Il generale INFERNO non si riposa

i produttori richiamano l’attore Zelensky per la revisione della sceneggiatura e del budget del film di guerra ucraino

articoli, video, musica di Domenico Gallo, Davide Malacaria, Natale Salvo, Ogzero, Andrea Zhok, Alessandro Orsini, Vittorio Nicola Rangeloni, Francesco Masala, Fulvio Scaglione, Marinella Mondaini, Carla Filosa, Enzo Gamba, Francesco Schettino, Roberto Buffagni, Enrico Tomaselli, Michele Paris, Stefano Orsi, Demestenes Floros, Giuseppe Masala, Tucker Carlson, Jonas Tögel, Jacques Baud, CCCP, Vasco Brondi, CSI, Manlio Dinucci

Una tregua: almeno a Natale – Domenico Gallo

Il viaggio trionfale di Zelensky a Washington annunzia anche ai ciechi e ai sordi che il conflitto in atto è una guerra degli USA contro la Russia combattuta per interposta persona, anzi per interposto popolo. Zelensky ha annunciato al Congresso americano la sua indefettibile intenzione di combattere fino alla vittoria per «sconfiggere il Cremlino sul campo di battaglia». Quindi ha precisato – fra gli applausi – che: «La vittoria dell’Ucraina sarà anche la vittoria dell’America». Zelensky ha osservato: «Fra pochi giorni è Natale. In Ucraina lo celebreremo anche a lume di candela, e non per romanticismo. Non abbiamo l’elettricità e molti non hanno l’acqua. Ma non ci lamentiamo. La luce della nostra fede illuminerà il Natale» ed ha aggiunto che tutto ciò che gli ucraini si augurano in questo momento è «la vittoria, solo la vittoria». Infine ha concluso augurando a tutti: «buon Natale e un buon anno nuovo vittorioso».

È sconcertante questo augurio di buon Natale mentre si fanno squillare le trombe di guerra, senza neanche un ripensamento sullo zelo con cui prosegue il massacro in corso fra due popoli ”cristiani”. Eppure noi sappiamo che l’annuncio del Natale può inceppare anche le macchine belliche più poderose. Pensiamo alle tregue di Natale del 1914 di cui parla il film Joyeux Noël. Una verità dimenticata dalla storia del regista francese Christian Carion (2005). Ambientato sul fronte francese, il film racconta una delle tregue spontanee che nel Natale del 1914 annunciarono al mondo che la logica di morte degli alti comandi politici e militari di Francia, Gran Bretagna e Germania poteva essere fermata da un sussulto di umanità e che i “nemici” potevano riconoscersi “fratelli”. Gli uomini schierati per uccidersi misero da parte le armi e cantarono il Natale insieme sulle note di Stille Nacht e di Adeste fideles. Celebrarono insieme la nascita di Cristo, riconoscendosi tutti come membri della stessa famiglia umana. Qualcosa di così imprevisto e stupefacente che i “signori della guerra” si affrettarono a punire quei reparti. Oggi, dopo oltre cento anni, siamo costretti a rivivere di nuovo la tragedia di centinaia di migliaia di uomini schierati per uccidersi e intenti a farlo con il massimo zelo ormai da dieci mesi, senza un giorno di tregua. In prossimità dell’avvento del Natale diventa ancora più scandaloso questo massacro organizzato fra due popoli fratelli che condividono la medesima fede in Cristo.

Se una tregua spontanea fu possibile nel 1914, oggi le autorità politiche e i Governi dei paesi europei potrebbero imporre una tregua di Natale ai due contendenti, come viatico per un cessate il fuoco permanente che apra la strada alla ricerca di una pace giusta e onorevole per tutte le parti in causa.

È questo il senso di un appello promosso da un gruppo di ambasciatori italiani non più in servizio, cui hanno aderito personalità varie. Osserva l’appello:

Tutti gli europei che si riconoscono operatori di pace vedono con angoscia aggravarsi in Ucraina la catastrofe umanitaria e l’estendersi del conflitto verso scenari devastanti, come dimostra il recente incidente in territorio polacco che ha sfiorato un confronto diretto fra Nato e Russia. Ribadiscono quindi che la via diplomatica va perseguita con ogni mezzo e si appellano alla saggezza di chi – Governi e personalità influenti – sia in grado di mediare fra le parti in conflitto.

La strada verso la pace richiede anzitutto un cessate il fuoco. Perciò, le organizzazioni e i cittadini che aderiscono all’appello, auspicano che i contendenti sospendano le ostilità nel periodo fra il Natale cattolico (25 dicembre) e il Natale ortodosso (7 gennaio). Se una tregua simile fu possibile durante la Prima guerra mondiale fra nemici storici, non si vede perché sia irrealizzabile oggi tra popoli slavi uniti dalla storia, dalla cultura e dal credo religioso.

Anche se gli armati di entrambe le parti potrebbero sfruttare quelle due settimane per rafforzarsi sui vari fronti di guerra, la tregua consentirà almeno ai civili inermi di vivere questo periodo – sacro a entrambi i contendenti – nel segno della pace natalizia.

Nulla impedisce, infine, di immaginare che un cessate il fuoco temporaneo persuada i contendenti a esperire ulteriori riduzioni delle ostilità, in modo da alleviare le inaudite sofferenze dei civili vittime incolpevoli di un conflitto fratricida.

Quest’anno i riti di Natale non hanno senso, checché ne pensi il Congresso americano, se non si leva alta l’invocazione per la pace. Chiediamo ai Governi della UE e a tutte le autorità politiche di attivarsi per richiedere una tregua, almeno nel periodo natalizio, con l’auspicio di consolidare il cessate il fuoco oltre questo periodo.

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Il patriottismo, una minaccia per l’umanità – Natale Salvo

« Che cos’è il patriottismo?
È l’amore per il proprio luogo di nascita, dei ricordi e delle speranze dell’infanzia, dei sogni e delle aspirazioni?
 ».

Così Emma Goldman, anarchica americana, ma russa d’origine, cominciava uno dei suoi discorsi più famosi [1].

« “Il patriottismo – proseguiva – è l’ultima risorsa dei furfanti”, ha detto il dr. Johnson. Leone Tolstoj, il più grande spirito antipatriottico dei nostri tempi, definisce il patriottismo come il principio che giustifica l’addestramento degli assassini su vasta scalauna professione che richiede attrezzature migliori per uccidere gli uomini che per far fronte a necessità della vita, come le scarpe, i vestiti o le case; una professione che assicura maggiori profitti e gloria che non quella del normale lavoratore ».

Emma Goldman: Il patriottismo è il sostenere la superiorità sugli altri

« Il patriottismo – spiega ancora Emma Goldman nel suo discorso – ritiene che il nostro globo sia diviso in piccoli lotti, ognuno circondato da un recinto di ferro. Chi ha avuto la fortuna di nascere in qualche punto particolare, si ritiene migliore, più nobile, più importante e più intelligente degli esseri umani che vivono in altri punti. È pertanto dovere di ognuno che vive in quel punto determinato di lottare, uccidere e morire nel tentativo di imporre la propria superiorità agli altri ».

La conseguenza logica è una sola: « Gli abitanti degli altri punti ragionano allo stesso, ovviamente, con il risultato che fin dalla prima infanzia la mente del bambino viene avvelenata con storie agghiaccianti sui tedeschi, i francesi, gli italiani, i russi etc. Quando il bambino raggiunge l’età adulta, è ormai imbevuto dell’idea di essere stato scelto da dio stesso per difendere il proprio paese contro l’attacco o l’invasione dello straniero. È questa la ragione per la quale richiediamo a gran voce un esercito e una marina più forte, più navi da guerra e più munizioni ».

La guerra è una lite tra due ladri, troppo vigliacchi per combattere in prima persona

L’oratrice, poi, smonta una delle tesi più diffuse tra i militaristi: « L’affermazione secondo cui un esercito e una marina forti sono la migliore garanzia di pace, è logica quasi quanto l’affermazione che il cittadino più pacifico è quello che va in giro armato di tutto punto. L’esperienza della vita quotidiana mostra che l’individuo armato è immancabilmente ansioso di provare la propria forza ».

Eccezionale la chiusura del ragionamento di Emma Goldman: « Come disse Carlyle, La guerra è una lite tra due ladri troppo vigliacchi per combattere in prima personaper questo essi prendono i giovani da questo o quel villaggio, li infilano nelle uniformi, forniscono loro i fucili e li lasciano liberi come bestie selvagge di sbranarsi tra loro” ».

Fonti e Note:

Credits: Photo by Tim Mossholder on Unsplash

[1] Gruppo anarchico Galatea, 22 aprile 2022, “Il Patriottismo. Una minaccia per la libertà” ( il discorso di Emma Goldman dell’aprile 1908 a San Francisco).

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Zelensky negli Usa: perché per il Washington Post il viaggio è stato un mezzo fallimento

In un articolo pubblicato sul Washington Post David Ignatius spiega che nel corso del viaggio di Zelensky negli Usa, che in realtà è stato un “summit di guerra”, si sono evidenziate ancora una volta le diverse prospettive con cui il presidente ucraino e quello Usa osservano il conflitto in corso.

Tra “pace giusta” e armi a lungo raggio

Non solo Biden ha negato ancora una volta a Kiev i missili a lungo raggio (per evitare la terza guerra mondiale), ma ha anche evitato accuratamente di parlare di “vittoria” sui russi, slogan brandito ben dodici volte dal suo ospite nel corso dei suoi discorsi (al Congresso e nella conferenza stampa successiva all’incontro con Biden).

Biden, al contrario, che sa perfettamente che “questa guerra quasi sicuramente non finirà con la totale eliminazione del potere bellico russo”, ha parlato della necessità di “fermare Putin” e di arrivare a una “pace giusta”.

Espressione, quest’ultima, non gradita da Zelensky che l’ha derubricata a “concetto filosofico”, aggiungendo che, da presidente, non può accettare “compromessi” sulla “sovranità, la libertà e l’integrità territoriale” del suo Paese.

C’è una differenza notevole tra pace e restituzione dei territori all’Ucraina, spiega giustamente Ignatius, dal momento che la pace, esplicitiamo, potrebbe non comportare necessariamente il ritorno di Kiev ai vecchi confini…

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La bozza della Finanziaria Usa nega (ora) le armi ai nazisti del Battaglione Azov – Davide Malacaria

Nella bozza dell’articolata norma Usa corrispondente alla nostra finanziaria si nota un particolare più che curioso. Il documento in questione si trova sul sito ufficiale del governo degli Stati Uniti e, alla fine, si rimanda ai finanziamenti per i vari capitoli di spesa previsti per l’anno fiscale 2023, divisi per settori (Difesa, energia etc).

Il documento relativo al settore Difesa si può visionare anche nello specifico, cliccando sui vari capitoli di cui si compone: Sommario | Scheda informativa | Dichiarazione esplicativa.

Se si clicca su “scheda informativa” si va a un documento alquanto articolato che, a pagina 129, riserva una sorpresa. Citiamo dal testo: “La sezione 8138 proibisce l’uso di fondi per fornire armi, addestramento o altra assistenza al Battaglione Azov”.

Bizzarro… media e opinionisti ci avevano spiegato in tutti i modi che tale Battaglione, punta di diamante dell’esercito ucraino, non era affatto impregnato della follia nazista, nonostante il fatto che il Congresso nel 2018 avesse deciso di vietare di inviare “armi alle milizie ucraine legate ai neonazisti”, come recitava il titolo riassuntivo di The Hill che dava notizia del veto posto dal parlamento Usa.

Non solo, a settembre una delegazione del Battaglione è stata anche ricevuta a Capitol Hill. Ne dava notizia Daria Kaleniuk in un tweet stupefacente: “Il momento più emozionante è stato quando abbiamo improvvisamente incontrato i soldati dell’Azov liberati proprio all’interno della sala principale del Campidoglio” (prigionieri, erano stati rilasciati dai russi in uno scambio di prigionieri con Kiev).

Nell’occasione la delegazione ha incontrato diversi esponenti politici americani, come riferiva Alaska News.

Eppure, e nonostante siano stati sdoganati in modo così esplicito, torna la diffidenza negli Stati Uniti, tanto da negar loro ancora una volta armi e addestramento (troveranno quanto serve in altro modo). Sanno perfettamente che la guerra non ha affatto cambiato la natura di tale movimento, rimasto neonazista nonostante l’opera di sbiancamento mediatica.

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I veri motivi del viaggio di Zelensky negli Usa – Francesco Masala

Un altro servizio su Vogue,

l’acquisto di nuove magliette verde militare,

il versamento degli utili sulle azioni in imprese di armi (che intuito finanziario) della borsa di Wall Street in nuovi paradisi fiscali,

la promessa e garanzia di altri 100mila morti ucraini nella guerra santa contro la Russia,

l’acquisto di una modesta casa a Manhattan, per la meritata pensione, solo 80 stanze,

il perfezionamento dei contratti con Monsanto e Gates per il passaggio di proprietà delle terre nere dallo stato ucraino alle multinazionali,

la scelta della clinica dove subirà le operazioni di plastica facciale, per evitare, se ci riuscirà, la vendetta dei parenti e amici dei morti ucraini da lui mandati al macello.

Le colpe dell’industria culturale

A volte uno si chiede se Hitler avesse fatto il pittore, quanti guai in meno avrebbe avuto il mondo; allo stesso modo se Zelensky avesse continuato a fare l’attore da quattro soldi che era, quanti guai in meno avrebbe avuto il mondo.

 

 

Il ruolino di marcia di un sistema basato sull’escalation bellica – Ogzero

La messinscena delle prime mosse per un negoziato

Consumati un po’ di arsenali, uccise 250.000 persone tra civili e militari nella pianura sarmata, misurate alleanze e potenzialità di imporre la propria supremazia, sembra che 3 incontri contemporanei lancino segnali precisi alle cancellerie internazionali: Zelensky con il cappello in mano a Washington, Putin a organizzare le truppe a Minsk, Medvedev a ricevere ordini a Pechino. Bisogna trovare una nuova area dove proseguire la guerra ibrida mondiale con lo scopo di misurarsi in preparazione del redde rationem.

Come si è arrivati qui

Si sono definitivamente composti in un unico giorno (il primo del gelido inverno nella steppa di famose ritirate della Storia) gli schieramenti e i ruoli dei singoli in questa che, come si era capito dal 24 febbraio, era la prima fase di una lunghissima guerra ibrida tra potenze – intrecciate dalla medesima ideologia neoliberista che impone complicati legami – da combattere sulla estesa scacchiera globale, con interessi ed economie dipendenti l’una dall’altra, ma a un punto di rottura dato dall’impressione di essere equiparabili e dunque entrambe le fazioni ritengono di potersi candidare al controllo globale come potenza di riferimento: gli Usa a difendere la propria supremazia, le potenze non democratiche a proporre il loro modello di sviluppo – comunque all’interno della visione capitalista del mondo.

La disposizione sul palcoscenico

E allora si usano media e incontri per marcare il territorio in vista della lenta composizione della disputa. Localmente: Biden prepara il terreno a un nuovo piano Marshall da aggiungere agli 85 miliardi già erogati per ricostruire e “mangiarsi” l’Ucraina come gli Usa hanno iniziato a fare dal 2014 di Maidan, quando Kiev era un satellite di Mosca (ha cominciato a parlarne “Fortune” già il 7 dicembre).
Intanto i russi attivano anche Lukašenka per annettersi quanto più territorio possibile e fare da cuscinetto al confine con la Nato, arrivando alle trattative con il massimo risultato possibile («La Russia fornisce alla Belarus’ petrolio e gas a condizioni molto favorevoli e preferenziali», ha commentato Interfax a proposito della visita a Minsk, ma come fa notare “ValigiaBlu“, Putin ha dichiarato che avevano concordato di «dare priorità all’addestramento delle nostre truppe… ci forniremo reciprocamente le armi necessarie e produrremo insieme nuovo materiale militare… per l’eventuale uso di munizioni aviotrasportate con una testata speciale») e arrivando gradualmente all’annessione della Bielorussia. Ognuno potrà investire in piani di ricostruzione che faranno girare denaro utile per una nuova spirale virtuosa economico-finanziaria.
Globalmente la Cina si schiera, schermendosi – probabilmente anche per partecipare agli appalti – e senza impegnarsi direttamente in questa Prima guerra del confronto del mondo contro la Nato (che Trump aveva azzerato e Biden resuscitato, investendo una quantità di miliardi inimmaginabile), detentrice di una primazia in parte erosa dal multilateralismo di forze intermedie pronte a schierarsi in modo autonomo volta per volta, come la Turchia – appartenente alla Nato! – o l’India (due specchiati esempi di democratura), o anche i paesi del Golfo sempre più impegnati in attività di maquillage, ma anche di autonomizzazione dallo schieramento filoamericano…

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scrive Andrea Zhok

Nel febbraio di quest’anno, nelle settimane precedenti all’ingresso delle truppe russe in Donbass si discettava su giornali e talk show delle prospettive possibili.

A chi invitava a considerare come sensata, e anzi conveniente, la rinuncia dell’Ucraina all’ingresso nella Nato, l’accettazione di uno statuto di neutralità, e la concessione di un grado di autonomia amministrativa alle province russofone (come da accordi di Minsk II) – sempre nell’ambito dello stato ucraino, a questi gli esperti di regime ribattevano rabbiosamente che era una prospettiva inaccettabile, che ne andava della sovranità ucraina, che uno stato doveva avere il diritto di scegliere le proprie alleanze militari. (NB: l’autonomia amministrativa dell’Alto Adige è motivata dalla presenza del 69% di popolazione germanofona; nelle zone di Donetsk e Lugansk la popolazione russofona prima della guerra superava il 90%).

E ancora all’indomani dell’invasione, c’era chi raccomandava di intavolare il più rapidamente possibile trattative di pace invece di inviare armi, perché questo avrebbe prolungato indefinitamente il conflitto, e ciò sarebbe stato pagato duramente dagli ucraini in primo luogo e dall’Europa tutta in secondo luogo.

A questi gli stessi esperti a molla rispondevano stizziti che era una questione di sovranità, che c’era un aggressore e un aggredito, che non era il momento delle trattative, che l’Europa ne sarebbe uscita più forte di prima (ho un ricordo distinto di un noto giornalista e di un ex ambasciatore in uno studio televisivo che sostenevano con veemenza queste tesi in risposta al sottoscritto.)

Oggi, a nove mesi di distanza, l’Ucraina comincia ad apparire come un cumulo di macerie congelate e 6 milioni di profughi ucraini sono già arrivati nell’Unione Europea (la più grande crisi di rifugiati in Europa dal 1945) e almeno altrettanti si stanno preparando.

Per il solo anno in corso la stima dei costi vivi per l’ospitalità europea ammonta a 43 miliardi di euro. I morti al fronte sono nell’ordine di grandezza del centinaio di migliaia.

La colossale fornitura di armi da parte della Nato (tre volte il budget annuale russo) ha preso in buona parte la strada del mercato nero, dove si trovano oramai a prezzo di saldo missili terra-aria, mortai, mitragliatrici pesanti, ecc. (la criminalità organizzata se ne gioverà per decenni).

Quanto alla “sovranità” ucraina che andava difesa a tutti i costi, anche i più distratti sanno oggi che era una fiaba da tempo: è noto il supporto e sostegno americano al colpo di stato di Maidan, così come sappiamo delle entrate a gamba tesa dell’ex presidente Biden sui giudici ucraini che perseguivano gli affari ucraini del figlio Hunter.

Quanto all’idea che l’Ucraina “sovrana” non rappresentasse alcuna minaccia e non ci fosse nessuna concreta possibilità che diventasse parte della Nato, nel frattempo è emerso serenamente che da dopo gli accordi di Minsk II (2015) la Nato stava addestrando l’esercito ucraino, rifornendolo di armi, costruendo fortificazioni, e che la firma degli accordi era stata solo un espediente per prendere tempo e consentire all’Ucraina di rafforzarsi militarmente (testimonianza diretta dell’ex presidente Poroshenko, oltre che di diversi ufficiali USA).

Sempre nell’ottica della tutela della sovranità ucraina, nel frattempo la Russia si è stabilizzata in buona parte dei territori conquistati, Mariupol è stata addirittura già parzialmente ricostruita, si sono tenuti referendum di annessione, e la prospettiva che questi territori ritornino in mano ucraina è ritenuta risibile persino dai vertici americani.

Il conflitto si è oramai caratterizzato esplicitamente come un conflitto tra la Nato e la Russia, anche se nessuno vuole che ciò sia riconosciuto ufficialmente perché rappresenterebbe una deflagrazione mondiale. Sul territorio ucraino combattono oramai in sempre maggior misura “volontari” stranieri, con istruttori Nato, armamenti Nato, finanziamenti dei paesi Nato. L’esercito regolare ucraino ha perduto da tempo le truppe più “combat-ready” e rappresenta oramai solo la carne da macello per sanguinose sortite periodiche.

Intanto l’Europa è in piena stagflazione, con la progettazione in corso di nuovi stabilimenti da parte del comparto industriale che sta già avvenendo fuori dai confini europei.

Infatti il taglio politico netto avvenuto nei confronti della Russia ha creato una crisi terminale nell’approvvigionamento di energia e materie prime, giacché tutti i principali attori non direttamente subordinati agli USA stanno assaporando per la prima volta la possibilità di far valere il proprio potere contrattuale di fornitori di materie prime – potere contrattuale accresciuto enormemente con il quasi-blocco degli approvvigionamenti da Russia e Ucraina. Senza energia e materie prime l’Europa è un museo morente.

Come prevedibile e previsto da molti sin da febbraio, la strada presa nove mesi fa sta conducendo esattamente dove doveva condurre.

Non abbiamo “salvato gli ucraini”, ma abbiamo alimentato e prolungato un processo che ne sta cancellando il paese e ne ha fatto morire decine di migliaia.

Non abbiamo “salvato la sovranità ucraina”, sia perché essa era già quasi inesistente (ed oggi è ridotta a pupazzi e attori), sia perché lo stato ucraino si è dissolto, un quarto della sua popolazione è migrata, e le perdite territoriali saranno quasi certamente definitive.

In compenso abbiamo sventrato quel poco che rimaneva in piedi dell’Europa, che sta perdendo in tempi rapidissimi il suo unico vero “asset” competitivo, cioè le capacità di trasformazione industriale (in assenza di fonti energetiche abbondanti e a buon prezzo questa direzione è senza ritorno).

Ma magari qualcuno potrebbe sperare che, dopo tutto, a un tracollo spesso segue una palingenesi, e che magari sarà la volta buona, no?

Solo che a mettere la vera pietra tombale su qualsiasi speranza di rinascita sta la rilevazione del tappo strutturale che blocca ogni possibilità di consapevolezza e rinnovamento: tutto il circo mediatico degli “esperti” e degli “accreditati”, tutta la banda di falliti di successo, di paraninfi del potere che creano e plasmano la famosa “opinione pubblica” sono lì, fermi in sella, e continueranno la loro azione di avvelenamento, manipolazione e inganno a tempo indefinito.

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Mi chiede aiuto, ma io non posso farci nulla” – Vittorio Nicola Rangeloni

La pressione ucraina su Donetsk si è allentata rispetto alle settimane precedenti, quando più volte al giorno la città veniva colpita da numerosi razzi. In questo periodo giorno e notte ho cercato di mostrare in tempo reale quello che accadeva, testimoniando distruzione, morte, macerie e disperazione. I ritmi erano tanto intensi da non avere tempo per fermarmi a riflettere e cogliere dettagli più profondi. Per affrontare queste situazioni bisogna chiudersi, nascondersi nella propria corazza. E non parlo del giubbotto antiproiettile, che comunque può proteggere dalle schegge. Bisogna cercare di non farsi coinvolgere dalle emozioni e di non assorbire la reazione delle persone; serve rimanere indifferente davanti ai corpi senza vita o alle imponenti macerie, così come è meglio evitare di pensare al fatto che lungo diverse strade che percorri ogni giorno ci sono conficcati decine di razzi e che altri potrebbero cadere in qualsiasi momento. Eppure tutto ciò non sempre è possibile, anche quando sei convinto di essere abituato a tutto.

Pochi giorni fa ho raggiunto una casa colpita da un razzo. Il tetto ed il solaio erano crollati sull’appartamento del quinto piano travolgendo una donna. Sul luogo sono immediatamente intervenuti i vigili del fuoco, accorgendosi delle grida della signora. La situazione era drammatica e rischiosissima, non c’è stato nemmeno il tempo per attivare l’autogru per sollevare la lastra di cemento armato divenuta una trappola mortale che ogni secondo cedeva sulle altre macerie schiacciandole il corpo.

«Se rimuoviamo le macerie da questa parte c’è il rischio che il solaio le schiacci la testa!», ha esclamato uno dei soccorritori.

Intanto un secondo pompiere fissava le macerie, dalle quali provengono le grida disperate della donna.

«Credi che sia possibile tirarla fuori viva?», chiedo al ragazzo.

 

Dai suoi occhi improvvisamente iniziano a scorrere lacrime. «Lei mi chiede aiuto, ma io non posso farci nulla».

Non avevo mai visto piangere un vigile del fuoco. Anche nelle situazioni più difficili hanno sempre trasmesso speranza e sicurezza. Per la prima volta in tutti questi mesi si è aperta una crepa lungo il mio muro interiore che in casi come questo blocca ogni coinvolgimento emotivo.

«Non rimane tempo, dobbiamo provare il tutto per tutto. Così è destinata a morire in pochi minuti. Se proviamo da quest’altro punto a sollevare la lastra… le probabilità sono scarse, ma non ci sono alternative. Potrebbe funzionare!», ha proposto il terzo uomo presente attorno alle macerie…

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LA CENSURA DI ZELENS’KIJ

Adesso scriviamo una di quelle cose che, nella follia informativa generata dall’invasione russa del 24 febbraio, ti fa immediatamente definire “putiniano”. In Ucraina manca solo una firma, quella del presidente Zelens’kij, all’instaurazione della censura totale sui media e sulla libertà di stampa. Siamo a livelli russi, per intenderci, con la differenza che dell’Ucraina e di chi la governa non si può dir nulla di critico. In poche parole: il Parlamento ucraino (dominato, come si sa, dal partito zelenskiano Servo del popolo, che ottenne la maggioranza assoluta dei seggi nelle elezioni anticipate del 2019) ha appena approvato un progetto di legge che consegna al Consiglio Nazionale per la Tv e la Radio, cioè a un organismo statale, un potere assoluto di intervento e di censura su tutti i media. Come scrive Open Democracy (ripetiamolo: Open Democracy), una cosa simile non era successa né sotto la presidenza di Leonid Kuchma né sotto quella di Viktor Yanukovich, due che coi giornalisti avevano rapporti burrascosi. La cosa più divertente è che questa legge era già stata discussa nel 2020, suscitando opposizioni tali da essere rimandata in Parlamento per modifiche. Che sono state fatte, ma in peggio. E che ora vengono giustificate con la necessità di adeguare la legislazione alle richieste dell’Unione Europea, in vista della futura adesione dell’Ucraina alla Ue!

Ricardo Gutierrez, segretario generale della Federazione europea dei giornalisti, ha già definito questa legge “degna dei peggiori regimi autoritari”. Parere condiviso dall’Unione Nazionale dei Giornalisti ucraini. Ma ormai manca solo la ratifica di Volodymyr Zelens’kij, che di certo arriverà. Il contesto la reclama. Approfittando del consenso raccolto in patria e fuori come leader di un Paese aggredito, delle leggi legate all’emergenza Donbass prima e poi della legge marziale varata con l’invasione russa, e della trasformazione del Parlamento in una mera cinghia di trasmissione del potere presidenziale, Zelens’kij prima ha fatto fuori i media dell’opposizione, poi ha accorpato quelli rimanenti in un unico canale televisivo controllato dallo Stato (United Marathon) e adesso completa l’opera istituendo ufficialmente la censura di Stato. Nel frattempo, ha messo fuorilegge tutti i partiti di opposizione, persino quelli non rappresentati in Parlamento, sta mettendo fuorilegge la Chiesa ortodossa russa-Patriarcato di Mosca (i cui beni, dalle chiese ai monasteri ai seminari, verranno trasferiti alla Chiesa ortodossa ucraina, Chiesa fantoccio creata con un’operazione politica dal presidente Poroshenko nel 2018) e, con centinaia di accuse di tradimento o di collaborazione con l’invasore russo (intanto uso la legge marziale, ti accuso e ti faccio indagare, poi vediamo) conduce una specie di purga continua ai danni di chi non è più considerato un fedelissimo, di chi obietta, di chi occupa un posto da assegnare a qualcun altro. Sono più di un migliaio, ormai, i fascicoli aperti per ipotesi di tradimento, anche e soprattutto ai danni di dirigenti che fino a un attimo prima erano in posizioni apicali del sistema di potere zelenskiano.

Di tanto in tanto qualche granellino di polvere si infila nell’ingranaggio della censura. Il 13 dicembre, per esempio, la Corte di Cassazione ha annullato il decreto con cui Zelens’kij, nel dicembre 2020, aveva destituito il capo della Corte Costituzionale Alexander Tupitsky, colpevole di contestare la costituzionalità di una serie di leggi care al Presidente. A quel tempo, la decisione di Zelensky fu contestata da molti giuristi, perché tra i poteri del Presidente in Ucraina non c’è quello di fare e disfare a piacimento la Corte Costituzionale. Peccato che Tupitsky, minacciato con accuse di “tradimento” perché risultato proprietario di un terreno in Crimea comprato mille anni prima, sia stato costretto a scappare all’estero e poi inserito nella lista dei ricercati per aver lasciato illegalmente il Paese in regime di legge marziale. E così via, sotto lo sguardo benevolo dell’Europa dei valori e dei diritti.

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DIRE PACE PER PROSEGUIRE LA GUERRA – Fulvio Scaglione

Arrivati al decimo mese di guerra in Ucraina dopo l’invasione russa, gli spiriti di buona volontà che sperano di bloccare questo massacro assurdo si trovano ad affrontare un grosso errore, che sta in questo: non si può, anzi non si deve parlare di colloqui «di pace». Chi lo fa, o finge un’aspirazione alla pace che non ha o non si rende conto che il massimo ora raggiungibile è un cessate il fuoco. La pace sarà un lavoro molto più lungo e complicato. La questione tra Russia e Ucraina ha radici assai lunghe di cui la guerra è, solo e purtroppo, il culmine. Dipanare la matassa per arrivare a una pace vorrà dire analizzare e rimontare i trent’anni trascorsi dalla fine dell’Urss e sarà un lavoro improbo. Il grosso errore, però, sta dentro un’enorme ipocrisia: quella di parlare di pace ponendo condizioni che, di fatto, la rendono impossibile. È successo esattamente questo nei giorni scorsi, con le dichiarazioni incrociate di Joe Biden, Emmanuel Macron e Vladimir Putin.

Biden, ricevendo il presidente francese alla Casa Bianca, si è detto pronto a incontrare Vladimir Putin appena questi avesse interrotto le operazioni in Ucraina e avesse riportato in Russia le truppe. Macron ha detto che non cercherebbe mai di spingere «gli ucraini a un compromesso inaccettabile per loro, perché ciò non permetterebbe di costruire una pace giusta». E Putin ha replicato ai due sostenendo che le operazioni in Ucraina continuano e che «il rifiuto degli Usa di riconoscere i territori recentemente annessi alla Russia compromette le possibilità di dialogo».

Se traduciamo dal politichese, arriviamo più o meno a questo: nulla. Putin non si ritirerà mai dall’Ucraina (come chiede Biden) perché sarebbe la sua fine politica e perché anche la Russia, come l’Ucraina, può tenere aperta la piaga all’infinito, come si è già visto nel Donbass tra il 2014 e il 2022. Il compromesso inaccettabile per gli ucraini di cui parla Macron è, stando alle dichiarazioni di tutti i maggiori dirigenti da Zelensky in giù, qualunque cosa non preveda il ritiro dei russi al di là dei confini del 1991, con la restituzione della Crimea e del Donbass, ed è cosa irrealizzabile a meno di un crollo verticale della Russia che oggi, a dispetto di nove pacchetti di sanzioni, è poco immaginabile. E Putin, quando chiede agli Usa di riconoscere l’annessione dei territori ucraini, sa benissimo di provocare, perché è proprio per evitare esiti come questo che l’Occidente si è schierato con gli ucraini.

Come abbiamo ripetuto ormai decine di volte, questa guerra ha un aggressore, la Russia, e un aggredito, l’Ucraina. Chi pensa che una «pace giusta» passi per la vittoria totale delle ragioni dell’aggredito su quelle dell’aggressore, però, rischia di risultare più romantico che efficace. Se quel «totale» non è possibile, e al momento pare proprio che sia così, non resta che accettare l’idea che la pace meno ingiusta è la pace possibile. Quindi un compromesso. Che pare più umiliante per l’aggredito, ma solo se si guarda alla questione da lontano. Siamo sicuri che la pensino così, per esempio, gli abitanti della regione di Kharkiv che dopo i bombardamenti russi, come hanno comunicato le autorità locali proprio ieri, non hanno più un solo impianto in grado di generare energia elettrica, e quindi devono confidare nell’aiuto delle altre regioni, anche loro duramente colpite? O che sia facile per gli ucraini trovare i 4 miliardi di dollari con cui comprare il gas che serve loro per superare questo inverno?

Molti temono che un cessate il fuoco, un negoziato o qualunque cosa non sia la guerra, consenta alla Russia di riorganizzarsi e rimettersi in forze. A parte che questo varrebbe anche per l’Ucraina e per gli ormai esausti arsenali europei e forse anche americani, c’è una miopia di fondo nel ragionamento: è proprio la guerra che spinge la Russia a riorganizzarsi, a stabilire nuove alleanze, a (darwinianamente) adattarsi alle nuove circostanze. In un mondo che, come dimostrano la Cina, la Turchia, l’India, l’Arabia Saudita, i Brics e i Paesi del Trattato di Shanghai, sempre più spesso prende le distanze dall’Occidente e dai suoi principi, sbagliati o giusti che siano. Siamo sicuri che ci convenga lasciar andare quel processo? Che alla fine il pericolo non cresca invece di diminuire?

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Putin “scomparso dalla vita pubblica” riappare oggi con questo messaggio all’UE – Marinella Mondaini

 Proprio oggi la stampa italiana dava per “scomparso dalla vita pubblica” il presidente russo. Cosa che è naturalmente lontana dalla verità. Vladimir Putin era impegnato invece a preparare un discorso molto importante che ha pronunciato oggi.

Come da tradizione, alla fine dell’anno Putin tiene una riunione del Consiglio per lo sviluppo strategico e i progetti nazionali per fare una profonda valutazione di ciò che è stato fatto per raggiungere gli obiettivi nazionali, nonché esporre le linee guida fondamentali e integrali per il paese sviluppo fino al 2030.

Ecco i passi salienti, che ritengo di grande importanza per l’Europa, a cui le autorità dell’Ue farebbero bene a recepire con rispetto e particolare attenzione.

“Ritengo necessario delineare i compiti più importanti della politica statale per il prossimo anno, il 2023, e proporre nuove soluzioni che ci consentano di svilupparci con più sicurezza e rispondere alle sfide con le quali si scontra oggi l’economia del nostro paese, e anche i nostri cittadini, tenuto conto dei cambiamenti profondi e seri che il mondo intero sta vivendo…

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Guerra “igiene” del capitale. Il conflitto in Ucraina nell’attuale fase imperialista – Carla Filosa – Enzo Gamba – Francesco Schettino

Nazione, classe, democrazia

La necessità di affrontare il fattore guerra, non solo nei suoi passaggi cronologici, ma soprattutto nel suo significato di fase imperialistica mondiale, non può disattendere una riflessione ulteriore almeno sui concetti di nazione, classe e democrazia, il cui senso risulta prevalentemente confuso o proprio ormai sconosciuto.

Nell’accezione moderna di nazione (F. Chabod, 1943-44)[1] si affermava un principio romantico di unità dell’individualità storica, dalle caratteristiche di tradizione e di pensiero non solo etniche e linguistiche, di un particolare quindi, di contro a tendenze livellatrici, cosmopolitiche, universalizzanti, quali quelle ereditate dall’Illuminismo, mentre la direzione specificamente politica era lasciata allo stato. Pertanto, non solo elementi naturalistici (clima-terreno), ma tendenze politiche e religiose nei costumi e usanze, anima, spirito, libertà che nulla avevano a che fare con il successivo sviluppo nazionalistico connotato dal razzismo, come comunità di sangue, del suolo, congiuntamente a una preminenza aggressiva in antitesi all’unitaria idea di Europa. A tale concezione liberale, che non facciamo fatica a riconoscere oggi quale involontaria base della destra nostrale e non solo, si contrapponeva un’altra visione nazionale, sorta sempre in Europa, non già idilliaca ma interna alla consapevolezza della conflittualità della realtà materiale e storica.

Che la “fratellanza delle nazioni” di cui scriveva Engels nel 1845[2] si sia dispersa – proprio ad opera dell’ipocrita “cosmopolitismo egoistico-privato della libertà di commercio” allora così definito – sembra oggi un’ovvietà o addirittura una condizione mai esistita. Quella prospettiva di “fratellanza”, successiva alla Rivoluzione francese e predisposta dal progressivo avanzare del socialismo europeo ottocentesco, aveva lasciato intravedere, allora, che: “la democrazia, al giorno d’oggi, è il comunismo”.

La democrazia quindi come principio proletario, delle masse, quale collante egualitario delle nazioni divise in classi, nella prospettiva della realizzazione del comunismo. “Le masse possono avere una coscienza più o meno chiara di questo significato della democrazia, ma tutti hanno almeno l’oscuro sentimento dell’eguaglianza dei diritti sociali nella democrazia. Le masse democratiche possono essere tranquillamente incluse nel novero delle forze che combattono per il comunismo. E se i partiti proletari di diverse nazioni si uniscono, hanno tutto il diritto di scrivere sulle loro bandiere la parola “democrazia” perché nel 1846 tutti i democratici europei, ad eccezione di quelli che non contano, sono più o meno chiaramente comunisti.”[3]

A soli 176 anni di distanza, nel 2022, sembra siano passati miliardi di anni luce da quel concetto di comunismo inscindibilmente legato a quello di democrazia, in cui l’eguaglianza politica di classe era tutt’uno con l’eguaglianza sociale ed economica. Il proletariato inoltre – sempre dalle parole di Engels – esprimeva una cultura priva di divisivi pregiudizi nazionali e con obiettivi umanitari, capaci di fraternizzare con le varie nazioni. In quella fase del capitale, il proletariato provava a considerarsi erede così della Rivoluzione francese del 1789, che aveva posto le basi per la distruzione dell’ineguaglianza, cui Wilhelm Weitling aggiungeva anche: “per la distruzione della tirannide”. Questa, infatti era correttamente individuata nel potere del denaro (egualmente operante in regime autoritario o democratico, diremmo noi oggi!), i cui possessori erano considerati nemici dei lavoratori in tutti i paesi e nemici del genere umano. I poveri, prodotti dal processo di immiserimento parallelo a quello dell’arricchimento, quindi, ridotti a “strumenti costretti e inconsapevoli”, erano residui oggetti di manipolazione ideologica il cui maggior numero era stato già definito quale indice della prosperità o “Ricchezza delle Nazioni”.

Quale memoria rimane oggi di tale realtà storica?

Nessuna memoria del concetto di comunismo, considerato definitivamente sepolto nell’abisso che ha inghiottito l’URSS, dunque nella potenzialità rivoluzionaria storica sempre aperta, ma ora saldamente (?) controllata dal digitale o dall’Intelligenza Artificiale.

Non ci si è dimenticati però dell’eguaglianza, ironicamente riservata ai lavoratori atomizzati per il solo loro sfruttamento come massa divenuta ormai mondiale, asservita e sempre più ricattata nell’ulteriore impoverimento preordinato.

Non è stato nemmeno rimosso il concetto di classe, solo quella che conta però, ovviamente padrona e sicura nel sostenere che, come affermato poco tempo fa dal ricchissimo Warren Buffet, la guerra di classe non solo esiste, ma la sta vincendo la classe dei ricchi. Le classi sono modo di esistenza delle forze produttive nel loro sviluppo[4]. Gli esseri umani, cioè, lavorano su una base tecnica relativa a un determinato stadio del modo di produzione, in un processo le cui leggi interne regolative sono peculiari. La specificità del modo di produzione capitalistico è la produzione di valore, una prima forma di movimento i cui fenomeni sono i salari, i profitti, l’interesse, ecc. L’eguagliamento poi tra la “circolazione delle merci” prodotte e il denaro – sulla falsariga dell’analisi marxiana – è la prima determinazione concettuale del valore che: eguaglia i lavori, scarta l’inutile o il non comprato, riduce permanentemente la quantità di lavoro a “lavoro necessario”, è alla base della formazione dei prezzi, ecc.

Rimasto infine saldo il termine democrazia, ovviamente deviandolo a partire dalla stessa base etimologica per il suo uso ideologico al servizio del potere istituzionale, delegato a riprodurre accumulazione, monopolio dei mercati, gestione finanziaria delle risorse energetiche e delle zone di guerra, ove acquisire profitti e/o distruggere capitali altrui. La democrazia così capovolta e denaturata permette la gestione oligarchica di capitali transnazionali, liberi di competere tra loro o farsi continue guerre anche per procura, nell’indifferenza di masse travolte nell’impotenza della sottomissione alla mancanza di lavoro o alla sua inadeguata remunerazione precarizzata…

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John Mearsheimer e Carl Bildt sulle prospettive della guerra in Ucraina – Roberto Buffagni

Su un recente dibattito tra John Mearsheimer e Carl Bildt sulle prospettive della guerra in Ucraina

È del massimo interesse questo dibattito del 4 dicembre 2022 (link in calce) tra John Mearsheimer e Carl Bildt sulla guerra in Ucraina, organizzato nell’ambito del norvegese Holger Prize (dalla pagina FB del premio: “The Holberg Prize is an international research prize in humanities, social sciences, law & theology.”).

John Mearsheimer, docente all’Università di Chicago, decano degli studiosi di International Relations, non ha bisogno di presentazioni, perché è divenuto familiare anche al grande pubblico proprio per le sue posizioni minoritarie sulla genesi e le prospettive della guerra in Ucraina. Carl Bildt è una personalità importante del mondo politico svedese: ex Ministro degli Esteri, ex Primo ministro. Ha rivestito ruoli di grande importanza nella politica internazionale: inviato speciale UE nella ex Jugoslavia dal giugno 1995, co-presidente della Conferenza di Pace di Dayton che condusse agli accordi di pace del novembre 1995, Alto Rappresentante per la Bosnia Erzegovina dal dicembre 1995 al giugno 1997, subito dopo la guerra di Bosnia.

Nel 2008, fu il primo Ministro a rendere visita al Kosovo dopo la sua dichiarazione unilaterale di indipendenza. Nel maggio 2015 Bildt è stato nominato membro dell’ “Ukraine International Advisory Council on Reforms”, formato da diversi consulenti stranieri al presidente ucraino Petro Poroshenko, con l’obiettivo di migliorare la sicurezza e l’economia dell’Ucraina. Fa parte del Board of Trustees della RAND Corporation, della Trilateral Commission, di vari altri importanti organismi euro-atlantici. ( https://en.wikipedia.org/wiki/Carl_Bildt)

Perché questa lunga presentazione di Carl Bildt? Perché la sua vicenda politica personale ne fa un attendibile portavoce delle posizioni maggioritarie UE e NATO in merito alla guerra in Ucraina. Non le compendio per intero. È facile seguire il dibattito per chiunque abbia una discreta conoscenza della lingua inglese, perché Mearsheimer si esprime sempre articolando l’eloquio con la massima chiarezza, e cerca, trovandola, la formulazione più semplice e accessibile dei concetti; e Bildt è un esperto oratore che parla un inglese internazionale facilmente comprensibile. Inoltre, è possibile avvalersi della sottotitolatura automatica, quasi sempre corretta (ho verificato).

Mi concentro su un unico aspetto delle posizioni di Bildt, in merito alle prospettive strategiche del conflitto ucraino.

In buona sostanza la posizione di Bildt, che possiamo ritenere la posizione maggioritaria in seno al blocco occidentale UE + NATO, è la seguente.

Non è possibile accedere a trattative diplomatiche con la Russia prima che essa si sia ritirata dall’Ucraina. Sullo status della Crimea è (forse) possibile trattare, sul ritiro definitivo dal resto del paese, no. Motivo: l’invasione russa annuncia un più vasto tentativo imperialistico russo, del quale l’Ucraina è solo il primo passo; il principale e praticamente il solo responsabile ne è il Presidente Putin, che ha forzato la mano alle élites russe ove invece fermenta un vasto e aspro dissenso. Ogni trattativa prima del ritiro è impossibile perché essa creerebbe un pericoloso precedente di cedimento al ricatto della forza (esemplificato con la politica europea e britannica di appeasement nei riguardi delle rivendicazioni di Hitler nel 1938-39). La sola prospettiva di soluzione del conflitto è la sconfitta militare e politica della Russia, ottenuta grazie alla resistenza ucraina, all’effetto delle sanzioni, e soprattutto alla crescita del dissenso interno alla classe dirigente russa, che risulterà in una rimozione del Presidente Putin e in una nuova configurazione della politica russa, più favorevole all’Occidente e più aderente alle caratteristiche politiche e socio-economiche da esso predilette; ciò che andrebbe a beneficio della stessa Russia, che conoscerebbe così un migliore sviluppo economico nella libertà.

Non sono posizioni nuove, ma sono esposte con una coerenza e una chiarezza insolite, meritevoli di grande attenzione.

Ma quel ch’è meritevole della massima attenzione è che nella prospettiva di Bildt, maggioritaria in Occidente, non esiste un piano B: ossia, non viene neppure presa in considerazione la possibilità che la Russia NON perda: NON perda sul piano militare, e NON perda sul piano politico e sociale, ossia che NON si verifichi la crisi di fiducia nel Presidente Putin, la sua rimozione, la nuova configurazione politica favorevole all’Occidente della Russia, etc. Che cosa facciamo se il piano A non funziona? Non si sa. Anzi: è impensabile che non funzioni.

Mearsheimer non solleva questa obiezione, nonostante ritenga più probabile una vittoria militare russa, e non creda probabile una rimozione di Putin e una riconfigurazione favorevole all’Occidente della politica russa (si veda a questo proposito l’intervista a Mearsheimer del 30 novembre: https://unherd.com/2022/11/john-mearsheimer-were-playing-russian-roulette/) . Presumo non lo faccia per non far disperdere il dibattito in una controversia priva di sbocchi sulle valutazioni della situazione militare, sempre difficile e nel caso presente difficilissima per effetto delle opposte propagande e infowars; d’altro canto, il nocciolo del suo argomento, come si vedrà seguendo il dibattito, prescinde dall’esito militare del conflitto.

Rilevo io, nel mio piccolo, questo dato caratteristico della posizione euro-atlantica maggioritaria. È un dato della massima importanza perché implica, da parte delle classi dirigenti UE, NATO, USA:

  1. Una sottovalutazione pregiudiziale delle capacità militari e politiche russe
  2. Una sopravvalutazione pregiudiziale delle capacità militari e politiche occidentali (anzitutto USA)
  3. Un vuoto di previsione strategica da parte occidentale, che annulla i margini di manovra politica e diplomatica. Ovviamente, l’irrigidimento su una sola opzione strategica accettabile da parte dell’Occidente aumenta vertiginosamente la posta politica che esso mette in gioco, elimina i margini di compromesso e trasforma un eventuale fallimento in una sconfitta politica di prima grandezza…

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Le 5 principali criticità dell’Ucraina – Enrico Tomaselli

Nell’ambito del conflitto con la Russia, l’Ucraina deve affrontare – al momento – cinque criticità.

La prima è quella economica. Kyev è entrata in guerra che era già praticamente in default, ma adesso la situazione è drammatica, perché ovviamente gran parte delle attività produttive si sono fermate, le regioni più ricche sono sotto controllo russo, una parte significativa della popolazione attiva o è sotto le armi o è fuggita all’estero; anche se i paesi della NATO stanziano continuamente aiuti, la gran parte è costituita da armamenti, ed i trasferimenti di denaro spesso arrivano assai dopo lo stanziamento. Di conseguenza, Kyev è costretta a stampare denaro per sopperire alle necessità immediate, ma questo ovviamente alimenta l’inflazione, e crea un avvitamento dell’economia.

La seconda è quella energetica. Con la sistematica distruzione delle infrastrutture elettriche, l’intero sistema sociale (produttivo, amministrativo, logistico, di comunicazione) è prossimo al collasso. In queste condizioni, anche solo superare l’inverno – al netto degli ulteriori danni di guerra – sarà assai complicato, ed i segnali di insofferenza si moltiplicano all’interno della società ucraina: non più solo tra le truppe al fronte, o la popolazione civile, ma anche tra alcuni esponenti politici (e, cosa più rilevante, alcuni oligarchi).

La terza è quella delle perdite al fronte. La quantità di caduti è notevolissima, anche se il governo cerca di nasconderlo, e probabilmente sottostimata anche dagli osservatori internazionali più attenti. Da fonti affidabili, è trapelato un documento interno da cui risulta che i militari dati per dispersi (ma che in realtà sono caduti, abbandonati sul posto) superano i 35.000. Basta questo dato per comprendere che, con tutta probabilità, i caduti effettivi siano oltre 300.000. A questi vanno aggiunti i feriti – in genere il rapporto con i morti è di 4 a 1, quindi oltre un milione… Feriti che sempre più spesso non c’è possibilità di curare adeguatamente, per sovraffollamento, mancanza di energia elettrica, mancanza di sangue per le trasfusioni, mancanza di mezzi di trasporto. Di conseguenza, non solo sale la mortalità anche tra i feriti, ma al peggiorare delle condizioni di ospedalizzazione si aggravano le condizioni dei feriti stessi, ed aumenta l’incidenza di quanti non possono tornare al fronte. Al di là del dramma umano, queste perdite si riflettono sulla capacità di combattimento delle truppe, sempre più composte da reclute con poco o nullo addestramento.

La quarta criticità, emersa negli ultimi tempi, è la scarsità di munizionamento per l’artiglieria. La guerra in corso è una guerra d’attrito, in cui il consumo di munizioni è semplicemente enorme. Gli ucraini consumano in un giorno la quantità di munizioni d’artiglieria che gli USA consumavano in un mese in Afghanistan. E sono comunque ben al di sotto del volume di fuoco russo. A questo punto del conflitto, però, le scorte di munizionamento di epoca sovietica sono esaurite, né c’è possibilità di riprenderne la produzione (il che significa che, semplicemente, questi sistemi d’arma rimarranno inutilizzati). Lo stesso dicasi per quelle fornite dalla NATO: i paesi dell’Alleanza hanno esaurito le proprie scorte, e stanno intaccando la dotazione dei reparti. Aumentare la quantità prodotta di queste munizioni richiede comunque uno/due anni, per adeguare le linee di produzione ed il personale addetto, quindi si va verso una situazione in cui la capacità di fuoco dell’artigliera ucraina sarà sempre più ridotta, e per un periodo non breve.

La quinta criticità, che comincia ora ad emergere, è quella nel settore delle difese anti-missile. Come per il munizionamento d’artiglieria, le scorte di missili per i sistemi d’epoca sovietica (Buki, S-300) sono ormai all’esaurimento. I paesi NATO, sia pure con grande riluttanza, e con grande parsimonia, stanno trasferendo sistemi occidentali (NASAMS, SAMP-T, MIM-104 Patriot), che però hanno il ‘difetto’ di costare moltissimo, e di richiedere personale altamente specializzato per l’utilizzo. Ciò significa non solo che, almeno inizialmente, dovranno essere gestiti da personale militare NATO, ma che il loro stesso utilizzo sarà limitato ed estremamente rischioso. Il SAMP-T, per dire, di cui Francia ed Italia forniranno due sistemi, costa 800 milioni. Se viene distrutto, le probabilità che venga sostituito sono praticamente pari a zero. Il punto è che questi sistemi (pochi e costosissimi) dovranno essere utilizzati per fronteggiare lanci massicci di missili e droni molto più economici, e che quindi possono essere utilizzati – come già accade – a saturazione d’area. Ovvero, se si vuole colpire un obiettivo, vi si lanciano contro vari missili e droni, in modo tale che se pure una parte viene abbattuta il resto raggiunge comunque l’obiettivo. Inoltre, i russi usano anche la tattica di lanciare dei missili specificatamente pensati per ingaggiare e colpire i sistemi anti-missile nemici; questi, per funzionare, devono ‘accendere’ il radar, per individuare i propri obiettivi, ma proprio l’attivazione del radar è ciò che serve per essere a loro volta individuati dagli appositi missili russi… Quindi, nonostante gli sforzi della NATO, il rischio per l’Ucraina è che anche qui le capacità di difesa si abbassino considerevolmente.

Il Generale Inverno si sta per abbattere sul paese, e non è solo una questione di temperature…

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Ucraina: i Patriot e i Marines – Michele Paris

Se da qualche parte nelle stanze del potere in Occidente si è infilato un dubbio sull’opportunità di continuare ad appoggiare “per quanto necessario” il regime ucraino nella guerra contro la Russia, le notizie che filtrano sulla stampa in questi giorni non sembrano fornire molte indicazioni in questo senso. I segnali di allarme per gli sviluppi della situazione sul campo sono in realtà molteplici, come ad esempio gli avvertimenti per il rapido svuotamento delle riserve di armi in Europa e negli Stati Uniti. A tenere banco sono tuttavia due notizie di segno opposto, come l’imminente invio a Kiev di batterie di missili Patriot americani e la conferma dell’impiego in battaglia in Ucraina di uomini dei reparti speciali britannici.

Zelensky chiede da tempo sistemi anti-aerei occidentali per cercare di far fronte al devastante martellamento missilistico di Mosca, aumentato sensibilmente dopo gli attacchi ucraini delle scorse settimane contro alcune infrastrutture civili russe. Dopo un lungo periodo di riflessione, l’amministrazione Biden avrebbe così deciso di dare il via libera alla consegna dei missili difensivi Patriot già entro questa settimana.

Se ciò dovesse effettivamente avvenire, si tratterebbe delle armi con il maggiore raggio d’azione fin qui nelle mani dell’Ucraina, quindi ampiamente in grado, oltre che di intercettare in teoria i missili in arrivo, di raggiungere il territorio russo.

È abbastanza evidente come di per sé l’iniziativa della Casa Bianca rappresenti l’ennesima escalation nei confronti di Mosca, con le altrettanto chiare conseguenze sia in termini di rischi per un conflitto diretto Russia-NATO sia per la probabile intensificazione delle operazioni militari russe che ne deriverebbe.

La stampa ufficiale – la notizia è stata diffusa in “esclusiva” dalla CNN – ha disegnato un quadro in buona parte inverosimile in merito ai benefici che i Patriot comporteranno per il regime di Zelensky. Questo atteggiamento non è d’altra parte inedito, visto che aveva già caratterizzato le precedenti forniture di equipaggiamenti occidentali di livello superiore ai precedenti, come gli ormai notissimi sistemi di lancio “HIMARS”, tutti o quasi descritti come decisivi per invertire le sorti del conflitto, ma mai rivelatisi tali.

L’articolo della CNN ha descritto in questo modo i missili Patriot, creature del colosso bellico Raytheon: “Questo sistema è ampiamente considerato come una delle armi a lungo raggio più efficaci per la difesa dello spazio aereo contro missili balistici e da crociera, così come contro alcuni velivoli”. Grazie a queste caratteristiche, i Patriot saranno in grado “potenzialmente” di abbattere i missili russi “lontano dai loro obiettivi in territorio ucraino”.

Se saranno utili o meno, Zelensky e i vertici militari ucraini potrebbero chiederlo ad esempio ai regnanti sauditi. I Patriot in dotazione a Riyadh fallirono miseramente nell’intercettare i missili lanciati dai “ribelli” sciiti Houthis dallo Yemen qualche anno fa. La serie di attacchi risultò devastante e del tutto inaspettata, causando serissimi danni ad alcune installazioni petrolifere del regno. I Patriot furono considerati talmente inefficaci da spingere l’Arabia Saudita a sondare la Russia per l’acquisto del sistema anti-aereo S-400. Anche un’analisi sui fatti pubblicata nel 2017 dal New York Times aveva individuato il fallimento dei Patriot nell’evitare l’attacco degli Houthis yemeniti.

L’analista militare russo Andrei Martyanov ha spiegato sul suo blog come la decisione di inviare i missili Patriot in Ucraina sia più che altro un’operazione di “pubbliche relazioni”. Questo sistema di fabbricazione americana non ha nessuna utilità, secondo Martyanov, nel contrastare missili in grado di eludere il fuoco di difesa del paese attaccato (“standoff weapons”). Né, tantomeno, Kiev può aspettarsi di limitare con i Patriot gli effetti dei missili supersonici e ipersonici russi.

Un’altra considerazione riguarda le difficoltà logistiche nel trasferire i sistemi Patriot all’Ucraina, che diventeranno subito un bersaglio dell’artiglieria russa, per non parlare della necessità di addestrare adeguatamente i militari che dovranno manovrarli. La CNN ha scritto che le istruzioni verranno impartite in una base USA in Germania, ma non è chiaro quando gli addetti ucraini saranno in grado di operare autonomamente le batterie di Patriot. Una normale sessione di addestramento a questo scopo richiede di solito “parecchi mesi”.

Il fattore tempo non gioca però a favore di Zelensky. Le forze ucraine stanno perdendo almeno centinaia di uomini ogni singolo giorno, per non parlare del materiale bellico e delle infrastrutture distrutte. Un bilancio che si è fatto più drammatico con l’offensiva russa in corso contro la località strategica di Bakhmut (o Artemovsk), nella regione di Donetsk…

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“Guerra cognitiva”: la NATO sta pianificando una guerra per le menti delle persone – Jonas Tögel

Dal 2020, la NATO ha portato avanti i piani per una guerra psicologica che deve stare su un piano di parità con le cinque precedenti aree operative dell’alleanza militare (terra, acqua, aria, spazio, cyberspazio). È il campo di battaglia dell’opinione pubblica. I documenti della NATO parlano di “guerra cognitiva” – guerra mentale. Quanto è concreto il progetto, quali passi sono stati compiuti finora e a chi è rivolto?

Per essere vittoriosi in guerra, bisogna vincere anche la battaglia per l’opinione pubblica. Questo viene svolto da oltre 100 anni con strumenti sempre più moderni, le cosiddette tecniche di soft power. Questi descrivono tutti quegli strumenti psicologici di influenza con cui le persone possono essere guidate in modo tale che esse stesse non si accorgano di questo controllo. Il politologo americano Joseph Nye definisce quindi il soft power come “la capacità di convincere gli altri a fare ciò che si vuole senza usare la violenza o la coercizione”.(1)

La sfiducia nei governi e nei militari sta aumentando , mentre la NATO sta intensificando i suoi sforzi per usare una guerra psicologica sempre più sofisticata nella battaglia per le menti e i cuori delle persone. Il programma principale per questo è “Cognitive Warfare” . Con le armi psicologiche di questo programma, l’uomo stesso deve essere dichiarato il nuovo teatro di guerra, il cosiddetto “Dominio Umano” (sfera umana).

Uno dei primi documenti della NATO su questi piani è il saggio del settembre 2020 “NATO’s Sixth Domain of Operations” , scritto per conto del NATO Innovation Hub (abbreviato: IHub ). Gli autori sono l’americano August Cole , ex giornalista del Wall Street Journal specializzato nell’industria della difesa che da diversi anni lavora per il think tank transatlantico Atlantic Council, e il francese Hervé le Guyader.

Fondata nel 2012, IHub afferma di essere un think tank in cui “esperti e inventori di ogni dove lavorano insieme per risolvere le sfide della NATO” e ha sede a Norfolk, Virginia, negli USA. Ufficialmente non fa parte della NATO, è finanziato dal NATO Allied Transformation Command, uno dei due quartier generali strategici della NATO.

Il saggio racconta diverse storie di fantasia e si conclude con un discorso inventato del presidente degli Stati Uniti, che spiega ai suoi ascoltatori come funziona la guerra cognitiva e perché chiunque può essere coinvolto:

“I progressi odierni nella nanotecnologia, nella biotecnologia, nella tecnologia dell’informazione e nelle scienze cognitive, guidati dall’avanzata apparentemente inarrestabile della troika dell’intelligenza artificiale, dei big data e della ‘dipendenza digitale’ della nostra civiltà, hanno creato una prospettiva molto più inquietante: un quinto pilastro integrato, dove ognuno, a sua insaputa, agisce secondo i piani di uno dei nostri avversari”.

I pensieri e i sentimenti di ogni individuo sono sempre più al centro di questa nuova guerra:

“Tu sei il territorio conteso, ovunque tu sia, chiunque tu sia.”

Inoltre, c’è da lamentare una “costante erosione del morale della popolazione”. Cole e le Guyader sostengono quindi che il dominio umano è la più grande vulnerabilità. Questa area operativa (“dominio”) sarebbe di conseguenza la base per tutti gli altri campi di battaglia (terra, acqua, aria, spazio, cyberspazio) che devono essere controllati. Pertanto, i due autori invitano la NATO ad agire rapidamente e a considerare lo spirito umano come il “sesto dominio delle operazioni” della NATO.

 

Propaganda partecipata

Quasi contemporaneamente, l’ex funzionario francese e responsabile dell’innovazione presso l’IHub, François du Cluzel, stava lavorando all’ampio documento strategico ” Cognitive Warfare” che è stato pubblicato dall’IHub nel gennaio 2021. Invece di utilizzare scenari immaginari, Du Cluzel ha scritto un’analisi dettagliata della guerra delle menti. Come gli autori del “Sesto dominio delle operazioni della NATO”, sottolinea che “la fiducia (…) è l’obiettivo”. Questo può essere vinto o distrutto nella guerra dell’informazione o attraverso PsyOps, cioè la guerra psicologica. Tuttavia, le tecniche convenzionali di soft-power non sono più sufficienti, occorre una guerra cognitiva, cioè relativa alla mente, una “propaganda partecipativa” a cui “tutti prendono parte”.

Non è chiaro chi sia esattamente l’obiettivo di questa propaganda, ma du Cluzel sottolinea che tutti sono coinvolti in questa nuova forma di manipolazione e che l’obiettivo è proteggere il “capitale umano della NATO”. L’area di applicazione si riferisce a “l’intero ambiente umano, amico o nemico che sia”. Sebbene le capacità del nemico e la minaccia nel campo della guerra cognitiva siano “ancora basse”, du Cluzel chiede che la NATO agisca rapidamente e promuova la guerra cognitiva:

“La guerra cognitiva può essere l’elemento mancante che consente la transizione dalla vittoria militare sul campo di battaglia a un duraturo successo politico. Il “dominio umano” potrebbe benissimo essere il fattore decisivo (…). I primi cinque teatri di operazioni [terra, mare, aria, spazio, cyberspazio] possono portare a vittorie tattiche e operative, ma solo il teatro umano di operazioni può portare alla vittoria finale e completa.” ( p. 36 )…

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Nel tritacarne – Enrico Tomaselli

Dopo quella di Mariupol, un’altra sanguinosa battaglia casa per casa si sta combattendo nel settore centrale del fronte ucraino e, come quella, ha non solo un valore simbolico, ma anche un rilevante valore strategico. Se le forze armate russe riuscissero a sfondare, come appare sempre più probabile, potrebbero aprirsi la strada verso una nuova significativa avanzata. Intanto, le perdite ucraine stanno diventando elevatissime.

Tra retorica e strategia

Mentre la retorica propagandistica dei paesi NATO insiste su una sempre più fantomatica vittoria ucraina, la strategia militare sul campo sembra ormai puntare – letteralmente – sul prolungamento della guerra sino all’ultimo uomo possibile. Messa da parte l’ipocrisia precedente, in base alla quale l’occidente dichiarava ufficialmente di non voler fornire a Kyev armi in grado di colpire il suolo russo (facendo finta di non sapere / non vedere che gli ucraini lo fanno continuamente, non solo bombardando gli oblast annessi a settembre, ma anche il territorio russo storico – regioni di Kursk e Belgorod), ora c’è un via libera a questo genere di attacchi. Che non è soltanto teorico (fate ciò che volete), ma pratico (vi aiutiamo a farlo, e vi diamo i mezzi per farlo). Al cuore di questa politica, c’è la fornitura – da parte USA- degli M-142 HIMARS (High Mobility Artillery Rocket System), un avanzato sistema di lanciarazzi, dotato di un modulo con sei missili di precisione GMLRS, basato su un camion FMTV da cinque tonnellate.

Questo sistema supporta un’ampia varietà di munizionamento, che ne muta sia il potenziale distruttivo che la gittata; fondamentalmente questa può variare da 30-80 chilometri fino a 300 o più chilometri. Il sistema HIMARS utilizza munizionamento di alta precisione, che viene indirizzato sull’obiettivo passando al software di gestione dati provenienti dal rilevamento satellitare. Si tratta quindi di un sistema d’arma il cui utilizzo è strettamente vincolato al coordinamento con l’intelligence NATO, che è quella che fornisce i dati satellitari, e spesso anche con personale NATO sul campo, che provvede ad inserire i dati nel sistema di lancio.

Questo è un elemento fondamentale da tenere presente, perché implica il coinvolgimento diretto, consapevole ed intenzionale della NATO nell’identificazione e bombardamento degli obiettivi. Obiettivi che non sono soltanto militari, e/o di rilevanza anche militare, ma pure civili. Dal 28 giugno – data del primo utilizzo registrato degli HIMARS contro obiettivi civili – al 10 dicembre, risultano ben 44 attacchi condotti col sistema lanciarazzi statunitense contro tali obiettivi, per un totale di 80 morti e 171 feriti.

Questi attacchi, condotti con l’indispensabile apporto delle forze NATO, non hanno ovviamente alcun valore militare, e l’unico scopo è per un verso terrorizzare la popolazione delle aree urbane del Donetsk e del Lugansk – verso cui gli ukronazi hanno sin dal golpe del 2014 manifestato un vero e proprio odio etnico – e per l’altro cercare di indurre le forze russe ad una risposta simmetrica, così da poterne denunciare il crimine. Ovviamente, essendone pienamente corresponsabile, l’occidente si guarda bene dal rilevare che questi attacchi sono già un chiaro crimine di guerra.

La stessa logica, ovvero agire con l’obiettivo di provocare una reazione nemica, da sfruttare propagandisticamente, assai più che per conseguire successi militari, sta dietro agli sporadici attacchi in profondità condotti dall’Ucraina, col solito supporto NATO. Dal sabotaggio del ponte di Kersh agli attacchi con droni al porto di Sebastopoli, ai più recenti attacchi missilistici contro le basi aeree di Engels-2 e Ryazan, l’intento è sempre quello di spingere i russi verso l’escalation.

Oltre a ciò, questo tipo di attacchi risponde anche ad una strategia di prolungamento della guerra; l’obiettivo dei paesi NATO, infatti, è con ogni evidenza la guerra ad oltranza. I comandi NATO sono infatti consapevoli che per la Russia è necessario mettere in sicurezza i territori liberati (e più in generale quelli della Federazione), e quindi di proteggerli con una fascia di sicurezza, abbastanza profonda da metterli al riparo da questo genere di attacchi. Un obiettivo, questo, teoricamente perseguibile anche nell’ambito di una trattativa di pace (sul modello coreano, con una striscia smilitarizzata d’interposizione), che però è al momento respinta nettamente dalla NATO – che si nasconde dietro l’oltranzismo di Zelensky. Pertanto alla Russia non resta altra alternativa che conquistare manu militari questa zona di protezione. E ovviamente, più l’esercito ucraino viene dotato di armi e munizioni in grado di allungare la propria capacità di colpire in profondità, più le forze armate russe dovranno ampliare parallelamente la profondità della fascia. E quindi con ciò prolungando il conflitto…

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