Il dottore dice che ho i nervi affaticati…

narra-recensione per «Le venti giornate di Torino» di Giorgio De Maria

il ritorno di Johnny Sheetmetal (*)

Titolo: «LE VENTI GIORNATE DI TORINO»

Autore: GIORGIO DE MARIA

Editore: FRASSINELLI

Sanremo ha tanti pregi, fra questi non risulta, sia detto senza offesa, la vivacità culturale. Presentazioni di libri se ne fanno, per carità, ma sempre di titoli che non suscitano il mio interesse. Quando venni a sapere che a Torino (e dove, se no?) si sarebbe svolto un incontro a tema di un romanzo che avevo appena letto, e che mi aveva lasciato molti dubbi sulla sua validità, rimpiansi di non aver scelto il capoluogo sabaudo come mia dimora. Quando poi scoprii che del libro avrebbero discusso il professor Francesco Settepezze, noto esperto del fantastico e di leggende locali, con Gianni Beltramino, scrittore traduttore e opinionista molto noto e apprezzato nell’ambito horror in Italia, mi trovai costretto a muovermi. Acquistai i biglietti del treno e il giorno dopo partii.

La presentazione si svolgeva sabato nel tardo pomeriggio, in una vecchia e minuscola sala cinematografica riadattata all’uso, al fondo di una buia traversa di corso Vittorio Emanuele. Quando arrivai la sala era già piena. Gli spettatori erano perlopiù trenta-quarantenni, vestiti di nero o di colori scuri, i maschi quasi tutti con la barba.

Sarà stata la sera autunnale di fine ottobre, grigia e opprimente (non pioveva da mesi). Oppure l’aria chiusa e senza sbocchi della via, che terminava in uno squallido cortile in cui giaceva parcheggiata una vecchia Fiat 127. O forse la sala tappezzata di pannelli ricoperti da un panno grigiastro intriso di polvere, invasa da una luce al neon che schiacciava l’anima, per fortuna spenta quasi subito in favore dei riflettori sul palco. Sta di fatto che seduto in fondo alla sala, senza conoscere nessuno (e da tutti sconosciuto, come ben saprete) provavo una curiosa e fastidiosa inquietudine.

Un impacciato e mingherlino giovane di una non meglio identificata associazione culturale salì sul palco e presentò i due relatori, già accomodati su due sedie accostate. Settepezze lo ricordavo bene: poco più che cinquantenne, basso, pienotto, dalla gran barba nera, sprizzava benevolenza da tutti i pori. Beltramino era un quarantenne dall’aria trendy e dal cranio calvo, alto, robusto, sicuro di sé.

Il giovane scese e il dibattito iniziò.

Fu chiaro fin da subito che sarebbe stata una sorta di duello. Beltramino aveva sponsorizzato la ripubblicazione in Italia del libro, sulla scia dell’inatteso successo oltreoceano e ovviamente ne cantava le lodi. Settepezze lo criticava aspramente, dicendo che era datato e che esistevano fior di scrittori e di libri dello stesso genere, in Italia, ma di ben altra inventiva e attualità, sostanzialmente ignorati da editori e pubblico.

Beltramino monologava con la sua voce monotona, spezzando le frasi con pause in cui pareva perdere il filo. «L’originalità dell’idea… ehm… una Torino per una volta non da cartolina, ma cupa e respingente, come è nella realtà… ehm… vogliamo parlare della Biblioteca? Di come De Maria anticipò i social network, Facebook in particolare, trent’anni prima della loro comparsa?… ehm… e l’atmosfera cupa, paranoide, che permea il libro? L’acuirsi del terrore in corso di esplosione con il terrorismo?… ehm… io ci vedo Lovecraft, signori, ci vedo Kafka, e Poe, e i coevi King e Matheson… ehm… ma soprattutto… ehm… il finale, signori, il finale!… ehm… vi rimarrà stampato nella memoria per gli anni a venire, signori… ehm… non potrete più fermarvi a osservare un monumento, una statua qui a Torino, senza che i peli vi si rizzass… rizzerebb… ehm… rizzino sulle braccia».

Settepezze controbatteva con il suo tono da professore universitario davanti a una platea sterminata (il quale in cinque minuti deve spiegare la teoria della relatività prima che suoni la campanella di fine lezione). «Stai scherzando, giovane? Cominciamo dall’idea: originale? Non voglio spoilerare ma le statue, le statue! Perché abbiamo capito tutti subito, leggendo il libro? Anni di film e di letteratura. Anche di serie B, amici. Anzi, di serie Z! Da lì viene tutto, sapete? Il letamaio del nostro immaginario! Non esiste nessuna nuova idea, nessuna. Una Torino originale? Ma dove? Sempre il solito centro, i soliti portici, la solita nebbia. La Torino anni ’70 che leggevi sulla Stampa è tutta lì. Che sforzo ha fatto il De Maria? Sulla biblioteca-Facebook voglio darti ragione, è il secondo pregio del libro, il primo te lo dico dopo. L’atmosfera cupa, paranoide? Il finale da peli ritti sulle braccia? Cos’hai letto negli ultimi vent’anni, Beltramino? I romanzi Harmony? Liala? Ogni tanto mi veniva l’inquietudine, ma per il secondo pregio del libro, non per il finale o le statue. L’unico che hai fatto bene a citare è stato Kafka. Io ci metterei pure Dick. Una mente sul confine liminare, Beltramino; la sua realtà distorta che ci viene riportata passo passo; il “disagio mentale”, come direbbe quel cantante. Il lento scivolare in un’apparente normalità di follia. Questo è il primo pregio del libro, il suo significato ultimo. Gli americani o gli australiani… bah! Il finale lascialo perdere. Appiccicato lì che non c’entra nulla. Senza legami consequenziali o logici con tutto il resto. E non sono contro i finali aperti, per carità, ma datemi almeno un appiglio, un’idea di coerenza, santo cielo! Cos’è già che succede in quel finale? Muore qualcuno? Forse il narratore? Sai che l’ho dimenticato?»

Beltramino si contorceva sulla sedia, lisciandosi spesso la pelata con la mano. Gettava occhiate a una ragazza belloccia seduta davanti a me, forse la sua fidanzata. Il resto del pubblico seguiva in silenzio, non si capiva per chi parteggiasse.

«Si vede che non l’hai letto bene… ehm… Da te mi aspetterei maggiore profondità critica, Settepezze… ehm… e l’epidemia di insonnia? E quello che succede nelle strade di notte nelle venti giornate? L’hai già dimenticato?… ehm… Per non parlare della biblioteca. Non senti quanto sono attuali le pagine che descrivono la biblioteca? La biblioteca, signori. La biblioteca!… ehm… altro che La donna della domenica!… ehm… In Italia libri così dovrebbero vincere lo Strega!»

Settepezze non riusciva a smettere di accarezzarsi la barba, per il nervoso. «Basta con questa pretesa di attualità, giovanotto. Quel libro è datato. Hai visto delle statue muoversi, là fuori? Vedi ancora circolare Fiat 127 per le strade, per caso? Facebook ti fa venire la psicosi? Ma insomma!»…

«Professore, professore!» chiamò uno del pubblico, alzando la mano.

«Sì? Dica, dica» l’invitò Beltramino. Bisbigli, curiosità.

«Fuori dalla porta in fondo al vicolo c’è una Fiat 127 parcheggiata!».

«Oh, perbacco…».

L’intera sala venne giù dalle risate. Anche i due sul palco sorridevano e ora si guardavano scuotendo la testa. Percepii anch’io lo sciogliersi di una qualche tensione che mi aveva attanagliato fino a quel momento e che mi pareva fosse dovuta a una qualche circostanza esterna.

Così mi alzai in piedi e chiesi di poter parlare. Ancora adesso, alla luce di ciò che venne poi, non capisco cosa mi prese.

«Permettetemi, signori. Vorrei dire la mia opinione sul libro. L’ho letto, cari colleghi, l’ho letto ben due volte» iniziai. «E vorrei ora dimostrarvi, carissimi Settepezze e Beltramino, che avete ragione tutti e due. Certo, tutti e due, proprio così! Ora lasciatemi esporre, per favore, e non interrompetemi.» I due sul palco parvero offesi da qualcosa che avevo detto. Forse non concepivano che qualcuno potesse trovare punti in comune fra i loro ragionamenti. Ma stavano zitti, come il pubblico, le facce girate verso di me; attendevano che argomentassi. Così attaccai a parlare. Ora, non m’importa riportare ciò che dissi. E’ del tutto irrilevante. I concetti erano gli stessi già esposti dai due là sul palco, solo intrecciati un po’ diversamente. No. E’ della trasformazione sul palco che si compiva sotto i miei occhi, mentre non riuscivo a smettere di parlare, che voglio raccontare. Di quel terribile scambio. Sempre che non mi sia sognato tutto, come dice il dottore.

Ci misi poco a rendermene conto. Qualcosa si muoveva sulla crapa lucida di Beltramino. E ugualmente qualcosa si muoveva nella barba nera e folta di Settepezze. Mentre stavano fermi, mentre mi guardavano, mentre mi ascoltavano. Sembravano non accorgersi di nulla. Così il pubblico, attaccato alle mie parole. Eppure io vedevo. L’orribile trasformazione si compiva sotto i miei occhi, mentre non riuscivo a smettere di parlare.

Peli spuntavano e crescevano, rapidi e folti, sulla testa prima calva del quarantenne. Nel contempo la barba del cinquantenne si accorciava sempre di più. La chioma di Beltramino, ormai sicura, s’infoltiva, s’allungava a vista d’occhio; la barba di Settepezze s’accorciava di brutto, come se dai pori qualcuno l’aspirasse dentro le sue guance. Non so come potessi continuare a parlare di fronte a un simile spettacolo. Ero atterrito, eppure dovevo finire quel discorso. E lo finii. Lo finii nell’esatto istante in cui i capelli di Beltramino smettevano di crescere, ormai consolidatisi in una chioma rigogliosa; e le guance di Settepezze apparivano completamente glabre, come appena reduci da una rasatura pelo contropelo. Lo finii nel momento in cui quel folle scambio si completò.

Entrambi continuavano a fissarmi; non s’erano accorti di nulla.

Mi venne un folle dubbio. Forse avevo avuto un’allucinazione prima? Forse era quello il loro vero aspetto?

No. Li ricordavo entrambi molto bene. La barba di Settepezze; la testa pelata di Beltramino.

Sentii qualcuno che cominciava a battere le mani. Beltramino e Settepezze, sul palco, ridevano. Applaudivano anche loro.

In preda al panico, mi alzai. Buttai a terra un paio di persone, urtai contro lo spigolo dell’uscita. Non importava nulla, tranne fuggire da lì.

Fuori era buio, umido e c’era una nebbia fitta. Corsi lungo il vicolo deserto. Sentii un rumore alle mie spalle; un motore che s’accende, un’auto che parte sgommando. Spari. Mi gettai in un androne. Vidi passare la 127. Dal finestrino passeggero spuntava una testa avvolta da un passamontagna nero, la mano stringeva una Beretta fumante.

Sentii rumore di passi concitati, un vociare di folla. M’inoltrai in un vicolo laterale. I portoni e le finestre apparivano sprangati, come se la gente si fosse barricata in casa.

Le voci e gli scalpiccii si avvicinavano. Mi stavano seguendo, probabilmente quelli della presentazione. Mi voltai indietro solo una volta. Li vidi spuntare dall’angolo lontano. C’era la nebbia, è vero, eppure… Non è possibile che fossero così grandi. Parevano senza vestiti. Avevano la pelle grigia, si muovevano a scatti come burattini.

Corsi via, disperato.

Non so come feci ma riuscii a raggiungere la stazione sano e salvo; presi il primo treno e tornai a casa. Ormai ho l’impressione di essermi sognato tutto, o di avere avuto un’allucinazione. Eppure gli incubi… Ieri sono stato dal dottore. Mi ha prescritto riposo, tanto riposo. Dice che ho i nervi affaticati.

«Soprattutto, la smetta di leggere quelle porcherie» mi ha intimato, facendo segno verso il titolo che occhieggiava dalla borsa di nylon posata sulla sedia. Essendo in anticipo all’appuntamento con il dottore, mi ero fermato in libreria, come al solito. Avevo preso “I canti di un sognatore morto” di Ligotti (era quello il titolo che occhieggiava dalla borsa) e “La città delle navi” di China Miéville. «Le rovinano l’umore, e l’inducono a vedere cose che non esistono.»

Non ho potuto fare a meno di annuire. Eppure i capelli di Beltramino… la barba di Settepezze…

Ha ragione il dottore. Devo prendermi un periodo di riposo.

(*) Come qualcuna/o saprà dai precedenti post, «Johnny Sheetmetal» è lo pseudonimo scelto da un collaboratore della “bottega” Marte-diana. Nel 2016 costui – o forse costei, costì, cost* – ogni mese o quasi ha ruminato un racconto/recensione, sempre con idee, protagonisti e ambientazioni diverse ma in stretta relazione al libro “censito” muovendosi nei vasti territori del fantastico “italico”. Anche quest’anno (in Occidente i più lo contano come 2017) Johnny ha continuato, pur annunciando e/o minacciando ogni tanto di smettere. Ed è chiaro che qualche frase qui sopra – tipo: «Ieri sono stato dal dottore. Mi ha prescritto riposo, tanto riposo. Dice che ho i nervi affaticati» – mi ha fatto preoccupare. Cosa succederà? Lo sapessi, il corazon non batterebbe così. [db]

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

3 commenti

  • Finalmente qualcosa di nuovo sul fronte delle recensioni. Qualcosa di nuovo, interessante e acuto, qualcosa che cerca di andare al nocciolo della questione, di restituire letteratura alla letteratura. Senza troppi incensamenti o livid è stroncatura.
    Leggo sempre con gusto le recensioni di sheet metal. Rimpiangendo ogni volta il non essere riuscito a stimolare la sua attenzione…

  • Prima o poi noi lettori di Johnny fonderemo un fansclub (Daniele presidente!) perché aspettiamo gli articoli quasi fossero racconti e non ce ne frega nulla dei romanzi recensiti.

  • Queste recensioni sono di tale qualità, così originali nell’idea, poetiche nel dipanarsi, che ci si chiede immediatamente come i romanzi recensiti possano mai essere all’altezza della loro recensione! Che è un etereo romanzo parallelo, in perfetto stile Miéville o Ligotti, appunto…

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