Facciamo a cambio?

 di Maria G. Di Rienzo

Quando le Nazioni Unite, l’anno scorso, ci hanno raccomandato di provvedere all’istruzione dei nostri giudici in materia di violenza di genere, non stavano scherzando: «Secondo il giudice si è trattato di un delitto d’impeto che non avrebbe nulla a che vedere con le relazioni extraconiugali di Parolisi, maturato a causa della frustrazione vissuta dall’uomo nei confronti di Melania, “figura dominante” della coppia. Nella ricostruzione fornita dal magistrato l’omicidio si sarebbe consumato in pochi momenti, quando Melania si è spostata dietro al chiosco della pineta per fare pipì: la vista della moglie seminuda (…) avrebbe verosimilmente eccitato Parolisi che si è avvicinato (…) per avere un rapporto sessuale. Melania però avrebbe rifiutato l’avance, forse rimproverando il marito, che a quel punto ha reagito all’ennesima umiliazione, sferrando i colpi con il coltello a serramanico che aveva in tasca» (si tratta dell’omicidio di Melania Rea, avvenuto il 18.4.2011).

Piccola nota per il giornale su cui appaiono i paragrafi riportati sopra: il giudice, il magistrato, si chiama Maria come me. A meno che non si tratti di una persona transessuale F->M che vuole essere giustamente apostrofata al maschile, si tratta di «la giudice» e «la magistrata». Ciò detto, la sua motivazione per la sentenza all’ergastolo dipinge un quadro di questo tipo.

Un energumeno decerebrato, schiavo delle sue incontenibili erezioni, è costretto a legami adulterini perché frustrato dalla coniuge virago, che lo umilia continuamente. L’incauta dominatrix non solo si sfila le mutande in prossimità di questo Godzilla, ma osa respingerlo, magari dicendo cose terribili del tipo: «Siamo in uno spazio pubblico, sei scemo o cosa?». A questo punto, trovandosi per caso un coltello nella pelliccia da scimmione – cioè scusate, in tasca – l’energumeno reagisce all’ennesima umiliazione, e accoltella la donna. Non una sola volta. La colpisce ripetutamente, sino a ucciderla. Cosa si può desumere, da tutto ciò, se non che la signora se l’è proprio andata a cercare?

Adesso rovesciate per un attimo la prospettiva. Pensate di essere sposate, madri di una figlia piccola, e che il padre di costei vi riempia da anni la fronte di corna. Ogni volta è stata un’umiliazione, una frustrazione, un insulto. Come mai all’ennesima Ludovica non avete reagito e non vi siete trovate in tasca, per puro caso, uno stiletto intriso di cianuro? Se con esso aveste passato da parte a parte la lingua bugiarda di vostro marito, non si poteva concludere che il signore se l’era proprio andata a cercare?

Io non riesco a capire cosa ci sia di umiliante nel fatto che una si rifiuti di fare sesso in pubblico, dietro a un chiosco, e con la propria figlia a qualche metro di distanza. E non so quali siano le esperienze della giudice in merito, ma basandomi solo sulle mie so che se sono arrabbiata con il mio partner l’ultima cosa di cui ho voglia è avere un rapporto sessuale con lui. Ma diciamocela tutta: le donne sono titolate a rifiutare di fare sesso? Con un marito frustrato, sì o no? Con un amico triste perché la ragazza lo ha lasciato, sì o no? Con il parente che non sa come passare il tempo, sì o no? Con il capo ufficio che altrimenti ci tormenta, sì o no? Con il primo sconosciuto che passa e ci trova di suo gusto, sì o no? Perché, santo cielo, non vorremo mica umiliarli, tutti questi uomini, dicendo cose orripilanti che scatenano in loro raptus inarrestabili, come «No, grazie, ho mal di testa».

Io mi rifiuto di credere che gli esseri umani di sesso maschile siano creature così fragili da impazzire davanti a un “no”, incapaci di pensiero razionale, privi di autocontrollo, trascinati a compiere omicidi e violenze perché devastati da improvvise botte testosteroniche: ma questo suggerisce la sentenza, e non solo la sentenza. Questo suggerisce il “trend culturale” corrente. E serve a una cosa sola, a dare la colpa della violenza a chi ne è vittima.

In un’intervista, l’anno scorso, la scrittrice Margaret Atwood raccontava di aver chiesto ad un amico di sesso maschile perché gli uomini temessero le donne. La replica fu: «Hanno paura che le donne ridano di loro». Allora fece la stessa domanda a un gruppo di donne: «Perché temete gli uomini?». La risposta fu unanime: «Perché abbiamo paura di essere uccise». Facciamo scambio? Potete ridere di me sino a consumarvi la gola.

CONSUETA NOTA

Gli articoli di Maria G. Di Rienzo sono ripresi, come le sue traduzioni, dal bellissimo blog lunanuvola.wordpress.com/.  Il suo ultimo libro (non smetto di consigliarlo) è “Voci dalla rete: come le donne stanno cambiando il mondo”: una mia recensione è qui alla data 2 luglio 2011. (db)

 

Redazione
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