L’odore della povertà vi disturba? E’ colpa della politica…
…E io, che dò da mangiare ai senzatetto, vi racconto perché – di Raffaele Galardi (*)
La povertà non chiede nulla, occupa lo spazio con corpi, oggetti ma anche odore, molte volte puzza. L’odore resta, non si relativizza è acre, sgradevole a volte da i conati, è proprio lì che la società mostra la sua natura, quella vera.
Una persona entra in un’attività commerciale, sente quell’odore, si ritrae per istinto non lo nasconde, lo dice apertamente, educatamente con parole ricercate e forbite, in quelle parole c’è l’intero dispositivo del nostro tempo, parole che fanno male alle orecchie ed alla sensibilità di alcuni, non tanto l’odio perché non è odio, non il giudizio morale, ma il rifiuto del contatto.
La miseria diventa corpo estraneo, un qualcosa che disturba la tranquillità e la spensieratezza, anche quella di una semplice pausa pranzo, il rifiuto, purtroppo, legittimo da parte di alcuni di condividere la stanza con qualcuno che puzza di povertà, di miseria, di abbandono.
La domanda resta, perché quell’odore? Non basta la frase comoda, “non possono lavarsi”, “vogliono vivere così”, la verità è che non possono perché noi come società, come comunità, li vogliamo così, sporchi, lerci, maleodoranti. L’odore funziona come marchio, definisce il dentro e il fuori, l’accettato e il rifiutato.
Quasta esperienza che racconto, la descrivo per conoscenza diretta, per aver provato sulla mia pelle la violenza psicologica dell’aut aut, o me o loro, ambo le parti avevano ragione, sia chi aveva fame sia chi voleva gustare il proprio pasto senza lo sgradevole olezzo della puzza di merda e piscio e dello sporco di mesi se non anni di marciapiede.
Questa cosa mi ha turbato… dimenticavo, faccio il cuoco, conduco una piccola attività ed offro il pasto agli ultimi, senza badare dall’odore, li faccio anche accomodare a tavola talvolta, per restituire loro qualche minuto di dignità. Quel bivio di scelta mi ha messo in condizione di riflettere: a me non piacciono le imposizioni, ma anche la mia in fin dei conti lo era, chi sono per obbligare un’altra persona a consumare il pasto tra olezzi sgradevoli?
Ho preso una decisione, interessare la comunità, intesa come clientela e come istituzione, ho chiamato le istituzioni, perché se io, noi, posso sfamare qualcuno, le istituzioni, lo Stato diramazioni periferiche comprese, li possono lavare e vestire, possono restituire loro la dignità dell’odore. Ho scoperto in questa maniera l’esistenza delle docce pubbliche, ho scoperto che sono a pagamento per tutti, compresi i senza fissa dimora, senza reddito, senza soldi. Docce a pagamento, con tariffe che raddoppiano nel weekend, servizi pubblici trasformati in gabbie tariffari, chi non può pagare deve portare addosso il segno della sua condizione. Un marchio olfattivo, più efficace di qualunque documento.
La scena è questa, il senzatetto che puzza ed ha fame, il cliente che giustamente vuole godere la sua personale esperienza in un ambiente confortevole ed in mezzo io, e quelli come me, uno che cucina, lavora, serve, uno che non dovrebbe sostituire lo Stato e invece lo fa. Perché qualcuno deve farlo, anche solo per il semplice fatto che la fame non aspetta il bilancio comunale.
La politica osserva, calcola. fa la cosa che le riesce meglio, non agisce, salvo sporadiche eccezioni. Il tema dei poveri risorge molte volte solo durante la campagna elettorale, comizi, promesse, piani, poi dopo il voto… il silenzio. La miseria torna sottoterra, insieme ai volantini elettorali e l’odore resta per strada, sulla pelle, nelle narici. Una politica che produce povertà e pretende decoro che parla di ordine mentre costruisce esclusione che usa i poveri come spauracchio, ma non li riconosce come cittadini.
L’odore non viene dai corpi sporchi che dormono per strada senza nemmeno poter pisciare con dignità, viene dalle politiche pubbliche, dalla scelta deliberata di tagliare, chiudere, ridurre, monetizzare, dall’abitudine del potere a esternalizzare la colpa su chi quella colpa la subisce.
Non c’è convivenza possibile in un sistema costruito per dividere, non c’è dignità possibile dove l’igiene diventa merce, non c’è pace possibile tra un tavolo di ristorante e un corpo abbandonato, finché la politica resterà un esercizio di linguaggio e non atto concreto.
La lotta sta qui, o si accetta il modello della segregazione, o si rompe! Noi lo abbiamo rotto, abbiamo stressato il sistema, telefonate, messaggi e poi ancora telefonate ed altri messaggi, cosa abbiamo ottenuto? Ci è stata data la possibilità di condividere, di poter acquistare una doccia calda, una saponetta, una dose di bagnoschiuma, di shampoo e donarla consegnando un voucher.
“Mi perdoni, avrei un’osservazione”
“Dica”
“Ma una volta lavati, se reindossano i panni sporchi che avevano, tornano a puzzare come prima!”
“Un cambio di abiti, lo metteremo a disposizione noi”, uno scatto di reni delle istituzioni, wow! un sussulto piccolo piccolo ma che è sempre una speranza.
“Ancora una cosa”
“Dica”
“Riusciamo a portare il prezzo della doccia del sabato uguale a quello del venerdì?”
“Eh! Un passo alla volta!”
Condividere è un atto politico. Lo è sempre. Lo è soprattutto quando dà fastidio, ma ancor di più quando smuove le coscienze, anche fosse solo una.
(*) l’autore è un imprenditore nel settore della ristorazione – ripreso da ilfattoquotidiano.it

