L’impossibile archimedeo

Allosanfàn parte settima: ancora Aldo Palazzolo (*)

Recupero frammenti antichi, per creare un mosaico d’immagini e suggestioni, che meritano musica a sigla, musica in fondo.

Charles Baudelaire si scagliò con tale veemenza sulla fotografia, da far venire mossa ogni foto nel raggio di chilometri dal suo Salon. Non era ammissibile, per il poeta vergine, che la fulminea attrazione dell’attimo spostasse lo sguardo dalla contemplazione elevatissima dell’arte pura nella sua rappresentazione più autentica, teatro, pittura, musica, poesia. Inaccettabile il processo di massificazione e tecnologizzazione dell’arte. L’industria si sostituiva al genio creativo, lo filtrava attraverso uno strumento, poneva anche gli inetti nella condizione di potersi definire artisti.

Charles Baudelaire

Poi si fece fotografare in poltrona dall’amico Nadar, e questi ne colse, nella sua posa disincantata, tutta la poetica, sublimandola nell’attimo, appunto.

Nadar aveva compiuto il miracolo, anzi no, la magia, di elevare la sua arte a livelli insospettabili, usando l’immagine del suo più feroce – e certamente credibile – avversario, per emanciparla dal mero tecnicismo cui rischiava di essere relegata per sempre. Di più, l’invasione di campo della fotografia, capace di raccontare il reale con efficacia assai maggiore del più attento iperrealismo manierista, sospinse tutte le altre arti figurative verso orizzonti nuovi, alla ricerca di realtà parallele cui l’occhio non poteva giungere.

Come vi fosse testimone invisibile, Aldo Palazzolo raccoglie l’eredità di Nadar, la attualizza che non gli vien bene fotografare Baudelaire in poltrona. Palazzolo ritrae l’artista, il detentore unico e assoluto dell’atto creativo che genera l’opera. Quello non è in vendita, nemmeno merce plausibile a scambio, appartiene solo all’artista. Solo le opere finite sono al dettaglio. La parola opera e la sua aggettivazione più consueta, finita, sono in stridente contraddizione. Opera offre un senso di dinamismo, di divenire. Finita è qualcosa che la smentisce. L’opera è viva quando non definitivamente plasmata, ancora si trasforma, cresce, matura, cambia, impara, persino. Poi il fermento si esaurisce, l’opera è finita, non c’è più niente che la renda viva. Completare l’opera significa, dunque, recitarne il de profundis? Si espongono, si leggono, si condividono, le lapidi funerarie dell’atto creativo? Le collezioni, le esposizioni, le biblioteche sarebbero nicchie votive per le spoglie mortali dello spirito d’artisti, del loro genio sepolto, e gallerie, abitazioni sontuose, ricche di ‘opere finite’, solo cimiteri. L’artista autentico conosce questo segreto, lo custodisce gelosamente. Gli altri sono mercenari, cercano critici che recitino litanie al capezzale dell’arte che muore. Ma dopo l’atto creativo ciò che resta è comunque il demiurgo, l’artista, una donna, un uomo.

Patty Smith

Franco Battiato
Giovanni Michelucci
Giuseppe Sinopoli
Lina Wertmuller
Maria Cumani Quasimodo
Mario Perniola
Rudolf Nureyev
Claudio Magris
Don Moye
Eva Rubinstein

Aldo Palazzolo è a questi che rivolge il suo sguardo, ne destruttura la natura artistica, restituisce al corpo, all’espressione, alla posa accidentale, la dimensione stessa d’opera d’arte. L’artista non è più semplice detentore dell’atto creativo, diventa esso stesso oggetto di quell’atto, immerso nella vertigine del bianco (il nulla che nasconde il tutto infinito dei colori) che ne definisce l’immagine scarnificata sino all’espressione essenziale. Poco importa se davanti l’obiettivo vi sia Patti Smith, Borges, Bufalino, Battiato o Sinopoli, ciò che resta è la natura umana estremizzata all’indispensabile, talmente minimale da spiazzare. Il genio guarda ad altezza d’occhio, da pari s’affratella al resto del genere umano, non è più vetta irraggiungibile, solo essenza d’umanità, dunque, capolavoro definitivo. Di più, talora, sorpresa, l’immagine si destruttura ancora nel gioco alchemico del caso d’una camera oscura, si trasforma e pare che ogni incavo esistenziale, ogni concretezza artistica venga trascinata dalle onde del Mare d’Ortigia, spinta da un Kaos rigenerativo che stravolge il dettaglio, ne rende le sfumature fondamentale quadratura del cerchio, l’impossibile ricerca d’Archimede.

Aldo Palazzolo, dalla Siracusa matrigna, è fra i testimoni più importanti del nostro tempo avendo immortalato i più grandi protagonisti del mondo della cultura contemporanea. Personaggi illustri (tra gli altri, Patty Smith, Adonis, Giulio Andreotti, Gesualdo Bufalino, Rudol’f Nureev, Sinopoli, Julian Beck) ma anche dettagli sorprendenti ed inconsueti che racchiudono storie, segreti, interessanti sempre. Immagini che inquietano profondamente e spesso, quasi sempre anzi, seducono. Nel 1989 il critico Peter Weiermair lo segnala fra i ritrattisti più importanti al mondo allestendo l’esposizione e il catalogo per “Il ritratto nella Fotografia Contemporanea” con artisti come Andy Warhol, Robert Mapplethorpe, Annie Leibovitz, Bruce Weber, Mary Ellen Mark, Cleg & Guttman, Lynn Davis, Thomas Ruff. Ha esposto in manifestazioni di prestigio internazionale: da Arles, dov’è presente nel 1992 con una grande personale, alla Biennale di Venezia, ai festival di fotografia di Amsterdam, Liegi, Montpellier etc. Dal ’90 in poi vira verso una ricerca personalissima che lega l’elaborazione della foto alla riflessione sulla luce e sull’alchimia e che denomina “Liquid Light”. È stato fotografo di scena nel film “Il Garofano Rosso” ed ha curato le scenografie degli spettacoli “Change de Peu” a Geneve e “Le vecchie e il mare”, dal testo del poeta greco Jannis Rytsos, a Catania e Genova. Autore dei video-ritratti dedicati a Manlio Sgalambro, filosofo catanese, ed Enzo Sellerio, fotografo e fondatore dell’omonima casa editrice palermitana.

(*) ripreso da chiedoaisassichenomevogliono che si apre con questa dichiarazione di intenti: «Tutto quanto appare su questo blog è, salvo espressamente specificato, prodotto da me, e poiché ho deciso di essere nessuno, appartiene a nessuno, dunque a tutti. Per cui ne è consentita la riproduzione parziale, totale, a frammenti e schegge, il rimaneggiamento, la mutazione genetica o quant’altro si voglia, senza necessità di citarne la fonte, che del resto non è citabile giacché nessuno non esiste».

 

La fotografia qui sotto – e messa in evidenza – è stata scelta dalla redazione della “bottega”. Si tratta con ogni evidenza di un dagherotipo (con le due cassette scorrevoli e il tappo che funge da otturatore): siamo verso la fine del 1800, il tempo di un clic ed è subito 2022.

Redazione
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