Il Soggetto parla?

di Mauro Antonio Miglieruolo

Stabiliamo anzitutto, per comodità di discorso, l’a-priori indimostrabile da cui prende necessariamente avvio qualsiasi argomentazione, l’a-priori di questa argomentazione: il soggetto ha esistenza concreta, e parla. Rafforzando: l’IO esiste in quanto vuole e può comunicare.

Ma di che parla? E cosa trasmette, se pur trasmette qualcosa?

25dica_Waterfalls_2d_Partiamo da questo secondo punto che è già anche il primo. L’assunto è che il soggetto, nel profondo delle sue proprie motivazioni, trasmette tutt’altro che contenuti pertinenti alle parole pronunciate. Non tanto a causa della imprescindibile incompletezza di qualsiasi discorso, o della relativa, parziale consapevolezza dei presupposti discorsivi di colui che parla, quanto a causa della necessità che lo motiva: il suo vero scopo è infatti costituire un interlocutore (che gli permetta di stabilire se stesso), di dargli un’identità (per darsene una); per cui il vero dell’azione implicita nelle sue parole è sostanziare questo interlocutore, attribuirgli un ruolo e una posizione, in modo da renderlo non solo praticabile, ma anche comprensibile (comprensibile alla mia logica e ai miei linguaggi), e persino scontato. L’atto di parlare dunque prima di trasmettere nozioni e informazioni attiva un processo di riconoscimento.

Questo processo si innesta a partire dall’attribuire un nome, o un soprannome. Io chiamo Mauro un tizio non perché egli si chiami Mauro, perché in realtà nessuno ha un nome, ma per avere il contenitore atto ad imporre per tempo a un soggetto la sua propria identità, prima che da se stesso l’individuo se la costruisca (perché dunque, piuttosto che a immagine e somiglianza di Dio, sia a mia immagine e somiglianza; mia di me sacerdote, padre, madre, zio, fratello, Stato, TV o semplice amico di famiglia); un contenitore che raccolga l’insieme dei contenuti estranei a Mauro che bisogna che Mauro raccolga se vuol diventare (e lo vorrà) Mauro; e che gli vengono proposti molto prima che Mauro sia in grado di proporli a se stesso (come poi se li proporrà, e però troppo tardi, quasi sempre troppo tardi perché possa arrivare a entrare in un altro nome, in un diverso destino da quello propostogli: il primo atto della vita, da noi chiamato battesimo, stabilisce la convenzione che lo richiama alle strettoie di un gioco in cui si ride poco e la posta è perduta sempre). Non basta per altro che sia compresso, egli così grande e festoso, nel ristretto di un nome; s’usa quel nome per interpellarlo e interpellandolo diminuirlo (tu sei Mauro e in quanto buon soggetto non puoi essere altro che quello che per te è stato stabilito: buono, comprensivo, magnanimo, sottomesso, devoto, laborioso, zelante e quant’altro indispensabile – indispensabilità che include il contrario delle medesime caratteristiche – alle finalità di cui ti si rende destinatario, e responsabile). Da ogni parte non si sente altro che, modulato secondo la necessità,  questo appello continuo ripetuto, intimato, silenziosamente sussurrato o clamorosamente urlato, un appello atto a comprimerlo e comprimendolo permettergli di indossare i “suoi propri” panni: gli abiti smessi dai fratelli maggiori e rozzamente adattati a lui.

25dicb_Witch_House_2d_fantasy_fortIn effetti io interpellando un qualsiasi individuo chiamato Mauro con quello che falsamente (ma solo all’origine) si pretende essere il suo proprio nome, io dietro un tono e una intenzione cordiale, e una volontà d’amicizia, non faccio altro che ribadire il già tante volte ribadito, aggiungendo quel tanto o quel poco che occorre per caricare (il soggetto interpellato) di nuovi attributi (tu sei Mauro e in quanto buon soggetto continuerai a infilarti nei costumi che – noi giudichiamo ti siano – ti sono propri). Sarò cioè l’abile sarto del suo (suo: quindi esterno a lui) abito mentale, di quell’insieme di maschere che mi permetteranno di interagire con Mauro non nel pauroso abissale della sua autentica identità (dissimulata e esorcizzata sempre) ma con il finto Mauro, o meglio con il Mauro degli infiniti ruoli con cui mi piacerà e converrà relazionarmi. E così di volta in volta lo riconoscerò nel suo essere Impiegato, Figlio, Amico, Marito, Amante, Padre, Madre ecc. e dirò agli altri, fingendo di riconoscere lui riconoscendo in effetti me stesso, il me infinito (la voce di tutti contro uno) che si perde nello spessore dei millenni e della sterminata presente umanità, Mauro, il marito di…; quasi parlassi di una entità priva di sostanza propria, impossibile da identificare fuori dagli attributi, lontano dalle appartenenze, deprivato delle funzioni che gli vogliamo proprie.

Riconoscerò lui, Mauro, in modo che egli si possa conoscere (e permettere a me stesso di riconoscermi tramite quel risultato[1]); in   modo da stabilire l’angusto orizzonte entro cui si potrà sviluppare a suo piacimento (e in cui si svilupperà); diventando testimone, lo si spera, del buon lavoro che è stato fatto su di lui e che certamente, crescendo, dopo che la stanchezza si sia fatta sentire, finirà con l’apprezzare.

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Possiamo dunque affermare che ogni individuo è tale attraverso l’identità che gli si attribuisce? e che questa identità gli è concessa a sezioni, per parti discrete, mai integralmente?[2] e che il suo essere vero appare e agisce, o meglio ancora, al suo vero essere viene permesso di apparire e agire, esclusivamente nell’eccezionale degli slanci e nell’ordinario delle angosce, cioè nelle cesure di questa autentica-falsa identità? essendo ordinariamente condannato nell’esprimersi a esibire la maschera di volta in volta assegnatogli dal ruolo che gli attribuiamo?

La risposta è (e vale quest’assenso), se il convenzionale dell’individuo prende il sopravvento; è no (e vale una negazione), se l’inquietudine e l’insoddisfazione per la propria inadeguatezza lo inducono alla riflessione e dalla riflessione tragga spunto per avviare la ricerca senza fine del proprio principio.

Nel primo caso la morte (e la vita) della persona starebbero nella quieta accettazione, accettata sebbene imposta, d’una parzialità fuorviante che costringe a NON essere per poter essere (non è consentita altra via di scampo); starebbe nell’artificio di una non scelta (almeno al suo inizio: poi l’essere ci pensa da solo a mantenersi nella prigione del predeterminato), che si chiede a tutti di operare, che tutti operano (tutti livellati nell’impedimento a scegliere), ma i cui risultati, per altro dipendenti dalle costrizioni iniziali, non sempre sono approvati; e quasi mai graditi. Si vuole un soggetto che abbia determinate caratteristiche, non si vuole che egli, manifestandosi troppo apertamente, le manifesti troppo apertamente (facendo con questo apparire la natura più profonda della gigantesca impostura denominata convivenza civile). Tu sei Mauro e in quanto creatura rubata al suo proprio principio ruberai al nuovo te stesso la possibilità di esprimere il fondo di questa tua artificiosa natura; tu sei Mauro e voglio che tu apprenda a esserlo con moderazione (e con inconseguenza). Tu Mauro non guarderai l’orrore che ho voluto per te e io non ti condannerò, se non a parole, per quel tanto di falsità e ipocrisia, di viltà e cinismo supplementare che ti inventerai per coprire l’angoscia di questa tua doppia natura.

L’arrogante Io son chi sono in quest’ottica costituisce, riuscendo a arrivarvi a quel sono, l’unica via d’uscita, la salvezza. L’Io son chi sono riassume infatti la duplicità dell’essere; il ruolo e quello che esiste di là dal ruolo; è vero che se sono è attraverso un ruolo; ma è altrettanto vero che se sono, e nella misura in cui lo sono, il ruolo si ridimensiona e può persino sparire. Di più: l’essenziale sono, una volta individuato, mi autorizza a affermare a cuor leggero di non essere uno qualsiasi, ma di essere qualcuno; uguale in questo ai tanti e alle tante anonime Maria, Mauro, Filippo, Zoe ecc. ecc. che popolano e si combattono nella bolgia infernale che è diventato il mondo.

Ma come riuscirci?

25dicd_Tree_2d_fantasy_tree_picture_image_digital_artEhi, Tu, Mauro! mi si interpella, in buono o malo modo, per farmi abbassare la cresta e rammentarmi che sono Mauro, colui che può essere interpellato e reinterpellato, interpellato sempre, chiamato a darne conto. Abbiamo fatto questo e questo per te, ci aspettiamo questo e quest’altro. Mauro però non è soltanto interpellato sempre, è il Sempre-Interpellato (e siamo già alla seconda risposta, alle ragioni che la rendono auspicabile-praticabile), anche se ha dimenticato d’esserlo. Colui che viene sempre richiamato a se stesso (lo è stato e lo sarà), al vero se stesso, con i suoi alti compiti le sue altre funzioni. Cosicché basterà che Mauro si sposti dal Io son chi sono e lo modifichi quel tanto o quel poco sufficiente a farlo diventare un bel sono, dunque penso, che cioè senta se stesso per far emergere la limpida evidenza d’una diversa necessità. Per vedere che egli è indipendentemente dal pensiero; è indipendentemente dai pensieri altrui; è per essere, non per pensare; e che questo suo pensare è solo mezzo per la migliore o peggiore attuazione dei suoi compiti come essere. Vedrebbe che pur non essendo interpellato sempre, in quanto Sempre-Interpellato è costantemente chiamato a rispondere (di se stesso e dei suoi atti); che non gli si rivolgono domande, e pure si attendono risposte. Risposte su se stesso, risposte agli altri e sugli altri, risposte sulla capacità (possiamo definirla volontà?) di regolarsi nel mondo, di starci, presente e distaccato, senza lasciarsene sopraffare.

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Si può meglio comprendere ora l’insufficienza e la perniciosa limitazione d’ogni nome; il nome, come a dire l’identità, il dislocare l’essere su un piano diverso da quel che gli compete, differente da quello che lo sostanzia, cioè il costituirsi come Vita vivente, presente e attuale, l’essere essente. Cosa sarebbe dunque questa entità composta di e di e di, interminabile serie di caratteristiche esteriori, al più psicologiche (e null’altro?), di azioni e convenzioni, di frasi fatte e obblighi, che basta un poco d’acqua (il Battesimo, altro devastante capitolo del romanzo “Mauro”) per lavare dalle conseguenze di quei tanti di e di e di? Ha sostanza, una qualche profondità che gli appartenga? Oppure basta che un tizio qualsiasi per strada lo saluti e chiamandolo Mauro, lo chiami tutto e lo definisca integralmente? Che Mauro venga accettato, con quel richiamo, questo è bene, ma viene attuato anche l’altro bene che consiste nell’accettarlo nella sua libertà di sconnettersi dall’insieme di concetti organizzati nel Contenitore Mauro? È riconosciuto a causa dei  lineamenti non suoi che supinamente ha reso suoi, oppure perché lo sguardo andando oltre, arriva a sfiorare la sua vera essenza?

Ma soprattutto: l’essenziale è qui? in questi interrogativi? in questo affannarsi, questo definirsi e ridefinirsi, questo fingere e almanaccare con la verità, questa sotterranea voglia di sincerità impigliata nel reticolo delle alte e basse bugie che abbiamo disseminato intorno? E tutto questo vale il mero risultato di poter comunicare?

Purtroppo vale. Vale in quanto l’insieme delle procedure che portano alla comunicazione (e la comunicazione medesima) rispondono alla ineludibile necessità di trasformare la nostra animalità; vale in quanto la condizione inderogabile per attuare lo sviluppo delle nostre potenzialità o impedire che restino affidate al caso è in subordine dell’esistenza  di una piattaforma comune sulla base della quale misurarci reciprocamente e confrontarci; vale perché proprio per mezzo della comunicazione, iniziale punto di approdo del processo di civilizzazione, che le persone si riconoscono come tali (io Uomo nel confronto con te Uomo) e trovano fondamenta e possibilità le aspirazioni di, superata l’animalità, addivenire all’umano; e vale perché comunque esco da me stesso e attraverso gli occhi degli altri per quel poco di autentico captato posso iniziare a dubitare della validità del magma di artifici in cui sono imprigionato. Io guardo lui, lui guarda me, e se lo sguardo è puro ognuno percepisce qualcosa di vero nell’altro che gli fornisce suggerimenti sulla propria verità. In quel contatto, per quel tanto di reciproca comprensione che si innesta, IO diverso dagli altri e gli altri diversi da me (oltre che tra loro), la (fuorviante) presenza delle maschere finisce con l’infastidirci, con il dover essere messa da canto. Un assaggio di verità e il mondo intero è trasformato. Là dove si nascondevano incubi, ora appaiono misteri. Là dove due enti mediavano tra loro, ora s’incontrano due persone.  Dal fastidio all’insofferenza le maschere vengono (purtroppo spesso solo provvisoriamente) tolte. Tolte le maschere alle persone, tolte le maschere alla realtà. Le varie imposture da cui siamo accerchiati restano trascese, trasceso anche il bisogno che le ha prodotte. Per un istante, almeno si arriva al vero di quel nocciolo che fino a quel momento, con vari atti e varie parole, è stato fatto di tutto per contraffare. Se gli lasciamo spazio quell’autentico si impadronirà di noi e non vorrà più lasciarci nella pace e nella guerra del nostro continuo di finzioni.

25dicf_Old_Bridge_2d_landscapetOgni volta che si parla, dunque, ci si trova impaniati in un doppio movimento, uno autentico e uno inautentico, si è trascinati nella comprensione come si è stati travolti dal fraintendimento, senza che si sappia (ordinariamente neppure lo si vuole) optare consapevolmente per l’uno o per l’altro, o quantomeno restare più nell’uno che nell’altro.

In ogni caso al vero del “nocciolo che mi contraddistingue”, che agisce nel silenzio, debole vagito dell’anima che resta in attesa gli si dia la forza di manifestarsi, non si potrà mai arrivare se si resta nelle parole, confinati nella ragnatela di contraddizioni di cui si è parte, parte come vittima e come carnefice. Occorre si ritorni al roboante io son chi sono per  raccontare e raccontarmi, finalmente, quel che sono veramente; per cercare di scoprire a chi appartengo, quale sia il mio posto (a condizione che eviti di lasciarmi irretire dalle categorie e gerarchie di questo mondo). Il primo passo deve essere sgomberare il terreno da ogni ostacolo; il secondo ch’io abbandoni quel territorio appena ripulito per salire faticosamente le pendici del monte delle difficoltà e degli ostacoli e aguzzi lo sguardo per accedere al più lontano orizzonte. L’occhio vacillerà stranito dalla vastità del paesaggio e dei tanti particolari insospettati che finalmente potrò scorgere, ma la coscienza ubriacata da quello spettacolo di grandiosità e bellezza s’espanderà oltre se tsessa; il sacro fuoco dell’entusiasmo mi inchioderà all’ansia di sapere ma ugualmente, aiutato dall’invisibile sapienza implicita nelle cose, arriverò a percepirle.

Solo allora, lo sguardo reso puro e innocente, potrò abbracciare l’insieme della realtà del mondo e considerarlo per quel che è, non per quello che dovrebbe essere, e come gli altri ha immaginato che sia, o ha voluto sostenere, per convenienze tutte sue, che sia.

Io e il mondo, io al cospetto del mondo. Null’altro.

25dicg-_The_Octopus_World_2d_surrealismNon conteranno i pensieri, conterà lo sguardo che ha abbandonato l’abitudine a ricorrere alle determinazioni, al bisogno di ordinare e incorniciare, all’atavica abitudine a uccidere e soffocare. Il mio cuore batterà e saprò molto più e meglio che sono io e sono vivo, saprò d’avere scopo e significato. Saprò soprattutto, senza bisogno me lo si dica, che l’unico ostacolo al comunicare, l’unico impedimento alla mia volontà d’uscire dai nomi e dalle finzioni, risiede nel cuore, che sentirò battere e ampliare. Sarà il suo recalcitrante perenne suggerimento a indurmi a scrivere per sentire e scriverò per offrirgli nuovi motivi di suggerimento e di scoperte. Invece di intervenire in presa diretta lascerò che sia lui a prendersi la responsabilità delle operazioni. Lui, il cuore, il meno gravemente colpito, che aspetta paziente e pazientemente opera. Conosce le complicazioni che avviliscono la mia innocenza d’uomo, e pure a lungo resta inattivo. Attende. Spera. Ch’io mi risvegli e faccia. Poiché solo io posso farlo. Io che sono oggetto di molteplici attenzioni; io che non parlo se non per constatare, desolato, che non ho nulla da dire, e ho ben poco da dare. Io che ho la morte alla calcagna e occorre mi affretti, prima che mi raggiunga e spenga la luce di queste estreme possibilità. Io che mi so, sconvolto da tutte queste necessità e determinazioni, faccio quel che devo, finalmente, giunto a quell’alto del monte, faccio appello alle possibilità del cuore; e mi rivolgo da ultimo a me stesso e mi interpello, non più Maria, Mauro, Mauro, Antonio, Zoe (la maschera), interpello l’uomo, colui che raramente è interpellato (pur essendo il Sempre-Interpellato); e interpellandomi mi riconosco oltre ogni mio essere oggetto, oltre ogni errore e terrore. Chino il capo e ammetto d’essere congelato, un iceberg che naviga in acque profonde e buie. Ammetto tutto questo e vado oltre, oltre le mie inefficienze e rigidità. E mi accorgo di quanto ancora sia insoddisfacente questa mia presenza, ne colgo le stonature. Pongo ancora resistenza, non ricerco il dolce dell’abbandono. Non avendo altro mi rivolgo alla fantasia e chiedo di far di me un essere alato, senza che mi appartenga l’emblema delle ali. Mi rivolgo al mondo e scopro che anch’esso ha bisogno d’ali. Le regalo a me stesso, e al mondo. Dimentico il nome Mauro, escludo le parole (non parlo più, né rispondo), abbandono i vestiti, tessuto e carne insieme, e spicco il volo. La vaga intuizione di quel che posso essere mi spinge in alto, sempre più in alto. M’appare la certezza visibile d’una possibilità. Avverto molte più cose intorno a quel che sono, alcune realizzate e altre in attesa, ma più non me ne angustio; neppure mi importa di non saper volare, di dover volare con ali improprie, le ali del sogno. Non parlo più per parlare e costituire alcunché capace di costituirmi (sono ormai il Sempre-Costituito); accantonerò ogni riferimento al sunnominato Mauro e sorriderò dei miei sforzi pregressi nel dar troppa retta al problema dell’essere-non-essere Mauro. Impedirò in bella sostanza che il problema (e i problemi) del soggetto Mauro rioccluda l’orizzonte. Contemplerò piuttosto l’infinità varietà di cose da cui sono circondato per approdare finalmente alla vera necessità: che diventi fluido e arrendevole, dolce, e come l’acqua scorra e scorrendo (e solo scorrendo) prenda atto del mondo. Non per restare dove sono, ma per tornare alle origini, tornare alla valle, al mio luogo, alla mia realtà; e spargendomi in essa, saturarla tutta, riempire ogni pozza; e rinunciando al mio nome e alla pretese di chi me lo ha dato, d’ogni ospitale incavo del terreno (d’ogni nome) assuma la norma.

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[1] E di confortarmi con lo specifico risultato ottenuto: il prodotto Mauro. L’osservazione di Mauro mi conferma che sono nel giusto, che tutto procede all’interno delle regole del Ben Vivere; e che io stesso, mantenendomi in quelle regole dimostro a me stesso e a un qualsiasi terzo osservatore di saper vivere.

[2] Tu non sei tu, ma l’occasionale esterno che ti definisce. Operaio o Impiegato lo sarai in relazione all’età che hai o dimostri, a ciò che fai, al luogo che ti ospita o all’incidentale bisogno dell’Autorità che ti comanda o che si è attribuito la responsabilità di importi dei limiti.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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