La disabitudine alla vita

di Riccardo Dal Ferro (*)

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Ciò che ci viene mostrato è esattamente ciò che guardiamo.
Guardiamo un corpo, un bambino, una spiaggia. Non vediamo la vita perché siamo disabituati a vederla. Ciò che non vediamo è ciò che non ci viene proposto con superficialità dai media. Noi guardiamo, ma non vediamo. Come quando rallentiamo in autostrada perché c’è un incidente e ciò che guardiamo, quando passiamo accanto al luogo dello schianto, è solo cadaveri, lamiere, carne. Non c’è altro perché, molto semplicemente, ci siamo disabituati a vedere. Ci scandalizziamo non per la morte o per la vita, ma perché quel cadavere, quel corpo, è così simile al nostro. Non è empatia, è immedesimazione.
Perché quindi ci risulta così raccapricciante la foto del bimbo siriano annegato? Cosa la rende così inaccettabile e riprovevole? Ovunque tra i social si legge di gente che critica chi la pubblica (e io non la pubblicherò non per pudore, il senso più vigliacco di tutti, ma perché internet è già saturo di quell’immagine e non voglio creare ridondanze inutili), che inorridisce guardandola senza smettere di guardarla, che commenta con rancore e moralismo. E la domanda che sorge spontanea (ma non a tutti) è: perché si scatena una tale reazione?
La risposta è un po’ più complicata di quella che il senso comune vuole imporre. Esso ci suggerisce che la ritrosia nel guardare la foto è probabilmente da attribuirsi al sopra citato senso del pudore, a un “rispetto” che non si sa bene dove affondi le radici. Il senso comune, come sempre ingannevole, ci dice che l’orrore provocato dalla foto corrisponde a un aspetto oggettivo della foto stessa, ovvero la crudeltà. Ma in realtà non è affatto così.
Ciò che ci rende insopportabile la vista di quell’immagine è il fatto che
guardiamo, ma senza vedere. E cos’è che guardiamo? Guardiamo il corpo e la carne, e questo ci fa pensare al nostro corpo e alla nostra carne; guardiamo al bambino, e questo ci ricorda i nostri bambini e tutte le caratteristiche sociali che attribuiamo loro (innocenza, candore, gioco); guardiamo la spiaggia che ci risulta così famigliare, così accogliente e desiderabile; guardiamo l’immobilità, la morte, la perdita. Stiamo guardando simboli, figure retoriche, astrazioni. Tutto quello che guardiamo siamo noi stessi, le nostre convinzioni, i nostri apparati sociali, e non riusciamo a vedere nulla di più. Ci immedesimiamo egoisticamente, non proviamo alcuna empatia. Stiamo guardando il nostro bisogno di sentirci assolti.
Guardando in questo modo, cos’è che ci sfugge, cos’è che non vediamo? Non vediamo la ripetizione costante di simili tragedie, le popolazioni quotidianamente segnate da simili avvenimenti; non vediamo la vita perduta che quel bambino offre ai nostri sensi, come se fosse la vita di ogni altro migrante, ogni altra vera vittima, ogni altro essere giustiziato dal nostro falso pudore prima ancora di venire ucciso; non vediamo la continuità tragica che esiste tra eventi in tutto e per tutto identici a questo; non vediamo la vita dispersa e sprecata come mille altre solo perché guardiamo l’immagine dei nostri pregiudizi. Non vediamo l’eterno ritorno del tragico. E questo ci mette al sicuro dal capire quanto piccoli siamo di fronte alla grandezza della vita.
Siamo disabituati alla vita e la conseguenza è terribile. Guardiamo un barcone che si rovescia, centinaia di corpi immersi e sommersi, nella migliore delle ipotesi vediamo uomini disperati e calcoliamo le conseguenze economiche di un possibile sbarco, nella peggiore delle ipotesi “negri che se lo meritano” e il sospiro di sollievo di fronte al massacro. Non vediamo tutti i destini, tutte le vite, tutte le speranze e i sogni sprecati in un momento di sventura che raccoglie in sé l’intera umanità, non vediamo una sola oncia di quell’umanità. Siamo ricoperti dalle nostre proiezioni e così ovunque lasciamo che siano loro a farci guardare, ma non a vedere.
Del bambino morto sulla spiaggia io vedo la vita che muore centinaia di volte sulla spiaggia, sulle montagne, nelle trincee, tra le dune; del suo cadavere io vedo i milioni di
non-più-esistenze che stanno oltre i cadaveri, vedo le tragedie che stanno oltre quella carne; vedo la vita sprecata sotto la coltre di convenzioni e pregiudizi con cui ricopriamo ogni cosa, anche quelle che ci appartengono così poco da divenirci dispotiche. Del bambino siriano sulla spiaggia non guardo il bambino siriano sulla spiaggia, vedo tutto quello che ha portato a quell’immagine e a tutto quello che quell’immagine produrrà, se non la smettiamo di guardare senza vedere.
C’è una vita, c’è una coscienza oltre tutto ciò che guardiamo, oltre tutto ciò che guarda. Quando la smetteremo di commuoverci pudicamente per le nostre convinzioni che coprono la realtà e quando invece cominceremo davvero a vedere tutto il senso del mondo che viene disfatto dietro una vita sprecata, sul ciglio di un mare indifferente?
In fin dei conti siamo davvero tutti gettati inutilmente su un sasso intorno al Sole. E se questa potesse essere la vera motivazione per sentirci parte integrante di un destino, invece che parcellizzati e menefreghisti nelle fasulle immagini trasmesse del mondo? Se così fosse, allora avremmo il coraggio di guardare meno cadaveri di bambino e vedere ciò che sul serio è stato perso oltre un corpo, oltre un’infanzia, oltre la carne.
Vedremmo che è stato perso il mondo.

(*) ripreso da www.riccardodalferro.com; la vignetta è di Altan.

 

Riccardo DAL FERRO

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