Il ballo dell’Argia
di Natalino Piras
Il luogo del ballo, per un morsicato dall’argia, il ragno velenoso, è come un campo per bruciare le streghe. Invece che la catasta del rogo c’è un mucchio di letame. Il morsicato in preda ai dolori, in trance, diventerà gallo di carnevale, re di burla per la durata del suo restare apatico, in catalessi, morto come ombra, spossato, privo di energia. Se non morirà addirittura.
I morsicati dall’argia erano contadini, mietitori, pastores. Uomini e donne. “Mia mamma fu morsicata dall’argia nella lingua, mentre mangiava lattughe in un orto. Aveva vent’anni. Tempo prima si era bisticciata con un’altra donnetta, moglie di uno che era stato punto a sua volta”. L’aveva insultata e offesa. L’aveva chiamata “la moglie del ballato!”, in riferimento appunto al ballo dell’argia che non era una danza lieta. Venne la nemesi e così “anche mia madre fu morsicata dal ragno e portata fuori dal paese perché si procedesse con il rituale”. Ballarono le sette vedove, le sette vergini, le sette maritate. Una delle menadi così cantava: “Oggi mi hai fatto festa, a furia di sole, oggi mi hai fatto festa, maccheroni e minestra, a furia di sole, minestra e macarrones”. Il nonsense poetico doveva far ridere e sussultare la morsicata, con queste parole messe a casaccio a cercar rima: tanto meglio se erano sporche. Se c’entrava “la volpe di sotto”.
Il 29 giugno 1926, in un paese della Barbagia si consumò uno degli ultimi balli dell’argia. Il morsicato immerso nel letame era un paria, uno per cui il genio della beffa paesana aveva composta una filastrocca che prendeva le mosse dagli autodafé. Atto di fede in dialetto sardo fave con lardo ci preparate cuore di mamma cuore di frate. Dove “frate” sta per “fratello” ma evoca pure la figura del frate in saio e scalzo, para questuante in vasta latitudine. Dal Medioevo attraverso il “Siglo de oro”, il Seicento che fu anche secolo di roghi, arriva a quel contenitore del “particulare” e dell’universo che è la piana di Chentomínes: dove sta il paese dell’ultimo “ballato” perché punto dall’argia.
Quel 29 giugno del 1926 al campo dell’argia “le danzatrici portavano al collo campanacci di pecora e ferri di cavallo e di bue. Il ballo si risolse in un’autentica carnevalata: vi accorsero molti curiosi e ognuno faceva a gara per lanciare una manciata di letame nel viso del povero malcapitato, che chiuso in un’ostinata apatia si mostrava restio al sorriso”.
Cantavano:
A drinna drinna anca ‘e linna
che è come dire gamba di legno
a drinna drinna anca truncata
che è come dire gamba troncata, spezzata.
Il resto è al confine con l’osceno.
Ma niente, quel 29 giugno 1926, potevano i canti. Evidentemente non avevano la carica giusta. Quello che invece fece ridere il morsicato e lo portò fuori dall’apatia fu il vedere passare davanti a lui due deformi: “una vecchia tutta rattrappita che dava il braccio a un uomo con la gamba secca”. Quando si dice l’evocazione data da quella “gamba di legno troncata”. Il poverazzo rise a quella visione e uscito fuori finalmente dal letame, con le sue forze, fece il nume irato. “Che lo possano fare a voi il ballo!” urlò rivolto a cantores, ballerine e coreuti. Se ne erano approfittati così come profittarono di lui quando allo stesso poverazzo salvato dall’argia gli venne in mente, rimasto vedovo, di risposarsi. Gli suonarono contro ancora campanacci, gli stessi del rituale dell’argia, barattoli, pitali, lamones, matraculas di legno con anelle di ferro, come nella Settimana Santa al tempo che hanno legato le campane.
“La rappresentazione magica del ballo dell’argia, è un rito di restaurazione del sesso”.
Non ci sono animas malas da evocare e resuscitare. Solo un sabba alla luce del sole. O al tramonto. C’era chi cantava, pur di veder animare il morsicato: “Ho visto il culo di mamma, tutto canuto e fiorito” (traduzione letterale). In perfetta assonanza questa idea di “volpe di basso”, il sesso femminile come lo si chiama in culture di area linguistica spagnola, con il “cuore di frate” dell’autodafè di beffa. Altri ripeteva e aggiungeva: “A drinna drinna stella di mare, a drinna drinna stella rifatta, a tutte quelle che non la voglion dare…” La rima tornava. I puntini sono ancora varianti dell’indicibile e dell’osceno.
Ma muore l’argia, quando si riesce a bruciarla? E uccidendo un’argia si uccide un’anima? È difficile morire per l’argia, anche se e quando si va al campo del ballo e sembra di andare all’autodafé. Difficile morire perché il ballo vive per un tempo allargato e ciclico, nella civiltà contadina che è durata millenni. La stessa civiltà che sempre è stata terreno fertile per la formazione delle brujas, le streghe, cui anche l’argia del ballo appartiene. Difficile allora liberarsi da un ballo che è insieme propiziatorio e terapeutico. Tutto il vicinato collabora alla ricerca e all’offerta dell’abito adatto a chi, in mancanza di vera argia, dovrà rappresentarla. C’era anche questo nei rituali: incarnarsi nella vittima, per farsi perdonare, perché l’anima dell’argia, che è bruscia, non venga poi dopo a perseguitare e ossessionare. Per la rappresentazione del ballo, in mancanza di un morsicato o di una morsicata veri, si fanno le prove. Gli uomini si vestono da donna, che femmina è la bruja.
Nel ballo mascherato che segue, in determinate situazioni, il ragno, l’uomo vestito da donna argia-bruja, simula i dolori del parto. Teatro nel teatro. L’argia simula il dolore perché la ballerina variopinta che dà dolore non può a sua volta provarlo. Tutto un mistero, un guazzabuglio, tutto o molto risolvibile, nel ballo dell’argia, con il ritorno alle iniziazioni sessuali, una volta liberatisi dai dolori del parto.
La ballerina variopinta non è una vera pana, donna morta in parto e per questo condannata all’erranza. L’argia-bruja potrà sì partorire ma altre arge. Non uomini. “Vipera serpente, i figli faccia a cento”.
Quel che resta è il ballo, quasi un sabba della contadinità. “Quanto è dolce il miele, amara l’oliva, acre il limone”. Dormire esausti: questo il sogno, il volo. Fare addormentare. Fare ridere. Fare matrimoni di burla, come a carnevale.
Le arge non sono persone però sono come noi, di tutte le età, di ambo i sessi, fanno i mestieri che facciamo noi. C’è l’argia bambina, la nubile, la sposa, la sennora, la studiata, la terragna, la bagassa, l’adultera, il contadino, il prete, la preyderissa, la musicante, la gitana, la cartomante, la hechizera, la bruja lieve, el zorro de arriba y el zorro de bajo. “Il giorno che ti sposi, ti porteremo la musica”.
Natalino Piras, adattamento da BRUJAS, Frilli editori, 2006.
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Immagini: Nico Orunesu