamas in Israele, gli Stati Uniti non si sono limitati a fornire a Israele ulteriori armi e supporto di intelligence, ma hanno anche offerto una copertura politica cruciale per la campagna di terra bruciata volta ad annientare Gaza come territorio palestinese. È irrilevante quali parole di preoccupazione e cautela siano uscite dalle bocche dei funzionari dell’amministrazione quando tutte le loro azioni miravano ad aumentare la morte e la distruzione.

La propaganda dell’amministrazione Biden a volte è stata così estrema che persino l’esercito israeliano ha suggerito di abbassarne il tono di un livello o due. Biden ha falsamente affermato di aver visto immagini di “terroristi che decapitavano bambini” e poi ha consapevolmente diffuso e promosso quell’accusa non verificata come un fatto, anche nonostante le obiezioni dei suoi consiglieri, e ha messo pubblicamente in dubbio il bilancio delle vittime dei civili palestinesi. Tutto ciò non è casuale, né può essere attribuito alla propensione del Presidente a esagerare o a inciampare in gaffe…

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Lo straordinario filmato di F. Nabulsi

La regista Farah Nabulsi ha rilanciato in questi giorni un filmato dedicato a Gaza (disponibile con i sottotitoli in italiano, grazie al prezioso contributo di Assopace Palestina).

Scrive Nabulsi nel suo profilo fb: “Nell’estate del 2014, durante una precedente intensa offensiva israeliana su Gaza, prima di diventare una regista, ho scritto un pezzo che catturava le emozioni crude e le realtà tragiche come le ho sentite e immaginate se fossi stata madre a Gaza in quel momento. Nel 2017, l’ho adattato e pubblicato come cortometraggio di tredici minuti intitolato Nightmare of Gaza. Lo rilancio in questi giorni: il suo messaggio è ancora toccante e fin troppo rilevante… Per aiutare chi in tutto il mondo vuole capire e connettersi, ma trova troppo travolgenti le immagini dure dell’attacco attuale, questo film offre una finestra astratta ma profondamente emotiva sull’esperienza palestinese. Vi invito a condividerlo con i vostri amici e familiari, ma soprattutto con comunità e persone che conoscete in tutto il mondo che non capiscono cosa significa essere palestinesi a Gaza in un momento come questo…”.

Farah Nabulsi è nata e cresciuta a Londra da madre palestinese e padre palestinese-egiziano. Nel 2016 ha promosso una casa di produzione non profit, Native Liberty, per raccontare la Palestina attraverso progetti cinematografici. Nello stesso anno ha lanciato il sito Ocean of Injustice, una piattaforma educativa in lingua inglese con notizie provenienti dai territori occupati.

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Un dolente spirito di verità: “Il popolo della memoria non dovrebbe disprezzare gli altri popoli fino a crederli incapaci di ricordare per sempre

«Il manifesto» 1989

 di Franco Fortini*

QUELL’ASSEDIO PUÒ vincere. Anche le legioni di Tito vinsero. Quando dalle mani dei palestinesi le pietre cadessero e – come auspicano i “falchi” di Israele – fra provocazione e disperazione, i palestinesi avversari della politica di distensione dell’Olp, prendessero le armi, allora la strapotenza militare israeliana si dispiegherebbe fra gli applausi di una parte dell’opinione internazionale e il silenzio impotente di odio di un’altra parte, tanto più grande.

Il popolo della memoria non dovrebbe disprezzare gli altri popoli fino a crederli incapaci di ricordare per sempre.

GLI EBREI DELLA Diaspora sanno e sentono che un nuovo e bestiale antisemitismo è cresciuto e va rafforzandosi di giorno in giorno fra coloro che dalla violenza della politica israeliana (unita alla potente macchina ideologica della sua propaganda, che la Diaspora amplifica) si sentono stoltamente autorizzati a deridere i sentimenti di eguaglianza e le persuasioni di fraternità.

Per i nuovi antisemiti gli ebrei della Diaspora non sono che agenti dello stato di Israele. E questo è anche l’esito di un ventennio di politica israeliana.

L’USO CHE QUESTA ha fatto della diaspora ha rovesciato, almeno in Italia, il rapporto fra sostenitori e avversari di tale politica, in confronto al 1967. Credevano di essere più protetti e sono più esposti alla diffidenza e alla ostilità.

Onoriamo dunque chi resiste nella ragione e continua a distinguere fra politica israeliana e ebraismo. Va detto anzi che proprio la tradizione della sinistra italiana (da alcuni filoisraeliani sconsideratamente accusata di fomentare sentimenti razzisti) è quella che nei nostri anni ha più aiutato, quella distinzione, a mantenerla.

Sono molti a saper distinguere e anch’io ero di quelli.

Ma ogni giorno di più mi chiedo: come sono possibili tanto silenzio o non poche parole equivoche fra gli ebrei italiani e fra gli amici degli ebrei italiani?

Coloro che ebrei o amici degli ebrei – pochi o molti, noti o oscuri, non importa – credono che la coscienza e la verità siano più importanti della fedeltà e della tradizione, anzi che queste senza di quelle imputridiscano, ebbene parlino finché sono in tempo, parlino con chiarezza, scelgano una parte, portino un segno.

Abbiano il coraggio di bagnare lo stipite delle loro porte col sangue dei palestinesi, sperando che nella notte l’Angelo non lo riconosca; o invece trovino la forza di rifiutare complicità a chi quotidianamente ne bagna la terra, che contro di lui grida.

Né mentiscano a se stessi, come fanno, parificando le stragi del terrorismo a quelle di un esercito inquadrato e disciplinato. I loro figli sapranno e giudicheranno.

E SE ORA MI SI CHIEDESSE con quale diritto e in nome di quale mandato mi permetto di rivolgere queste domande, non risponderò che lo faccio per rendere testimonianza della mia esistenza o del cognome di mio padre e della sua discendenza da ebrei. Perché credo che il significato e il valore degli uomini stia in quello che essi fanno da sé medesimi a partire dal proprio codice genetico e storico, non in quel che con esso hanno ricevuto in destino.

Mai come su questo punto – che rifiuta ogni «voce del sangue» e ogni valore al passato ove non siano fatti, prima, spirito e presente; sì che partire da questi siano giudicati – credo di sentirmi lontano da un punto capitale dell’ebraismo o da quel che pare esserne manifestazione corrente.

IN MODO AFFATTO diverso da quello di tanti recenti, e magari improvvisati, amici degli ebrei e dell’ebraismo, scrivo queste parole a una estremità di sconforto e speranza perché sono persuaso che il conflitto di Israele e di Palestina sembra solo, ma non è, identificabile a quei tanti conflitti per l’indipendenza e la libertà nazionali che il nostro secolo conosce fin troppo bene.

Sembra che Israele sia e agisca oggi come una nazione o come il braccio armato di una nazione, come la Francia agì in Algeria, gli Stati uniti in Vietnam o l’Unione Sovietica in Ungheria o in Afghanistan. Ma, come la Francia era pur stata, per il nostro teatro interiore, il popolo di Valmy e gli Americani quelli del 1775 e i sovietici quelli del 1917, così gli ebrei, ben prima che soldati di Sharon, erano i latori di una parte dei nostri vasi sacri, una parte angosciosa e ardente della nostra intelligenza, delle nostre parole e volontà.

Non rammento quale sionista si era augurato che quella eccezionalità scomparisse e lo stato di Israele avesse, come ogni altro, i suoi ladri e le sue prostitute. Ora li ha e sono affari suoi. Ma il suo Libro è da sempre anche il nostro, e così gli innumerevoli vivi e morti libri che ne sono discesi.

È solo paradossale retorica dire che ogni bandiera israeliana da nuovi occupanti innalzata a ingiuria e trionfo sui tetti di un edificio da cui abbiano, con moneta o minaccia, sloggiato arabi o palestinesi della città vecchia di Gerusalemme, tocca alla interpretazione e alla vita di un verso di Dante o al senso di una cadenza di Brahms?

LA DISTINZIONE fra ebraismo e stato d’Israele, che fino a ieri ci era potuta parere una preziosa acquisizione contro i fanatismi, è stata rimessa in forse proprio dall’assenso o dal silenzio della Diaspora. E ci ha permesso di vedere meglio perché non sia possibile considerare quel che avviene alle porte di Gerusalemme come qualcosa che rientra solo nella sfera dei conflitti politico-militari e dello scontro di interessi e di poteri.

Per una sua parte almeno, quel conflitto mette a repentaglio qualcosa che è dentro di noi.

OGNI CASA CHE gli israeliani distruggono, ogni vita che quotidianamente uccidono e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e di sapienza che, nella e per la cultura d’Occidente, è stato accumulato dalle generazioni della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti.

Una grande donna ebrea cristiana, Simone Weil ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere.

Ogni giorno di guerra contro i palestinesi, ossia di falsa coscienza per gli israeliani, a sparire o a umiliarsi inavvertiti sono un edificio, una memoria, una pergamena, un sentimento, un verso, una modanatura della nostra vita e patria.

Un poeta ha parlato del proscritto e del suo sguardo «che danna un popolo intero intorno ad un patibolo»: ecco, intorno ai ghetti di Gaza e Cisgiordania ogni giorno Israele rischia una condanna ben più grave di quelle dell’Onu, un processo che si aprirà ma al suo interno, fra sé e sé, se non vorrà ubriacarsi come già fece Babilonia.

LA NOSTRA VITA non è solo diminuita dal sangue e dalla disperazione palestinese; lo è, ripeto, dalla dissipazione che Israele viene facendo di un tesoro comune.

Non c’è laggiù università o istituto di ricerca, non biblioteca o museo, non auditorio o luogo di studio e di preghiera capaci di compensare l’accumulo di mala coscienza e di colpe rimosse che la pratica della sopraffazione induce nella vita e nella educazione degli israeliani.

E ANCHE in quella degli ebrei della Diaspora e dei loro amici. Uno dei quali sono io.

Se ogni loro parola toglie una cartuccia dai mitra dei soldati dello Tsahal, un’altra ne toglie anche a quelli, ora celati, dei palestinesi.

Parlino, dunque.

* «Il manifesto» ha pubblicato questo testo la prima volta il 24/5/1989 e una seconda volta il 18 gennaio 2009. I problemi e le domande che pone restano ancora oggi aperti e immutati. Semmai «solo» aggravati.

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Il sostegno statunitense a Israele alla fine si ritorcerà contro – Ramzy Baroud

Una famosa citazione di Franz Kafka dice: “Ogni cosa che ami è molto probabile che vada perduta, ma alla fine, l’amore tornerà in un modo diverso”. Lo stesso principio, io credo, si applica a qualsiasi altro sentimento potente, inclusi risentimento, odio, collera e persino rabbia.

I funzionari statunitensi dovrebbero saperlo mentre continuano a sostenere Israele con miliardi di dollari in aiuti militari ed economici, così come con qualsiasi altra cosa che permetta a Israele di continuare con il Genocidio dei palestinesi a Gaza.

Il mondo intero sta guardando, ascoltando, leggendo e diventando ogni giorno più arrabbiato per il ruolo diretto degli Stati Uniti nel facilitare il bagno di sangue di Gaza.

La campagna militare di Israele a Gaza “ha provocato più distruzione della distruzione di Aleppo in Siria tra il 2012 e il 2016, di Mariupol in Ucraina o, in proporzione, del bombardamento alleato della Germania durante la Seconda Guerra Mondiale” e “ora è tra le più letali e distruttive della storia recente”, ha riportato l’Associated Press il mese scorso, sulla base dell’analisi dei dati satellitari.

Oltre alle decine di migliaia di morti o dispersi tra le macerie, un numero ancora maggiore di persone è rimasto ferito e mutilato, tra cui migliaia di bambini. Secondo l’UNICEF, molti bambini hanno subito “la perdita di un braccio o di una gamba”.

L’agonia di Gaza viene vista in televisione e attraverso ogni altro mezzo di comunicazione possibile. È come se il mondo soffrisse insieme ai bambini di Gaza, ma senza riuscire a fermare o rallentare il Genocidio.

Eppure, anche quando tutti i Paesi europei, tranne pochi, hanno cambiato posizione sulla guerra, unendosi al resto del mondo nel chiedere un cessate il fuoco immediato e globale, Washington ha continuato a respingere queste richieste.

È così che l’ambasciatrice degli Stati Uniti presso l’ONU Linda Thomas-Greenfield ha giustificato l’uso del veto da parte del suo Paese, annullando il primo serio tentativo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di raggiungere una tregua permanente il 18 ottobre: ​​”Israele ha il diritto intrinseco all’auto-difesa come previsto dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite”. Questa stessa logica è stata ripetuta molte volte dai funzionari statunitensi, anche quando la portata della tragedia di Gaza è diventata nota a tutti, compresi gli stessi americani.

Questa logica egoistica va contro lo spirito del diritto internazionale e umanitario, che respinge categoricamente il prendere di mira i civili durante i periodi di guerra e di conflitto, così come di impedire che gli aiuti umanitari raggiungano le vittime civili della guerra. Infatti, la stragrande maggioranza delle vittime di Gaza sono civili e oltre il 70% di tutte le persone uccise sono donne o bambini. Inoltre, a causa delle pratiche disumane israeliane, i sopravvissuti di Gaza si trovano ora ad affrontare una vera e propria carestia, che rappresenta un evento senza precedenti nella storia moderna della Palestina.

Ma Israele continua a impedire l’accesso a cibo, medicine, carburante e altre forniture urgenti, violando così le stesse leggi di Washington in materia. “Nessuna assistenza può essere fornita a nessun Paese quando viene reso noto al Presidente che il governo di tale Paese impedisce o limita in altro modo, direttamente o indirettamente, il trasporto o la consegna dell’assistenza umanitaria degli Stati Uniti”, questo sancisce la Legge sull’Assistenza Estera degli Stati Uniti (Foreign Assistance Act – paragrafo 620I).

L’amministrazione Biden non ha fatto nulla per esercitare pressioni, per non parlare della forza, su Israele affinché aderisca anche alle leggi umanitarie più elementari durante il Genocidio in corso a Gaza. Quel che è peggio è che il Presidente Joe Biden sta fornendo a Israele gli strumenti necessari per prolungare questa guerra distruttiva.

Secondo un rapporto del 25 dicembre del canale israeliano Channel 12, circa 20 navi e 244 aerei statunitensi hanno consegnato a Israele più di 10.000 tonnellate di armamenti ed equipaggiamenti militari dall’inizio della guerra. Secondo quanto riferito, queste forniture militari includono almeno 100 bombe anti-bunker da 2.000 libbre (900 kg), che sono state utilizzate ripetutamente durante la guerra israeliana, uccidendo e ferendo centinaia di persone ogni volta.

L’unica azione concreta intrapresa dagli Stati Uniti dall’inizio della guerra è stata quella di creare una coalizione, denominata “Operazione Prosperity Guardian” (Garante della Prosperità), con l’unico scopo di garantire la sicurezza delle navi che attraversano il Mar Rosso, anche da o verso Israele.

Gli Stati Uniti, tuttavia, sembrano non aver imparato nulla dal passato: dalle loro devastanti guerre in Iraq, dalla cosiddetta guerra al terrorismo o dal loro fallimento nel trovare un equilibrio tra il sostegno a Israele e il rispetto per i palestinesi, gli arabi e i musulmani. Al contrario, alcuni funzionari statunitensi sembrano essere del tutto distaccati da questa realtà.

Il mese scorso, in una conferenza stampa alla Casa Bianca, il Portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, John Kirby, ha proclamato: “Ditemi, nominatemi, un’altra nazione, qualsiasi altra nazione, che sta facendo tanto quanto gli Stati Uniti per alleviare il dolore e la sofferenza del popolo di Gaza. Non c’è”. Ma come fanno le cosiddette bombe stupide, le bombe intelligenti, le bombe anti-bunker e le decine di migliaia di tonnellate di esplosivi ad “alleviare il dolore e la sofferenza” di Gaza e dei suoi figli?

Se Kirby non è consapevole del ruolo del suo Paese nel Genocidio di Gaza, allora la crisi della politica estera americana è peggiore di quanto avremmo potuto immaginare. Se invece ne è consapevole, e dovrebbe esserlo, allora la crisi morale del suo Paese non ha probabilmente precedenti nella storia moderna.

Il problema nella politica statunitense è che le amministrazioni hanno una visione frammentata della realtà, poiché sono intensamente concentrate su come la loro azione, o inazione, influenzerà i loro partiti politici nelle future elezioni. Ma gli americani che hanno a cuore il loro Paese e la sua posizione in un Medio Oriente e in una geopolitica globale in rapido cambiamento dovrebbero ricordare che la storia non inizia né finisce in una data fissa di novembre una volta ogni quattro anni.

“Alla fine, l’amore tornerà in modo diverso”, ha scritto Kafka. Ha ragione. Ma anche l’odio tende a ritornare, manifestandosi in molteplici modi. Più di ogni altro Paese, gli Stati Uniti avrebbero dovuto raggiungere questa consapevolezza da soli.

Ramzy Baroud è un giornalista e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo libro, curato insieme a Ilan Pappé, è “La Nostra Visione per la Liberazione: Leader Palestinesi Coinvolti e Intellettuali Parlano”. Ramzy Baroud è un ricercatore senior non di ruolo presso il Centro per l’Islam e gli Affari Globali (CIGA), dell’Università Zaim di Istanbul (IZU).

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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Alessandro Orsini – “Gli amici di Israele sono mafiosi?”

Sono ammirato dalla decisione di Raffaele Oriani, il giornalista che si è dimesso da Repubblica per esprimere, con un gesto di alto valore pedagogico, il suo dissenso verso la non copertura dello sterminio dei bambini palestinesi a Gaza per mano di Ursula von der Leyen, Biden e Netanyahu. Le scienze sociali non lasciano dubbi a riguardo: essere “amici d’Israele” nel 2024 significa essere disponibili a coprire o giustificare i crimini d’Israele contro l’umanità. L’analisi sociologica dei documenti disponibili mostra che il criminale di guerra Netanyahu concepisce la locuzione: “Quel giornalista è un amico d’Israele” in questo senso: “Quel giornalista copre i crimini d’Israele quindi è un nostro amico”. La domanda che dobbiamo porci è se essere amici d’Israele sia paragonabile all’essere amici della mafia. Che cosa fa l’amico della mafia? È semplice: l’amico della mafia copre o giustifica i crimini della mafia oppure diffama e insulta chi denuncia la mafia.

E qui la sociologia mostra l’analogia giacché gli amici d’Israele sono omertosi come gli amici dei mafiosi.

Esempio.

I soldati feccia israeliani sparano nel cranio del bimbo di tre anni Mohammed Haitham al Tamimi, il 5 giugno 2023 in Cisgiordania? Bene, il politico italiano “amico d’Israele” pratica l’omertà e non denuncia il crimine imitando la condotta degli amici dei mafiosi che non denunciano gli omicidi di mafia. Gli amici d’Israele sono i mafiosi delle relazioni internazionali? Proviamo a rispondere abbozzando una prima definizione sociologica da inserire nel dizionario dei crimini contro l’umanità: “Il concetto di amico d’Israele ha assunto significati mutevoli nel tempo. Nel 2024, amici d’Israele indica una rete transnazionale di criminali politici e dell’informazione che copre e giustifica la violazione del diritto internazionale da parte d’Israele e il massacro dei palestinesi”.

Quando un conduttore televisivo, un ministro o un parlamentare italiano, vi dice orgogliosamente: “Io sono un amico d’Israele!” potete tranquillamente chiedergli: “Allora tu sei parte di quella mafia internazionale che, con la violenza, gli omicidi e le stragi contro il popolo palestinese, viola il diritto internazionale come la mafia viola il diritto nazionale con la violenza, gli omicidi e le stragi?”.

 

Trinceratevi dietro di me così non possono querelarvi. Esempio. Il politico o giornalista dice: “Ciao, io sono un amico d’Israele”. Voi gli rispondete così: “Ma lo sai che il professor Orsini ha abbozzato una definizione sociologica che ti ritrae alla stregua di un mafioso?”. Chiudete con il punto interrogativo così non possono querelarvi.

 

Se il politico-mafioso si arrabbia troppo, ditegli: “Ma che vuoi da me? È Orsini che ha scritto questa definizione ricorrendo al sapere critico offerto dalle scienze sociali. Prenditela con Orsini”.

Conclusione: i giornalisti amici d’Israele sono i giornalisti da cui Netanyahu si aspetta di essere difeso quando massacra i palestinesi.

*Post Facebook del 7 gennaio 2023

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Palestina, abituarsi all’orrore. La guerra sporca dell’Occidente – Geraldina Colotti

Abituarci all’orrore. Rendere inoperanti i pronunciamenti degli organismi internazionali. Screditare come fonte inattendibile e come “antisemita” qualunque voce che si levi a denunciare quell’orrore. Così funziona la propaganda sionista, una potente macchina ben consolidata negli anni, soprattutto dopo la caduta dell’Unione sovietica, sostenuta dagli interessi economici che hanno incrostato un corpo estraneo, come loro gendarme, nella terra che storicamente appartiene ai palestinesi.

In Italia, e così nel resto d’Europa, ogni sera i telegiornali si dedicano a consolidare questa versione, bollando come “terrorista” ogni azione di resistenza dei palestinesi, inventando sempre nuove presunte turpitudini commesse “da Hamas su donne e civili innocenti”, e così mettendo la sordina agli atti di genocidio che si perpetrano ogni giorno contro i palestinesi, con sempre maggior ferocia. È propaganda di guerra: la guerra sporca dell’imperialismo, che dilaga quanto più cala il velo di maya sulle radici strutturali del colonialismo, e sulla vera natura di quello israeliano, che ha costruito la sua potenza di vassallo impunito, a forza di massacri e di occupazioni violente, ripetute.

È propaganda di guerra: la guerra sporca del capitalismo, che perpetua la sudditanza dei lavoratori, nascondendo le ragioni dello sfruttamento, del profitto, e così il terrore della borghesia che risorga dalle ceneri della rassegnazione quel soggetto organizzato deputato a seppellire il vecchio mondo.

Quella in corso contro i palestinesi non è una “guerra” ad armi pari, ma un genocidio determinato da un’occupazione coloniale. L’asimmetria è data dai numeri. Una sproporzione aumentata negli anni con il succedersi dei massacri impuniti: nel 2006, furono 660 i palestinesi uccisi (141 minori, 322 non-combattenti e 22 omicidi mirati). Di questi, 405 a Gaza (88 minori e 205 non-combattenti), a fronte di 23 soldati israeliani; nel 2007, i palestinesi uccisi furono 373, di cui 290 a Gaza, a fronte di 6 soldati della sicurezza sionista e 7 coloni uccisi nello stesso periodo; nel 2008, prima dell’inizio dell’operazione Piombo Fuso, 455 i palestinesi uccisi, a fronte di 18 occupanti.

Dal 7 ottobre, secondo dati del governo Netanyahu, le forze di resistenza hanno ucciso 1.200 persone. I bombardamenti contro la Striscia di Gaza hanno provocato oltre 22.600 vittime. Quasi 9.000 sono bambini e 6.300 sono donne. Altre 7.000 persone sono considerate disperse, molto probabilmente morte. Le forze armate occupanti continuano a bombardare ospedali e campi di rifugiati, e gli attacchi proseguono anche in Cisgiordania. La vita degli abitanti di Gaza (due milioni di persone) è ridotta allo stremo per il blocco di aiuti e rifornimenti. Nei pochi ospedali rimasti attivi, i medici, che lavorano 24 ore su 24, operano ormai senza anestesia.

Intanto, il regime sionista, con l’avallo degli Stati uniti e dei loro vassalli, prepara una seconda nakba, una seconda catastrofe per i palestinesi, che si profila ancora più cruenta di quella del 1948, giacché l’intenzione dichiarata è quella di farla finita una volta per tutte con i palestinesi di Gaza, e di annettersi definitivamente gli altri territori occupati. Il governo Biden gli ha dato mano libera, con la complicità dell’Europa.

Per questo, il coordinatore del Consiglio di sicurezza nazionale Usa, l’ammiraglio John Kirby, ha ritenuto “infondata, controproducente e completamente priva di fondamento” la denuncia del Sudafrica presso la Corte Internazionale di Giustizia, per sanzionare il governo Netanyahu per crimini contro l’umanità e genocidio. Le prime udienze per esaminare la denuncia – molto precisa e articolata -, sono state fissate per l’11 e il 12 gennaio.

Intanto, secondo quanto ha rivelato il portale di informazione statunitense Axios, facendo riferimento alla copia di un cablogramma di cui sarebbe venuto in possesso, il ministero degli Esteri di Netanyahu ha dato istruzioni alle sue ambasciate in altri paesi per fare pressione su diplomatici e politici e indurli a emettere dichiarazioni contro l’azione intentata dal Sudafrica, dello stesso tenore di quelle diffuse da Kirby.

La “pulizia etnica” è mascherata da “migrazione volontaria”. Per questo, gli emissari del primo ministro Netanyahu hanno contattato vari governi africani, fra i quali quello della Repubblica democratica del Congo, del Ruanda e del Ciad, per convincerli ad accogliere i palestinesi. Le forze di resistenza, unite, insorte il 7 di ottobre, hanno scompaginato la ragnatela mortifera che si era stesa sulla questione palestinese dopo gli Accordi di Abramo, messi in moto da Trump nel 2020 con una dichiarazione congiunta fra Tel Aviv, gli Emirati arabi uniti, e gli Usa.

Un piano per “normalizzare” le relazioni tra i paesi arabi e il regime sionista, in vista di uno “storico accordo” tra Netanyahu e l’Arabia Saudita, con il coinvolgimento dell’Autorità Nazionale palestinese (Anp). Subito dopo l’azione del 7 ottobre – della quale, secondo un dibattito esploso a Tel Aviv, Netanyahu sarebbe stato avvertito da tempo dai servizi segreti, ma non avrebbe ritenuto credibile l’informazione -, Hamas ha invitato i popoli dell’Algeria, del Marocco, della Giordania, dell’Egitto e degli altri paesi arabi, a passare all’azione, ricevendo una massiccia risposta in termini di manifestazioni pro-palestinesi, che si sono estese anche ad altri continenti (Stati Uniti, compresi).

La reazione popolare ha sicuramente pesato nella convocazione del vertice che, l’11 novembre scorso, ha riunito in Arabia Saudita la Lega araba (22 paesi) e l’Organizzazione per la cooperazione islamica (OIC, composta da 57 paesi compresi quelli arabi), mettendo in comunicazione paesi sciiti e sunniti in contrasto da decenni.

Di particolare impatto era stata la presenza del presidente iraniano, Ebrahim Raisi, che, per la sua prima visita in Arabia Saudita dopo la ripresa delle relazioni diplomatiche facilitata dalla Cina, aveva esibito la kefiah palestinese. Alla sua seconda presenza a un vertice in Arabia Saudita era invece il presidente siriano Bashar al Assad, il cui paese è rientrato nella Lega araba a maggio dell’anno scorso.

A conclusione del summit, c’era stata una dichiarazione finale priva di condanna nei confronti di Hamas (un “pedaggio” da pagare, invece, in occidente, anche a sinistra, prima di poter denunciare il genocidio di Gaza). Si è chiesto il cessate il fuoco, la fine dell’assedio, uno stop globale alle esportazioni di armi e munizioni verso il regime sionista, e un’indagine della Corte Penale Internazionale sui “crimini di guerra commessi da Israele”.

I quattro paesi arabi firmatari degli Accordi di Abramo – Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco – insieme a Egitto e Giordania (gli altri due Stati arabi ad avere rapporti con “Israele”), alla Mauritania, a Gibuti e all’Arabia Saudita, hanno però impedito che il vertice prendesse impegni più drastici ed efficaci, come proposto dall’Algeria e dal Libano: tagliare le forniture di petrolio a Netanyhau (una proposta già respinta a ottobre, in sede Opec, dall’Arabia saudita), rompere i rapporti economici e diplomatici, bloccare i rifornimenti alle basi nordamericane in Medioriente e il traffico aereo israeliano nel Golfo.

Intanto, il leader di Hezbollah, ha minacciato una risposta forte all’uccisione di Al Arouri, numero due di Hamas, e di altri sei quadri politici palestinesi, avvenuto in Libano il 2 gennaio. Un “omicidio mirato”, compiuto dal regime sionista con un missile lanciato da un drone a Beirut. Per impedire ai razzi anticarro di Hezbollah di colpire kibbutz dell’Alta Galilea e le alture del Golan, Netanyahu medita di costruire un muro nel nord di Israele, da cui sono fuggiti già in 100.000.

Anche nel sud del Libano, sono oltre 76.000 le persone che hanno abbandonato le loro case. In Libano, su una popolazione di 4,5 milioni di abitanti, vi sono due milioni di profughi, dislocati in 12 campi gestiti dall’Onu e in decine di bidonville dove si sopravvive lavorando nei campi per pochi soldi.

I profughi palestinesi sono mezzo milione, eredità di precedenti attacchi del regime sionista: dall’Operazione Litani con la quale Tel Aviv tentò di invadere il Libano nel 1978 per creare una “zona cuscinetto”, all’Operazione Pace in Galilea, ovvero la Prima guerra del Libano quando, nel 1982, dopo aver attaccato l’Olp, i siriani e le forze musulmane libanesi, l’esercito sionista ha occupato il Libano meridionale, e ottenuto la partenza negoziata della resistenza palestinese.

Una guerra che si concluse con il ritiro delle truppe israeliane, nel 1985. E fino alla “seconda guerra libanese” del 2006, quando l’esercito sionista arrivò a Beirut provocando circa 1.200 vittime libanesi, in maggioranza civili, e subendo 300 perdite, prevalentemente militari, ma venne cacciato dalle milizie sciite dopo 33 giorni.

Una sconfitta che le forze di Hezbollah, ora che “l’asse della resistenza” con Iran e Siria è più consolidato, potrebbero infliggere anche a Netanyahu, in caso volesse ripetere l’avventura. Nasrallah ha detto di combattere una guerra non solo per Gaza, ma anche “per il Libano e il suo sud” e che non ci sarà nessuna tregua con “Israele” finché l’assedio di Gaza non sarà terminato.

L’Iran è in lutto per il duplice attentato suicida che si è prodotto nella città di Kerman, presso la tomba di Qassem Soleimani, il generale iraniano assassinato quattro anni fa in Iraq dagli Stati uniti. Le bombe sono esplose tra la folla, provocando 84 morti e la reazione indignata del governo iraniano. Gli attentati sono stati rivendicati dall’Isis, ma in molti vedono la mano di “Israele”, che cerca di coinvolgere l’Iran in un conflitto regionale di più ampia portata.

Intanto, è iniziato il viaggio del segretario di stato nordamericano, Antony Blinken (il quarto compiuto dal 7 ottobre), che durerà fino all’11 gennaio, con tappe in Turchia, Grecia, Giordania, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Israele, Cisgiordania ed Egitto.

Anche il capo della politica estera dell’Unione europea, Josep Borrell, si è recato in Libano per un viaggio diplomatico e per incontrare la Unifil, la forza di sicurezza dell’Onu composta da 10.000 soldati, 1.200 dei quali italiani, che chiede vengano riviste le regole d’ingaggio per avere più mano libera in caso di conflitto.

Dopo che gli Usa hanno bloccato all’Onu una risoluzione per imporre un cessate il fuoco a Gaza, neanche dai 27 membri dell’Unione europea sono arrivate richieste per mettere fine al massacro. A dicembre, un nutrito gruppo di organizzazioni umanitarie ha manifestato a Bruxelles per chiedere al Consiglio della Ue di non mettere la testa sotto la sabbia. Medici senza frontiere ha definito l’astensione dell’Italia “uno schiaffo in faccia all’umanità”.

Gli Stati Uniti hanno rinnovato la licenza di uccidere al loro gendarme in Medioriente, che si è pronunciato per la “soluzione finale” in Palestina.

Intanto, è attivo un altro fronte di conflitto, aperto dall’azione delle forze houthi yemenite che, in solidarietà con la resistenza palestinese, bloccano le navi e il passaggio nel Mar Rosso, scontrandosi con la coalizione multinazionale a guida Usa, la Prosperity Guardian.

*Articolo scritto per il Cuatro F

da qui

 

La soluzione finale per i palestinesi si chiama deportazione “umanitaria” – Clara Statello

Si scrive emigrazione volontaria, si legge eliminazione totale e definitiva dei palestinesi da Gaza. Israele ha finalmente annunciato la sua soluzione finale per il “problema”: la pulizia etnica attraverso il trasferimento dei residenti in altri Stati. A differenza dei nazisti, però, i ministri israeliani utilizzano termini più smart, come “reinsediamento”, “assorbimento” e “soluzione corretta”. Quando l’ultimo “emigrato volontario” avrà lasciato l’enclave, nessun palestinese rimasto sarà considerato innocente, un civile, un essere umano. La dottrina Dahiya verrà applicata fino alle estreme conseguenze. Su questo ci sono pochi dubbi.

Il ricollocamento dei palestinesi di Gaza in altri Paesi – ad esempio l’Egitto – per costruire nuove colonie nell’enclave, già da ottobre era un’opzione al vaglio dei ministri e dell’intelligence. Adesso è diventata una politica ufficiale chiave del governo di Benjamin Netanyahu, riferisce il Times of Israel, citando un alto funzionario israeliano.


Negoziati segreti già in corso

Lunedì 1 gennaio, durante una riunione del suo partito (il Likud), Netanyahu ha annunciato di essere al lavoro per facilitare l’emigrazione volontaria degli abitanti di Gaza verso altri Paesi.

“Il nostro problema è trovare Paesi disposti ad assorbire gli abitanti di Gaza, e ci stiamo lavorando”.

Così ha detto il primo ministro israeliano in risposta al deputato Danny Danon, lo stesso che, lo scorso novembre, in un editoriale pubblicato sul Wall Street Journal, aveva chiesto ai Paesi di tutto il mondo di “creare piani di ricollocazione e accettare un numero limitato di famiglie di Gaza che hanno espresso il desiderio di trasferirsi”.

Un Paese avrebbe già accettato, mentre con gli altri sarebbero in corso negoziati segreti per l’ “assorbimento”. “Il Congo sarà disposto ad accogliere migranti e siamo in trattative con altri”, ha detto al quotidiano israeliano una fonte importante del gabinetto di sicurezza.


La deportazione “umanitaria” dei palestinesi

Il ricollocamento dei palestinesi di Gaza è fortemente sostenuto dal ministro dell’Intelligence di Israele,  Gila Gamlian, che chiede a tutto il mondo di mobilitarsi per supportarlo.

“Il problema di Gaza non è solo un nostro problema. Il mondo dovrebbe sostenere l’emigrazione umanitaria, perché è l’unica soluzione che conosco”, ha detto all’agenzia Zman Israel, citata dal Times of Israel.

Utilizza l’aggettivo “umanitario” perché, a suo dire, l’evacuazione da Gaza libererà i palestinesi dalla “tirannia di Hamas”e darà loro l’opportunità di ricostruire le proprie vite. Lo ha spiegato martedì alla Knesset, il parlamento israeliano, durante la presentazione del “piano” che prevede la mobilitazione della comunità internazionale per creare un pool di paesi che accolgano i rifugiati in cambio di un pacchetto di aiuti.

“E’ il programma migliore e più realistico per il giorno successivo alla fine dei combattimenti”, afferma.

Dopo la guerra, secondo le sue previsioni, non resterà molto a Gaza. Ogni istituzione in grado di amministrare l’enclave e avviare la ricostruzione sarà distrutta, il 60% dei territori agricoli sarà convertito in zona cuscinetto, non ci sarà lavoro e i residenti resteranno rinchiusi su piccoli territori isolati fra loro.

Da qui la “volontarietà”dell’emigrazione: la trasformazione di Gaza in una Auschwitz di corpi e macerie fornirà ai palestinesi la motivazione per andare via. Per il momento, Israele li massacra per liberarli da Hamas, quindi per il loro bene, secondo la ministra.

“Con un adeguato lavoro diplomatico e di comunicazione, il sistema internazionale può essere sfruttato a tal fine”. Ne è certa…

continua qui

 

Gideon Levy – Come lo stato di Israele ha dato legittimazione al male

Anche se Israele riuscisse a raggiungere i suoi obiettivi, che in realtà sembrano “allontanarsi”, la guerra in corso a Gaza la condannerà per gli anni a venire. Questa guerra sta cambiando il Paese, e in peggio, molto peggio, annota Gideon Levy su Haaretz, dal titolo: “La legittimazione del male resterà nelle mani degli israeliani molto tempo dopo la fine della guerra di Gaza”.

Israele sta diventando un paria

Più Israele colpisce Hamas, più essa si rafforza nell’opinione pubblica palestinese. Più dura la guerra e “peggiore diventa la posizione internazionale di Israele. Ha già raggiunto un livello senza precedenti, non ancora tra i governi, ma certamente nell’opinione pubblica mondiale”.

“Israele è diventato uno Stato paria più che mai. I resoconti provenienti da Gaza mostrano una realtà barbara. Il mondo lo vede e prova disgusto. Come potrebbe non essere così? I sondaggi condotti tra i giovani degli Stati Uniti, compresi i giovani ebrei, dovrebbero inorridire Israele. Tra loro Hamas è più popolare di quanto lo sia Israele”.

Non solo l’immagine internazionale, anche l’economia sta andando a rotoli, prosegue Levy. Ma, soprattutto, la guerra sta distruggendo la democrazia israeliana.

“Durante la guerra, i civili sono stati licenziati, interrogati o imprigionati per aver espresso solidarietà con altri esseri umani e orrore per le uccisioni, per aver semplicemente chiesto la pace, per aver protestato contro la mancanza di opposizione alla guerra. Gli arabi israeliani hanno paura di respirare”.

“La condotta delle forze dell’ordine durante la guerra è molto più pericolosa per la democrazia israeliana della sospensione dell’uso dello standard di ragionevolezza da parte dei tribunali del paese” (riferimento alla riforma giudiziaria voluta da Netanyahu e bocciata in questi giorni dalla Corte Suprema).

“Questo modo di agire ha suscitato pochissime proteste. Non solo sui campi di battaglia, Israele ha adottato una politica fatta di uccisioni indiscriminate a un livello mai visto prima; ed è anche diventato sadico in un modo senza precedenti nelle sue strutture di detenzione”.

Quando si legittima il male

“Dopo il 7 ottobre tutto può succedere. Non è solo l’estrema destra ad aver inquinato il discorso pubblico. L’ambito politico di centro vuole ancora più sangue, distruzione, epidemie e fame, e non si vergogna di dirlo apertamente”.

“Questa legittimazione del male resterà con noi molto tempo dopo la fine della guerra. Gaza può essere ricostruita, non il collasso morale di Israele. La legittimazione dei crimini di guerra non ci lascerà andare e d’ora in poi tutto sarà permesso, anche in Cisgiordania e poi nello stesso Israele. Ciò che inizia in un centro di detenzione vicino a Be’er Sheva non si fermerà lì. Sono sempre meno numerosi quanti si sforzano di fermare il sadismo”.

E conclude: “Da quando hai iniziato a leggere questo articolo al momento in cui sei arrivato alla fine, un altro bambino è morto a Gaza e altri due sono stati feriti. È proprio così: un bambino morto ogni otto minuti. L’indifferenza di Israele verso questo fatto e il suo occultamento da parte della stampa rappresentano il danno più irreversibile che questa guerra ha inflitto a Israele”.

Tra gli arrestati, anche alcuni israeliani che hanno preferito il carcere alla mattanza dei palestinesi. Tra loro, la commovente storia di Tal Mitnick, raccontata da al Jazeera.

Viso bambino, ha pubblicato questo post su X: “Credo che il massacro non possa risolvere il massacro. L’attacco criminale a Gaza non risolverà l’atroce massacro compiuto da Hamas. La violenza non si risolverà con la violenza. Ed è per questo che rifiuto” l’arruolamento. I suoi amici lo hanno sostenuto, esponendo anche cartelli in suo onore, tra i quali due con queste scritte: “non si può costruire il paradiso con il sangue”; “occhio per occhio e diventeremo tutti ciechi”…

Fonte: L’antidiplomatico

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Inclusione o decolonizzazione? L’Intifada palestinese, i difensori del vecchio ordine e il sardismo meticcio – Cristiano Sabino

Premessa: In Palestina si è levato un grido di rivolta contro la colonizzazione. Che tale rivolta non piaccia al palato fino della sinistra imperiale, nei contenuti e nei modi, non inficia il fatto che, oggettivamente, rappresenta una messa radicale in discussione del dominio coloniale occidentale in Medio Oriente.

Scriveva Sartre nella prefazione a I dannati della terra di Fanon: «Ora avviene che quando un colonizzato sente un discorso sulla cultura occidentale, tira fuori la roncola o per lo meno si accerta che gli è a portata di mano. La violenza con la quale si è affermata la supremazia dei valori bianchi, l’aggressività che ha impregnato il vittorioso confronto di quei valori coi modi di vivere o di pensare dei colonizzati fan sì che, per un giusto capovolgimento, il colonizzato sogghigna quando si evocano davanti a lui quei valori».

In effetti sono parole la cui attualità e autenticità risuonano in noi senza essere state minimamente scalfite dal tempo.

È questo il punto cruciale attorno a cui gira la questione della rivolta palestinese e della conseguente guerra di sterminio di Israele verso la popolazione di Gaza e – in misura minore, ma altrettanto bieca – della Cisgiordania. Ed è questo il punto con cui dobbiamo confrontarci qui in Sardegna con le varie articolazioni politiche e sociali fondate sul presupposto della superiorità dei “valori” in nome dei quali avviene la colonizzazione e conseguentemente la pulizia etnica.

Il mito dell’inclusione.

Ora accade che, in diversi contesti e a fronte di mobilitazioni per la liberazione integrale della Palestina e in sostegno con la storia decennale di resistenza del popolo palestinese, da più parti venga posta la questione dell’«inclusione».

In sostanza si chiede (o si pretende, fate voi) che le mobilitazioni sulla Palestina siano «il più inclusive possibile». Si ragiona più o meno in questi termini: «bisogna essere inclusivi, quindi bisogna togliere tutti quei punti che dividono, per costruire una piattaforma comune che permetta a tutti i soggetti di partecipare ed essere protagonisti».

Di fronte a questo ragionamento dobbiamo chiederci: «ma tutti chi?».

Lo scorso 17 dicembre, I Giovani Palestinesi d’Italia, cioè la punta più avanzata delle mobilitazioni pro Palestina nei territorio dello Stato italiano, hanno comunicato quanto segue:

«Questa mattina saremmo dovuti essere presenti a Roma all’evento “Fermiamo il genocidio del popolo palestinese” organizzato da Unione Popolare, ma abbiamo deciso di non presentarci visto che all’ultimo ci è stata comunicata la presenza di Yousef Salman, rappresentante della “comunità palestinese di Roma e del Lazio” e dell’ANP, e di Luisa Morgantini, rappresentante di Assopace, fra i relatori.

In questo momento l’occupazione sionista sta sterminando il popolo palestinese. La misura della Nakba del 1948 è stata abbondantemente superata.

Questo genocidio è una rappresaglia brutale rispetto all’operazione militare del 7 ottobre.

L’entità sionista non può accettare che dopo 75 anni il popolo palestinese esista ancora, e non solo esiste, ma reclama la totale liberazione dall’oppressione colonia dal fiume al mare.

Pertanto noi non possiamo più accettare di condividere spazi di dibattito pubblico e politico con chi fino all’altro ieri auspicava la normalizzazione e la pacificazione col nemico, con chi rappresenta in Italia l’entità collaborazionista che è l’Autorità Nazionale Palestinese, con chi si fa promotore di Oslo, di quell’atto di alto tradimento che ci ha portati ad una seconda Nakba nel 2023.

Abbiamo più volte ribadito l’unità del popolo palestinese: il popolo palestinese è unito nel segno della resistenza. Chi invece ha scelto la via del collaborazionismo, ben prima del 7 ottobre, si era già allontanato dalla nostra comunità».

Perdonate la citazione un po’ lunga ma era necessaria per porre una questione fondamentale che, apparentemente riguarda solo il loro movimento: I Giovani Palestinesi d’Italia hanno torto o hanno ragione nell’affondare una critica così radicale in un momento in cui – si dice – bisogna allargare il consenso sul “cessate il fuoco”?

Il punto è questo: la linea «inclusione», apparentemente suggestiva e democratica – di fatto porta a escludere dalla piattaforma la condanna dell’occupazione israeliana e il sostegno alla legittima resistenza del popolo palestinese che persiste dal 1948 ad oggi. E porta a depennare la saldatura tra lotta anticoloniale palestinese e lotta anticoloniale in Sardegna, a partire dalla saldatura con la lotta (di comune interesse di palestinesi, comunità arabe e sardi) all’occupazione militare italiana in Sardegna e al conseguente utilizzo dell’apparato militare-industriale italiano presente nell’isola da parte israeliana.

A titolo puramente esemplificativo riporto lo stizzito sfogo social di uno dei vari organizzatori della manifestazione infetta da Diritti al Cuore convocata, non a caso, ad un giorno di distanza dalla mobilitazione per il boicottaggio dei marchi legati ad Israele:

«La manifestazione è stata aperta e condivisa e non di carattere divisivo e frazionista, lontana da facili parole d’ordine semplicistiche più simili a un tifo da stadio che a un ragionamento politico adatto alla contingenza storica e politica da cui nasce il dramma vissuto dai palestinesi.

Le parole d’ordine di ieri non erano orientate a chiedere la distruzione di Israele, per esempio, ma piuttosto a richiedere un ragionamento logico: Un immediato cessate il fuoco a Gaza»…

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La Germania e la guerra in Medio Oriente. I due pesi e le due misure sono insopportabili – Amro Ali

Abbiamo tradotto un testo di Amro Ali, sociologo egiziano-australiano, pubblicato su Der Spiegel – online, il 1 gennaio 2024, sul difficile rapporto della Germania con il proprio passato nazista, che rende complessa e contraddittoria, nel paese, la lettura dell’attuale conflitto tra Israele e Hamas e della guerra in atto in Medio Oriente [mentre si rischia seriamente un allargamento…]

* * * * *

La Germania era un modello per il mondo arabo. Le cose sono cambiate da quando l’esercito israeliano ha ucciso migliaia di civili nella guerra contro Hamas ed i politici tedeschi non hanno quasi mai protestato. C’è sempre stato uno strano patto non dichiarato tra la Germania ed il mondo arabo. Gli arabi erano meno indignati dal sostegno tedesco a Israele che da quello di Stati Uniti e Gran Bretagna. Ciò era dovuto anche all’opinione diffusa che la Germania non potesse fare altrimenti a causa della sua colpa storica.

I governi arabi e le loro opinioni pubbliche erano più favorevoli alla Germania. La Germania poteva affermare di non aver mai colonizzato paesi arabi. L’oscuro passato della Germania ha eluso il mondo arabo, con l’eccezione dell’invasione del Nord Africa durante la Seconda guerra mondiale. E se non si era soddisfatti della Germania occidentale, c’era sempre la DDR. Si poteva scegliere la Germania che più ci piaceva.

Anche nella Germania riunificata è rimasto così. Il fatto che Berlino si sia opposta alla partecipazione alla guerra in Iraq nel 2003 è stato accolto con favore. Le immagini dei rifugiati siriani accolti nelle stazioni ferroviarie tedesche nel 2015 ha scaldato ancora di più il pubblico arabo verso la Germania, che ha visto il contrasto con il maltrattamento dei siriani da parte dei propri governi.

Mercedes, Goethe-Institut e backpacker

La Germania è stata vista attraverso le sue auto Mercedes che intasano le strade del Kuwait, attraverso il Goethe-Institut che si staglia tra gli alberi di Alessandria o attraverso i simpatici backpacker che fanno escursioni sulle montagne libanesi. L’ascesa dell’estrema destra in Germania è stata a malapena notata negli altri Paesi arabi.

Poi, il 7 ottobre, si sono verificati gli orribili massacri e rapimenti di Hamas, e in risposta Israele ha iniziato a bombardare la Striscia di Gaza, affamando i suoi abitanti, uccidendo migliaia di civili e cacciando quasi due milioni di persone dalle loro case. È apparso subito chiaro che questa guerra andava ben oltre l’autodifesa. Ma la Germania ha perso ogni remora con il suo sostegno unilaterale a Israele, in netto contrasto con la realtà e l’empatia umana di base.

Quando il Ministero degli Esteri tedesco non elogia le misure “umanitarie” di Israele, si riferisce a questa guerra catastrofica con migliaia di bambini uccisi come alla “situazione in Medio Oriente”. Come se non fosse altro che un ritardo da parte della Deutsche Bahn.

Gli omicidi e i rapimenti compiuti da Hamas il 7 ottobre sono disgustosi e ingiustificabili. La compassione per le vittime israeliane non deve essere subordinata o respinta a causa della storia di sofferenza dei palestinesi.

Allo stesso tempo, dobbiamo chiarire che parlare di contesto non equivale a giustificare. Hamas è innanzitutto un prodotto dell’occupazione, la cui ideologia è alimentata dallo spostamento, dall’espropriazione e dalla violenza che i palestinesi sperimentano quotidianamente dal 1948. Se Hamas viene distrutto, qualcos’altro prenderà il suo posto finché non ci sarà una pace giusta. Hamas recluta molti dei suoi membri tra gli orfani che hanno visto i loro genitori uccisi da Israele. I terroristi palestinesi dell’organizzazione “Settembre Nero”, che compirono il massacro degli atleti israeliani ai Giochi Olimpici di Monaco del 1972, erano orfani di precedenti guerre israeliane. Ora Israele sta creando una nuova generazione di orfani.

Lo scenario di una seconda “Nakba” è reale.

I palestinesi muoiono a migliaia e lo scenario della distruzione dell’intera Striscia di Gaza con un’espulsione forzata di massa, una seconda “Nakba”, è molto reale. Esperti rinomati sono allarmati, alcuni parlano di genocidio. Nel frattempo, la politica tedesca si preoccupa dei punti di innesco discorsivi, censurando la »Free Palestine« e facendo pagare ai palestinesi il prezzo del passato sanguinoso dell’Europa fino ad oggi, lasciando che Israele la faccia franca con riferimento alla propria colpa storica.

Questo mese, la Germania ha tagliato i fondi per un programma di lotta al traffico di persone presso il Centro di assistenza legale per le donne egiziane perché la sua direttrice, Azza Soliman, si oppone alla guerra di Israele nella Striscia di Gaza. Soliman ha ricevuto il Premio franco-tedesco per i diritti umani e lo Stato di diritto nel 2020. Hossam Bahgat, capo dell’organizzazione egiziana per i diritti umani EIPR, vuole porre fine alla cooperazione sui progetti con il governo tedesco perché “la posizione di Berlino sulla guerra solleva seri dubbi sullo spazio di valori condivisi tra la Germania e gli attivisti per i diritti umani, le femministe e i media indipendenti in Egitto”.

In tutto il mondo arabo, la Germania sta perdendo alleati che in precedenza si consideravano parte di una comunità di valori impegnata nei diritti umani. È chiaro da tempo che l’ordine liberale e il diritto internazionale applicano spesso due pesi e due misure. Nei primi giorni dell’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, è stato facile fare un’analogia con la Palestina occupata. Ma la risposta erano solo degli sguardi silenziosi, un silenzio che parlava chiaro.

Una realtà alternativa in Germania

I due pesi e le due misure sono insopportabili: in un caso si è favorevoli all’invio di armi per resistere a un’occupazione illegale, mentre nell’altro si fornisce sostegno militare, economico e morale a una potenza occupante che continua a impadronirsi illegalmente della terra palestinese. Nel migliore dei casi, a Israele viene ricordato di tanto in tanto, ma senza alcuna conseguenza, di rispettare il diritto internazionale. Quando si parla dell’occupazione israeliana, in Germania si assiste spesso a una realtà alternativa che lascia sconcertati.

Ora, di fronte al sostegno occidentale ai palesi crimini di guerra israeliani nella Striscia di Gaza, l’ultima parvenza di universalità è andata in frantumi. Gli autocrati hanno preso appunti e sono pronti a usare gli eventi attuali come pretesto in futuro. La reazione occidentale alla guerra israeliana nella Striscia di Gaza è un regalo immeritato per il sovrano russo Vladimir Putin, e presto nessuno nel Sud globale ascolterà quando i politici occidentali insisteranno sul diritto internazionale.

Ho avuto l’impressione che la Primavera araba del 2011 sia stata un gradito cambiamento per l’establishment politico tedesco. Città come Tunisi e Il Cairo irradiavano speranza e causavano a Berlino meno complicazioni di Ramallah e Gaza City. Ma c’è un punto che molti funzionari governativi trascurano: Il conflitto con Israele ha alimentato l’ascesa dell’autoritarismo arabo e la crescita degli apparati di sicurezza della regione. Ha contribuito alla distruzione dei fragili esperimenti democratici in Egitto, Siria o Iraq alla fine degli anni Quaranta e Cinquanta, e ha dato vita a classi militari al potere che hanno ampliato il loro potere con il pretesto di difendere gli arabi dall’aggressione israeliana. La repubblica degli ufficiali egiziani nacque nel 1952 come conseguenza indiretta della guerra arabo-israeliana del 1948. Al contrario, i movimenti di protesta della Primavera araba del 2011 sono stati ispirati anche dalle rivolte popolari palestinesi. Le attuali proteste pro-palestinesi nei Paesi arabi sono talvolta mescolate ad altre richieste, come la fine della corruzione dei loro regimi – motivo per cui i regimi arabi non accolgono con favore tali proteste. In un certo senso, la libertà dei palestinesi è un antidoto alla mancanza di libertà degli arabi. La questione palestinese è centrale per l’opinione pubblica araba e infrangerà sempre di nuovo l’illusione di poterla ignorare.

Più cultura del ricordo, non meno

Chiunque si sieda con i politici tedeschi può avere conversazioni produttive su qualsiasi Paese arabo, dai diritti umani all’istruzione superiore. Tuttavia, quando si parla di Israele e Palestina, i sensori morali si bloccano improvvisamente. Questo riflette un indurimento dei confini della cultura della memoria, che è diventata statica nella sua fissazione su Israele, non necessariamente sulla sicurezza degli ebrei.

È lodevole che la Germania stia facendo i conti con il suo passato oscuro. Gli orrori e la follia perpetrati dalla Germania nazista devono essere ricordati. Il mondo trarrebbe beneficio da una maggiore cultura della memoria, non da una minore.

Tuttavia, ci sono importanti critiche allo sviluppo della cultura della memoria in Germania. Il dibattito sull’antisemitismo è diventato una sorta di santificazione di Israele, “immune da argomentazioni storiche e basate su prove, e cieco di fronte alle esperienze dei palestinesi sotto occupazione”, come afferma lo storico israeliano Alon Confino. Questo sviluppo ha permesso alla lotta contro l’antisemitismo di essere in parte strumentalizzata dalla destra.

È molto inquietante che i politici tedeschi condividano un’intervista del giornalista britannico Piers Morgan con l’attivista e giornalista di destra britannico Douglas Murray, in cui quest’ultimo afferma che Hamas è peggiore dei nazisti. La tendenza a relativizzare i nazisti in relazione ad Hamas ci obbliga a fermarci e a chiederci come il discorso sia arrivato a questo triste punto.

La Germania come arbitro morale

Il comitato editoriale della rivista di sinistra ebraico-americana “Jewish Currents”:

“I tedeschi controllano strettamente la forma dell’ebraismo e della palestinità all’interno dei loro confini… L’abbraccio soffocante della Germania alla comunità ebraica all’interno dei suoi confini, con o senza la partecipazione degli ebrei, assicura l’immagine tedesca di arbitro morale, mentre sposta la colpa del Paese su arabi e musulmani”.

È come se gli ebrei e gli arabi venissero trasformati in eroi e cattivi, in caricature nel “teatro della memoria” tedesco – un termine coniato dal sociologo tedesco-ebraico Y. Michal Bodemann nella sua critica alla cultura tedesca della memoria. Questo mina la solidarietà ebraico-araba – ad esempio, quando la polizia di Berlino arresta i manifestanti ebrei che protestano contro la guerra nella Striscia di Gaza. Lo spazio per queste voci ebraiche è molto ristretto.

L’invito del Presidente federale ad arabi e musulmani a prendere ufficialmente le distanze dall’antisemitismo presuppone che l’antisemitismo sia una sorta di atteggiamento standard tra arabi e musulmani. Senza considerare che l’84% degli attacchi antisemiti dello scorso anno sono stati perpetrati dalla destra tedesca.

Ma la narrazione globale sta cambiando – e la Germania sta rimanendo indietro. Recentemente, gli addetti ai trasporti belgi si sono rifiutati di spedire armi destinate a Israele, che molto probabilmente avrebbero ucciso civili palestinesi. Fortunatamente, alcuni partiti stanno imparando la giusta lezione dalla storia. Il blocco dei porti è solo una delle tante azioni dirette contro la complicità dell’Occidente in questa guerra.

Protesta contro la guerra di Israele

Attivisti, studenti, sindacati e cittadini comuni – ebrei, arabi, musulmani, cristiani, atei e fondamentalmente chiunque abbia a cuore la sopravvivenza dell’umanità – si stanno mobilitando in azioni di protesta per rallentare la macchina da guerra di Israele. Avranno successo? Se dovessi avere una visione a lungo termine, lo farei con le parole del pastore unitariano del XIX secolo Theodore Parker: “L’arco morale dell’universo è lungo, ma si piega verso la giustizia”.

“Shar” è la parola araba che indica il male nella fede islamica, ma in realtà significa “insufficiente, incompleto”. Non essere all’altezza della piena responsabilità di una persona significa essere meno che completi. La compassione e la misericordia sono qualità responsabili la cui assenza riflette l’incapacità di agire come esseri umani. La formula dovrebbe essere semplice: la vita palestinese è sacra quanto quella ebraica, la vita ebraica è sacra quanto quella palestinese. Crederci, dirlo e agire di conseguenza non dovrebbe essere troppo difficile.

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Amro Ali è un sociologo egiziano-australiano e autore. Ha scritto la sua tesi di dottorato all’Università di Sydney. Le sue aree di specializzazione includono la sfera pubblica araba, gli studi mediterranei e globali, la filosofia sociologica e la filosofia politica. Il suo quarto libro “Lo Stato arabo” è stato pubblicato nel 2021. Vive tra Alessandria, Casablanca e Berlino.

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Il NYT inventa lo stupro di una donna da parte di Hamas il 7 ottobre – Davide Malacaria

Il 28 dicembre New York Times pubblicava la storia straziante della “donna vestita di nero”, vittima di uno dei tanti stupri avvenuti il 7 ottobre. La famiglia ha smentito tutto….

La narrazione che Hamas abbia usato lo stupro di massa come arma ha ormai preso piede sui media mainstream, venendo rilanciata ogni giorno da alcuni di essi con storie sempre nuove. Una narrazione iniziata molti giorni dopo l’attacco di Hamas e alimentata inizialmente da un’agenzia di investigazioni e soccorso, la Zaka, le cui rivelazioni sullo stupro di massa sono state rilanciate a piene mani dai media internazionali, oltre che da politici israeliani e statunitensi.

Mentitori seriali

A tale organismo si deve l’invenzione dei 40 bambini israeliani decapitati, rilanciata anche da Joe Biden e poi smentita dalle autorità israeliane, tanto che la Casa Bianca ha dovuto rettificare. Altre, molteplici, invenzioni della Zaka sono riferite dal sito Grayzone. Noi ci limitiamo a ricordare che essa fu fondata da Yehuda Meshi-Zahav, finito in galera per pedofilia e stupro, avendo abusato di decine di donne e bambini (era noto come l’Haredi Jeffrey Epstein, dal nome del noto pedofilo americano).

L’organizzazione è sopravvissuta al suo fondatore, il cui lato oscuro è emerso nel marzo 2021 (Meshi-Zahav aveva appena vinto il Premio Israele). Le rivelazioni lo spinsero a tentare di togliersi la vita, atto che lo ha precipitato in un coma profondo che l’avrebbe condotto alla morte. Ora la Zaka è diretta da Yossi Landau, che ne fa parte da 33 anni, un veterano che presumibilmente aveva ruoli importanti anche negli anni ruggenti di Meshi-Zahav, sul conto del quale, però, non si accorse di nulla (ciò evidenzia quantomeno una scarsa capacità investigativa, di cui ora si vanta).

Rimandando, appunto, a Grayzone per i dettagli sulle falsità propalate dalla Zaka e da un’altra organizzazione israeliana a riguardo degli stupri di massa perpetrati dai miliziani di Hamas il 7 ottobre, ci limitiamo a interpellarci sul perché tali atrocità siano emerse decine di giorni dopo l’attacco, mentre degli stupri, di cui sono emersi anche testimoni oculari, nei primi giorni non se ne è mai parlato, neanche per accenno.

Non neghiamo che in quel giorno si siano consumate violenze sessuali, ma non accogliamo come verità rivelata la narrazione sullo stupro seriale. Al di là della querelle, più che importante ma sulla quale sospendiamo il giudizio, resta che si sta facendo di tutto per accreditare tale narrazione.

Anche ricorrendo a palesi falsità. E tale operazione di propaganda, discendente dalla Hasbara israeliana (che fa della propaganda aggressiva un’arma di convinzione di massa), interpella non poco sul tema in questione, che, data la sua drammaticità, dovrebbe invece essere affrontato con la serietà del caso.

La narrazione e le smentite dei familiari

Nella foga di dare sempre nuova linfa alla narrazione, capita che un importante media mainstream come il New York Times il 28 dicembre scorso verghi un articolo commovente sugli stupri perpetrati in quel fatidico giorno, un articolo incentrato sulla tragica storia di Gal Abdush, “la donna vestita di nero” stuprata e uccisa nell’attacco, che i cronisti del Times segnalavano come emblematica di quanto accaduto. Un articolo lungo, dettagliato, che riportava anche le testimonianze dei familiari tendenti ad accreditare l’avvenuto stupro.

La storia del Times prendeva le mosse da un video pubblicato sui social da Eden Wessely che immortalava una donna vestita di nero, poi identificata come la Abdush. Secondo il Times, “Il video è diventato virale, con migliaia di persone che l’hanno visualizzato nella disperata ricerca di appurare se la donna vestita di nero fosse una loro amica, una sorella o la figlia scomparsa”.

“Il giornale – commenta Mondoweiss – non ha linkato il video, ma ne ha diffuso un’immagine lontana e indistinta che non rivelava nulla. Né è chiaro come il Times abbia confermato l’esistenza delle visualizzazioni, dal momento che l’account Instagram della Wessely è stato bannato e lei ha creato un nuovo account a metà dicembre”.

Peraltro, annota in seguito Mondoweiss, “al momento non c’è traccia del video su Internet nonostante il Times affermi che sia ‘diventato virale’. Inoltre, nonostante la stampa israeliana abbia riportato centinaia di storie sulle vittime del 7 ottobre, non ha mai menzionato ‘la donna vestita di nero’ nemmeno una volta prima della storia raccontata il 28 dicembre”.

Ma, cosa più interessante ancora, familiari e amici hanno smentito che ci sia stato uno stupro. Sul punto, Mondoweiss riporta le loro testimonianze rese ai media israeliani…

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Creare i Corpi civili di pace europei sulla base della idea originaria di Alex Langer

Una proposta dei Disarmisti Esigenti 

Abbiamo una direttrice di lavoro da proporre alle forze politiche che si presentano alle elezioni europee del giugno 2024

Alla plenaria dell’europarlamento a Strasburgo, che si aprirà il 15 gennaio 2024, chiediamo la la costituzione dei Corpi civili di pace europei riprendendo l’ispirazione originaria di Alex Langer (1994), concordata con i movimenti protagonisti delle lotte di Comiso (anni 1981-1987), in particolare Alberto L’Abate e l’International Peace Camp; quindi maturata con i Volontari di pace in Medio Oriente, poi Berretti Bianchi (Iraq con l’ambasciata di pace a partire dal 1990) e con l’esperienza delle iniziative pacifiste contro le prime guerre nell’ex Jugoslavia.

Alberto L’Abate, scomparso nel 2017, animatore dell’IPC di Comiso, è stato il promotore delcorso di laurea, primo in Italia, in “Operatori di pace, gestione e mediazione dei conflitti” dell’Università degli Studi di Firenze dove ha insegnato sociologia dei conflitti e ricerca per la pace. Un docente universitario che praticava la ricerca azione: la conoscenza teorica nutrita dello sdraiarsi come attivista semplice davanti ai treni contro la costruzione della centrale nucleare in Maremma o, con la moglie Anna Luisa Leonardi, davanti ai camion contro i lavori per la base degli euromissili in Sicilia.

È, a nostro avviso, il modello del tipo di competenze e di passione ideali per il formatore-coordinatore degli strumenti di azione nonviolenta che andiamo ora a proporre: non a caso è stato promotore della Rete IPRI-CCP e, oltre all’Ambasciata di Pace a Bagdad, anche quella di Pristina, collegata alla “Campagna Kossovo per la nonviolenza e la riconciliazione”, importante esperienza di mediazione per la pacificazione di una zona appena uscita dalla guerra nell’ex-Jugoslavia.

Alexander Langer, scomparso nel 1995, lo proponiamo invece come modello di politico europeo visionario, un “obiettore etnico” impegnato a costruire ponti e non muri tra i popoli, promotore dell’ecologismo politico in Europa, con progetti anticipatori in una pluralità e complessità di aspetti. Menzioniamo, tra gli altri, gli stimoli propositivi sulle dinamiche per una integrazione europea democratica, il rapporto tra nord e sud del mondo, la situazione dei paesi dell’Europa dell’est e i problemi di convivenza nelle aree di crisi; ed infine la lotta contro la guerra e in favore della conciliazione per la quale introdusse per la prima volta, nel 1994, al Parlamento Europeo l’idea di costituire un Corpo Civile di Pace Europeo per gestire, trasformare, prevenire i conflitti senza l’uso della violenza o delle armi.

Langer, tra i fondatori dei Verdi Europei, fu anche l’autore dello storico articolo, scritto sulla rivista “La Terra vista dalla Luna” il 25 giugno 1995, poco prima di togliersi la vita nel 1995, forse perché anche posto di fronte a quello che, nelle guerre jugoslave, pativa drammaticamente come lo scacco della nonviolenza per la quale aveva lottato (dopo lo scioglimento di Lotta Continua, in cui aveva militato negli anni ’60 e ’70). Titolo: “L’Europa muore o rinasce a Sarajevo”.

Langer aveva promosso iniziative di pace e di nonviolenza nella ex-Jugoslavia e, in particolare, in Bosnia. Nel 1991 aveva dato vita alla “Carovana europea della pace”, iniziativa a cui era poi succeduto, dal 1992, il “Verona Forum per la pace e la riconciliazione”. Tuttavia, dopo anni di iniziative nonviolente, e dopo che si era verificata nel maggio 1995 la strage di Tuzla e mentre continuava da oltre tre anni l’assedio serbo di Sarajevo, Langer si era convinto che non si potesse più continuare ad assistere passivamente alla tragedia bosniaca.

Per questo motivo, il 26 giugno 1995, Langer guidò una ampia delegazione di eurodeputati per recarsi in Francia, a Cannes, dove si stava svolgendo la riunione dei Capi di Stato e di governo europei, presieduta all’epoca da Jacques Chirac (da poco succeduto a Mitterrand). A nome di tutta la delegazione, Langer, presentando a Chirac l’appello sopra citato, gli chiese di promuovere un intervento militare di “polizia internazionale” per porre finalmente fine alla guerra in Bosnia e al lunghissimo assedio di Sarajevo.  

Del resto, già il 6 luglio 1993, quasi due anni prima, in una intervista radiofonica, Langer aveva posto esplicitamente l’interrogativo: “Uso della forza militare internazionale nell’ex-Jugoslavia?”. E in conclusione così aveva riflettuto: “La minaccia e l’effettuazione di un intervento militare hanno senso solo se non resteranno l’unico tipo di impegno internazionale: ci sarà bisogno di un forte e molteplice impegno internazionale, a cominciare da un solido e generoso programma di ricostruzione del dialogo e della democrazia”.

Ecco; quando non c’è alternativa, per impedire un massacro di civili inermi aggrediti brutalmente, non si può evitare l’interposizione militare attuata con gli stivali sul terreno, non certamente con i bombardamenti “celesti” cui poi abbiamo tante volte assistito. 

Langer era sempre stato un “operatore di pace e un “costruttore di ponti”, ma aveva capito – dopo aver tentato tutte le iniziative di nonviolenza già ricordate – che era necessario, in certe circostanze, realizzare anche l’uso legittimo della forza, per porre fine alla guerra in forma di massacro di popolazioni.

E difatti proprio in quell’articolo si pone la domanda: perché non costituire un corpo civile di pace europeo?  “Perché non trasformare (la straordinaria del volontariato pacifista) in un “corpo europeo civile di pace”, adeguatamente riconosciuto ed organizzato ed assunto da parte dell’Unione europea per svolgere – sotto una precisa responsabilità politica – compiti civili di prevenzione, mitigazione e mediazione dei conflitti, attraverso opera di monitoraggio, dialogo, dispiegamento sul territorio, promozione di riconciliazione o almeno di ripresa di contatti o negoziati, ecc.? Il Parlamento europeo si è recentemente (18-5-1995) pronunciato in favore di una simile “corpo civile europeo di pace”, e nulla potrebbe meglio assomigliargli che la ricca e diversificatissima esperienza del volontariato europeo per l’ex Jugoslavia, che in quasi tutti i paesi ha sviluppato straordinarie capacità, iniziative, competenza e generosità”.

Questo recupero che proponiamo di un progetto visionario elaborato con il contributo di personalità profetiche collegate all’esperienza di movimenti di base – pioneristici nella sperimentazione di percorsi nonviolenti – lo sottoponiamo perché riteniamo importante per la pace mondiale un’Europa che giochi un ruolo motore della trasformazione positiva dei conflitti, sia nelle questioni interne che all’esterno dei suoi confini, nei contenziosi globali.

Proponiamo di lavorare sull’idea dei Corpi civili di pace da attualizzare, idea proposta nel 1994 da Alex Langer, allora deputato del Gruppo Verde al Parlamento europeo. L’elaborazione fu frutto, ripetiamolo e sottolineiamolo ancora, del confronto con i protagonisti nonviolenti delle lotte di Comiso, poi edificatori dell’Ambasciata di pace a Bagdad nel 1991. E del lavoro, durato anni, delle azioni dirette e della diplomazia dal basso per opporsi alla deriva bellica in cui sarebbe precipitata l’ex Jugoslavia.

La Bussola strategica europea, approvata formalmente dal Consiglio il 21 marzo 2022, prevede un esercito di cinquemila militari coordinati dall’Unione europea entro 2025. Noi ne contestiamo l’impostazione di fondo, subalterna all’orientamento NATO di attrezzarsi per guerre ad alta intensità: crediamo che un approccio più consono all’Europa che avevano in mente i fondatori politici, dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale, sia l’estensione del principio italiano del “ripudio della guerra”. Inclusa anche la seconda parte dell’art.11 che “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”.

Al di là di questo giudizio complessivamente negativo sulla Bussola (che si propone l’aumento delle capacità militari invece del disarmo), riteniamo comunque utile e opportuna, anche nell’attuale quadro PESC, la sperimentazione di ambasciate civili di pace e di corpi civili di pace formati da giovani volontari provenienti da tutta Europa, coordinati da personale nonviolento competente nell’intervenire dove c’è un conflitto per almeno stemperarlo prima di estinguerlo; o quando finisce un conflitto e per prevenire eventuali allargamenti dei medesimi.

La nonviolenza che proponiamo deve poter disporre di autonomia strategica ed operativa e quindi essere indipendente da politiche militari e anche da questa o quella risposta o resistenza armata (gli esempi che ci vengono in mente riguardano il conflitto russo-ucraino ma anche quello israelo-palestinese).

Utili suggerimenti possono provenire dal Convegno di Gorizia-Nova Gorica “Negoziare la pace” del 30 dicembre 2023, organizzato da Pax Christi, con l’insistenza a non ammettere forma di collaborazione con le forze militari: al massimo, “può esserci dialogo finalizzato alla gestione nonviolenta del conflitto o scambio di informazioni sulla sicurezza, ove questo non pregiudichi la legittimità nonviolenta della missione, in termini di modalità d’azione e di ricezione presso le parti, così come evidenzierebbe il documento su “Identità e criteri degli Interventi Civili di Pace italiani”, elaborato, nel 2011, dal Tavolo Interventi Civili di Pace”.

Ne deriva, giustificatamente, una dichiarazione perentoria: “Sul campo, dunque, si possono attivare collaborazioni con altre realtà di società civile, agenzie di organizzazioni internazionali, istituzioni pubbliche, solo se tali rapporti non minano l’indipendenza e l’imparzialità della missione”.

È a questo criterio che si ispirava la sperimentazione con dei progetti precisi che avrebbe voluto promuovere il primo Comitato per la difesa civile non armata e nonviolenta, istituito nel 2004 in seguito alla legge 2001/64 sul servizio civile volontario, frutto delle lotte guidate dalla Lega Obiettori di coscienza, soggetto costituente dei Disarmisti esigenti. Il primo Comitato, presieduto da Antonino Drago, indicato dai movimenti nonviolenti, elaborò uno storico documento sulla difesa civile alternativa a quella militare che riteniamo una ipotesi di lavoro tuttora valida. 

Una soluzione a questa esigenza di indipendenza e autonomia strategica può venire, a nostro parere, dall’inquadramento formale nella segreteria generale dell’ONU, di cui i corpi nonviolenti si porrebbero come strumenti di affiancamento nelle operazioni di peacekeeping, peacebuilding e peace-enforcing.

Si tratta di un modo di difendere la pace nel mondo anche con la forza della nonviolenza.

L’organizzazione, formata da giovani volontari che hanno scelto il servizio civile, potrebbe essere simile a quella dei volontari dei gruppi di azione gandhiani (l’esercito della pace di Narayan Desai), con un nucleo dirigente e formativo di esperti forgiati dalle lotte nonviolente.

Il Parlamento Europeo post voto di giugno potrebbe dare vita a un comitato di esperti (non puramente accademici) nominati da una assemblea delle reti pacifiste internazionali.

La sperimentazione dovrebbe avviarsi inizialmente più sul versante dell’ambasciata di pace della società civile verso un conflitto esterno alla UE.

Questi dovrebbero lavorare ad una raccomandazione da presentare a Parlamento Europeo, Commissione e Consiglio.

Si tratta di prevedere un approccio ben più complesso della difesa militare dei confini, come facilmente si evince dai passi che seguono, tratti dal testo originario di Langer.

Da Gorizia/Nova Gorica viene la proposta, che invitiamo a prendere in considerazione e recepire, di un Centro internazionale per la formazione degli operatori e delle operatrici dei Corpi Civili di Pace e per l’elaborazione di analisi e strumenti per la prevenzione della violenza e la trasformazione positiva dei conflitti.

Perché dei corpi civili di pace

L’Europa, come il mondo, è afflitta da guerre e conflitti. La maggior parte di questi non avvengono tra gli stati ma all’interno di stati o regioni. Molti di questi conflitti sono motivati da differenze etniche, repressione delle minoranze, tendenze nazionaliste, confini contestati. Quando i rifugiati abbandonano le loro terre divenute ormai dimora di guerra, nuovi conflitti insorgono nelle aeree dove questi approdano. Sempre di più alla Comunità Internazionale, ed in particolar modo alle Nazioni Unite, viene richiesto di spedire truppe per il mantenimento della pace in modo da impedire lo scatenarsi della violenza. Sebbene questo concetto si sia ormai sedimentato, le recenti esperienze militari di mantenimento della pace non hanno brillato per una serie di ragioni che non verranno però trattate in questo documento. Ci si aspetta comunque, o almeno si spera, che le molte difficoltà saranno presto superate e che il mantenimento della pace diventi un compito “ordinario” per i soldati agli ordini della Comunità Internazionale.

Organizzazione
Il Corpo civile internazionale verrebbe costituito dall’Unione europea sotto gli auspici delle Nazioni Unite ai cui servizi dovrebbero essere prestati. Il Corpo dovrebbe sottostare o almeno riferirsi all’OSCE (come organizzazione regionale delle Nazioni Unite). Gli stati membri dell’Unione europea contribuirebbero al Corpo. Il Parlamento europeo dovrebbe essere coinvolto nelle decisioni sulla costituzione del Corpo e sull’attuazione delle operazioni. In primo luogo, il Corpo presterebbe servizio all’interno dell’Europa, ma potrebbe agire anche al di fuori del continente europeo. Poiché sarebbe una forza di stanza, deve avere quartieri generali e personale pienamente equipaggiato, basato in un luogo specifico (OSCE-Vienna?) e a livello locale durante le operazioni. Per l’inizio il Corpo dovrebbe essere costituito da 1.000 persone di cui 300/400 professionisti e 600/700 volontari. Se i risultati fossero positivi si dovrebbe naturalmente espandere in modo considerevole.

NB dei DE- Rispetto a questa proposta di Langer riteniamo che il cotesto odierno spinga a privilegiare una sperimentazione in conflitti al di fuori dei confini europei…

Compiti
Prima il corpo sarà inviato nella regione, prima potrà contribuire alla prevenzione dello scoppio violento dei conflitti. In ogni fase dell’operazione potrebbe adempiere a compiti di monitoraggio. Dopo lo scoppio della violenza, esso è là per prevenire ulteriori conflitti e violenze. Nel fare ciò esso ha solo la forza del dialogo nonviolento, della convinzione e della fiducia da costruire o restaurare. Agirà portando messaggi da una comunità all’altra. Faciliterà il dialogo all’interno della comunità al fine di far diminuire la densità della disputa. Proverà a rimuovere l’incomprensione, a promuovere i contatti nella locale società civile. Negozierà con le autorità locali e le personalità di spicco. Faciliterà il ritorno dei rifugiati, cercherà di evitare con il dialogo la distruzione delle case, il saccheggio e la persecuzione delle persone. Promuoverà l’educazione e la comunicazione tra le comunità. Combatterà contro i pregiudizi e l’odio. Incoraggerà il mutuo rispetto fra gli individui. Cercherà di restaurare la cultura dell’ascolto reciproco. E la cosa più importante: sfrutterà al massimo le capacità di coloro che nella comunità non sono implicati nel conflitto (gli anziani, le donne, i bambini). Potrebbe cercare di risolvere i conflitti con ogni mezzo d’interposizione ma non imporrà mai qualcosa alle parti. Denuncerà i fautori della violenza e dei misfatti alle autorità locali e internazionali. Denuncerà la cattiva condotta di queste autorità alla comunità internazionale. Si adopererà per allertare tempestivamente e monitorare. Costantemente cercherà di trovare ed enunciare le cause del conflitto o dei conflitti. Farà il possibile per ricostruire le strutture locali. Qualche volta, ma solo su richiesta e temporaneamente, subentrerà alle autorità e ai servizi locali. Più in particolare adempirà ai servizi non armati quotidiani di polizia nelle aree dove la polizia locale non riscuote la fiducia della popolazione. Coopererà nell’area con le organizzazioni umanitarie per provvedere ai rifornimenti e ai servizi, così come per alleviare le sofferenze delle vittime.

Quale professionalità
Poiché consideriamo il Corpo e i suoi partecipanti agire in zone ad alto potenziale di violenza, i singoli partecipanti debbono possedere molte qualità e valori eccellenti, alcuni dei quali saranno questione di talento, altri richiederanno un alto livello d’addestramento professionale.

Qualità
Molte qualità d’alto livello sono necessarie per gli individui che partecipano al Corpo di pace: tolleranza, resistenza alla provocazione, educazione alla nonviolenza, marcata personalità, esperienza nel dialogo, propensione alla democrazia, conoscenza delle lingue, cultura, apertura mentale, capacità all’ascolto, intelligenza, capacità di sopravvivere in situazioni precarie, pazienza, non troppi problemi psicologici personali. Coloro che vengono accettati a far parte del Corpo di pace apparterranno alle persone più dotate della società.

Nazionale/internazionale; uomo/donna; anziani/giovani
Il corpo di pace non dovrebbe essere costituito da contingenti nazionali ma dovrebbe essere internazionale dall’inizio con individui di diverse nazionalità che lavorano insieme come amici. Questo farebbe immediatamente superare barriere fra diverse culture. L’imparzialità è necessaria ma i partecipanti al Corpo di pace non devono assolutamente provenire solo da paesi neutrali. Dovrebbero farvi parte sia uomini sia donne e l’età dovrebbe essere tra i 20 e gli 80 anni. A differenza delle operazioni militari il lavoro del Corpo di pace potrebbe in gran parte ricadere sulle spalle degli anziani e delle donne.

Volontariato solidale
Le ONG, con un’esperienza diretta nella prevenzione dei conflitti, nella loro risoluzione e sviluppo come anche nel servizio civile, saranno le prime cui si richiede di reclutare partecipanti al Corpo di pace. Questi partecipanti potrebbero essere in larga misura obiettori di coscienza. Un ruolo può essere svolto anche dai militari peacekeeping in pensione e dai diplomatici. Particolare attenzione deve essere data ai rifugiati e agli esiliati della regione dove il conflitto dovrebbe essere gestito. Molte di queste persone sono colte e individui nonviolenti con grande conoscenza della situazione locale. D’altra parte essi sono parte del conflitto e potenziali bersagli. Essi potrebbero essere più utili nel retroterra che in prima linea a livello di consulenza e potrebbero giocare un ruolo fondamentale di supporto linguistico.

Professionisti/volontari
Poiché le qualità e l’esperienza determinano il successo o il fallimento di qualsiasi operazione, almeno un terzo dei partecipanti di ciascuna operazione del corpo di pace consisterebbe di professionisti. Gli altri possono essere volontari e lavoreranno sotto l’autorità di professionisti.

Addestramento
Il successo e il fallimento saranno anche determinati dal grado d’addestramento delle persone del Corpo di pace. Programmi d’addestramento prepareranno ciascun partecipante alla sua missione. Allo stesso tempo gli educatori dovrebbero avere la possibilità d’essere stagiairs in missioni per acquistare esperienza sul campo. L’addestramento includerà la crescita della forza e della mentalità personale ma anche cose pratiche come la lingua, la storia, le religioni, le tradizioni e la sensibilità delle regioni dove si va ad operare.

Come preparare le operazioni dei CCP
Le condizioni per le operazioni dei Corpi civili di pace sono fondamentalmente le stesse di quelle del peacekeeping militare: l‘intervento deve essere richiesto dalle parti ed essere svolto in modo imparziale.

I Corpi di pace possono funzionare solo finché le parti in conflitto chiedono una loro presenza nella loro regione. A nessuna delle parti deve essere permesso di usarli per le loro proprie manovre tattiche e la propria propaganda. Ma mentre il peacekeeping potrebbe esigere un peace-enforcing, i Corpi di pace possono solo provare a convincere con la negoziazione. Su quest’aspetto è necessario raccogliere ancora esperienze.

In caso di conflitto il Consiglio Europeo, il Segretariato Generale dell’ONU e/o l’OCSE può convincere le parti a richiedere l’intervento dei Corpi civili di pace. Una volta fatta questa richiesta, l‘organizzazione internazionale può negoziare le condizioni di base, il tipo di mandato, il suo periodo e il finanziamento. E infine, ma non meno importante, devono decidere chi avrà il comando delle operazioni. Dato che non vi è ancora una struttura preposta all‘interno dell‘Unione Europea l’intervento deve essere affidato all‘OCSE, mentre le operazioni al di fuori dell‘Europa devono ricadere direttamente sotto la responsabilità delle Nazioni Unite.

Finanziamento
Prevenire un conflitto è costoso, ma risolverlo una volta permesso che esploda è ancora più costoso. Un Corpo civile di pace da inviare sul campo dopo che è esploso il conflitto deve essere adeguatamente finanziato. Senza fondi non si può fare niente. Ciò significa linee di budget per stipendi e per costi di funzionamento. Significa anche compensi per servizi in situazioni pericolose. Può anche significare costi per rimpatri, per partecipanti feriti o uccisi, e compensi per i danni che lasciano dietro. L’Unione Europea avrà il compito di stabilire linee di budget stabili per questo scopo. Deve essere tenuta in considerazione la possibilità di finanziare progetti pilota affidati a delle ONG. D’altra parte è facilmente immaginabile che un’operazione di un Corpo civile di pace sia molto più economica di qualsiasi coinvolgimento militare.

Le relazioni con i militari
I membri dei Corpi civili di pace avranno bisogno di protezione. Nella maggior parte dei casi i peacekeeper militari potranno essere presenti sul campo per questo scopo. Dato che tra la cultura militare e quella dei civili non c’è naturale rispetto e reciproca comprensione, bisognerà dedicare molta attenzione e formazione per raggiungere questo scopo. I corpi civili e i peacekeeper devono lavorare insieme a tutti i livelli e ciò richiede formazione ed esperienza.

Conclusione
Un’operazione del Corpo di pace può fallire e nessuno si dovrebbe vergognare ad ammetterlo. Per esempio se una delle parti in guerra è determinata a continuare o accrescere il conflitto, i civili non possono fermarla. Se il conflitto si trasforma in una vera guerra, i civili farebbero meglio a fuggire dal campo di battaglia. Se fanatici delle due parti non sono più sotto il controllo dell’autorità locale e cominciano a sparare contro i partecipanti del Corpo di pace o a prenderli in ostaggio, ciò sarà la fine delle operazioni. Se i media locali, influenzati dai demagoghi locali, intraprendono campagne di sfiducia verso il Corpo di pace, è meglio ritirarsi. Ma fintanto questo non si verificherà il Corpo civile di pace potrà adempiere la sua funzione fino a quando sarà necessario. Il problema è qui lo stesso del peacekeeping militare. Finché non c’è alcuna soluzione politica, il Corpo di pace non può veramente partire. È essenziale che la cooperazione delle autorità locali e le comunità dovrebbe essere promossa da una politica internazionale di premio (e non da punizioni/sanzioni). Poiché la povertà, il sottosviluppo economico e la mancanza di sovrastrutture quasi sempre sono parte di qualsiasi conflitto, la preparazione a vivere insieme, a ristabilire il dialogo politico e i valori umani, a fermare i combattimenti e la violenza dovrebbero essere premiati da un immediato sostegno internazionale economico-finanziario a beneficio di tutte le comunità e regioni interessate. Troppo spesso ci si è dimenticati che la pace deve essere visibile per essere creduta. Ma se è resa vivibile la pace troverà molti sostenitori in ogni popolazione

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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