Lettere dal Sahel

Lo sguardo sul mondo e sulla vita in Africa di un missionario italiano da Niamey, la capitale del Niger

di Mauro Armanino (*)

Giorni di sabbia. Ostaggi e scomparsi nel Sahel

Gli antichi avevano capito tutto. I giorni si misurano con la sabbia. Non c’è nulla di più naturale e consono che contare il tempo con la sabbia che scorre, come in una clessidra, dall’alto al basso. Col tempo si imparò ad usare l’acqua che, in modo più preciso, marcava le ore del giorno e della notte. La sabbia e l’acqua si assomigliano. In entrambi gli elementi la vita si nasconde e per momenti scompare alla vista dei più. Alcuni per qualche mese, altri per sempre. La sabbia del Sahel è fatta di giorni che scorrono dei quali si perde la memoria e nessun calendario ha saputo, finora, contarli.

Fanno 500, i giorni di sabbia per 39 persone, ragazze per la più parte, rapite nella regione di Diffa, nel sud-est del Niger, pure lui fatto di sabbia. Quasi tutte avevano meno di vent’anni dal giorno della sparizione, il 2 luglio del 2017. Oltre un anno senza notizie apprezzabili e con la consueta fedeltà è solo la sabbia che continua a scorrere e contare le ore e i mesi di assenza dal villaggio di Ngalewa. Per l’amico missionario Pierluigi Maccalli sono giusto due i mesi che la sabbia ha messo da parte per abitudine. Anche in questo caso non c’è che lei, la sabbia, a rimanere come testimone del tempo.

Nel Sahel abbiamo tutti la stessa sabbia che seppellisce sommersi e salvati. Non ci fa mai mancare la sua sottile e pervasiva presenza. Potremmo sparire da un momento all’altro, inghiottiti dal mare di sabbia che non si stanca di contare. Dal 7 gennaio del 2016 una signora svizzera è scomparsa a Tombouctou nel Mali e ad aprile del 2015 è un agente di sicurezza di origine rumena ad essere rapito nel nord del Burkina Faso. Un anno dopo è la volta di un medico austriaco, preso con la sua signora poi liberata, nel nord-est del Paese dove operava da diversi anni. E la sabbia rimane a guardare.

Suor Gloria, di origine colombiana, è stata presa nel sud del Mali nel mese di febbraio del 2017. Ancora nel Mali Sophie, di nazionalità francese, è stata portata via da Gao, città dove viveva dal 2000. Nel Niger è un umanitario tedesco, operatore dell’ONG Help, ad essere preso in ostaggio l’11 aprile di quest’anno nei pressi della frontiera col Mali. Invece è nel mese di settembre scorso che tre persone, di cui due straniere, sono scomparse nel Burkina Faso. Entrambe lavoravano per conto di una miniera d’oro. La sabbia conta le ore, i giorni, le settimane e financo gli anni. La vita è un miscuglio di sabbia.

Il vento e la sabbia cospirano per passare il tempo coi viventi, scomparsi, ostaggi e cittadini del Sahel. Ecco perché, in fondo, le sparizioni non ci stupiscono più di tanto. Anche i cittadini sono tra gli scomparsi del Paese. Viventi, presenti e scomparsi sono fatti della stessa sabbia che tutto livella e misura.Gli anni e i mesi sono come un giorno solo e non parliamo delle ore. Qui il tempo si misura sul presente e arrivare a domani potrebbe essere considerato un successo. Il vento, assieme alla sabbia fanno in modo da sparigliare progetti, storie e parole. Pure queste ultime sono trafitte dalla sabbia.

Siamo da essa sedotti, abbandonati e infine salvati. Scomparsi da tempo nella sabbia, ostaggi della follia e del calcolo, rapiti dalla distratta e colpevole indifferenza del sistema globalizzato. Cittadini come mercanzia da scartare dopo le rituali elezioni cofinanziate dalla comunità internazionale. Inghiottiti da sabbia e silenzio prima ancora di essere portati via a scopo di lucro e intimidazione. Nel Sahel i primi a scomparire sono i comuni cittadini, i contadini e i bambini di strada. Sono questi ultimi  che portano in giro i ciechi per mano e, a loro nome, mendicano ai crocevia.Invisibili ai più.

La sabbia da sola non farebbe nulla senza il vento. E’ lui che porta lontano ostaggi, scomparsi e giorni da contare che non passano mai. La sabbia li accarezza e li lusinga senza preoccuparsi di mantenere le promesse. Tutti i cittadini del Sahel lo sanno a menadito. Non c’è vento che non porti la sua verità e insieme la sua menzogna . Ecco perché hanno impara a fidarsi solo della sabbia, anche per contare i giorni.

Niamey, novembre 2018

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Delitto e castigo nel Sahel

Non da oggi è stato decretato come tale. Un delitto in piena regola, quasi perfetto non fosse per i sopravvissuti che scavano sentieri nel deserto. L’utopica idea di fare delle frontiere dei luoghi di transito per l’umana mobilità è ormai un atto tra i più sovversivi. Dichiarare che il mondo, così com’é pensato, non è che una serie di muri e fili spinati organizzati è inconcepibile. Muoversi, portandosi dietro radici nomadi, suona come un’eresia contemporanea. Il diritto di inventare la coniugazione del verbo viaggiare è insostenibile, se non si danno prima garanzie di lealtà al sistema. L’unico modello accettabile è quello del turista, che si sposta senza punto cambiare. Dal Messico all’Angola, dal Sahel al Mediterraneo, il delitto di volere un futuro differente è giudicato e poi condannato come sovversivo. Migrare è un crimine passibile delle pene previste e impreviste dalla legge.

I campi di detenzione amministrativa in Europa, poi tradotti in campi di tortura in Libia sono altrove adattati in case di transito e riparazione nel Niger. Il principio non cambia. Il delitto di mobilità va punito, in modo esemplare, simbolico e reale. L’impero al crepuscolo non sopporta l’arrivo dei ‘barbari’ che ne assediano i confini. La contaminazione sarebbe fatale perché arriva da fuori del corpo sociale e senza nessun cordone sanitario. Il castigo si organizza anche tramite i progetti di sviluppo, fondamentalmente legati all’improbabile stabilizzazione delle velleità mobili dei soggetti in cerca di giustizia sociale. Se poi si vuole definitivamente affossare lo spirito di novità latente dei disobbedienti sarà sufficiente fare appello alle Organizzazioni Non Governative. Il mondo umanitario avrà nel frattempo ricevuto le istruzioni necessarie per renderle non solo innocue ma funzionali al sistema.

Gli altri delitti sono ben noti. Osare rivendicare la parola e la dignità confiscata da parte di giovani, contadini e attivisti dei diritti umani è un’azione riprovevole. Organizzare un’informazione libera che provi ad illuminare la realtà è un’offesa al senso comune. Rifiutarsi di lasciarsi comprare dal mercato dell’impostura e dalla guerra senza fine risulta insopportabile per qualunque potere che si rispetti. Osare rivendicare il diritto alla sicurezza alimentare, all’educazione per tutti e ad una vita degna è considerato come un attentato all’ordine pubblico. Questi ed altri delitti sono punibili a termine di legge che, invece di proteggere i deboli, si è industriata per garantire i forti. Le prigioni di regime sono la punizione privilegiata e riconosciuta per questo tipo di efferati delitti. Ma il castigo peggiore consiste nella schiavitù volontaria e l’autocensura dei perpetratori. Il sistema allora ha vinto.

Non per molto tempo. Per chi sa profetizzare i muri sono già dipinti di fiori e i fili spinati utilizzati come stenditoi di biancheria. Il silenzio dei poveri è diventato una melodia di liberazione. In quel giorno, giustizia e pace si abbracciano sorridendo. Cominciando dal Sahel.

Niamey, novembre 2018

(*) Mauro Armanino scrive regolarmente su Comune-Info e ogni tanto i suoi pezzi sono ospitati anche qui in Bottega

Redazione
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