Jerico
un racconto di Laura Silvestri (*)
L’uomo nel vicolo vende emozioni.
Mentre inala una boccata dell’aria soffocante, soppesa nelle tasche la sua mercanzia. Tutta roba di prima scelta, di quella che soltanto i Cittadini Platino si possono permettere. Cinquanta crediti per una pasticca rossa e lucida, che fa provare il brivido della rabbia. Tre volte tanto per la scossa di vasopressina, dopamina e una punta di adrenalina che qualcuno chiama “amore”.
Vanno in tanti da Jerico, a chiedere un extra per festeggiare un’occasione. “Dammi lo speciale” gli dicono, “che stasera ho affittato una sintetica.”
Lui li porta sul retro e dà loro quello che cercano. È un benefattore, o quasi.
Mentre guarda il muro di fronte a sé, mezzo corroso da smog e umidità, pensa che ci sarebbe da ridere, se soltanto non fosse una reazione così difficile da simulare. Hanno affisso da poco l’ennesimo cartellone, proprio all’uscita del suo bar: È per una società più ordinata e sicura, riporta lo schermo illuminato. Non esitate a sottoporre i vostri figli alla procedura.
Scuote la testa mentre si domanda per l’ennesima volta se è vero quello che il Governo ripete, se si vive davvero nella stessa, merdosa maniera in ogni città lungo la faglia. Ma non ha modo di rispondersi: come dice sempre Felix, San Miguel è il trionfo delle imposizioni, dei limiti. E il suo compare non si riferisce soltanto alla recinzione che li taglia fuori dal resto del mondo, o alle comunicazioni interrotte. No, lui parla dei limiti all’umanità; del fatto che la gente deve pagare per riavere quello che il sistema ha portato via, per sentire ciò che per gli animali è ancora normale.
Se non altro, Jerico ci guadagna, con quei limiti. Aiuta la gente a superarli, per un prezzo onesto.
Inspira l’aria carica di odori stantii, i peggiori dei quali vengono dalla porta socchiusa alle sue spalle. Il suo locale è poca cosa, un buco umido e spoglio in mezzo al quartiere dei Rame. Non sarebbe rimasto aperto tanto a lungo, se si fosse limitato a vendere alcol ai “senza utilità”.
Un rumore di passi lo distoglie dai suoi pensieri. Sono netti, puliti, risuonano di suole lisce. Deve essere un Platino, proprio dietro l’angolo. Jerico non si domanda neppure cosa voglia. C’è un solo motivo per cui uno stimato membro della società può andare fin lì: per avere una dose. Una piccola sniffata di vita.
Eccolo, il nuovo arrivato, comparire fra le ombre, con le spalle strette nella giacca a vento nera. Ha l’aria contrita di chi sa che non dovrebbe trovarsi in quel quartiere, ma non tentenna. Del resto è facile tornare ad abituarsi alle emozioni. Persino Jerico si fa, ma di rado, solo nelle occasioni speciali. Vede l’uomo entrare nella pozza di luce verdastra del lampione e lo riconosce. Non sa il suo nome, ma è un cliente abituale.
“Il solito?”, gli domanda a mezza bocca.
Quello scuote la testa. “No, dammi qualcos’altro: è il mio anniversario di matrimonio. Voglio il pezzo forte.”
Gli viene da ridere al pensiero che il tipo lì davanti sia disposto a sganciare quasi duecento crediti per gli ormoni tirati fuori da un paio di scimmioni che scopano in una gabbia, nel laboratorio di Felix. A volte si chiede se i suoi clienti preferiscano non farsi certe domande, per non trovare risposte ovvie. Jerico se lo ricorda bene, quando il suo socio ha provato a creare roba sintetica: lui gli ha fatto da cavia, e si è grattato il culo per una settimana. Se non altro, è stato un interludio alla monotonia. E San Miguel sa essere una città noiosa, il posto perfetto per ammazzare i desideri. Del resto, a che serve volere di più, se avere di più non ti fa sentire meglio?
Il cliente davanti a lui ne è il classico esempio: dietro gli occhiali alla moda, ha lo sguardo vuoto.
“Pasticca o iniezione?”, gli chiede.
Il tipo si guarda intorno come dovesse veder comparire qualche poliziotto da un momento all’altro. “Siringa.”
È un’ottima scelta: costa di più, ma l’effetto è immediato.
“Non ti agitare.” Jerico la butta lì per abitudine, ma sono parole senza senso. Nessuno può stare in ansia, senza una dose di adrenalina. Il Platino è solo cosciente del rischio che corre, e la cosa non gli piace. “Se venissero a cercarti” aggiunge poi, “Kitty me lo farebbe sapere.”
Kitty è la sua sintetica preferita: serve ai tavoli, sta dietro al bancone quando lui esce a prendere una boccata d’aria, gli trova persino nuovi clienti. La rete neurale dell’androide è in comunicazione diretta col suo impianto corticale, per cui possono scambiarsi informazioni in tempo reale. È stato Felix a modificarla per le sue esigenze. Jerico crede che sia suo amico, se ancora vuol dire qualcosa.
Allunga al cliente una piccola siringa spray dalla tasca, e quello gli passa un chip monouso: come tutti va sul sicuro, non vuole lasciare traccia della transazione. Lui non perde tempo a controllarne il contenuto: sa già che non cercherà di fregarlo. L’uomo prende la dose e fila via, ficcando le mani nel cappotto e allontanandosi nell’aria densa di smog.
Jerico adesso deve rientrare al bar, anche se piuttosto si farebbe prendere a calci. Ci sono sere in cui non vorrebbe essere lì. Non prova fastidio, né tristezza, ovviamente. C’è solo il vuoto nel petto, la sensazione che niente abbia davvero un senso.
È tardi. Si volta, spinge la porta e fa qualche passo nel corridoio male illuminato che conduce alla cucina. Sente già la gente chiacchierare, parole stanche e prive di qualsiasi entusiasmo. Supera l’ingombro di vecchi mobili e stoviglie da lavare, arriva all’ingresso sul locale e sospinge appena un battente rosso e lucido: la cautela diventa un’abitudine, quando si lavora in certi giri. Vede la figura scarna di Kitty, le stupide orecchie da gattina e la coda che penzola sui fianchi da adolescente: è appoggiata al bancone e parla con un paio di tizi. Non li ha mai notati prima da quelle parti, e il fatto che siano proprio sotto uno dei fari non lo aiuta a distinguerne i lineamenti. Prova a mettersi in connessione con gli impianti oculari della sintetica: vuole vederli in faccia, questi nuovi arrivati, capire cosa vogliono.
Si trova a dover trattenere un’imprecazione: la prima frase che riesce a sentire non è incoraggiante.
“Il tuo proprietario, Jerico Sanchez, è accusato di spaccio di sostanze illegali e concorso in omicidio” sta dicendo uno dei due.
Merda, poliziotti, pensa. Ma che diavolo c’entra lui con un omicidio? Sa che se ascolta ancora un po’ potrebbe scoprirlo, ma si rende conto che non è furbo restare lì. Dovrebbe già essere scappato, ma ha bisogno di capire chi sta cercando di incastrarlo, e perché. Non ha mai ammazzato nessuno, e non ha nemici così in alto da trovare chi menta per mandarlo al fresco.
“Androide 15-103, hai mai visto quest’uomo frequentare il locale?”
La voce del poliziotto è fredda mentre tira fuori un circuito di olo-riproduzione. Un istante dopo, la sagoma tridimensionale e incerta di una figura umana, non più alta di un palmo, viene posata sul bancone.
Jerico impreca di nuovo, fra sé e sé. Conosce il tipo della riproduzione, con quella stazza non può sbagliarsi: gli ha venduto ieri lo speciale della casa. Adesso deve stare a sentire per forza.
“Il signor Aaron Delgado è stato trovato morto la scorsa notte nel suo appartamento, assieme a sua moglie” prosegue l’agente. “Si direbbe che abbia assassinato la donna e si sia poi tolto la vita. In corpo aveva una quantità di tre volte superiore al limite consentito per legge di vasopressina e adrenalina. Per assurdo che possa sembrare, si direbbe un delitto passionale.”
“E il mio possessore in che modo è coinvolto?”, domanda Kitty con la sua voce da ragazzina.
“Dato che il soggetto era indagato per frode al fisco, i suoi spostamenti erano monitorati, e dalle registrazioni risulta che due ore prima della morte è stato in questo locale.”
Jerico non ha bisogno di sentire altro. Merda, avrebbe dovuto capirlo subito che quel tizio, con uno stipendio da Argento o giù di lì, dovesse avere le mani in affari loschi per potersi permettere la sua roba, ma non immaginava che gli sbirri si mettessero a spiare anche un tipo dall’aria tanto anonima. A ogni modo, lui è tranquillo: Felix gli ha fatto molti favori, compreso manomettergli l’impianto corticale. Il Governo non può vederlo se non attraverso gli occhi dei suoi agenti.
E, giusto a proposito, è ora di levare le tende.
Lascia chiudere il battente e inizia a correre. Le gambe reagiscono lentamente, sente la stanchezza di una giornata sui muscoli, e non va bene. Dovrebbe darsi un aiuto, alla sua maniera, ma non ne ha il tempo.
Esce nel vicolo e monta a cavallo della moto. Sente passi e grida dietro di sé: devono aver visto il movimento della porta, e adesso ce li ha alle calcagna. Dà gas, e il rombo del motore risuona fra le strette pareti della viuzza.
Prende la prima svolta a destra, poi a sinistra, e giù per la via principale, nel traffico serale.
Due moto della polizia sfrecciano levitando all’inseguimento, e lui prova ad alzarsi di un paio di metri, sorvolando camion e autobus. Le luci semaforiche lampeggiano proiettando ombre rosse all’incrocio con via de la Paz, ma Jerico le ignora e schizza oltre. Un aeromobile di lusso viene dritto verso di lui, che lo evita di un pelo, abbassandosi di mezzo metro e sentendo l’aria calda passargli sulla testa e buttargli per un istante i capelli davanti alla faccia. Se si fosse fatto, a quel punto la scarica di adrenalina lo avrebbe fatto sentire un eroe, o qualcosa del genere, ma per adesso è meglio così: gli serve mantenere la lucidità.
Una volante accostata al margine della strada, con le strisce di neon blu sulle fiancate, lo vede passare e accende le sirene. Non ci voleva: ora è sicuro che nel giro di pochi minuti tutti gli sbirri del quartiere gli saranno addosso, e non sono pochi, in una zona come quella. Continua ad accelerare, intanto che pensa a un’alternativa. Deve disfarsi della moto, sparire nella folla. Così, forse, sarà al sicuro.
Non gli viene in mente che un posto che possa fare al caso suo: proprio davanti casa di Felix, sulla terrazza di un casermone, si trova il vecchio centro di demolizione. Se riuscisse ad arrivare da quelle parti, magari il suo amico potrebbe dargli una mano a sparire per un po’, giusto il tempo di far posare la polvere. Ammesso che questo possa succedere: un omicidio non è roba da dimenticatoio, se i morti sono un cittadino modello e la sua mogliettina.
Adesso è al massimo della velocità, se dà altro gas rischia di perdere il controllo. La polizia continua a inseguirlo, ma il suo rifugio sicuro è a solo due svolte. Taglia la strada a un paio di aeromobili e imbocca via di San José, mentre sente alle spalle lo schianto di un incidente. Bene, si dice: qualcuno dovrà fermarsi a dare un’occhiata. Prende ancora un po’ quota, iniziando a pensare a come entrare nello sfascio, e buca un altro semaforo rosso. Eccolo lì, all’angolo con via di Santa Estrella, l’enorme palazzo di cemento armato, sormontato dalla più grande accozzaglia di veicoli di dubbia provenienza che San Miguel conosca. Dentro quel relitto di un’epoca passata sa che vivono un paio di centinaia di Rame, ammassati come immondizia e ben avvezzi a trattare con la polizia. Se gli agenti lo cercheranno lì dentro, non passeranno un bel quarto d’ora.
È questione di un istante: si abbassa quasi fino a sfiorare la cupola traslucida di recinzione, una barriera appena visibile e carica di energia e, prima che la moto possa oltrepassarla con lui in sella, si lascia cadere a terra. Il veicolo, ormai lanciato, va a superare – sfrigolando – il muro di elettricità. Jerico riesce a vedere lampi bianchi che l’avvolgono, ma la carrozzeria è resistente, e prosegue per qualche metro oltre la cortina, mentre lui ruzzola sul pavimento della terrazza, proprio davanti all’insegna “Montoya”. Sente l’impatto contro la spalla e una scossa gli fa girare per un momento la testa. Fortuna che la recinzione è quasi scarica da almeno un anno, ma nessuno ci ha mai fatto caso, a parte i Rame che ne hanno approfittato per colonizzare anche l’ultimo piano.
Si rialza; è stanco, e lo aspetta una lunga corsa. Deve scendere una ventina di piani prima di poter attraversare il vicolo sul retro e raggiungere il palazzo dove vive Felix.
Adesso è il momento giusto per quella botta di vita. Ficca una mano in tasca, fruga fra le decine di siringhe spray e tira fuori quello che cerca: adrenalina pura. Hurrà per i babbuini in calore, pensa, mentre porta il cilindro metallico a contatto con la pelle del collo e inietta. La pressione manda in circolo la sua medicina e nel giro di qualche secondo sente il cuore iniziare a battere più rapido. La stanchezza sembra svanire, l’istinto di sopravvivenza riprende il posto che gli spetta.
Corre senza guardarsi indietro, mentre le sirene di un paio di moto si avvicinano. Con un po’ di fortuna, penseranno che si è andato a friggere le cervella contro la recinzione di sicurezza del deposito di rottami. Se invece quei due poliziotti sono appena meno che idioti, vedranno la scia di sangue che l’asfalto gli ha graffiato via dal braccio, e inizieranno a cercarlo giù per il casermone. Al momento, però, non gli importa: deve mettere fra sé e loro quanto più spazio possibile.
Imbocca la prima scala antincendio e comincia a scendere un gradino dopo l’altro, una rampa dopo l’altra. Il cuore sembra essergli risalito in gola. Era tanto che non si faceva, e le sensazioni sono quasi troppo intense. Il fiato diventa affannoso, la tensione gli serra il petto, ma lui continua ad andare giù veloce, e tanto basta. Una rampa, un’altra ancora, e i rumori della città diventano lontani: li sta seminando.
Alza gli occhi solo per un momento, guardando oltre la via, verso il palazzone grigio dove Felix potrà dargli una mano, e il sangue gli si ghiaccia nelle vene: proprio davanti al minuscolo terrazzo del suo socio, a venti metri da terra, è posteggiata un’aero-volante, con le sirene che ululano come lupi e le luci blu che feriscono lo sguardo. “Merda!”, si lascia sfuggire. Come hanno fatto ad arrivare al suo compare? Nessuno dei suoi clienti lo conosce. La risposta gli balena nella mente: Kitty. Devono essere riusciti a forzarle i sistemi di sicurezza.
Ora sa di non poter più contare sull’aiuto di nessuno. Deve sparire, lasciare una volta per tutte la città. Non sa neppure cosa ci sia, di preciso, oltre San Miguel, ma per fortuna non può provare paura. Solo un senso di vuoto che gli serra il petto. Non c’è più niente lì, per lui, a parte la galera.
Deve pensare alla svelta: come può sperare di superare il perimetro murario della città in piena notte, e per di più con la polizia che gli dà la caccia? Non può.
O forse sì.
Ama la sensazione dell’adrenalina nelle vene, il modo in cui il cervello pensa rapido, tirando fuori idee folli che mai, in altre circostanze, avrebbe preso in considerazione. Ma sì, che diavolo ho da perdere?, si dice intanto che le gambe, quasi di volontà propria, riprendono a salire le scale che fino a quel momento aveva disceso. Sente i passi del poliziotto che gli va incontro, e serra le mani a pugno. Un istante dopo ne vede la sagoma scura, la divisa blu e il viso giovane, appena riconoscibile da dietro il casco: è una matricola, non avrà più di vent’anni. Lo vede puntargli contro la pistola, ma sa che non farà fuoco. Non è questa la procedura, e poi è solo un ragazzino.
“Fermati!”, gli grida, ma Jerico non se ne cura. Non è più un uomo, adesso: lo sente, l’animale che corre libero, che lo domina. Combattere o morire, non ha scelta, proprio come si faceva un tempo. Contrae i muscoli e salta, afferrando il poliziotto per le gambe. Quello fa fuoco alla cieca, ma il colpo fischia sopra la sua testa. Il ragazzo perde l’equilibrio, cade. È lento, troppo lento rispetto a lui. E Jerico si sente forte.
Prova a strappargli l’arma di mano, ma l’altro si divincola: riesce soltanto a fargli mollare la presa serrandogli il polso. La pistola vola via oltre la scala antincendio, e a lui va bene: la vittoria è comunque vicina. Non ha esitazioni: afferra il ragazzo per le spalle, lo solleva come un sacco di farina.
Un attimo dopo l’agente sta seguendo la sua pistola, cadendo come un fantoccio nel nulla.
Ha il casco, ma non lo proteggerà da un simile impatto.
Jerico riprende la corsa. La moto della matricola è posteggiata sulla terrazza, e anche quella del suo collega, che deve aver disattivato la recinzione e iniziato a cercarlo nello sfascio.
Monta in sella a uno dei due bolidi e riparte.
Il vento della notte gli schiaffeggia la faccia, ma ormai è a pochi passi dalla salvezza. Supererà il varco murario in velocità, si dice, la moto che ha rubato godrà certo dell’autorizzazione allo sblocco automatico sulla frontiera. Presto sarà fuori da San Miguel.
Il sudore gli inizia a rigare la fronte, mentre una nuova consapevolezza gli risale su per le budella: ha appena ammazzato un uomo.
L’ha fatto senza timore, senza tentennamenti. L’ha fatto, e gli è quasi piaciuto.
La merce nelle tasche si fa pesante, mentre pensa che quel tipo, quel Delgado, ieri sera non si sarà sentito diversamente da lui. Magari aveva scoperto che la moglie lo tradiva, o che il nonno era morto senza lasciargli la collezione di teiere. La verità è che sono state le emozioni a trasformarlo in un assassino. Proprio come è successo a lui, ora.
E non è quello che Jerico avrebbe voluto.
Sente la presa sul volante tremare appena. L’uomo nel vicolo voleva soltanto vendere emozioni, non ritrovarsi le mani sporche di sangue.
Mette una mano in tasca e tira fuori il suo pacchetto. Lo soppesa, mentre il sudore gli cola negli occhi. Quella roba vale migliaia di crediti. Decine di migliaia. Tira un respiro breve e spezzato.
Poi lascia cadere l’involto, mentre sfreccia verso la barriera cittadina, costellata di minuscoli sensori.
Se nessuno si è ancora accorto che ha fregato quella moto, sarà salvo. Spera solo di farcela, di riuscire a portare la pelle al sicuro, lontano da San Miguel. Poi con quella merda avrà chiuso.
Il sangue gli pompa impazzito nelle vene, mentre immagina quel che gli direbbe Felix: che così il sistema ha vinto, e che da ora in poi, se dovesse cavarsela, sarà costretto a diventare un tipo a posto. Uno qualunque.
Ma che ne sa della morte, il suo compare, solo coi suoi scimmioni e le sue fialette in uno squallido laboratorio?
La notte silenziosa non gli dà alcuna risposta, ma non ha importanza, perché Jerico non tornerà mai più nel vicolo.
Ha superato i limiti, ormai. Li ha superati tutti.
(*) Il racconto (splendido, secondo me) arriva con questo msg.
Buongiorno Daniele,
come ti avevo promesso qualche mese fa, ti mando un racconto per la Bottega. Dato che, nella recensione a “La luna e l’Eden“, mi avevi definito “pessottimista”, mi riconfermo tale con una storia amara ma non del tutto priva di aperture positive. ^_^
L’immagine – scelta dalla “bottega” – è del nostro amato Jacek Yerka.