La fine e il principio

Un racconto di Clelia Farris (*)

Galleggio sul canottino rosso, cullato dalle onde, accarezzato dalle dita calde del sole, appena molestato dai suoni lontani del mondo, richiami, tuffi ovattati, il ronzio sommesso di un motoscafo.

D’improvviso la gomma cede, si affloscia, io mi rigiro e pluf, finisco a mollo. Riemergo sputacchiando, cerco di afferrare il canotto e scopro che si è sgonfiato del tutto. Il motoscafo è vicino, distinguo le due persone a bordo: una donna con i capelli rossi alla guida e un uomo calvo, accanto a lei. L’uomo ha in mano un fucile e mi fissa con disappunto. Inspiro una profonda boccata d’aria, mi immergo e nuoto verso la spiaggia.

Esco dall’acqua, il secondo valletto passa la vestaglia al primo valletto che la porge al secondo maggiordomo, il quale la dà al primo, che finalmente mi ricopre spalle e pudenda.

C’è trambusto sotto le finestre, voci concitate, cozzare di ferro contro ferro.

Che accade, dunque? −

Mi accosto a una finestra e vedo una gran folla assembrata nel giardino. Calpestano le rose, urlano frasi offensive contro la regina chiamandola “l’austriaca”, abbattono i soldati della guardia reale.

Che cosa sta accadendo? − ripeto.

Si tratta di una volgare rivolta, maestà − asserisce il marchese di S.

Si tratta di Robespierre e dei suoi accoliti, maestà − mormora il conte di R.

Si tratta della Rivoluzione, maestà − proclama il duca di L.

Rivoluzione? Non è possibile. In mezzo ai ceffi butterati dei popolani riconosco i volti spietati della donna con i capelli rossi e dell’uomo calvo. Gridano ordini, distribuiscono picche, soffiano sul fuoco della rabbia.

I tempi richiedono un cambiamento, maestà. −

Al diavolo! −

I tempi richiedono una fuga.

Mi sbarazzo della vestaglia, infilo calzoni, camicia e giacca sotto lo sguardo stupito di valletti e maggiordomi. Sì. Primo atto di indipendenza dell’uomo, di quest’uomo: vestirsi da sé. E poi scappo attraverso la fuga infinita delle stanze di Versailles.

Sento odore di bruciato. Sacre Dieu! Vogliono stanarci col fumo, come conigli. Il fumo aumenta, denso, nero, si spalma sugli abiti e sulla coscienza.

Lo chiamano smog − dice il mio amico, l’ossuto avvocato Utterson. − Londra possiede il maggior numero di fabbriche e l’aria peggiore di tutto il Regno Unito. −

È il prezzo del progresso − rispondo. − D’altra parte, le industrie forniscono i mezzi per la sussistenza a individui che altrimenti, adesso, sarebbero qui, attorno a noi, con le mani tese. −

Siete severo, caro Jekyll. Dov’è la vostra coscienza cristiana? –

  • Si è evoluta. −

E nel pronunciare queste parole inarco sprezzante le grosse labbra mostrando i denti.

Intuisco che l’animo ipocrita di Utterson mal tollera le parole e la potenza del mio corpo, sovraccarico di energia muscolare, a stento trattenuta dalla stoffa della civiltà.

Conoscete le pubblicazioni di quel naturalista, nostro compatriota… no? Egli ipotizza che la coscienza cristiana sia solo un momento lungo la linea evolutiva umana. Le industrie costituiscono il suo superamento e lo smog è il residuo volatile dell’educazione alla pietà. −

Utterson rabbrividisce. Gli avvocati amano masticare bocconi morali. Ma non li ingoiano.

I carnivori sono diventati industriali − continuo, − gli erbivori si sono mutati in operai. Legge di natura, amico mio. Ciò spiega anche perché i primi siano pochi e i secondi molti. Gli operai si riproducono a un ritmo sorprendente e la loro moltitudine ci assedia. −

Suvvia, non vorrete sostenere la ridicola tesi di quel sacerdote irlandese, che proponeva di usare i piccoli indigenti a mo’ di agnello arrosto! −

Voi siete un grande estimatore di agnello. Vi è piaciuto il roasted lamb in salsa di mirtilli che ho fatto servire per cena domenica? −

Utterson trasale, mi stringe un braccio per sostenersi, certo ricorda di essersi servito per tre volte di quella piccola indigente delizia.

L’uomo ha il dovere morale di mortificare i piaceri. −

L’uomo ha il dovere morale di perseguire l’evoluzione della specie. −

A un tratto, nel gelido silenzio della notte, ecco sorgere dei passi, brevi e affrettati. Accelero l’andatura, tirandomi dietro Utterson.

Posso sentire l’odore acre della sua pelle, quello grasso della veste e l’effluvio del lubrificante delle catene di montaggio. Il suo ritmo ora è una corsa affannosa, il mio diventa un galoppo furtivo.

Alla svolta della strada ci scontriamo. Lei è una bambina, una piccola operaia con i capelli raccolti in un berretto maschile e gli occhi celesti, accecati dal lampione. In un balzo le sono sopra, le sue ossa scricchiolano sotto la mia mole, strilla, ma con una zampa le tengo saldamente il cranio a terra.

Avanti Utterson! −

Con gli artigli strappo gli stracci che coprono la bambina, gli occhi dell’avvocato sono ipnotizzati da una spalla nuda della preda, il suo boccone preferito. Infine cede e insieme ottemperiamo alla realizzazione della nostra natura.

Mentre stiamo leccando gli avanzi passa una guardia e accosta due dita alla visiera.

Buonasera signori. Buon appetito. −

Grugnisco un saluto. La guardia prosegue la ronda e un grido, poco distante, mi rinfocola i sensi. A Whitechapel si caccia. Dev’essere il Grande Jack, il più evoluto di tutti; voglio assistere all’opera dello Sventratore, c’è sempre da imparare dai migliori, perciò abbandono Utterson, che sta cascando nel torpore dell’appagamento, e mi precipito verso quelle grida inumane. Sulle scale di un’abitazione in Yard Street intravedo il corpo straziato di una donna, due figure incappucciate chine su di lei.

L’odore del sangue è inebriante. I due Jack si voltano verso di me. Sono loro! La donna con i capelli rossi e l’uomo calvo! Stringono ciascuno un bisturi insanguinato, col quale tirano due fendenti alle mie budella ma il mio corpo, ormai evoluto verso una razza superiore, riesce a sottrarsi con agilità.

La razza umana sta cambiando, il momento storico richiede un nuovo ordine di valori. Quest’ordine è un ordine morale ed etico, − ordine ricorre troppo di frequente − un imperativo categorico al quale l’umanità ha il dovere di rispondere. C’è una sola razza eccelsa in Europa, animata da una coscienza superiore: la razza germanica, alla quale noi austriaci dobbiamo essere orgogliosi di appartenere. Questa sarebbe una tesi sull’etica? −

Mentre il professor Schlick solleva gli occhi dall’ultimo foglio, annuisco con fermezza.

A un esame obiettivo, Nellböck, lei ha tentato un approccio induttivo al tema assegnatole, però l’uso di alcuni termini… l’anima germanica, oppure l’essenza della razza… adesso non starò a disquisire sulla cacofonia di essenza e razza, sono minuzie, però, ecco, l’argomento della tesi è fondato su una terminologia imprecisa, alla quale è impossibile far corrispondere degli equivalenti empirici. Le do un consiglio, Nellböck: riscriva tutto usando parole il cui significato sia inequivocabile, riconducibile a un referente concreto, e ci rivediamo il prossimo anno. −

Si alza, il mio esame è concluso.

Ma… ho seguito tutte le sue lezioni… −

Non posso trattenermi, è giovedì, sono atteso al circolo. −

Scappa, scappa, piccolo ebreo. Ti riprendo, prima o poi. Recupero i miei fogli dalla scrivania. Cinque ore per riscrivere la tesi in bella grafia, sulla carta più costosa in commercio. Filosofia induttiva. Filosofia ebrea, dovevano chiamarla. Ebrea e marxista.

Uscendo passo davanti all’istituto di Matematica e Fisica, dalle finestre illuminate a pianterreno intravedo Schlick e quei giudei liberali dei suoi amici, che si sgolano per trasformare le parole metafisiche in parole scientifiche. Non vedo l’ora che il führer porti la sua scienza a questa metafisici austriaci. Metafi-si-ci austria-ci. To’, è cacofonico.

Non riesco a dormire. Mi rigiro nel letto pensando alla faccia boriosa di quel circonciso. Chi si crede di essere? Lui è il Nulla, di cui alle lezioni diceva peste e corna.

Leggo qualche pagina del Mein Kampf, che mi risolleva l’umore e all’alba so cosa devo fare. Vado da Kurtz. Mi fornisce con lieta solerzia tutto ciò di cui ho bisogno. Com’è biondo e gentile, come sono amichevoli gli ariani.

Entro nel cortile dell’università, Schlick sta salendo le scale con l’aria più innocente del mondo, perché il mondo non sa cosa complottano lui e i suoi amici, dannati filosofi!

Faccio i gradini tre alla volta, lo raggiungo, lo affianco, lui si volta, sparo, tre, quattro colpi, in pieno petto.

Sento gridare. Gli studenti urlano, i professori accorrono. Che gridate, imbecilli? Vi ho liberato dal Nulla.

Arriva la Legge in divisa. Sono l’uomo calvo e la donna con i capelli rossi!

Fuggo, il sangue di Moritz Schlick mi fa incespicare, cola giù lungo Boltzmanngasse, arrossa la piazza sulla quale due operai in tuta bruna stanno dipingendo una colossale svastica nera. Corro, sparo gli ultimi due colpi contro i miei inseguitori, sbatto su una delle bancarelle della piazza, pretzel a forma di teschio, bon-bon di fragola, denti di zucchero e occhiali di caramello finiscono in terra, in un groviglio di festoni di bandierine a forma di croce uncinata.

Mi rialzo, uno studente in bicicletta mi sfiora, è Ludwig, un allievo di Schlick; gli appioppo un cazzotto e lo lascio per terra rintronato a toccarsi il naso che sanguina. − Il sangue non è metafisica − mormora fra sé. Sempre stato un po’ tonto Ludwig.

Pedalo a tutta velocità. Sbando e urto un ponteggio montato a ridosso di un muro; le tavole oscillano, l’imbianchino coi baffetti mi lancia una sequela di maledizioni, un secchio di vernice bianca mi cade in testa, non ci vedo più, devo lasciare il manubrio per levarmelo di dosso. Ora ci vedo di nuovo.

Vedo una fila di soldati in ritirata. Li spio nascosto dietro una collinetta di neve fresca.

Non possono scorgermi, perché la muta del pelo è completa, sono bianco e silenzioso. Devo solo stare attento, di notte, al luccichio degli occhi, perché i soldati sono affamati e disposti a cacciare anche un grosso lupo come me. Sento l’odore delle loro pulci e dei piedi in cancrena avvolti negli stracci. I rumorosi carri di metallo e gasolio sono stati abbandonati molti chilometri indietro, paralizzati dal gelo.

Impassibile, li osservo sfilare, uguali a coloro che li hanno preceduti, i francesi di Napoleone, gli svedesi di Carlo XII, i turchi ottomani. L’inverno, con i suoi denti di ghiaccio, se li mangiò tutti, mentre un lupo osservava paziente, in attesa di un po’ di carne.

Alcuni uomini armati si staccano dalla colonna e si inoltrano fra gli alberi, sparano ai passeri e ottengono qualche piuma a mezz’aria, puntano un ermellino e quello si tuffa nella tana prima di essere raggiunto dal piombo.

Al tramonto si accampano e dalla pentola sul fuoco esce ancora il sentore di cuoio bollito, che strappano a morsi con le loro corte zanne.

C’è sempre qualcuno, più debole e avvilito degli altri, che si accuccia lontano dal calore. Il freddo lo rende insensibile, una glaciale coltre di sonno, oblio, morte sta per ricoprirlo.

Striscio sul ventre, l’odore della preda mi fa sbavare. A un tratto percepisco due animali alle mie spalle, ne avverto l’alito caldo che gli attraversa le zanne. Due orsi. Uno col pelo rosso, l’altro con la schiena scorticata da non so che malattia. I miei inseguitori.

Si preparano ad attaccarmi e io mi ritrovo preso fra loro e gli uomini armati. Levo un potente ululato, gli orsi si ergono terribili sulle zampe posteriori muggendo di rabbia, i soldati aprono il fuoco, io me la svigno attraverso un cespuglio, scivolo lungo un pendio e corro incontro all’enorme luna bianca che si sta levando a est, immensa, inesorabile, mi strappa di gola un lunghissimo ululato, e poi un altro e un altro ancora.

Alla mia infelicità rispondono gli altri lupi e in coro urliamo contro la condanna alla fuga, al respiro, alla solitudine.

La luna si riflette nell’acqua contenuta nel secchio di legno. Il secchio oscilla, tenuto assieme da una logora cordicella di bambù, all’estremità della mia pertica, e il suo dondolio è simile all’illuminazione verso cui tendo con tutte le mie forze. La corda si spezza, il secchio si rompe, l’acqua bagna le pietre del tempio ma io resto nell’oscurità.

Decido di tornare dalla maestra.

Maestra Chiyono − domando, − dove troverò l’illuminazione? −

Lei mi risponde che nella città di Nagayo abita la vecchia Shunkai, proprietaria di una casa da tè e piuttosto erudita nello zen.

Mi metto in cammino per raggiungere Nagayo, indifferente alle incursioni aeree degli americani, che si ripetono ogni giorno. Gran parte della città è distrutta, per fortuna la casa da tè è ancora in piedi. La vecchia Shunkai mi accoglie affabilmente.

Sei qui per il tè o per lo zen? − domanda sollecita.

Per lo zen. −

Accomodati dietro il paravento. −

La precedo dietro un paravento laccato di nero su cui spicca un volo di candidi cigni e lei mi colpisce tra le spalle con un attizzatoio.

Sei pazza? − grido.

Hai ancora molto da meditare. −

Furente, infilo i geta e mi arriva un altro colpo sulla schiena, più forte del primo. In quel momento giunge l’illuminazione. Un terzo colpo mi fa sussultare.

Basta, basta, ho compreso. −

Ma quando mi volto vedo che l’attizzatoio è nelle mani di una geisha dai capelli rossi. Scappo all’esterno.

Al ladro! Al ladro! − grida lei.

Un samurai calvo, che si pavoneggia al centro della strada nel suo superbo kimono di seta verde, sguaina la spada e mi sbarra il passo, alle mie spalle sopraggiunge la geisha. Il samurai solleva l’arma con entrambe le mani quando all’orizzonte compare una grande nuvola.

I cittadini di Nagayo si fermano sbigottiti davanti a quell’altissima colonna di fumo grigio che nasce dalla terra e si allarga come un ombrello, pascendosi del cielo e della luce. Subito dopo l’aria stessa, divenuta rabbiosa, ci spinge a terra, e un boato possente annuncia che gli dei hanno distolto i loro occhi da noi.

Lo schermo diventa nero, si riaccendono le luci della sala.

Alcuni tra i giornalisti presenti sollevano la mano, prende la parola l’inviato del Washington Post, seduto nella prima fila, che si rivolge subito a Enrico.

Professor Fermi, lei ha realizzato la prima pila nucleare… −

Inizia il consueto assalto della stampa liberal.

So perché Enrico ha accettato di partecipare a questa commemorazione, lui ci crede ancora, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo, nella democrazia, nell’uguaglianza. Crede in “questo è un paese libero”, come diceva nostro figlio Giulio da piccolo: − Non puoi mica obbligarmi a lavare le mani. Questo è un paese libero. −

Era il 1945 e gli analisti di Washington prevedevano almeno un altro anno di guerra.

Lei ritiene che quell’azione, più che una necessità, fosse un esperimento atomico su vasta scala? −

Questo è un paese libero. Libero di darti una medaglia al merito per “condotta eccezionalmente meritoria” e anche libero di accusarti, vent’anni dopo, di non aver avuto coscienza civile, umana pietà.

Potevate rifiutarvi − sbotta una giornalista.

Certo che potevano. L’ex impiegato dell’ufficio brevetti di Berna lo aveva fatto: contrario a ogni forma di belligeranza.

Ma Enrico non ragiona così.

Lo sviluppo della scienza è essenziale al progresso dell’umanità − replica secco, col suo perfetto accento americano. − Dai tempi in cui Alessandro Volta, nel suo laboratorio… −

Un gran baccano, oltre le porte della sala, precede l’irruzione degli studenti, trattenuti in parte dagli addetti alla sicurezza. Agitano cartelli inneggianti alla pace e all’amore, alcuni sollevano il pugno, scandiscono slogan politici, una nuvola di patchouli si mischia col fetore caprino dei loro corpi.

Una ragazza, i capelli rossi trattenuti da un cerchietto di cuoio, e un uomo, sulla cui testa rasata spicca la Y rovesciata e cerchiata, sono i più esagitati. Tirano noci, semi, fiori di ibisco sui conferenzieri ma si accaniscono soprattutto contro di me.

I tempi sono cambiati, questa è la scientifica verità di cui Enrico non vuole prendere coscienza. Vorrei che fossimo tornati a Roma. La testa di morto in fez non c’è più, la sinagoga è stata riaperta e noi saremmo oggetto dell’asprigna curiosità dei romani, che anche quando riconoscono una celebrità l’apostrofano col tu.

Tu − mi intima un pizzardone. − Accosta. −

Le sirene si avvicinano.

Il compagno Mauro ha incrociato il sindacalista sul marciapiede, all’altezza di via Marcello, e gli ha scaricato cinque pallottole nel petto. L’ho raggiunto, mi ha passato l’automatica e si è defilato sulla 128 bianca, guidata dalla compagna Alasia, che lo seguiva dappresso.

Un nemico del popolo è stato eliminato, ora bisogna far scomparire anche l’arma.

Sono saltato in sella alla mia Honda e mi sono diretto verso il Capitolino, ma il pizzardone mi ha intimato l’alt.

Mi fermo, calmo e quasi sorridente. Infilo sottobraccio il borsello nero in cui ho chiuso la pistola e cerco la patente nella tasca interna della giacca. Quello scruta me e i documenti, le lampeggianti blu ci superano a tutta velocità e da via della Consolazione vengono giù tre auto civetta, i pulotti a bordo mi lanciano un’occhiata carica di sospetto.

La mia aria da pariolino, capelli corti, guance lisce, abiti puliti, tranquillizza Digos e pizzardone. La patente mi viene restituita, non è un falso male contraffatto, è autentica. I militanti irregolari conservano l’identità e il ruolo produttivo nella società, in attesa di cambiarla, la società.

Riparto, a velocità moderata, dopo aver messo il borsello nel vano sotto la sella.

Duecento metri più avanti, da una viuzza laterale, sbuca una delle auto civetta di poco fa, guidata dall’uomo calvo, accanto a lui c’è la donna con i capelli rossi.

D’impulso stringo la manetta del gas e me la filo. Quei due non vogliono un prigioniero politico, vogliono la mia pelle.

Costeggio il lungotevere col cuore in gola, nella piazza davanti al tempio di Vesta mi convinco di averli seminati. Accosto, scendo, incateno la Honda a un palo ed entro nel porticato di Santa Maria in Cosmedin. Il compagno dovrebbe esserci già, gli mollo la pistola e taglio.

In fondo al porticato si trova la Bocca della Verità. Una coppia di turisti tedeschi si sta facendo fotografare dal figlio mentre infila divertita la mano nella bocca della divinità.

Il compagno è in ritardo.

I tedeschi entrano a vedere la chiesa. Sono solo. Mi fermo pensieroso davanti al faccione.

Sento una frenata brusca, uno sbattere di portiere, un tramestio sospetto di là della cancellata che chiude il colonnato. Il panico mi riassale, estraggo la pistola dal borsello e la infilo nella Bocca della Verità spingendola in fondo.

È profonda, tiepida, un ottimo nascondiglio, ma quando cerco di sfilarmi scopro di essere rimasto incastrato, come se qualcosa, là in fondo, trattenesse la mano. Scuoto il braccio e affondo sino alla spalla, sono costretto ad appoggiare la guancia sulla pietra gelida del faccione, che inizia a muoversi tutto; si contrare, si anima, sembra che voglia parlare, allarga la fessura ed ecco che anche la mia testa viene inghiottita.

È buio. Oscurità assoluta in cui scorre il fiume setoso che mi risucchia lentamente. Ora sono adagiato sulla schiena, incapace di contrastare il movimento ritmico che mi sposta in profondità; ogni contrazione mortale soffocamento, ogni dilatazione pausa di terrore. Percepisco un chiarore in fondo, un balenio discontinuo mi giunge attraverso le palpebre traslucide. E suoni vaghi, alti e bassi, dissonanze, stridori. Scivolo in avanti, muto e sgomento, impotente sono consegnato al mio destino.

Sento che è giunta la fine. Non c’è più speranza, non posso tornare indietro, sul canottino rosso, mai più. La luce si fa intensa, il rumore mi stordisce, le membra sono inerti, paralizzate dal gelo.

Sono morto.

No! Non può finire così! Spalanco gli occhi per vedere la morte in faccia e urlo con tutte le mie forze contro quest’ingiustizia.

 

Il ginecologo, un uomo alto e calvo, strizzò gli occhi, sorridendo dietro la mascherina da chirurgo. Si era preoccupato solo quando aveva sentito il braccio del bambino, ma la manovra rotatoria aveva sistemato il feto nella posizione corretta.

L’ostetrica si scostò col dorso della mano una ciocca di capelli rossi, sfuggita alla cuffia, e sospirò di soddisfazione, quindi passò al dottore le forbici e dopo il taglio annodò il cordone ombelicale.

La mamma, sfatta e sudata, accennò un sorriso mentre la sua creatura veniva lavata e pesata. Una bambina sana e integra, con una gran voglia di usare i polmoni. I suoi strilli giungevano fin nel corridoio.

(*) Riprendo il racconto di Clelia Farris (già presente in blog e più volte recensita) dalla rivista «Cronache di un sole lontano» – assai ben fatta, in alta definizione e molto colorata – di Sandro Pergameno: 99 pagine con articoli su fantascienza e fantasy e in coda tre racconti. In pratica il meglio del suo blog. Questo è di fatto il numero tre oppure il due considerando lo zero un non numero. Lo scorso mese uno dei racconti della rivista era di Vincenzo Spasaro, un omonimo di quello che ogni tanto passa qui in blog (escluderei fosse quello che conosco perché mi avrebbe fatto un fiiiiiischio; oppure è lui e ha fischiato al mio omonimo; oppure qui qualcuno è sordo e qualcun altro non sa fischiare; oppure siamo in mondi paralleli, miscelati e rinascenti a ogni batter di ciglia… da far invidia a Clelia Farris). Seguono nell’ordine: un dibattito, tre sparatorie, un frullato, il ballo della diciottenne Gipsy, l’ingloriosa fine di Renzi, un triste marciapiedi  senza disegni interessanti. Perchè questo è un martedì e chi dice il contrario raffreddore lo colga. (db)

Vi consiglio di leggere tutto, partendo da qui: cronachediunsolelontano.blogspot.com. La grafica è di Tiziano Cremonini del tipo «yuk yuk, troppo gusto per me» (cioè per chi legge).

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

5 commenti

  • Questo racconto a me è parso bellissimo, anzi geniale e mi ha fatto venir voglia di sapere quando uscirà il nuovo libro di Clelia Farris. Se fra voi ci sono spie o se avete un filtro che (per via telepatica?) induca l’autrice a svelare i suoi segreti… fatevi sentire. Garantisco massima riservatezza, chiedere di Danny l’impiccione.

  • Caro Danny l’impiccione, il romanzo della Farris è già uscito. Nel senso che ha abbandonato la sua testa e se n’è scappato per il mondo in cerca di editore. La madre è disperata e aspetta trepidante che torni. Con editore, ovviamente. E’ una tipa tradizionalista, vuole che Romanzo ed Editore si sposino.
    Questo è tutto quello che sono riuscito a sapere.
    Jack Crastulo

    P.S.
    Ma chi è ‘sto Editore?

  • Purtroppo il Vincent è quello giusto- o quello sbagliato, a seconda dei punti di vista.
    Ed è così oberato di lavoro e con la testa fra le nuvole che ha dimenticato di segnalarlo a Dibbì insieme a molte altre cose.
    Adesso però il Vince sbagliato, per fare ammenda, proverà a coinvolgere Sandro Pergameno e Tiziano Cremonini affinché sottopongano, se ne hanno voglia, i numeri passati e futuri della rivista al vaglio dell’unico, vero Dibbì.
    Fra parentesi il Vince sbagliato ha molte notizie sulla Farris che non rivelerà a nessuno pena la disintegrazione.
    Altra parentesi per dire che nello stesso numero di Cronache Di Un Sole Lontano trova posto fra gli altri uno splendido racconto di un altro pallino del vero Dibbì, ovvero Maurizio ‘mitico’ Cometto.

  • ringrazio dei complimenti anche a nome di Tiziano Cremonini. A mio avviso, tutti e tre i racconti erano di ottimo livello (Farris, Cometto e Stocco). anch’io ogni tanto passo da queste parti a leggere le perle di saggezza di DB…Sandro P

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *