Israele: vincono sempre occupazione e apartheid

articoli di Breaking the Silence, Antonio de Lellis, Amira Hass, Richard Falk, Hani al-Masri, Ilan Pappè, Gideon Levy, Yuval Abraham, Marwan Bishara, Hagar Shezaf, Jonathan Kuttab, Alex Levac, Hagai El-Ad, Quds Network, Ramzy Baroud

L’occupazione israeliana ha lo spot elettorale che merita – Breaking the Silence

La settimana scorsa, questa pubblicità satirica per le elezioni – per il finto partito “Blood: A Strong Occupation for Israel” – è diventata virale in Israele.

Dietro a questa pubblicità “SANGUE: una Forte Occupazione per Israele” ci siamo noi di Breaking the Silence.

Abbiamo anche messo dei cartelloni pubblicitari sulla principale autostrada di Tel Aviv, con un pugno chiuso e la stella gialla di David, entrambi simboli del partito fuorilegge suprematista ebraico ‘Kach’, la cui incarnazione moderna si prevede che dopo queste elezioni diventerà il terzo più grande partito alla Knesset.

La nostra era satira.

Ma in Israele, la linea che separa la satira dalla realtà è talmente sottile che si potrebbe perdonare la gente per aver scambiato questo Blood per un vero partito.

Quella che per noi è satira, per molti elettori ricorderà fin troppo i manifesti dei partiti di destra.

Pochi giorni fa, i volontari che accompagnano i palestinesi a raccogliere le loro olive in Cisgiordania sono stati brutalmente attaccati da una folla di coloni, e ore dopo i soldati stessi sono stati attaccati dai coloni, presumibilmente per non essere stati abbastanza compiacenti con loro.

Nella nostra realtà politica, “forza” e “sacrificio” funzionano come parole d’ordine utili per l’oppressione e la supremazia perpetua sui palestinesi. Alla fine, chi fa i veri sacrifici non sono i politici, ma i palestinesi che devono vivere sotto occupazione giorno dopo giorno. E questo per non parlare delle decine di migliaia di giovani soldati che ogni anno vengono mandati a uccidere ed essere uccisi affinché questo incubo selvaggio continui.

La nostra finta campagna elettorale è intesa come un campanello d’allarme per gli israeliani, che ora stanno andando alla quinta elezione in tre anni, eppure l’occupazione è stata menzionata a malapena da qualcuno di loro.

Il nostro messaggio è chiaro: se non votate contro l’occupazione, votate a favore.

Ed ecco il nostro spot:

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

da qui

 

Quando visiti la Palestina – Antonio de Lellis

 

Quando visiti la Palestina il muro ti entra dentro. Vivi un istante di dramma inconsolabile, di una ingiustizia tagliente, di una speranza attiva. Vivi nel racconto carico di forza di chi sta soffrendo, nel sorriso acceso delle donne, negli occhi neri e profondi dei bambini e delle bambine, nella simpatia di chi lotta. Vivi l’accoglienza di un popolo fiero e antico, di uno sguardo stanco e mai arreso, nell’operositá di donne colme di dignità.

Quando visiti la Palestina il muro ti entra dentro. Vivi la lotta nonviolenta nell’orgoglio di generazioni che guardano al cielo, che hanno mani ruvide e del colore rossastro della terra, perseveranti come la roccia, ovunque presente, come il vento che ti frusta il volto. Vivi la sprezzante presunzione di chi occupa la terra, condizionando il giorno e la notte nella umiliazione e nel sangue. Vivi lo stato di occupazione, i militari dappertutto, le assurde costruzioni di coloni aggressivi e potenti.

Quando visiti la Palestina il muro ti entra dentro. Vivi la poesia e le parole fatte di pietre e di sconfinata tenerezza, Vivi, senza comprendere, il senso di quella segregazione e mutilazione, sociale, economica e politica. Vivi quel muro alto e irragionevole che delimita il diritto dall’anarchia statale di chi impone e occupa, vivi il muro come un mostro incombente, come una cesura e rottura, come un coltello tagliente, come un fuoco che soffia solo da una parte. Vivi i giovani che lottano stanchi e delusi, privati di diritti e ricchi di povertà, miseria, visioni possibili e azioni concrete, dentro una economia subordinata, dipendente e asimmetrica.

Quando visiti la Palestina il muro ti entra dentro. Vivi il fastidio dei controlli, della sicurezza idolatrata, dei mitra esposti, dei soldati troppo giovani per avere quel potere. Vivi l’ostinazione e l’amore di un popolo laborioso che costruisce una economia di pace, una società della cura, di chi non vuole avere nemici, di chi studia azioni nonviolente, ma che comprende la resistenza limitata, nonché la più diffusa resistenza popolare civile nonviolenta. Vivi il cibo offerto, semplice e autentico, di persone al servizio dello sviluppo di un paese che ti entra dentro e prende il posto di un muro osceno e barbaro che non può resistere all’ardore di una popolazione che ha il diritto di resistere e esistere.

Quando visiti la Palestina, un popolo coraggioso ti entra dentro.

https://comune-info.net/quando-visiti-la-palestina/

 

La distruzione dello spazio palestinese – Amira Hass

Da decenni Israele porta avanti un piano per appropriarsi della terra palestinese. I suoi strumenti sono gli insediamenti coloniali, la violenza e la sottomissione

Questa è la madre di tutte le escalation, su cui i diplomatici europei o statunitensi a Gerusalemme ricevono regolari aggiornamenti. Ma, sulle bocche dei loro capi in patria, si traduce in cliché come “sosteniamo il diritto di Israele a difendersi”. Anche il cinismo diplomatico sta aumentando.

I mezzi d’informazione israeliani sono ossessionati da questioni minori e transitorie, come l’ultimo sondaggio elettorale, e ripetono fino alla nausea il ritornello dei militari e dei coloni sull’aumento delle violenze a Jenin. La loro missione è evitare di occuparsi di quello che è veramente importante: la pianificata frammentazione territoriale che molti israeliani portano avanti con fredda, giuridica, chirurgica efficienza, avvolta in una sofisticata propaganda e in una religiosità affamata di possesso attentamente calcolata. La mutilazione geografica, demografica ed estetica dello spazio palestinese avviene alla luce del sole.

L’israelizzazione procede a gonfie vele. Lussuosi sobborghi immersi nel verde, annunci di case unifamiliari a prezzi accessibili, rotonde e centri commerciali che vantano un’atmosfera familiare hanno trasformato le comunità palestinesi in uno scenario bidimensionale. O le hanno nascoste dietro cancelli di ferro, bypass roads(strade costruite da Israele per collegare le colonie tra loro), vie bloccate e cartelli in ebraico che proibiscono l’accesso agli israeliani. La pianificazione territoriale di Israele vuole rendere i palestinesi un’entità ridondante e affermare l’inattaccabile superiorità degli abitanti delle colonie ebraiche, ora e in futuro.

Ogni tanto, Haaretz o il sito +972 Magazine denunciano atti di questo stupro dello spazio. Ma due o tre articoli al mese, o anche alla settimana, non riflettono la portata, il ritmo e la natura seriale del fenomeno. Per capire quanto possa essere distruttiva la pianificazione e la disciplina con cui Israele fa a pezzi il territorio palestinese, bisogna continuare a ridisegnare le linee che collegano migliaia (ho detto migliaia? sono milioni) di punti: i fatti sul campo creati da tutti i governi israeliani negli anni.

Unire i punti

Tutto comincia nel 1971 con un ordine militare che abolisce l’autorità di pianificazione delle città palestinesi (l’ordine è ancora oggi valido in circa il sessanta per cento della Cisgiordania). Si continua con l’espropriazione di terre per scopi militari e il loro successivo trasferimento agli insediamenti, in violazione del diritto internazionale; il divieto di costruzione e sviluppo per i palestinesi; strade che divorano l’ambiente; terreni agricoli confiscati (“per necessità pubbliche”) a beneficio degli insediamenti isolati; autostrade in stile californiano che collegano gli insediamenti a Israele; nuove vie asfaltate scintillanti per unire il cuore di ogni insediamento con i suoi nuovi quartieri e avamposti a diversi chilometri di distanza, che inghiottiscono altre terre dei vicini villaggi palestinesi, le loro riserve e i loro pascoli; il divieto per i palestinesi di costruire vicino a questi passaggi; e non dimentichiamo la strada di sicurezza che circonda ogni insediamento.

Si va ancora oltre impedendo ai palestinesi di accedere alle loro terre per anni, con pretesti e mezzi vari; limitando la quantità d’acqua che gli è assegnata e le trivellazioni per trovarne altra; dichiarando centinaia di ettari di campi palestinesi “terra dello stato”; assegnando gli appezzamenti solo ai coloni ebrei; creando zone di tiro per le esercitazioni militari in modo da bloccare il naturale sviluppo rurale dei palestinesi; comprando terreni con documenti falsi; trasformando case mobili in ville permanenti; bloccando le uscite dai villaggi palestinesi vicini; piantando i vigneti degli avamposti agricoli su terre palestinesi apparentemente “abbandonate”; e lasciando che gli avamposti con le greggi, ora molto di moda, divorino altra terra palestinese.

E infine ci sono le decisioni del governo di legalizzare tutto questo, e il muro di separazione, che imprigiona ampie fasce di terra palestinese fertile a ovest, dalla parte di Israele. I proprietari di questi campi possono ottenere i permessi per accedervi in determinati momenti e con grande difficoltà, ma qualsiasi israeliano può attraversarli a suo piacimento, e a volte perfino appropriarsene.

Ognuno di questi fatti deve essere collegato a tutti gli altri. Altrimenti è impossibile capirne fino in fondo il significato e le implicazioni. Sennò non si può vedere il mostro nella sua interezza.

Si possono calcolare gli ettari di terra occupati dagli avamposti di pastorizia. Si può dire quanti ettari sono stati espropriati dalle aree palestinesi, de iure o de facto. Si possono descrivere i denti dei bulldozer che sradicano uliveti antichi e nuovi. E si può misurare quasi al centimetro quanti terreni agricoli chiaramente palestinesi, con antichi pozzi e sorgenti gorgoglianti, sono stati convertiti, o stanno per esserlo, in un tesoro immobiliare per coloni ebrei o in polmoni verdi senza arabi (tranne quelli che ci lavorano). Ma bisogna continuare a unire tutti questi fatti per capire come la terra sia stata riempita di insediamenti: il blocco di Shiloh, quelli di Etzion a est, a ovest e a nord, il blocco di Reihan, l’enclave di Latrun, il blocco di Talmonim, di Ariel, di Rimonim, il blocco formato dalla città vecchia di Hebron e Kiryat Arba. A questi si aggiungeranno presto quelli della valle del Giordano settentrionale, di Shima nelle colline sudoccidentali di Hebron e il blocco di Susya nella Cisgiordania sudorientale. La lunga mano di Israele è ancora tesa.

Non c’è dubbio che la speranza (il piano) del premier Yitzhak Rabin si sia realizzato. Un mese prima di essere ucciso, nel 1995 Rabin disse alla knesset, il parlamento israeliano, che una delle basi di qualsiasi accordo sarebbe stata “la creazione di blocchi di insediamento come Gush Katif anche in Cisgiordania”.

Gush Katif, nella Striscia di Gaza, è stato smantellato. Ma al suo posto sono nati o stanno nascendo altri insediamenti e metastasi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, innumerevoli come i granelli di sabbia su una spiaggia.

Oltre ai resoconti della stampa palestinese, organizzazioni israeliane come Kerem navot, Bimkom, Ir amim, Peace now, Emek shaveh, B’Tselem e Yesh din, nonché l’Arij, l’Istituto palestinese di ricerca applicata di Gerusalemme, forniscono una grande quantità di informazioni, segnalazioni in tempo reale e analisi approfondite. Tuttavia, chiunque non abbia vissuto questo processo o non l’abbia visto con i suoi occhi avrà difficoltà a comprendere la sua violenza distruttrice.

Avvocati, sia per conto proprio sia in organizzazioni come Haqel, l’Associazione per i diritti civili in Israele e il Centro per la difesa dell’individuo Hamoked, insieme ad attivisti palestinesi e israeliani, cercano di fermare questo stupro seriale, o almeno di lanciare allarmi. Ma queste organizzazioni sono poche e piccole, e sono sempre più perseguitate ed emarginate.

I mezzi d’informazione di destra e gli organi di comunicazione dei coloni pubblicano spesso resoconti vittoriosi su nuove conquiste immobiliari divinamente sioniste. Chi legge queste notizie considera la triturazione, la frammentazione e la compressione dei palestinesi in enclave come una redenzione, l’adempimento di un comando divino oltre che un balzo in avanti nella sua qualità della vita e nei suoi guadagni materiali.

La violenza dei coloni e la loro appropriazione di terre palestinesi, al di là di quanto si legge nei piani regolatori ufficiali, sono una parte inseparabile del sistema. La violenza è raccontata un po’ di più, perché è una storia con una trama. Tuttavia, nonostante le occasionali espressioni di sgomento, le forze della “legge” e dell’ordine hanno permesso e continuano a permettere questa aggressione sistematica, legittimandola e incoraggiandola.

Anno dopo anno

Tutto ciò avviene sotto gli occhi dei soldati, che si tengono in disparte o sparano ai palestinesi che accorrono in aiuto dei loro fratelli. Le vittime degli attacchi sono arrestate, gli aggressori ebrei sporgono denuncia, la polizia non identifica i coloni sospettati né li interroga, il caso è chiuso per mancanza d’interesse pubblico e non ci sono indagati. Succede mese dopo mese, anno dopo anno.

La violenza sionista che accompagna ogni nuovo avamposto era ed è come l’urina che un cane usa per marcare il territorio. Dopo arrivano l’esercito, gli urbanisti, il consiglio regionale degli insediamenti e gli avvocati. Si finisce il lavoro con le case mobili, seguite dagli allacciamenti all’acqua e all’elettricità e spesso con l’acquisizione di una sorgente e con il divieto per i palestinesi di accedere ai loro uliveti. Sono autorizzati ad andarci solo due volte all’anno, con un coordinamento preventivo e una scorta militare, se i coloni sono così gentili da permetterglielo.

Ma questo non è mai un confine definitivo e permanente. Altre violenze espandono ulteriormente il territorio, anche di pochi ettari alla volta. E nel processo le sacche destinate ai palestinesi sono inghiottite. Più sono piccole, dense e isolate dalle altre, meglio è.

La frantumazione va oltre il proposito di “ostacolare la creazione di uno stato palestinese”. È un abuso deliberato e istituzionalizzato nei confronti dei cinque milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza (la separazione della popolazione di Gaza da quella della Cisgiordania fa parte della segmentazione territoriale). Questo abuso colpisce proprietà e reddito, tradizione e vita familiare, la possibilità di un’istruzione, i legami sociali, la libertà di movimento, qualsiasi possibilità di un futuro. Il furto istituzionalizzato e sofisticato del territorio aggredisce sia il presente sia la storia di ogni località, città, villaggio e famiglia, e danneggia la salute fisica e mentale di ogni palestinese. Il problema non è che indebolisce l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), ma che sabota inevitabilmente e intenzionalmente la vita collettiva a Gaza e in Cisgiordania.

Una volta il mondo aveva promesso che il diritto all’indipendenza e alla libertà dei palestinesi sarebbe stato realizzato. La promessa è stata tradita. Solo l’impressionante radicamento e la resilienza di queste persone hanno ostacolato un po’ il piano israeliano.

Alcuni criticano il governo uscente, in carica da un anno, dicendo che è peggio dei precedenti per quanto riguarda la politica in Cisgiordania. Denunciano l’alto numero di palestinesi uccisi dai soldati; i pogrom commessi dai coloni con il via libera della polizia, delle procure militari e dell’esercito; i piani per legalizzare gli avamposti, e così via. Questa accusa è allo stesso tempo corretta e sbagliata.

Dato che la frantumazione dello spazio palestinese è un processo pianificato e calcolato che attraversa vari governi, è naturale che ogni fase sia più sofisticata e più distruttiva della precedente e che superi qualche linea che non era stata oltrepassata prima. Si tratta di un’escalation preordinata, che avviene davanti ai nostri occhi e che l’attuale governo di centrodestra formato da Naftali Bennett, Yair Lapid e Benny Gantz non ha fermato né voleva fermare. Ma è solo un caso che l’attuale esecutivo sia responsabile di quello che è avvenuto quest’anno. Nel 2023 l’escalation continuerà; disastrosamente per noi, non c’è nessuna possibilità che il mondo si svegli ed eserciti una pressione significativa su Israele e sugli israeliani affinché la interrompano.

Promesse infrante

La distruzione e l’espropriazione non sono un’invenzione nuova; Israele ha competenza ed esperienza in questo campo. Ora sta facendo in Cisgiordania quello che ha fatto all’interno dei suoi confini riconosciuti (“la linea verde”) fin dal 1948.

All’inizio degli anni novanta, quando fu lanciato il processo diplomatico tra Israele e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), l’aspettativa – da parte dei palestinesi, dei pacifisti israeliani, che una volta esistevano e ora non ci sono più, e dei paesi garanti del processo di Oslo – era che Israele interrompesse il piano di erosione e furto di terra nel 22 per cento della Palestina storica. Ma sotto la copertura dei colloqui di pace, Israele ha accelerato il processo e ha sviluppato un appetito maggiore.

In questo modo ha dimostrato l’accuratezza dell’analisi e delle rivendicazioni fatte dai palestinesi nel corso di più di cento anni: l’obiettivo e l’essenza del sionismo sono l’espulsione dei palestinesi dalle loro terre e dal loro paese.

L’accordo di Oslo era formulato in modo abbastanza vago da permettere di perdere tempo in discussioni sulle date, sulle porzioni di territorio da trasferire all’autorità civile palestinese in ogni dispiegamento militare, sul collegamento tra Gaza e la Cisgiordania, sul ritorno dei palestinesi sradicati nel 1967, sulla costruzione degli insediamenti, sul diritto all’acqua e sull’economia. Data la palese disparità di potere, le interpretazioni e gli interessi della parte più forte – Israele – hanno ovviamente avuto la meglio e si sono riflessi nella politica sul campo.

Il periodo intermedio stabilito dall’accordo doveva durare cinque anni e terminare nel maggio 1999. A quel punto le parti avrebbero dovuto raggiungere un’intesa su un accordo permanente, che avrebbe dovuto essere applicato immediatamente. La leadership palestinese e i capi del partito Al Fatah, che guidava l’Olp, così come i pacifisti israeliani e i paesi arabi e occidentali, giunsero tutti alla conclusione che l’intesa permanente si sarebbe basata sulla creazione di uno stato palestinese indipendente nel territorio occupato da Israele nel 1967, nonostante l’opposizione dei leader israeliani che avevano partecipato agli accordi di Oslo, Yitzhak Rabin e Shimon Peres. La convinzione dei negoziatori palestinesi, guidati da Yasser Arafat, che Israele avesse effettivamente deciso di cambiare atteggiamento e di non appropriarsi più delle terre palestinesi occupate è oggetto di ricerca storica, psicologica e politica.

In cambio di una graduale riduzione dell’occupazione durante il “periodo intermedio”, che avrebbe dovuto terminare 23 anni fa con il trasferimento della maggior parte della Cisgiordania all’Anp, la leadership palestinese accettò di avviare un coordinamento e una cooperazione in materia di sicurezza con i principali meccanismi dell’occupazione: il servizio di sicurezza Shin bet e l’esercito. Prese provvedimenti contro esponenti del suo stesso popolo che usavano le armi o appoggiavano l’uso delle armi per opporsi all’accordo con Israele. La giustificazione era che solo l’Anp aveva il diritto di portare armi e che il coordinamento della sicurezza era essenziale per il successo della fase transitoria, e quindi per la creazione dello stato palestinese.

Da allora sono passati quasi trent’anni e la promessa contenuta nell’accordo di Oslo – cioè che i palestinesi di Gaza e Cisgiordania sarebbero stati liberati dall’occupazione israeliana – non è stata mantenuta. Ciononostante, Israele esige che il presidente palestinese Abu Mazen e i servizi di sicurezza palestinesi continuino a proteggere l’occupazione, cioè i coloni e l’esercito. E quelli obbediscono. Si è raggiunto l’apice alla fine di settembre, quando, sotto le pressioni israeliane, i servizi di sicurezza dell’Anp si sono comportati come un esercito di occupazione a Nablus e hanno arrestato un palestinese sospettato di aver sparato contro obiettivi militari e coloni israeliani.

Quale sia il vantaggio di avere armi che non fanno nulla per fermare la macchina israeliana della distruzione e dell’espropriazione e che lasciano decine di migliaia di palestinesi in balia della violenza dei coloni è una questione da affrontare in un altro articolo. Ma l’assurdità è evidente. L’esercito e lo Shin bet hanno un subappaltatore palestinese. Continuano a pretendere che questo mantenga la sua parte di un accordo scaduto da tempo e che Israele, fin dall’inizio, ha svuotato di qualsiasi rispetto dei diritti dei palestinesi, sia come singoli sia come popolo. Fino a quando gli alti funzionari di Al Fatah e i servizi di sicurezza palestinesi continueranno a collaborare con questa umiliazione israeliana? Solo il tempo lo dirà.

https://www.invictapalestina.org/archives/47080

 

Il nuovo rapporto delle Nazioni Unite che condanna il colonialismo israeliano dà legittimità allo slancio della lotta palestinese per la libertà – Richard Falk

La relazione di Francesca Albanese mette a nudo le violazioni più basilari dei diritti fondamentali del popolo palestinese.

Immagine di copertina: Un uomo sventola una bandiera palestinese mentre un soldato israeliano osserva durante gli scontri nel villaggio di Deir Sharaf vicino all’ingresso occidentale della città di Nablus nella Cisgiordania occupata il 20 ottobre 2022 (AFP)

Per più di un secolo, il popolo palestinese ha sopportato una serie di prove che hanno violato i suoi diritti individuali e collettivi più elementari.

Fondamentale per questa epica saga di sofferenza è stato il successo del movimento sionista nell’instaurare lo Stato di Israele sulla premessa della supremazia ebraica nel 1948.

Tale successo dipendeva anche dalla perpetrazione di un crimine internazionale, poiché i sionisti cercavano di stabilire non solo uno Stato ebraico ma uno Stato presumibilmente democratico. Questa combinazione di obiettivi poteva essere raggiunta e mantenuta solidamente solo assicurando che Israele avesse una maggioranza demografica ebraica permanente.

Ciò ha richiesto un drastico aggiustamento demografico che comportava un forte aumento della presenza ebraica in Palestina, che all’epoca non era fattibile, o la drastica riduzione della presenza araba.

Questa logica ha indotto l’espulsione forzata di circa 750.000 cittadini arabi della Palestina del Mandato Britannico da quella parte della Palestina storica riservata allo Stato ebraico dal Piano di Spartizione delle Nazioni Unite, a sua volta ampliato territorialmente dall’esito della guerra del 1948.

Una maggioranza ebraica in Israele è stata ulteriormente rafforzata e salvaguardata da una rigida negazione del diritto al ritorno degli arabi espropriati e sfollati dalla Palestina in violazione del diritto internazionale.

Naturalmente, questa non è l’intera storia. C’era una presenza ebraica e un legame biblico con la Palestina che risalgono a migliaia di anni fa, sebbene la minoranza ebraica fosse scesa a meno del 10% nel 1917, quando il Ministro degli Esteri britannico promise sostegno alla creazione di una Patria ebraica attraverso la famigerata Dichiarazione Balfour.

Più rilevante fu l’ascesa dell’antisemitismo europeo negli anni ’30, culminata nell’Olocausto, che fece di un santuario ebraico una condizione di sopravvivenza per una parte significativa degli ebrei nel mondo.

Tale contesto storico ha mobilitato la diaspora ebraica, specialmente negli Stati Uniti, per sostenere il progetto sionista di colonizzare la Palestina e, da allora, per fornire forza geopolitica e massiccia assistenza economica e militare per sostenere la sicurezza e le ambizioni espansionistiche di Israele.

I Relatori Speciali: un’innovazione dell’ONU

A livello internazionale, in particolare all’interno delle Nazioni Unite, c’è stata una costante solidarietà e sostegno per i diritti palestinesi secondo il diritto internazionale, in particolare nell’Assemblea Generale e nella Commissione per i Diritti Umani, che attua le decisioni del Consiglio per i Diritti Umani, composto di 47 governi eletti.

Nel 1993 è stato creato un mandato nazionale riguardante le violazioni dei diritti umani da parte di Israele nei Territori Palestinesi Occupati di Gerusalemme Est, Cisgiordania e Gaza.

Da ciò deriva il mandato del Relatore Speciale.

Un Relatore Speciale viene selezionato da un voto favorevole del Consiglio per i Diritti Umani sulla base di un processo di selezione piuttosto elaborato che include un comitato di diplomatici del governo membro che trasmette al presidente del Consiglio una lista di candidati selezionati, presumibilmente scelti per le loro credenziali di esperti.

Il presidente generalmente segue la raccomandazione, che viene poi presentata al Consiglio per un voto positivo o negativo, con un solo voto contrario sufficiente a respingere un candidato.

La stessa posizione di Relatore Speciale è un’innovazione delle Nazioni Unite, con ogni incaricato che serve due mandati triennali.

Sebbene richieda un considerevole impegno in termini di viaggi e rapporti, è una posizione non retribuita che non è soggetta a disciplina amministrativa come funzionario delle Nazioni Unite. Questa caratteristica è progettata per conferire alla posizione una completa indipendenza politica.

Israele e gli Stati Uniti si sono opposti al mandato da quando era stato proposto e negli ultimi anni Israele ha rifiutato di collaborare.

Negando l’ingresso in Israele o nei Territori Occupati, il governo israeliano nega al Relatore il contatto diretto con le persone e la situazione sul campo e obbliga a fare affidamento sull’informazione pubblica e sugli incontri nei Paesi vicini.

Negli ultimi 15 anni, Israele e i suoi sostenitori hanno smesso di rispondere alla sostanza dei rapporti accuratamente documentati su presunte violazioni e hanno concentrato le loro energie sulle accuse di antisemitismo nei confronti delle Nazioni Unite e sulla relativa diffamazione dei successivi Relatori.

Nonostante questo rifiuto personalmente sgradevole, i rapporti dei Relatori Speciali hanno acquisito influenza e legittimità tra diversi governi, gran parte dei media e attori della società civile tra cui chiese, sindacati e organizzazioni per i diritti umani.

In questo contesto, la nuova Relatrice Speciale, una giurista accademica italiana ed esperta di diritti umani molto apprezzata, Francesca Albanese, ha recentemente pubblicato il suo primo rapporto, che dovrebbe essere presentato a breve all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York.

Si tratta di un documento notevole che descrive e documenta in modo completo le violazioni più basilari dei diritti fondamentali del popolo palestinese.

Contro il corso della storia

Essa presta opportunamente un’attenzione primaria al diritto inalienabile all’autodeterminazione, che ha gettato le basi per le lotte anticoloniali che hanno condiviso con la Guerra Fredda il fulcro della scena mondiale nei tre decenni successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Albanese nota l’estrema ironia che il sionismo sia riuscito ad andare contro il corso della storia stabilendo lo Stato colonialista di Israele proprio nel momento in cui il colonialismo europeo stava crollando altrove.

Il suo rapporto ha ottenuto un’attenzione immediata sia per il suo spirito di fiera indipendenza che per l’alta qualità della sua analisi. Una tale esemplare prestazione ha anche provocato commenti ostili sotto forma di provocazioni e accuse diffamatorie di una presentazione di prove deliberatamente distorta.

Semmai il contrario. Qualsiasi lettura obiettiva del rapporto albanese concluderebbe che l’autore fa di tutto per avere accesso alla narrativa di Israele e per presentare al lettore la consueta difesa di Israele del suo comportamento.

Pur accettando l’emergente convergenza della società civile sul riconoscere Israele come praticante dell’Apartheid, la Relatrice espone un argomento del tutto originale sul perché l’eliminazione dell’Apartheid non sarebbe di per sé sufficiente a porre fine al calvario del popolo palestinese.

Riassumendo brevemente, la maggior parte dell’esposizione dell’Apartheid è territorialmente limitata ai Territori Occupati o a un’entità allargata che include Israele vero e proprio (spesso noto come “dal Fiume al Mare”), escludendo così i profughi nei Territori Occupati e nei Paesi vicini, e gli esiliati involontari in tutto il mondo che vivono fuori dai confini della Palestina contro la loro volontà.

Smantellamento dell’occupazione colonialista

Oltre a ciò, senza soddisfare i diritti fondamentali dei palestinesi non vi è alcuna garanzia che Israele non sarebbe in grado di mantenere il dominio anche dopo lo smantellamento dell’Apartheid…

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Ci stiamo tutti travestendo da democratici – Gideon Levy

“Ridi, ridi di tutti i miei sogni”, scrisse il poeta Shaul Tchernichovsky.

Le elezioni israeliane di martedì non sono elezioni generali, e quindi non democratiche. L’Apartheid sudafricano aveva esattamente lo stesso inganno: il regime è stato definito come una democrazia parlamentare e successivamente come una democrazia presidenziale. Le elezioni si sono svolte nel rispetto della legge, con i partiti nazionale e afrikaner che hanno formato una coalizione. Solo una cosa separava il Sudafrica dalla democrazia: le elezioni erano riservate ai bianchi.

“Ridi, ridi di tutti i miei sogni.” Anche in Israele, solo i bianchi, o l’equivalente israeliano, prenderanno parte alle elezioni. Israele attualmente governa oltre 15 milioni di persone, ma a 5 milioni di loro è impedito di partecipare al processo democratico che sceglie il governo che gestisce le loro vite. La farsa in cui Israele gioca alla democrazia dovrebbe finalmente essere smascherata. Non è una democrazia.

Un regime in cui le elezioni si tengono solo per i bianchi, cioè gli ebrei, o per coloro che hanno la cittadinanza che non è concessa a tutti i sudditi, compresi i nativi che vivono sotto il governo permanente che domina sulla loro terra, non è una democrazia.

Quando un’occupazione cessa di essere temporanea, definisce il regime dell’intero Paese. Non esiste una democrazia parziale. Anche se c’è democrazia da Dan a Eilat, il fatto che tra Jenin e Rafah ci sia una tirannia militare macchia il governo dell’intero Paese. È incredibile come per decenni gli israeliani abbiano consapevolmente mentito a se stessi, proprio come i bianchi nei partiti degli afrikaner…

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Il fenomeno delle ‘Brigate Jenin’ e de ‘La fossa dei Leoni’ – Hani al-Masri

L’ascesa di questi nuovi gruppi di resistenza, che combinano una lotta armata e popolare, potrebbe rivelarsi più efficace e avere maggiori opportunità di crescere e continuare rispetto alle strategie precedenti

Militanti di diverse branche militari di fazioni palestinesi partecipano alla parata militare in occasione del 35° anniversario della fondazione del movimento della Jihad islamica, nella città di Jenin, in Cisgiordania, il 6 ottobre 2022 (Reuters)

L’anno scorso, gli sfratti di Sheikh Jarrah a Gerusalemme innescarono una rivolta che si diffuse in tutta la Cisgiordania e nella Palestina storica, culminata nella guerra israeliana del maggio 2021 a Gaza, conosciuta dai palestinesi come la battaglia della “Spada di Gerusalemme”.

Ciò che distingue questa rivolta dalle altre è che unisce la lotta armata con altre forme popolari di resistenza

L’Intifada dell’Unità è stata seguita dalla fuga di sei prigionieri attraverso il “tunnel della libertà”, l’esecuzione di una serie di operazioni di resistenza armata in Cisgiordania e nei territori del 1948 e il recente lancio dell’operazione israeliana “Breaking the Waves” per fermare la rinascita della resistenza popolare che è arrivata a ondate dal 2004.

L’Autorità Palestinese (AP), sotto la direzione del presidente Mahmoud Abbas, non sostiene la resistenza in tutte le forme, preferendo appoggiare gesti simbolici e temporanei per compiacere i membri del movimento Fatah che desiderano rimanere collegati al “polso”  delle strade e alla resistenza all’occupazione.

Quest’ultima rivolta è stata anche preceduta dall’annullamento delle elezioni da parte dell’Autorità Palestinese, in cui si prevedeva una sconfitta imbarazzante, con il pretesto della negazione da parte di Israele del diritto di voto ai palestinesi a Gerusalemme.

È stato ulteriormente alimentata della stessa campagna di repressione dell’Autorità Palestinese, inclusa l’uccisione dell’attivista politico Nizar Banat durante il suo arresto.

Durante questo periodo, gli Stati Uniti hanno fatto vaghe promesse all’Autorità Palestinese, compreso il suo sostegno a un “piano di pace economica” e al coordinamento della sicurezza, senza alcun risultato politico, sperando di poter preservare lo status quo.

Il contesto della formazione

Questo momento storico ha fornito il contesto per la formazione delle Brigate Jenin e di altri gruppi di resistenza, tra cui la popolare “Fossa dei Leoni” che, nel giro di pochi mesi, rappresenta un passaggio dalle precedenti ondate di intifada, basandosi principalmente sulla resistenza armata,.

Il gruppo cerca confronti diretti sia contro le forze di occupazione che contro i coloni armati, e spesso le sue richieste vengono ascoltate.

Quando le principali fazioni politiche erano ancora una volta impegnate in negoziati di riconciliazione in Algeria, senza raggiungere alcun accordo, la Fossa dei Leoni ha indetto uno sciopero generale di un giorno in Cisgiordania. Nonostante non abbia ricevuto alcun sostegno dai partiti tradizionali, l’appello è stato ampiamente implementato.

Ciò che distingue questa rivolta dalle altre è che unisce la lotta armata con altre forme popolari di resistenza. Inoltre, a differenza della “intifada del coltello”, portata avanti da singoli individui, questa rivolta è guidata da gruppi di persone in tutta la Cisgiordania.

E’ iniziata nella città settentrionale di Jenin e poi si è diffusa a Nablus, Gerusalemme e, in misura minore, a Ramallah ed Hebron.

Nelle loro dichiarazioni pubbliche, questi gruppi di ribelli hanno affermato di non rappresentare alcuna fazione e si rifiutano di avvolgere i corpi dei loro martiri nelle bandiere dei principali partiti politici.

Eppure hanno ricevuto il sostegno di gruppi come il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP) e persino finanziamenti da Hamas e dalla Jihad islamica.

Membri di tutti questi partiti politici palestinesi operano in queste nuove brigate, compresi membri del movimento Fatah che rifiutano l’approccio dell’Autorità Palestinese.

Tuttavia, i gruppi di Jenin e Nablus sono estremamente attenti a non confrontarsi direttamente con l’AP, poiché ritengono che il fucile dovrebbe essere puntato verso l’occupazione. Rappresentano un’unità nazionale in continua crescita e in coordinamento tra loro.

Opportunità di continuare

Il fenomeno di queste nuove strategie di resistenza può rivelarsi più efficace e avere maggiori opportunità di crescere e continuare per una serie di ragioni.

In primo luogo, l’aggressione di Israele è aumentata con un’intensità e un’escalation senza precedenti, compreso il processo di ebraizzazione, espansione degli insediamenti, demolizioni di case, arresti, discriminazione razziale e apartheid, nonché il continuo assedio della Striscia di Gaza.

Dall’inizio dell’anno sono stati uccisi più di 165 martiri, 114 dei quali provenivano dalla Cisgiordania e il resto da Gaza.

In secondo luogo, l’AP è più debole che mai e i partiti tradizionali non sono in grado di fornire un’alternativa, mancando di obiettivi politici. L’erosione delle istituzioni dell’Ap ha creato un vuoto politico e nuovi gruppi di ribelli stanno tentando di colmare questo vuoto.

Tre decenni di un cosiddetto “Processo di pace” in stallo e le vuote promesse degli Accordi di Oslo hanno permesso all’occupazione di creare questo vuoto politico in Cisgiordania e Gaza, aumentando le divisioni interne e avvantaggiando gruppi che non sono interessati a resistere all’ occupazione, né a raggiungere una posizione unitaria.

Un’intifada a tutto campo?

Resta da vedere se il nuovo movimento di resistenza si trasformerà in un’intifada completa. Ma la natura sporadica della rivolta – che esplode e si diffonde in varie località con la partecipazione di diversi settori sociali – e la varietà di agende politiche, significa che la probabilità che questa si diffonda è bassa, a meno che non ci siano sforzi coordinati regionali e internazionali per contribuire a convertirla in una rivolta globale.

Il popolo palestinese è unito nella sua resistenza e non si è arreso né ha acconsentito a farlo, ma deve porre fine alle divisioni, ripristinare l’unità e rilanciare le istituzioni nazionali nell’AP e nell’OLP

Dal 2004, l’Intifada è continuata a ondate, flussi e riflussi , poiché le condizioni richieste per una rivolta totale sono molto più difficili da raggiungere.

Dall’assassinio di Yasser Arafat nel 2004, le condizioni necessarie per una rivolta globale – un obiettivo e un programma centrali – non esistono più.

La strategia di resistenza delle Brigate è in gran parte locale, spontanea e nella maggior parte dei casi difensiva. Opera sullo sfondo dell’occupazione e degli squilibri di potere che provoca, e si limita a resistere a incursioni e raid, omicidi e arresti, sempre più difficili man mano che le operazioni si diffondono in aree più ampie.

Questo fenomeno non ha un’ideologia come solitamente si intende  o una struttura politica o organizzativa, infatti è in gran parte dominato dai leader locali, con un’organizzazione decentrata e un’interdipendenza che utilizza i social media, creando i propri simboli, eroi e leadership.

Molti di questi simboli sono martiri, come Fathi Khazem, il padre dei martiri Raad e Abdelrahman. La Fossa dei Leoni si è autodefinita “la generazione del sacrificio”, pronta alla morte e alla lotta per il proprio popolo e la propria religione…

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Rifiuto del Premio Nobel per la Pace della NATO: le ONG palestinesi sono i veri premi Nobel – Ilan Pappè

Questi premi 2022 non hanno nulla a che fare con la pace nel mondo o con il lavoro per essa. Questo è il comitato del Nobel reclutato dal desiderio anglo-americano di essere coinvolto in un’altra guerra per giustificare l’aumento dei budget per le loro forze armate, invece di unirsi alla Turchia  e stati simili nella mediazione tra le due parti, piuttosto che fomentare il fuoco.

Una persona e due organizzazioni hanno ricevuto quest’anno il Premio Nobel per la Pace. Li rispetto tutti. Come tanti altri, non posso che provare ammirazione per il coraggioso Ales Bialiatski, che lotta contro le violazioni dei diritti umani da parte del governo bielorusso, e allo stesso modo, rendo omaggio al lavoro di Memorial per i diritti umani in Russia. Sono alquanto dubbioso riguardo al Centro per le libertà civili in Ucraina, fondato nel 2007 per promuovere i diritti civili in una società in cui l’antisemitismo, l’omofobia, la russofobia e la fobia dei rom erano dilaganti. È stato nominato, così ci viene detto, per la registrazione degli attuali crimini in Ucraina. Ebbene, si spera che i diritti di coloro che erano stati discriminati prima della guerra in Ucraina verranno rispettati dopo la guerra.

Meritano tutti riconoscimenti e premi, anche se sembra che il governo ucraino non sia d’accordo. Ha annunciato di non voler condividere il premio con persone coraggiose provenienti dalla Russia o dalla Bielorussia, sostenendo che non si possono paragonare i sacrifici a quelli degli ucraini. Questa reazione si adattava anche ai tempi dell’annuncio, nel giorno del compleanno di Vladimir Putin. Il premio, quest’anno, sembra essere impiegato come arma nella guerra tra NATO, Ucraina e Russia.

Questi premi 2022 non hanno nulla a che fare con la pace nel mondo o con il lavoro per essa. Questo è il comitato del Nobel reclutato dal desiderio anglo-americano di essere coinvolto in un’altra guerra per giustificare l’aumento dei budget per le loro forze armate, invece di unirsi alla Turchia  e stati simili nella mediazione tra le due parti, piuttosto che fomentare il fuoco.

Tuttavia, il Premio per la pace della NATO espone un problema molto più profondo. L’Europa non è fatta solo di bianchi che lottano per i diritti: è piena di meritevoli organizzazioni per i diritti umani che lottano per gli immigrati, per le persone in cerca di una vita migliore e per  le minoranze, che ancora faticano a essere riconosciute alla pari nella nostra Europa multietnica e multiculturale; un continente in cui le stelle nascenti della politica di estrema destra, dalla Svezia all’Italia, dall’Ungheria alla Francia, godono di ampio sostegno per le loro ideologie fasciste e le loro promesse di purificare e “sbiancare” la “razza” europea .

Probabilmente molto tempo fa,avevamo bisogno di avere un premio per la pace alternativo, non gestito dalle élite occidentali ma che rispecchiasse il mondo in generale: la sua agenda, le sue preoccupazioni e il suo rispetto. Quest’anno non esiterei a consegnare un premio per la pace a sei organizzazioni per i diritti umani, che di recente sono state messe fuori legge da Israele ei loro uffici sono stati perquisiti e vandalizzati. Queste azioni sono avvenute mentre l’amministrazione Biden, la Gran Bretagna e l’UE borbottavano parole di disagio e preoccupazione e nient’altro. Lasciate che ve ne parli, anche se sono sicuro che la maggior parte dei nostri lettori sa parecchio sulle loro sacrosante attività.

Al-Haq, con sede a Ramallah, è stata fondata nel 1979 e da allora ha protetto e promosso i diritti umani dei palestinesi sotto l’occupazione israeliana. Il suo sacro lavoro include la documentazione delle violazioni dei diritti umani fondamentali dei palestinesi, da parte di chi li viola, e il riconoscimento che solo attraverso l’advocacy internazionale c’è speranza di difendere le vittime di queste violazioni. Pur riponendo ancora fiducia nel diritto internazionale, come molti di noi, al-Haq riconosce pienamente i limiti dello stesso quando si tratta di proteggere i palestinesi.

ADDAMEER ( coscienza in arabo) è stata fondata nel 1991 e si prende cura dei tanti prigionieri politici palestinesi, arrestati senza processo, bambini e donne compresi. Offre loro assistenza legale gratuita, difende i loro diritti nella comunità internazionale e allerta il mondo sulle torture e gli abusi che subiscono.

Il Centro Bisan per la ricerca e lo sviluppo è stato istituito nel 1989 e incoraggia lo sviluppo di ONG democratiche e altri gruppi nella società civile palestinese. È anche un centro accademico di produzione della conoscenza. Recentemente ha concentrato la sua attenzione e la sua ricerca sulle tematiche della gioventù palestinese nei territori occupati.

La Defence for Children International-Palestine (DCIP) si concentra sui diritti dei bambini in Palestina (scrivo questo saggio tra le notizie che i soldati israeliani hanno ucciso diversi ragazzi solo la scorsa settimana). La sua campagna copre sia la Cisgiordania che la Striscia di Gaza. Sin dalla sua fondazione nel 1991, è una delle poche ONG che registrano violazioni dei diritti dei bambini sotto occupazione. Come tutte le altre ONG, proteggono le persone da qualsiasi violazione sia da parte di Israele che dell’Autorità Palestinese. È importante sottolineare che questa è la sezione locale dell’organizzazione acclamata a livello internazionale, la Defense for Children International (DCI), fondata nel 1979.

L’Union of Agricultural Work Committees  (UAWC) è stata fondata nel 1986 da un gruppo di agronomi e si concentra sullo sviluppo agricolo sotto occupazione. Israele sta sistematicamente distruggendo l’agricoltura palestinese attraverso politiche di pulizia etnica in varie parti della Cisgiordania, mentre i contadini vengonoperseguitati quotidianamente dai coloni, che godono della protezione dell’esercito israeliano, mentre sradicano alberi e bruciano campi. Questo rappresenta  un lavoro esistenziale sacro. Da anni, l’occupazione limita l’accesso degli agricoltori ai loro campi, limita la loro capacità di vivere dei loro prodotti e impedisce loro di sostenere ecologicamente la Palestina rurale.

La Union of Palestinian Women’s Committees  (UPWC) è un’organizzazione femminista leader in Cisgiordania fondata nel 1980, che contribuisce in modo significativo alla costruzione di una società civile palestinese democratica e progressista. La sua lotta per l’uguaglianza di genere è impegnata quanto la sua lotta contro l’occupazione. È fortemente associato a movimenti femministi simili in tutto il mondo, e in particolare nel mondo arabo, giocando un ruolo cruciale nel progresso dei diritti delle donne nell’intera regione…

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Perché i cittadini arabi di Israele dovrebbero votare? – Gideon Levy

In un mondo ideale, nessun cittadino arabo dovrebbe partecipare alle elezioni finché ai loro fratelli occupati sotto il dominio israeliano non sarà concesso il diritto di voto

Perché i cittadini arabi di Israele dovrebbero partecipare alle elezioni? Lo Stato non è il loro Stato, né lo è l’inno, né la legge dello Stato nazionale, né lo sono la Knesset e i partiti ebrei, che ne fuggono come se fossero lebbrosi. Se devono comunque partecipare alle elezioni lo devono fare per un comune futuro a lungo termine tra il fiume e il mare,e non per salvare la sinistra sionista dal proprio fallimento. Non lo merita.

La sinistra e il centro ora ricordano la loro esistenza esattamente come ricordavano i residenti dei ma’abarot, i campi di immigrazione, negli anni ’50. Bello. Ma la sconsideratezza del blocco non sta solo nel suo tardivo ricordo dell’esistenza degli elettori arabi per salvarsi la pelle, ma anche nel modo in cui minaccia e predica. Yair Lapid, famoso amico del popolo palestinese, e degli arabi israeliani in particolare, e degli zuabi in particolare, li ha minacciati l’altro giorno a Nazaret: “Se voi cittadini non andate a votare”, ha avvertito, “dovete capire che ciò che vi è stato dato nell’ultimo anno, vi sarà tolto”.

Con la condiscendenza di un colonialista, non ha menzionato ciò che intenda precisamente con “vi è stato dato nell’ultimo anno”. Avete dimenticato le perline di plastica colorate che vi sono state lanciate? A parte questo, è difficile ricordare un singolo miglioramento nelle loro vite, nella loro dignità o nei loro diritti, che potrebbe essere portato via.

E poi viene loro ipocritamente fatta la predica . Dopo che Uri Misgav (Haaretz ebraico, 23 ottobre) ha dato loro voti su impotenza e autodistruzione, ritenendo che i loro leader non abbiano la giusta levatura, li ha incolpati del peggior crimine di tutti: riportare Benjamin Netanyahu al potere. L’uomo che ha loro sottolineato come il massacro alla raffineria di Haifa nel 1947 fosse  stata una vera e propria replica sionista alla discussione “purista” sui crimini della Nakba, l’uomo che  crede che gli arabi stiano “sguazzando” nella “vittimizzazione”, ha suggerito, come amico ovviamente, che esercitino il loro diritto di voto. A che fine? Solo per salvare i loro benefattori di lunga data.

In un mondo ideale, nessun cittadino arabo dovrebbe partecipare alle elezioni finché ai loro fratelli occupati sotto il dominio israeliano non sarà concesso il diritto di voto…

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NOBEL 2022: Annie Ernaux, i Palestinesi, l’Egitto

In un mondo dominato dall’ideologia del libero mercato, che negli ultimi trent’anni ha ammaliato anche parte della sinistra e ha rafforzato le destre, l’esercizio del diritto alla libertà d’espressione per contrastare ogni forma di oppressione è sempre più difficoltoso, perfino nelle “democrazie” occidentali.

Il problema è emerso anche il 6 ottobre 2022, quando è stato annunciato che il Premio Nobel per la Letteratura era stato assegnato ad Annie Ernaux “per il coraggio e l’acutezza clinica con cui ha svelato le radici, gli straniamenti e i vincoli collettivi della memoria personale”. Così recita la motivazione comunicata dall’Accademia di Svezia nell’annunciare la premiazione conferita alla scrittrice francese, nata nel 1940 in un villaggio della Normandia e che sin dal romanzo d’esordio, “Gli armadi vuoti”, del 1974, ha voluto abbinare la scrittura autobiografica alla sociologia, creando una auto-socio-biografia come lei stessa l’ha definita.

Ernaux, femminista di sinistra, è una sostenitrice del movimento Bds che chiede il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele perché nega i diritti del popolo palestinese. Appena si è saputo che Ernaux aveva vinto il Nobel non pochi media, non solo in Israele, hanno reagito cercando di dare una immagine negativa della scrittrice francese. In particolare, è stata attaccata per avere firmato insieme a circa 100 personalità del mondo della cultura due documenti: nel 2018, una petizione che invitava a boicottare la stagione culturale franco-israeliana, descritta nel testo come un mezzo per “ripulire” l’immagine di Israele; e, nel 2019, una lettera che chiedeva a France Télévisions di non trasmettere l’Eurovision Song Contest in programma a Tel Aviv. Il motivo di questa richiesta, spiegavano i firmatari della lettera, stava nel fatto che era stato organizzato in un quartiere di Tel Aviv sorto sulle macerie di Sheikh Muwannis, uno dei numerosi villaggi arabi che nel 1948 furono distrutti dalle forze militare del nascente Stato di Israele durante le fasi che portarono all’espulsione o alla fuga dalla loro terra di centinaia di migliaia di palestinesi. A ricordarlo peraltro era stata proprio una associazione pacifista israeliana Zochrot (Ricordarsi/Memorie), nata per diffondere la conoscenza della Nakba (Catastrofe) tra gli ebrei d’Israele e difendere i diritti umani dei palestinesi, incluso il diritto al ritorno dei profughi del 1948. È una posizione politica espressa sempre più ovunque nel mondo da persone di origine ebraica il cui coraggioso pacifismo è sempre più spesso oscurato dai media mainstream internazionali.

Commenti entusiasti alla premiazione di Ernaux sono invece comparsi nel sito di Association France Palestine Solidarité e in svariati media arabi. Il 7 ottobre 2022, il quotidiano panarabo al-Quds al-‘Arabī, basato a Londra, ha ricordato le due suddette petizioni firmate dalla scrittrice francese a favore del popolo della Palestina. Nello stesso articolo sono poi state indicate le tappe principali della carriera di Ernaux. In seguito, questo modello è stato replicato e ampliato da altri media arabi. Il Nobel conferito a Ernaux è stato commentato soprattutto negli ambienti letterari egiziani, per più motivi che legano il passato al presente. In Egitto, fu realizzata e pubblicata, nel 1994, la prima traduzione araba di un testo della scrittrice francese. Due figure prestigiose del mondo accademico egiziano scomparse non da molto, Amina Rachid (1938-2021) e Sayyid al-Bahrawi (1953-2018), tradussero allora il quarto romanzo dell’autrice, Il posto (1983) per la casa editrice Dār Sharqiyyāt del Cairo. Questo intreccio di ricordi è solo una delle ragioni per cui, il 9 ottobre 2022, il settimanale Akhbār al-Adab (Le notizie della letteratura) ha pubblicato un numero speciale per celebrare subito il Nobel conferito a Ernaux. Gli articoli inclusi nel dossier spiegano l’originalità della produzione letteraria della scrittrice francese, creatrice di un autobiografismo in grado di veicolare un messaggio universale.

Tutto ciò ricorda inevitabilmente quanto avvenne nell’ottobre 1988, quando il Nobel per la Letteratura fu assegnato a Nagib Mahfuz (1911-2006), con questa motivazione: “perché attraverso opere ricche di sfumature – ora chiaramente realistiche, ora ambiguamente evocative – ha creato un’arte narrativa araba che può applicarsi a tutta l’umanità”. Il primo novembre dello stesso anno, il mensile cairota al-Hilāl (La mezzaluna) pubblicò un numero speciale dedicato allo scrittore egiziano. Il dossier uscì con il titolo “Congratulazioni” seguito dal sottotitolo: “Nagib Mahfuz, primo arabo a vincere il Premio Nobel per la Letteratura”. E va aggiunto che è ancora l’unico autore arabo ad avere ottenuto il più prestigioso riconoscimento letterario internazionale che, però, sembra un monopolio dell’Occidente.

Mahfuz stesso si definì come “l’uomo venuto dal Terzo Mondo” nel suo discorso per la cerimonia di conferimento del Nobel. Nel 1988, alle donne e agli uomini presenti all’Accademia di Svezia, il letterato egiziano lanciò questo appello: “Salvate le persone ridotte in schiavitù in Sudafrica! Salvate gli affamati in Africa! Salvate i palestinesi dai proiettili e dalle torture! O meglio, salvate gli israeliani dal profanare la loro grande eredità spirituale! Salvate chi ha debiti dalle rigide leggi dell’economia! Attirate l’attenzione dei leader responsabili sul fatto che la loro responsabilità verso l’Umanità deve precedere il loro impegno nel seguire le leggi di una scienza che il Tempo ha forse superato”.

 

In un articolo incluso nel summenzionato dossier 2022 di Akhbār al-adab, Walid El Khachab ricorda che Annie Ernaux e Amina Rachid si conoscevano personalmente. Erano diventate amiche in Francia negli anni ’70, poiché entrambe credevano nelle idee della sinistra e lottavano per portarle avanti, “difendendo sia le classi popolari sia i diritti del popolo palestinese”. Rachid si interessò del quarto romanzo di Ernaux, “Il posto”, forse perché è il primo in cui l’autrice, figlia di operai divenuti piccoli commercianti, “esprime chiaramente la propria coscienza di classe”, rivelando il suo senso di colpa per avere abbandonato l’ambiente in cui era nata e cresciuta, dacché si era abituata a una tipica vita borghese. Rachid stessa certamente apprezzò le qualità estetiche della letteratura di sinistra, rivoluzionaria ma non missionaria, e della scrittura femminile e autobiografica, presenti nel testo, quindi decise di tradurlo in arabo circa un decennio dopo la sua pubblicazione in francese.

El Khachab incontrò Ernaux al Cairo proprio negli anni ‘90, quando in Egitto comparve sulla scena letteraria una nuova generazione avanguardistica, predominata da scrittrici in termini sia numerici sia qualitativi. Una delle più celebri è Mayy Telmissany (n. 1965), che ha raccontato il sé in molte opere di successo, come il romanzo Dunyazad, del 1997 (Ev Casa Editrice, 2010). Non a caso, nel suo articolo per Akhbār al-adab, la stessa scrittrice e accademica egiziana definisce il Nobel vinto da Annie Ernaux come “il trionfo dell’autobiografismo”. La premiazione dell’arte narrativa dell’autrice francese è l’emancipazione della scrittura autobiografica dalla posizione marginale in cui tradizionalmente i critici la collocano all’interno del campo letterario canonico. Una marginalizzazione paradossale, se si considera il prestigio di cui gode Proust per “La ricerca del tempo perduto”, un vero monumento dell’autobiografismo. Secondo Telmissany, le tecniche narrative usate in questo capolavoro sono simili a quelle impiegate da Ernaux per raccontare una storia d’amore con un amante russo, in Passione semplice, del 1992, un testo privo di giudizi morali e pieno di ironia. Della scrittrice francese sono state finora tradotte in arabo sette romanzi, tra cui L’evento (2000), incentrato sul problema dell’aborto clandestino e il cui adattamento, “La scelta di Anne-L’Événement”, ha vinto il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2021.

Ernaux si ispira al sé, alle proprie esperienze e a quelle della sua famiglia, per dire la verità anche quando è scomoda, racconta storie di vita in cui numerose persone possono riconoscersi, usa parole semplici creando testi caratterizzati dall’assenza di riferimenti ideologici espliciti. Queste caratteristiche si trovano anche in molte opere della narrativa emersa in Egitto negli anni ’90, una scrittura nata dal rifiuto delle “grandi” narrazioni della “nazione” e dalla volontà di concentrarsi sull’individuo, sulla psicologia e sul corpo, per sovvertire i valori etici e politici oppressivi predominanti nella società egiziana e non solo, e di proiettarsi nel mondo globalizzato secondo una visione transculturale.

D’altra parte, Telmissany ricorda che Ernaux è erede della letteratura della resistenza e della letteratura impegnata teorizzata da Sartre. Sin dagli anni ’70, la scrittrice ha portato avanti il proprio impegno tanto nell’arte verbale, sperimentando varie forme di scrittura autobiografica, come il diario, quanto nella vita, “assumendo posizioni politiche coraggiose, come la difesa della causa palestinese”. Ernaux si chiede sempre “chi sono io?”, per approfondire la conoscenza di se stessa e del suo rapporto con la società. È importante, sottolinea Telmissany, chiedersi “chi sono io nel mondo?”, è indizio dell’onestà necessaria per immergersi nella “ricerca di una risposta a questa domanda, che è di sinistra nella sua essenza, perché riguarda i diritti umani e le libertà”.

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Un linciaggio per la raccolta delle olive – Yuval Abraham

Mercoledì pomeriggio, un gruppo di coloni mascherati ha linciato una donna ebrea israeliana di 70 anni che stava accompagnando un agricoltore palestinese per la raccolta delle olive nella Cisgiordania occupata. Il suo nome è Hagar Geffen. L’hanno aggredita con delle mazze fino a farla sanguinare, dopodiché l’hanno colpita alla testa con delle pietre.

Attualmente è ricoverata presso il Centro Medico Shaare Zedek di Gerusalemme con costole rotte e un polmone perforato. Non ho potuto parlare con lei, ma Yasmine, un’attivista palestinese che era con Hagar Geffen, ha visto tutto.

I coloni sono arrivati da un insediamento chiamato Ma’ale Amos, situato vicino al villaggio palestinese di Kisan, a meno di 20 chilometri a sud di Gerusalemme. Hagar si trovava a Kisan, insieme ad altri palestinesi e israeliani, per accompagnare Ibrahim, un anziano palestinese la cui terra si trova accanto all’insediamento, mentre raccoglieva le olive.

Riporto qui sotto la testimonianza di Yasmine sull’attacco che abbiamo subito. Le sue parole sono sostenute dalle testimonianze di altre tre persone che erano presenti durante l’attacco e con le quali ho anche parlato.

“Quando siamo arrivati vicino all’oliveto del contadino, abbiamo visto che c’erano otto coloni – adolescenti – con delle mazze. Non ci hanno attaccato, hanno solo imprecato. Li abbiamo superati e ci siamo accorti che avevano rubato tutte le olive e spruzzato una sostanza chimica tossica sugli alberi per ucciderli.

Hanno spruzzato 180 ulivi. Lavorando anch’io in agricoltura, so che questa sostanza chimica colpisce prima le foglie, poi passa al resto dell’albero e infine al tronco. Uccide tutto.

Ibrahim, che è un uomo anziano, ha iniziato a piangere e a gridare. Ho cercato subito di versare acqua sugli alberi per salvarli. Sapevo che ci vuole tempo perché la sostanza chimica li uccida.

Gli otto coloni hanno cercato di cacciarci via. Abbiamo cantato. Non abbiamo scambiato nemmeno una parola con loro. Abbiamo solo cercato di calmare il contadino che non riusciva a smettere di piangere.

Improvvisamente, decine di persone, più di 50, sono scese verso di noi dalle colline. Erano tutti mascherati, con in mano dei bastoni, e alcuni di loro avevano anche machete e coltelli. Ho visto due di loro con delle asce in mano. Sono corsi verso di noi e hanno iniziato a lanciare pietre come pazzi.

C’erano ragazze giovani con noi. Ragazze e ragazzi adolescenti, e poi il contadino e la sua anziana moglie. Nessuno si aspettava che fossimo attaccati in quel modo. Siamo un gruppo di volontari che sono venuti ad aiutare gli agricoltori la cui terra è vicina all’insediamento.

Hagar ha filmato tutto. Credo che pensasse che non l’avrebbero attaccata perché è anziana e non sembra palestinese. Invece hanno iniziato a picchiarla senza pietà. Poi le hanno rubato il cellulare, la borsa e la macchina fotografica.

Ho visto come hanno gettato il suo corpo terreno roccioso e poi l’hanno picchiata con le loro mazze. Il tutto mentre la tenevano ferma. Lei urlava forte. Alcuni di loro hanno portato dei sassi e li hanno fatti cadere sulla sua testa. L’hanno colpita con le loro mazze sulle gambe, sulla schiena e ripetutamente sul petto. Tutto questo è durato un bel pezzo; ci sono foto che lo dimostrano.

Ogni volta che cercavo di andarle vicino, un altro gruppo di coloni mi lanciava pietre e non potevo avvicinarmi. Ho visto le asce e i coltelli e sapevo che se mi avessero preso, mi avrebbero accoltellato. Eravamo solo 20 persone – loro erano diverse decine, tutti giovani. L’agricoltore e la sua anziana moglie si sono salvati per un pelo. Ero con loro, cercando di aiutarli.

Mi sento molto in colpa per il fatto che Hagar sia stata lasciata lì. Che l’abbiamo lasciata lì. Ha sanguinato per un po’, fino all’arrivo di un’ambulanza israeliana”…

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Nessun arresto di coloni per l’attacco alla 70enne israeliana; gli attivisti di sinistra saranno interrogatiMarwan Bishara

La polizia israeliana non ha detto ai due attivisti di cosa sono sospettati; Hagar Gefen è stata ricoverata in ospedale dopo l’aggressione avvenuta una settimana fa vicino a Betlemme.

Hagar Gefen al Centro Medico Shaare Zedek di Gerusalemme la scorsa settimana.

Una settimana dopo che un’attivista israeliana di 70 anni è stata attaccata da coloni ebrei in Cisgiordania, la polizia israeliana non ha ancora effettuato alcun arresto.

Altri due attivisti di sinistra, che erano presenti sul posto nell’area di Betlemme e che hanno riferito di essere stati aggrediti, sono stati interrogati dalla polizia mercoledì.

La polizia si è rifiutata di dire di cosa sono sospettati gli attivisti e non ha risposto alle domande di Haaretz se saranno indagati anche gli attivisti di destra che erano presenti al momento dell’incidente. “Ci sono state rivendicazioni reciproche di aggressione”, ha dichiarato la polizia.

L’attivista aggredita, Hagar Gefen, è stata ferita la settimana scorsa dopo essere arrivata con altri attivisti per aiutare i palestinesi a raccogliere le olive a Kisan, un villaggio a sud di Betlemme. Ha raccontato ad Haaretz che gli aggressori l’hanno spinta a terra e picchiata con un bastone.

Gefen è stata ricoverata al Centro medico Shaare Zedek di Gerusalemme con una mano e alcune costole rotte, un polmone perforato e punti di sutura alla testa. Martedì, la Polizia di Israele ha notificato a Gefen che era ricercata per essere interrogata, ma in seguito le ha detto che cercava solo la sua testimonianza sull’accaduto.

Hanno urlato che mi avrebbero ucciso

Gefen ha raccontato che gli attivisti innaffiavano gli ulivi e cercavano di recuperare le olive rimaste, quando hanno notato un folto gruppo di giovani che correvano giù da una collina indossando maschere.

“Abbiamo iniziato a scattare foto e ho detto a Michal (un altro attivista che era presente all’evento e che è stato anch’egli aggredito) ‘Scatta le foto e porta [i ragazzi] fuori di qui’. Michal ha scattato foto mentre i coloni correvano verso di noi mostrando pietre nelle loro mani. Ho fatto una deviazione intorno alla collina, ma loro sono riusciti a raggiungermi e hanno lanciato grosse pietre”.

A questo punto, Gefen ha raccontato che i coloni l’hanno gettata a terra e hanno iniziato a picchiarla. “Mi hanno preso lo zaino e la macchina fotografica e mi hanno urlato che mi avrebbero ucciso e che non abbiamo il diritto di esistere in questo Paese”…

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Le elezioni farsesche e la democrazia fittizia di Israele . Marwan Bishara

In Israele, più elezioni si tengono, più diventano feroci.

Le potenti forze armate e l’economia in espansione di Israele sono fatti innegabili, ma la sua tanto celebrata democrazia è una vera e propria farsa.

Israele sostiene di essere uno Stato ebraico e democratico. In realtà, non è nessuna delle due cose. Si vanta ovunque di essere “lo Stato del popolo ebraico”, quando meno della metà degli ebrei del mondo vive nel Paese. Oggi, Israele governa oltre 15 milioni di persone tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, metà delle quali non sono ebree e per la maggior parte non può votare in Israele.

Israele non riconosce nemmeno l’”israelicità” come nazionalità e rifiuta il concetto liberaldemocratico di “Stato di tutti i cittadini”. Invece, lo Stato ebraico riconosce due strati di persone: Gli ebrei, che godono di tutti i diritti, e i palestinesi, che devono accontentarsi di meno o nessun diritto. Questi Palestinesi sono tollerati di malavoglia come cittadini di seconda classe, soggetti a occupazione e repressi come sudditi coloniali, oppure sono tenuti lontani come se fossero rifugiati indesiderati, il cui diritto inalienabile al ritorno distruggerebbe lo ‘Stato ebraico’.

E se questo non fosse sufficiente a far sollevare le sopracciglia, si consideri il fatto che nello ‘Stato ebraico’ non c’è consenso su ‘chi è un ebreo’. Gli ebrei ortodossi, riformati e laici hanno interpretazioni diverse, persino contrastanti, dell’ebraismo. È una questione religiosa che dipende da politiche di potere, come un vecchio sketch satirico israeliano dimostrava molto bene.

Tuttavia, la logica legale e politica nell’Israele coloniale dell’apartheid privilegia gli ebrei che vivono in tutti i territori tra il fiume e il mare, e questo vale in tutte le sfere importanti della vita, tra cui la cittadinanza, l’alloggio, i diritti di proprietà, la lingua, la cultura, la mobilità e così via.

In questo senso, Israele/Palestina non è diverso dal Sudafrica dell’apartheid, dove i bianchi privilegiati  godevano ugualmente di un certo grado di democrazia comunitaria. Ma le élite ipocrite occidentali, che parlano di “unica e sola democrazia in Medio Oriente”, non hanno mai parlato di “unica democrazia in Africa”. Sono solo sfumature.

Per compensare la mancanza di una vera democrazia, Israele organizza elezioni – elezioni spettacolari. Più elezioni si tengono, più diventano feroci e frammentate. Come ho scritto dopo le ultime elezioni, “l’ambizione personale ha la meglio sulla politica e il politicismo supera l’ideologia” nell’Israele di oggi.

La frammentazione conferisce al Paese un fascino di pluralità e diversità, soprattutto in contrasto con i primi tre decenni dello Stato israeliano, quando i laburisti vincevano prevedibilmente tutte le elezioni. Ma negli ultimi anni, la destra è diventata dominante come lo era il laburismo, anche se con più urla, offese e insulti.

La ferocia è diventata lo sport nazionale di Israele. Infatti, “la politica di Israele è più truculenta della maggior parte delle altre”, secondo Benjamin Netanyahu. Lui dovrebbe saperlo: ne è il campione. La ferocia si divide in due filoni: il vetriolo politico e la violenza razzista. Entrambi si accendono come fuochi d’artificio ad ogni stagione elettorale, che di questi tempi arriva con la stessa regolarità della primavera o dell’estate…

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“Non dimenticare i palestinesi. Sono un popolo di carcerati”

l’intervista di Stefania Maurizi allo storico israeliano Ilan Pappè

È stato definito lo storico israeliano più coraggioso. Ilan Pappé ha da poco dato alle stampe La prigione più grande del mondo. Storia dei Territori Occupati (Fazi editore), un libro che ricostruisce rigorosamente, con dati e materiali d’archi vio, una mostruosa ingiustizia sotto gli occhi del mondo, eppure tollerata: come la Cisgiordania e la Striscia di Gaza siano state trasformate da Israele in un immenso carcere.

Maurizi: Il libro è dedicato ai bambini della Palestina che sono stati uccisi, feriti e traumatizzati e scrive che nella prima Intifada (la rivolta palestinese dal 1987 al 1993) la sezione svedese di Save The Children stimò che tra i 23.600 e 29.000 bambini, un terzo dei quali con meno di 10 anni, dovettero essere curati a causa delle ferite provocate dalle percosse. È figlio di gente sfuggita al nazismo, quando ha iniziato a mettere in discussione le brutali politiche di Israele contro i palestinesi?

Pappe’: Iniziai a notare la brutalità, e a rendermi conto quanto fosse strutturale, in due fasi. La prima volta quando lavorai al mio Ph.D. all’Università di Oxford sugli eventi del 1948 (la cacciata dei palestinesi dalla loro terra, ndr) ed esaminai freddi materiali d’archivio, che includevano immagini strazianti di massacri, espulsioni e altri crimini di guerra. Mi resi conto che la convinzione con cui ero cresciuto, che le forze armate israeliane fossero le più etiche del mondo, era discutibile. La seconda volta fu quando vidi con i miei occhi la brutalità dell’esercito d’Israele nella seconda guerra del Libano nel 1982, poi durante la prima Intifada e, a distanza ravvicinata, durante la seconda nel 2000, quando iniziai a scrivere La pulizia etnica della Palestina.

Maurizi: La sua posizione senza compromessi l’ha resa un reietto in Israele. Riceve ancora minacce di morte?

Pappe’: Non più tanto, dopotutto ho lasciato il Paese per un lungo periodo e ci sono altri che ora vengono presi molto più di mira. Poiché sono ancora una figura pubblica, le paure ci sono ancora, così come le minacce, ma con il passare del tempo ci si abitua e ci si preoccupa meno. Mi pento solo di non aver iniziato prima, perché avrei potuto fare molto di più.

Maurizi: Abbiamo visto il supporto all ’Ucraina: sanzioni, armi e solidarietà con i rifugiati. Come guarda ai due pesi e alle due misure del mondo occidentale:grandissimo supporto per gli ucraini, mentre Israele può uccidere i palestinesi quanto vuole?

Pappe’: Credo che la crisi dell ’Ucraina abbia davvero rivelato questo doppio standard e questa ipocrisia, come mai prima d’ora. Ovviamente questa ipocrisia c’è sempre stata, ma quando l’Occidente sostiene che un’occupazione anche di una settimana è illegale e che l’occupante dovrebbe essere punito con sanzioni, e quando acclama la lotta del popolo occupato, in particolare il suo uso della violenza contro l’occupante, e fornisce aiuto militare all ’occupato, colpisce che non una piccola parte di questo comportamento sia stata applicata a Israele e alla Palestina. Abbiamo potuto vedere immediatamente i risultati di questa ipocrisia. Da quando è iniziata la guerra in Ucraina, il governo israeliano ha intensificato le uccisioni. A partire dalla guerra, uccidere palestinesi, inclusi i bambini, è un’attività quotidiana. L’Israele ufficiale ritiene di avere l’immunità internazionale per portare avanti questa politica criminale, sotto la protezione dell’ipocrisia.

Maurizi: Lei sostiene la soluzione dello Stato unico: quanto è realistica la possibilità che israeliani e palestinesi vivano nello stesso Stato, dopo decenni di brutalità?

Pappe’: Storicamente, ci sono casi peggiori in cui il versamento di sangue da entrambe le parti è stato rimpiazzato dalla coesistenza. L’Europa occidentale è piena di tali esempi, gli Usa dopo la loro sanguinosa guerra civile sono un altro esempio. In realtà non è questione di possibilità di vivere insieme, si tratta piuttosto dell’assenza di qualsiasi altra possibilità, a parte la “Mad ”, la distruzione reciproca assicurata. La questione è come e su quale base (possano convivere), perché oggi è la peggiore possibile– (convivono in) un sistema di apartheid–dobbiamo anche investire su come trasformarla pacificamente e poi creare uno spazio comune. Non è un matrimonio d’amore, ma è il risultato di circostanze storiche, e non tutte possono essere cambiate.

Maurizi: Cosa suggerirebbe a chi vuol aiutare i palestinesi?

Pappe’: È importantissima la solidarietà, che abbia come duplice scopo sia sostenere la lotta dei palestinesi sia esercitare pressione sui governi, affinché cambino le loro politiche nei confronti di Israele e della Palestina. Non meno importante è offrire un’alternativa alla disinformazione su Israele e Palestina dei media m a i n s t re a m in Paesi come l’Italia .

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Shadi Khoury, la detenzione dei minori e l’apartheid israeliano – Jonathan Kuttab

Shadi Khoury, 16 anni

Da settimane ormai abbiamo notato una rapida escalation di violenza da parte dei coloni e dei soldati israeliani contro i palestinesi, in particolare i giovani e i minori. Non passa giorno senza un ulteriore martire, diversi feriti e rapiti, case distrutte, abitazioni e veicoli attaccati e vandalizzati. Alcuni hanno persino parlato di una guerra non dichiarata che si sta gradualmente scatenando contro i Palestinesi, ora soprannominata “Break the Wave” [Rompere l’onda], in parte sfruttando l’attenzione internazionale sull’Ucraina e in parte sfruttando le imminenti elezioni, mentre diversi politici e funzionari israeliani cercano di superarsi l’un l’altro nella loro ostilità verso i Palestinesi. C’è chi ha visto una terza intifada non dichiarata di resistenza palestinese, in gran parte non coordinata (ma sempre più coalizzata intorno a un gruppo noto come “la Tana del Leone”) che sta prendendo slancio in un fenomeno diffuso che copre tutta la Palestina.

Tuttavia, la situazione generale assume un colore molto diverso quando tocca una vittima che ci è nota personalmente, la cui famiglia ha la nostra stessa religione e la cui casa abbiamo visitato.

È questo il caso di Shadi Khoury, 16 anni, nipote di Samia Khoury, una delle fondatrici del movimento Sabeel. È stato aggredito nella sua casa, picchiato fino a farlo sanguinare, ed è stato portato via a piedi nudi e bendato per essere “interrogato”. Al momento in cui scriviamo, è ancora in detenzione con accesso limitato alla sua famiglia o al suo avvocato. Le udienze del tribunale sono state continuamente rinviate e la sua detenzione è stata prolungata. Le ultime notizie ricevute da Samia sono queste:

“Cari amici: speravo di poter condividere con voi delle buone notizie su Shadi alla fine della giornata. Purtroppo, la settimana scorsa c’è stato un altro prolungamento della sua detenzione. Il giudice non ha ricevuto alcuna accusa contro Shadi, ma ha deciso di rinviare la sessione del tribunale a giovedì. Il vostro sostegno e la vostra pressione sono stati di grande aiuto e spero che giovedì finisca questo incubo per Shadi e per tutta la famiglia. Oggi lui sembrava preoccupato per i risultati del calcio, dato che è un grande appassionato di sport, ma qualcuno è riuscito a informarlo sui risultati mentre saliva sull’autobus della polizia dopo la sessione in tribunale. Di solito, io ascolto la sezione sportiva di Monte Carlo ogni mattina, in modo da poter discutere le ultime notizie con Shadi quando si ferma la sera. Mi mancano le nostre chiacchierate serali, ma chi sente maggiormente la sua mancanza e non riesce ad esprimere i suoi sentimenti è il cane di famiglia, ‘Abboud’, che è stato trovato a dormire nel letto di Shadi la scorsa notte. Grazie ancora per il vostro sostegno e la vostra solidarietà. Samia”

La sua detenzione è stata prolungata ancora una volta fino a mercoledì 2 novembre. Non abbiamo ancora sentito il verdetto. Non siamo ottimisti, ma continuiamo a sperare.

Non fa alcuna differenza che Shadi sia un minorenne o che appartenga a una famiglia cristiana nota a livello internazionale per il suo impegno alla non violenza, il suo rifiuto di portare armi, il suo impegno a rispettare la nostra comune umanità e la coesistenza reciproca basata sulla dignità, il rispetto e l’uguaglianza. Non importa che viva a Gerusalemme Est, teoricamente sotto la legge civile israeliana, e non la legge militare che si applica nel resto della Cisgiordania. L’unica cosa che conta è che sia palestinese, non ebreo. Come migliaia di altri minori palestinesi arrestati e maltrattati, come oltre 800 detenuti amministrativi senza accusa né processo (solo palestinesi e nessun ebreo), è solo l’ultimo esempio del sistema di apartheid israeliano di dominazione e controllo…

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In questa casa palestinese macchie di sangue e distruzione raccontano tutta la storia – Gideon Levy e Alex Levac

La polizia ha fatto irruzione nel quartiere di Beit Hanina a Gerusalemme Est per arrestare Shadi Khoury. Quando il 16enne si è rifiutato di spogliarsi in loro presenza, è stato picchiato davanti ai genitori e poi portato via. Nessuno ha detto ai genitori – che gestiscono entrambi istituzioni culturali locali – perché il figlio veniva arrestato.

 

Le macchie di sangue costellano la spaziosa ed elegante dimora. Ovunque la polizia ha trascinato la vittima, questa ha lasciato dietro di sé una stretta scia di gocce di sangue, goccia dopo goccia, come a segnare il percorso dell’arresto e delle percosse. Il ragazzo urlava; i vicini sentivano le sue grida ed erano terrorizzati.

Beit Hanina è un quartiere benestante e relativamente tranquillo, e non capita tutti i giorni che si verifichino eventi violenti come questo. Il giovane coinvolto, Shadi Khoury, vive con i genitori e il fratello maggiore in un complesso familiare in una strada che porta il nome di uno degli antenati della famiglia, Yusuf Khoury, l’ingegnere che ha costruito la strada e questo bel gruppo di case sul versante nord di Gerusalemme.

Tutto è macchiato di sangue. Il tappeto nella stanza del ragazzo, il pavimento di marmo del corridoio, le scale, il cortile, il giardino e la strada; persino un biglietto di carta sul suo tavolo è insanguinato.

Quando siamo arrivati, poche ore dopo il brutale arresto di Shadi, martedì scorso, il sangue non si era ancora asciugato e la famiglia era sconvolta. Shadi Khoury, 16 anni, studente dell’undicesimo anno della Quakers Friends School di Ramallah, è stato preso in custodia con la forza, mentre era a piedi nudi e in pigiama. Quando la polizia gli ha ordinato di vestirsi, si è rifiutato di spogliarsi davanti a loro e ha chiesto di lasciarlo momentaneamente nella sua stanza, le cui finestre hanno le sbarre. Per tutta risposta, gli agenti hanno iniziato a picchiarlo selvaggiamente: quattro teppisti in nero, accovacciati su un giovane terrorizzato, lo colpivano con i loro pugni, sulla testa, sul viso, sul petto. Il tutto mentre i genitori assistevano sbigottiti, incapaci di soccorrere il figlio. Immaginate se si trattasse dei vostri figli.

Martedì mattina presto ho ricevuto una telefonata da Lora Khoury, una donna di 91 anni che legge Haaretz e che ogni tanto chiama per commentare, ma che questa volta era sopraffatta dall’emozione. Il figlio dei suoi vicini – sono suoi parenti – era stato arrestato prima dell’alba e lei aveva sentito le sue urla nella sua casa, una struttura lussuosa a poche case di distanza dalla loro.

“Se vengono per fare un arresto, perché picchiano le persone? Che tipo di esercito e che tipo di polizia vi siete creati?”, ha chiesto nel suo eccellente inglese. Quando siamo arrivati, questa donna elegante ci stava aspettando all’ingresso della sua casa e ci ha condotto a casa di Shadi. Si tratta di un bel complesso di diverse case in pietra di proprietà della famiglia allargata Khoury e di altre famiglie, tra giardini e sentieri ben curati, all’ombra di pini e ulivi. La ricchezza e l’eleganza sono evidenti, ma non troppo.

Non è chiaro da dove Shadi abbia sanguinato, ma quella mattina, dopo il suo arresto, le macchie e le gocce erano rimaste ovunque.

La strada per la stanza di Shadi è costellata dal suo sangue e la stanza stessa è in uno stato di caos dopo la violenta perquisizione della polizia. Tutto è sparso sul pavimento della stanza dell’adolescente: vestiti, libri, tra cui testi di cinema, storia e letteratura; i poster sono stati strappati dalle pareti. Secondo i genitori che erano presenti, gli assalitori hanno gettato il ventilatore e il materasso sul pavimento e poi hanno saltato sulla struttura del letto in legno fino a romperla.

Nel soggiorno c’è una grande biblioteca, i mobili sono di design europeo, raffinati. Su una cassapanca è incorniciata una foto di matrimonio in stile americano, scattata al matrimonio della sorella di Shadi, Zeina, nella chiesa cattolica di Gerico, tre anni fa. Shadi è in piedi a destra, in abito nero e papillon. È il figlio minore di Rania, direttrice del Centro culturale Yabous di Gerusalemme Est, e di Suhail, compositore e musicista, direttore generale del Conservatorio nazionale di musica Edward Said, sempre a Gerusalemme Est (oltre ad altre quattro sedi). La coppia ha altri tre figli: un altro figlio, Yusuf, di 18 anni, che quest’anno ha iniziato gli studi di architettura all’Università di Bir Zeit, e due figlie: Rand, di 21 anni, musicista, che studia veterinaria in Ungheria, e Zeina, musicista, direttrice dell’Orchestra Giovanile Palestinese, che al momento della nostra visita tiene in braccio il suo bambino appena nato.

La sera di lunedì di questa settimana, Shadi è andato a dormire verso le 23. “Ha la scuola”, dice la madre. “Aveva la scuola”, la corregge un parente. In questa casa tutti, anziani o giovani, parlano correntemente l’inglese.

Alle 5.45 di martedì la famiglia si è svegliata ai colpi battuti sulla porta e al suono incessante del campanello. Insieme al loro pastore tedesco, i genitori, in pigiama e intontiti dal sonno, hanno aperto la porta, con Shadi e Yusuf in piedi dietro di loro. C’erano sei agenti di polizia armati e vestiti di nero, che hanno intimato loro di portare via il cane. Avevano sfondato la sbarra del parcheggio entrando nel complesso e avevano cercato di raggiungere l’ingresso principale della casa, ma l’accesso è possibile solo con un codice d’ingresso, per cui erano entrati dal retro, passando dalla tromba delle scale.

“Chi è Shadi?” hanno chiesto. “Tu? Yalla [andiamo], sei in stato di detenzione”.

Hanno detto alla famiglia di portarli nella stanza di Shadi, nella quale si sono infilati gli uomini in nero, insieme all’adolescente e ai suoi genitori. Suhail ha chiesto di vedere un mandato d’arresto; gli hanno mostrato un documento in ebraico, che non sa leggere. “E avete un mandato di perquisizione?”, ha chiesto. Uno degli agenti in nero ha risposto: “Abbiamo un mandato per tutto”. I genitori hanno cercato di sostenere che il sedicenne aveva i diritti di un minore, ma la risposta è stata: “Conosciamo la legge. Non ce la insegnare”.

Hanno chiesto il cellulare di Shadi, che ha detto che glielo avrebbe dato ma non lo avrebbe sbloccato. Hanno poi ordinato a Shadi di vestirsi per essere preso in custodia, ma prima di indossare la biancheria intima doveva togliersi il pigiama. Si è rifiutato di spogliarsi in loro presenza. Gli agenti hanno iniziato a gridare, prima di far cadere Shadi a terra, e a quel punto quattro di loro hanno iniziato a picchiarlo. Quattro contro uno.

 

“Non ti preoccupare”, hanno detto alla madre di Shadi, “lo spoglieremo durante l’interrogatorio, non ha bisogno di vestiti”.

Shadi ha iniziato a urlare, loro hanno continuato a picchiarlo. Sua madre ha cercato di intervenire: “È un ragazzo, dategli due minuti per vestirsi”. Non è servito a nulla.

È stato trascinato fuori, a piedi nudi. Sulla strada c’erano veicoli della Polizia di frontiera e altri agenti. Shadi aveva le mani legate dietro la schiena ed era bendato con uno straccio – procedura standard. Ha continuato a urlare. I suoi genitori sono certi che gli agenti abbiano continuato a colpirlo nel veicolo.

Non è chiaro da dove abbia sanguinato, ma più tardi, quella mattina, le macchie e le gocce erano rimaste ovunque. Le forze dell’ordine se ne sono andate con il loro bottino. Hanno detto ai genitori che lo avrebbero portato alla struttura di detenzione del Russian Compound, nel centro di Gerusalemme. Suhail è uscito immediatamente al seguito del figlio; Rania aveva paura di uscire – non ha il permesso di soggiorno nella sua città…

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Questa non è una vibrante democrazia – Hagai El-Ad (Direttore esecutivo di B’Tselem)

Mentre gli israeliani si stanno preparando per le quinte elezioni generali in meno di quattro anni, che si terranno martedì prossimo, molti sono preoccupati per la frequenza con cui ci rechiamo alle urne. Tuttavia, l’effettivo significato del voto sembra essere oggetto di un ampio consenso: le elezioni in Israele sono una celebrazione della democrazia e offrono a tutte le persone che vivono qui un’uguale opportunità di partecipare liberamente al processo politico, di decidere chi deve ottenere un seggio in Parlamento e nel Governo (se emergerà una coalizione) e di determinare le politiche che modellano le nostre vite, almeno fino alle prossime elezioni.

Ma è davvero così?

Nel gennaio 2021, B’Tselem ha pubblicato un documento che analizza come l’intera area tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo sia governata da un unico regime incentrato su un unico obiettivo: promuovere e consolidare la supremazia ebraica attraverso leggi, pratiche e violenza organizzata. Il documento illustra le caratteristiche chiave che rendono questo regime un regime di apartheid. In vista delle prossime elezioni, pubblichiamo un nuovo documento di posizione che si concentra su uno di questi aspetti: il diritto alla partecipazione politica e il modo in cui il regime organizza o nega questa partecipazione ai diversi segmenti della popolazione sotto il suo controllo.

Circa la metà delle persone che vivono in questa intera area sono ebrei-israeliani, e l’altra metà palestinesi. Il regime annulla la parità demografica esistente frammentando i palestinesi in sottogruppi e sottoponendoli a un diverso grado di oppressione. Questo gli permette di consolidare il monopolio ebraico-israeliano sul potere politico, raccogliendo i benefici dell’immagine democratica che le elezioni generali propongono.

Di seguito i punti chiave del documento, pubblicato oggi come inserto nell’edizione ebraica di Haaretz.

Gli ebrei-israeliani possono esercitare pienamente i loro diritti politici, ovunque vivano, che sia a Tel Aviv o in un insediamento della Cisgiordania, e votare legalmente vicino a casa.

Per i palestinesi, è vero il contrario. In nessun luogo tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo possono esercitare pienamente i loro diritti politici. Milioni di persone a Gaza e in Cisgiordania sono private dei loro diritti e trattate come semplici sudditi, esclusi dal sistema politico che gestisce le loro vite. Israele sostiene che i Palestinesi hanno sistemi politici indipendenti: l’Autorità Palestinese in Cisgiordania e Hamas a Gaza. Tuttavia, questa propaganda è molto lontana dalla realtà e oscura il fatto che il regime israeliano controlla la vita di tutti i palestinesi nell’intera area.

I cittadini palestinesi di Israele possono votare e candidarsi, ma la loro rappresentanza è limitata e mai uguale a quella degli ebrei. Il Regime Militare, che è stato imposto ai cittadini palestinesi di Israele fino al 1966 e che ha limitato la loro attività politica, ha dato il via all’opinione diffusa oggi che le risoluzioni della Knesset sono legittime solo se assicurano una “maggioranza ebraica”. Anche la rappresentanza politica palestinese è limitata dalla legge. La Sezione 7a della Legge Fondamentale viene regolarmente invocata per cercare di squalificare i candidati e le liste palestinesi in corsa per il Parlamento, con la motivazione che la loro lotta per la piena uguaglianza nega l’esistenza di Israele come Stato ebraico. Nella democrazia ebraica israeliana, combattere con mezzi democratici per il più basilare dei principi democratici – l’uguaglianza – è proibito.

Spero che la lettura dell’intero documento [tradotto qui sotto] faccia riflettere sul significato delle elezioni in Israele, nel passato, nel presente e nel futuro. Una cosa è certa: questa non è una democrazia da festeggiare…

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Gruppo per i diritti umani chiede alla CPI di indagare sull’”ingegnere dell’Apartheid” di Israele – Quds Network

“È raro trovare una persona come Toledano implicata in così tanti tipi di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, e con così tante prove documentali liberamente disponibili”

Democrazia per il Mondo Arabo (Democracy for the Arab World Now – DAWN) ha presentato una denuncia alla Corte Penale Internazionale (CPI), chiedendo un’indagine sull’ “ingegnere dell’Apartheid israeliano” Eyal Toledano per crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Il gruppo per i diritti umani con sede negli Stati Uniti ha presentato la richiesta dopo un’indagine durata mesi sulle attività nella Cisgiordania occupata tra il 2016 e il 2020, collocandole temporalmente e geograficamente nell’ambito dell’indagine della CPI in corso sulla situazione in Palestina, ha comunicato il gruppo.

Toledano era a quel tempo la massima autorità legale di Israele e procuratore generale incaricato.

“In quel ruolo, Toledano era responsabile della pianificazione legale e dell’approvazione di tutte le attività e le politiche non militari dell’IDF, comprese quelle che violano il diritto internazionale umanitario e lo Statuto di Roma della CPI”, ha aggiunto il gruppo.

“Ciò che rende il caso Toledano così appropriato per la CPI non sono solo i crimini coinvolti, ma l’opportunità per la Corte di dimostrare che i crimini internazionali non possono essere ‘legalizzati’ attraverso la legislazione nazionale”, ha affermato in una dichiarazione Michael Schaeffer Omer-Man, Direttore della ricerca per Israele-Palestina al DAWN.

“Portare davanti alla giustizia qualcuno come Toledano, un ingegnere dell’Apartheid israeliano, è la ragion d’essere della CPI e crediamo che il Procuratore vedrà queste prove e ne trarrà la stessa conclusione”.

DAWN è stata fondata dal giornalista Jamal Khashoggi, assassinato nel consolato saudita a Istanbul nel 2018.

DAWN ha affermato che come capo di una squadra legale di 40 avvocati, Toledano ha supervisionato la demolizione di 618 abitazioni, sfollando 2.115 palestinesi, un’azione considerata una punizione collettiva da parte dei gruppi per i diritti umani e dei governi di tutto il mondo.

Altri atti commessi dalle forze israeliane nei Territori Occupati includono restrizioni arbitrarie al movimento delle persone, facilitazione dell’insediamento di coloni israeliani illegali, avanzamento esecutivo delle annessioni e mantenimento di un sistema di Apartheid, ha affermato il gruppo.

“Toledano ha svolto un ruolo chiave nella pianificazione, giustificazione e difesa della demolizione di massa pianificata, ma non ancora eseguita, e del trasferimento forzato dell’intero villaggio di Khan al-Ahmar, che l’ex Procuratore della Corte Penale Internazionale ha avvertito all’epoca potrebbero costituire crimini di guerra”.

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I partiti palestinesi devono abbandonare la farsa democratica di Israele – Ramzy Baroud

Rimanendo fedeli partecipanti alla farsa democratica di Israele, i politici continuano a legittimare l’apparato istituzionale israeliano, danneggiando così non solo le comunità palestinesi in Israele, ma i palestinesi ovunque.

Indipendentemente dall’esito delle elezioni israeliane di martedì, i partiti palestinesi non trarranno benefici politici significativi, anche se complessivamente raggiungeranno la loro più alta rappresentanza di sempre. La ragione di ciò non dipende dai partiti stessi, ma dal sistema politico distorto di Israele, che si basa sul razzismo e sull’emarginazione dei non ebrei.

Israele è stato fondato sulla difficile premessa di essere la Patria di tutti gli ebrei, ovunque, non degli abitanti nativi della Palestina, e su una pulizia etnica sanguinaria; quella della Nakba, la distruzione della Palestina storica e l’espulsione del suo popolo.

Tali inizi non furono certo favorevoli all’instaurazione di una vera democrazia. E non solo l’atteggiamento discriminatorio di Israele è persistito nel corso degli anni, ma è addirittura peggiorato, soprattutto perché la popolazione palestinese è cresciuta in modo sproporzionato rispetto alla popolazione ebraica.

La triste realtà è che alcuni partiti palestinesi hanno partecipato alle elezioni israeliane dal 1949, alcuni in modo indipendente e altri sotto l’egida del partito al potere Mapai. Lo hanno fatto nonostante le comunità palestinesi in Israele fossero governate da un governo militare fino al 1966 e praticamente governate, fino ad oggi, dagli illegali “Regolamenti di Difesa (di emergenza)”. Questa partecipazione è stata costantemente propagandata da Israele e dai suoi sostenitori come prova della natura democratica dello Stato.

Questa affermazione da sola è servita da pilastro dell’Hasbara israeliana nel corso dei decenni. Anche se spesso inconsapevolmente, i partiti politici palestinesi in Israele hanno fornito i contenuti per tale propaganda, rendendo difficile per il popolo palestinese sostenere che il sistema politico israeliano è fondamentalmente distorto e razzista.

I cittadini palestinesi hanno sempre discusso tra loro i pro e i contro della partecipazione alle elezioni israeliane. Alcuni capiscono che la loro partecipazione convalida l’ideologia sionista e l’Apartheid israeliano, mentre altri sostengono che astenersi dal partecipare al processo politico nega ai palestinesi l’opportunità di cambiare il sistema dall’interno.

Quest’ultimo argomento ha perso gran parte del suo merito quando Israele è sprofondato nell’Apartheid, mentre le condizioni sociali, politiche e legali per i palestinesi sono peggiorate. Il Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele, noto come Adalah, cataloga decine di leggi discriminatorie in Israele che prendono di mira esclusivamente le comunità palestinesi. Inoltre, in un rapporto pubblicato a febbraio, Amnesty International ha descritto come “la rappresentanza dei cittadini palestinesi di Israele nel processo decisionale sia stata limitata e minata da una serie di leggi e politiche israeliane”.

Questa realtà esiste da decenni, da molto prima del 19 luglio 2018, quando il Parlamento israeliano ha approvato la cosiddetta legge sullo Stato-Nazione ebraico. Questa legge è l’esempio più lampante di razzismo politico e giuridico, che fa di Israele un regime di Apartheid a tutti gli effetti. È anche la proclamazione più articolata della supremazia ebraica sui palestinesi in tutti gli aspetti della vita, compreso il diritto all’autodeterminazione…

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Per il ministro degli Esteri dell’ANP, Riyad al-Maliki, l’adesione di Israele al Trattato di non proliferazione nucleare (NPT) e la distruzione del suo arsenale nucleare, sarebbero i primi passi verso la realizzazione di una regione (Asia Occidentale) libera di armi atomiche.

Maliki ha lanciato l’appello lunedì a seguito dell’adozione di una risoluzione, presentata dall’Egitto, al Primo Comitato dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che chiedeva a Israele di sbarazzarsi dei suoi armamenti atomici.

Ha accolto con favore l’adozione della risoluzione, affermando: “Israele è obbligato a impostare i suoi programmi in modo che siano monitorati dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) poiché è l’unico partito in Medio Oriente che possiede armi di distruzione di massa, in particolare armi nucleari .”

È essenziale che Israele debba rispettare le norme pertinenti del diritto internazionale, ha affermato il ministro degli Esteri palestinese.

All’inizio della giornata, il Primo Comitato ha deciso con un voto di 152-5 che Israele avrebbe dovuto distruggere le sue armi nucleari.

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