Gianluca Cicinelli: il paradosso di Bearzot

Adesso tu, si tu che leggi il blog di Daniele Barbieri e altri (scatta quindi il reato associativo), tu mi dirai: cosa c’entra Enzo Bearzot con la tua rubrichetta sulla morìa delle vacche mediatiche?

Se ti metti comodo e mi concedi 5 minuti te lo spiego, in fondo dopo che leggi i pezzi di db mica avrai il coraggio di venire a lamentarti che sono strani i miei, che mi firmo ciuoti, che in lucano signifca deficienti, e quindi sono già reo confesso!!!!

Tranquillo, lo puoi leggere anche tu che ti fa schifo il calcio, perchè Bearzot, incredibile per uno lontano mille miglia dal mondo moderno e contemporaneo, ha dato scacco matto all’intero pianeta dell’informazione. Ha messo in luce, 30 anni fa, che l’informazione non è più il fatto in sè, ma un racconto che si unisce al fatto, che quando rientra in circolo contamina il fatto stesso, talvolta arricchendolo talvolta incenerendolo. Bearzot invece ha staccato la spina e ha vinto, ribaltando il  finale di War Games: se Hollywood e gli Usa ti vogliono far credere che l’unico modo per vincere è di non giocare, tu capisci che devi giocare e vincere se solo vuoi vivere.

Bearzot ha inventato il silenzio stampa nel periodo storico del passaggio dal monopolio Rai al duopolio con Mediaset. Lui guidava un gruppo di persone e aveva un progetto. Un valore già al di fuori del mercato della notizia che fin da allora  determinava il valore finanziario della vita all’esterno delle redazioni. Ad un certo punto tutti quelli che scrivevano intorno al suo progetto contaminavano il progetto stesso, mettendo uno contro l’altro i giocatori, perchè il progetto non era il socialismo ma il gioco del calcio, mentre chi ne scriveva lo trattava come se fosse l’edificazione del socialismo. E Bearzot forse non era socialista, ma conosceva il pallone. Così li ha mandati affanculo con il massimo affronto possibile verso chi vive di parole: togliergli la parola: tu esisti perchè io faccio qualcosa, non il contrario! Un principio alla base del giornalismo, minzolini, per esempio, fa il contrario. Bearzot naturalmente era illuminato di una luce quasi mistica, solo lui sapeva quello che faceva e i giornalisti non devono avere fede ma fatti, però quando la parola e i suoi incantatori decidono di assumere il controllo sull’azione si crea un ennesimo corto circuito tra comunicazione e mondo reale. Bearzot ha la forza per portare all’interno del suo progetto l’aspetto comunicativo. La sua non comunicazione è così trascinante da costringere i tifosi, che per la maggior parte lo detestano, a prestargli attenzione. Qualcuno comincia a interpretare gli intenti dell’ometto che ha delle cose da dire e per dirle è costretto al silenzio. Poi i fatti tornano a prevalere sulle parole. E in un paese che non brilla per dignità sono tutti pronti a piegarsi al vincitore e il resto lo sappiamo. Ma qui c’interessa invece l’aspetto legato alla pressione dei media sui realtà.

Ciò che s’intende per prevalenza delle parole sui fatti, è il potere illegittimo che il mondo della comunicazione si è preso sulla realtà, è un potere totalitario che si sostituisce alla realtà fino a soppiantarla. Prendi Alfonso Signorini, l’ideologo del regime, il Suslov del berlusconismo, il direttore di Chi e Sorrisi e Canzoni tv, il volto sempre sorridente ed esposto ai riflettori del gossip made in Italy, il mandante morale dei tanti Corona che affollano la penisola, l’uomo mediaset per eccellenza che adesso conduce anche un programma televisivo, Kalispèra, icona gay di maggioranza. Lui con le parole ha messo in piedi un circuito, un sistema che è colluso con tutte le inchieste della magistratura in circolazione e per paradosso è apprezzato dalla maggior parte della popolazione. Eppure anche le cronache politiche ormai trattano i fatti come se fossero le allegre cronache di Signorini. Ha prevalso sulla realtà un ininsignificante rumore mediatico che funziona con l’informazione come le risate in sottofondo alle sitcom, anche se la battuta non è buona ridono lo stesso.

Per questo dobbiamo riflettere sul silenzio di Bearzot ed il suo paradosso: staccandoci di tanto in tanto dal flusso di comunicazioni ininterrotto riusciamo a trovare noi stessi per poter riprendere a scambiarci informazioni con gli altri. Pretendere rispetto per il proprio linguaggio, anche se non lo parlano gli altri. Il messaggio semiotico di Bearzot vaga ancora per l’universo dei media come un’anatema. Cioè quel tizio ha battuto da solo un sistema trovando una falla nel panico da silenzio altrui. Credo che la comunità, quella che non mi piace pensare solo virtuale ma anche materiale, dei bloggers, internauti, giornalisti, di noi che c’incontriamo sul web dovrebbe provare per un attimo a staccare la spina della coazione da connessione e provare con un po’ di silenzio a chiedersi quante parole pronunciate nella giornata o quante parole scritte corrispondano a un’emozione, un senso o a un impulso reale, a qualcosa che esiste davvero e si può toccare o provare. Perche talvolta, come sembra leggendo le cronache sugli studenti che impazzano per la rete, non capisci davvero cosa è scritto perchè accade e cosa è scritto perche deve accadere. Allora meglio Bearzot.

ciuoti

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