Luca Barbieri: «il sicario e l’alchimista»

Erano pochi, vecchi, fiacchi alchimisti, esiliati dalle loro patrie, scacciati come criminali dalle loro stesse case. In squallide imbarcazioni ricolme di topi avevano solcato il mare, giungendo, infine, ad una terra di ghiaccio e pietra, ignorata dagli atlanti, in verità nulla più di uno smisurato scoglio scivolato dalle mani di un demiurgo distratto e dimenticato laddove era caduto. Costoro non cercavano verità e neppure saggezza, sotto alcuna forma; se trascorrevano il loro tempo a scrutare in alambicchi e vetri fumosi e se tentavano di strappare alla natura i suoi più intimi segreti, non era di certo per elevare lo stato semiselvaggio degli uomini che avevano trovato sull’Isola di Ghiaccio, bensì per manipolare gli elementi a proprio vantaggio. Vanamente costoro spesero le loro innaturalmente prolungate esistenze a rovistare le viscere della terra: uno ad uno si spensero, come le fiammelle di mozziconi di candela sotto l’alito di uno scortese vento.

Ma non è la loro storia ciò che vado cercando tra le fragili pergamene di questa polverosa biblioteca. Ricerco piuttosto la vicenda di due uomini che, incrociando i loro destini in uno solo, crearono una trama nuova ed originale nel vetusto intessuto della vita, incessantemente uguale a se stesso.

Percorro e ripercorro con la mente nomi e luoghi e fatti ed accadimenti e battaglie e date e poi da capo, ancora ed ancora. Il mio indice pare pesare come fosse stato forgiato del più duro tra i metalli mentre scorre alla bianca luce della lampada i rotoli gialli e sottili come pelle di mummia, dispiegati delicatamente sopra il tavolaccio di legno ed ivi trattenuti da fermacarte d’alabastro ed avorio.

Sento la stanchezza che mi appiattisce sulle pergamene, ma ancora cerco e cerco.

Il ricordo di questa terra nella mente dei miei compatrioti è pallido come la luce che illumina questa mia stanza; mio è il compito di impedire che esso sparisca del tutto, inghiottito dal nero inchiostro dell’apatia, che tutto rende morto e non dissimile ad una piatta desolazione. Uomini che furono dei e dei che si fecero uomini, battaglie che rapirono nel volgere di poche ore tante vite bastanti da riempirne l’oceano, re e demoni che si intrattennero a discutere di filosofia sul teschio del primo uomo: tutto ciò appare ridicolo in questi tempi di gelida noncuranza. Ma ogni cosa, la nostra stessa vita per prima, appare ridicola quando si tinge del colore dell’indifferenza, e la sorte di questo mio misero universo (che implode dentro se stesso, morendo di autocommiserazione) mi sembra   del tutto naturale, così come la notte succede al mattino ed il mattino alla notte.

Non cerco per me, che il tempo ha reso friabile come gesso; cerco per chi verrà.

Ma il timore, che è come acido in questa mia bocca blasfema, mutilata della lingua per volere del re e del diavolo, è che chi verrà possa essere vuoto fin dalla nascita, privato dell’anima nell’utero della stessa madre (perchè il re è capace di questo, e di molte altre cose che nessuno avrebbe mai creduto prima del suo avvento nè crede tuttora; io stesso, che Dio mi perdoni, non fui abbastanza forte da credere). E se così sarà, se davvero il mondo sarà condannato ad una cieca e bestiale ignoranza, chi proteggerà questi miei fragili figli, queste mie povere cose di carta e pelle d’animale, che l’inclemente scorrere del tempo condannerà a divenire cenere e polvere e poi nient’altro che concime per i nuovi fiori del re?

Cerco, comunque, e nell’incombente cecità dei miei occhi trovo, infine, una storia; perchè solo il potere della parola potrà restituire un po’ di coraggio al fango dell’anima nostra.

Thorak è il nome che invano ho cercato per mesi, e l’inchiostro ormai grigio di questa pergamena mi racconta di come visse e morì costui  che fu alchimista e stregone e negromante ed indovino, ma che fu, infine, nient’altro che uomo.

Uno solo dei saggi e malvagi alchimisti dell’Isola di Ghiaccio sopravvisse alle ingiurie del tempo; non certo uno dei migliori, solo il più fortunato, che si mormorava avesse più di trecento anni sulle sue spalle curve ed ingobbite: Thorak l’Anziano rimase l’unico custode di conoscenze che sarebbero morte con lui e meglio sarebbe stato mai fossero nate.

Da tempo egli cercava un uomo adatto a quello che avrebbe dovuto essere l’ultimo, e più grandioso, dei suoi esperimenti; non uomo qualsiasi, di quelli che avrebbe potuto avere  per pochi pezzi d’oro nel più vicino mercato di schiavi, ma uomo che il Fato avesse voluto eleggere tra gli altri.

Questa è la storia di come cercò e trovò quell’uomo.

Da tempo le mie labbra non sorridevano (e forse mai, in questa mia ultima e più misera vita terrena, lo avevano fatto prima d’ora); leggendo però come copisti di epoche lontane dalla mia quanto la luce di Dio è lontana dall’anima del re, avevano trascritto la storia di quell’Ultimo, così simile a me nel suo vagabondare in cerca di un suo proprio Graal, le mie labbra tremarono nel ricercare la forma di ciò che mai avevano sperimentato finora, e cioè quel sorriso che se è vero che è il linguaggio dell’anima, testimonia infine che Dio Onnipotente me ne ha concessa una.

Esistono uomini che nascono per diventare leggenda.

C’è qualcosa in loro che la natura ha mutato, rendendolo diverso dal comune e differente da ciò che gli altri uomini possiedono. In alcuni casi tale difformità ha il sapore acre della beffa, quando questi uomini imperfetti assumono le grottesche sembianze di esseri bestiali, ripugnanti allo sguardo, e sono costretti a celare il loro aspetto, nascondendosi come ombra tra le ombra, divenendo, da mero motivo di raccapriccio, dapprima il bizzarro fulcro di stravaganti storie per bambini e quindi il cuore stesso del mito. Altre volte, invece, il destino si distrae, confuso da dolci carezze di ninfa, e regala a uno ciò che basterebbe per molti in molte vite; nascono allora uomini capaci di mutare la sorte di interi popoli e di plasmare nelle loro mani l’incandescente sostanza che vive nel cuore della Terra per forgiarla a propria discrezione.

Azzok fu uno di questi uomini, segnati alla nascita dall’impalpabile bacio di una dea benigna. Da bambino forte e robusto, capace di spezzare il collo di un cane come fosse un nodoso ramoscello secco, divenne poi guerriero sui campi di battaglia, dove si coprì del sangue e delle viscere di innumerevoli nemici. Il valore ed il coraggio che si irradiavano attorno a lui, come fiamma fredda, lo elessero a capo, poi a principe, infine a re.

Questo era il genere d’Uomo che Thorak cercava e che infine trovò, racchiuso come feto pronto a nascere a nuova vita dentro il racconto di un viaggiatore che ebbe la ventura di incrociare il suo passo con quello dell’Ultimo. Anche il più perverso dei demoni che infestavano le terre al di là dell’oceano avrebbe provato disgusto alla vista dell’orribile ghigno che distorse i lineamenti dell’alchimista quando ebbe udito quella storia.

E’ ciò che fa al caso mio, sussurrò la voce, cupa, dell’anima alle orecchie del suo cuore, avrò oro, e potere oltre l’immaginabile; e certo anche giovani donne focose.

Intraprese dunque il viaggio per raggiungere la lontana città di Azzok, persa tra le terre che macchiavano di verde il brullo profilo della costa dell’isola, terre a picco sull’oceano spumeggiante, eppure fertili e gravide di frutti, come ventre di donna.  Durò quasi un’intera luna il faticoso tragitto, tempo  che l’empio alchimista trascorse all’interno di una lussuosa carrozza trainata da due incredibili animali, creati da un osceno incrocio, i quali avevano un’enorme forza e parevano instancabili, a capo chino e nari sbuffanti, trainando quel peso tra sassi e fango, sospinti senza tregua come da un fuoco interno, un bruciore che scavava loro le viscere,  donandogli un incredibile vigore, ma conducendoli anche ad una terribile agonia nel volgere di brevissimo tempo.

Thorak l’Anziano non rimpianse di certo i disagi del viaggio, la pioggia delle pianure, la gelida neve che ricopriva i passi montani, il rovente sole del deserto, e tutto quanto d’altro aveva patito, quando riuscì a raggiungere un accordo con quel possente guerriero.

Ogni uomo ha un suo proprio prezzo, si disse l’Ultimo, in una smorfia di godimento, e lui, che nella sua interminabile esistenza aveva venduto e comprato innumerevoli vite, ben lo sapeva. Ma come comprare la vita di un re? si chiese.

Trovò la risposta che cercava in un buio anfratto scavato dentro il cuore di quell’uomo possente e vigoroso, dal viso impenetrabile, severo, maestoso, imponente, come ad un re s’addice.

Nè di spada o scure ha timore costui, indovinò l’alchimista esplorando l’anima dura come pietra dell’uomo innanzi al quale stava in piedi, nè di ferita o amputazione o cancrena  o mutilazione, per quanto spaventosa possa essere. Ma di una cosa sì; una cosa teme costui, e tramite questa l’avrò per me!

Dell’oblio aveva paura il re; di quel torpore che invade la memoria dell’uomo e la rende distratta come infante e dimentica d’ogni cosa che non riguardi il suo oggi.

L’oblio! Quale comica attualità ha ora questo scritto, in questo tempo di indifferente sonno della ragione, che non mostri genera ma ben proporzionate, affascinanti, ammalianti sirene dalla voce suadente  e dal canto dolce come miele e letale come veleno di vipera! Ma è meglio che proceda, che mi affretti anzi, perchè già sento venir meno l’attenzione, e mi pare di stare addormentandomi anch’io in questo sogno che tutti ci prende e racchiude…

Al re-guerriero bastò la solenne promessa da parte dell’alchimista  di poter avere, quale premio per i suoi servigi, quali fossero, vita e memoria perenne, nel cuore e nelle menti degli uomini tutti, finchè fosse sorto il sole e calata la notte. Questo l’Ultimo giurò, e, stretto il patto, i due uomini partirono la mattina successiva, una grigia e triste alba, carica di presagi ed ammonimenti.

Thorak, adagiato sui cuscini di seta della carrozza, non riusciva a trattenere un malevolo sorriso ogni volta che il suo sguardo indugiava sul corpo del gigantesco guerriero addormentato di fronte a lui. Gli aveva promesso una vita lunghissima, oro e fama; non aveva mentito più del necessario.

Se adesso avessi, come un tempo ebbi, frotte di fanciulli a tirarmi la veste e a sciamare come api nella mia stanza, ebbri di storie narrate, ubriachi come di vino per ciò che le loro menti avevano sognato, cullate dalle mie parole, forse qualcuno di loro potrebbe farsi avanti e tendere il proprio dito ammonitore verso la pergamena, perchè il narratore ha omesso più del necessario e di sicuro oltre la buona costumanza, e chi ascolta ha ora febbre di sapere, di conoscere, di apprendere. Perchè il viaggio? Perchè il patto? Perchè? Non indugiare, perciò, antico foglio e svela la tua tessitura, giacchè il tempo rimastomi si assottiglia di minuto in minuto!

Ma la pergamena è muta, altro non dice, e prima di procedere oltre è necessario che la mia umile arte riempia il vuoto di questa narrazione, con parole ed intuizioni mie, certo, ma non è forse il lettore l’ultimo e più grande autore della storia che sta leggendo? Perchè la fa sua e così facendo la riscrive in eterno, ed in eterno la memoria può brillare, come falò di giganti nella notte di altra luce priva.

Thorak, nonostante tutto, era un uomo e come tale aveva molti vizi; amava le donne, il lusso, la seta sulla pelle, ma, sopra ogni altra cosa, amava l’oro. Quand’era lontano dal fumo acre e velenoso delle sue ampolle, adorava trascorrere il tempo ad ammonticchiare monete sullo spesso tavolo di quercia, a rigirarle tra i pollici accarezzandole con delicatezza e voluttà come fossero state candidi seni di giovani vergini, a contarle e ricontarle per poi, a malincuore, riporle in vetusti forzieri. Era ricco, l’Ultimo, più di quanto qualunque viandante potesse sospettare sbirciando da lontano il suo castello in rovina, più  della maggior parte dei signori dell’Isola di Ghiaccio, ma questo ancora non gli bastava. Le sue ricchezze provenivano da lontano, da altre isole neppure segnate sui polverosi atlanti non ancora del tutto corrosi dal tempo, o da più lontano ancora, dal dimenticato continente, a molte, moltissime leghe ad Oriente. Aveva ucciso, tradito, corrotto e torturato nel corso delle sue innumerevoli esistenze per ottenere l’oro che aveva.

Ma ancora non gli bastava.

L’Anziano voleva per sè altro oro, moltissimo altro oro, e sapeva perfettamente che il mezzo migliore per arricchirsi senza misura in un tempo ragionevolmente breve era l’assassinio prezzolato, in parte perchè la morte è sempre un buon affare, in parte perchè sull’isola c’era una gran penuria di  sicari efficienti; i migliori tra loro erano finiti tutti a marcire su forche improvvisate oppure erano stati gettati in qualche fossa a sfamare gli animali randagi: le guardie alle porte di ogni castello erano infatti molto abili e devote, e la fortuna non è eterna per nessuno.

La cosa da fare era perciò quella di trovare un sicario che fosse immune al costante oscillare della Sorte.

La luce vacilla, come spossata da qualche peso che ignoro; è la stanchezza che forse la divora, così come ha divorato me; al suo pur tremulo bagliore osservo le parole che ho vergato di fresco sul manoscritto, di traverso alle altre, più antiche e corrose dagli anni e dalla polvere, e, mentre soffio sopra al mio inchiostro, per farlo rapprendere e dar la definitiva consistenza alla mia opera, avverto la frattura nel tempo e nello spazio che ho provocato col mio agire e riesco quasi a discernere la sagoma curva dell’antico copista che nella polverosa caligine che offusca le mie pupille pare essere uguale a me e a mille altri come me; ma non è forse stato detto che un uomo che scrive è del tutto simile a tutti gli altri uomini che scrivono, in qualunque parte del mondo e del tempo lo facciano?

Azzok rimase per più di sei lune rinchiuso nella fortezza dell’alchimista. Nessuno lo vide o seppe qualcosa di lui durante tutto quel tempo; si vociferava, ma a bassa voce e molto lontano dal castello, che l’Ultimo fosse occupato in un nuovo, sacrilego esperimento e che il poderoso guerriero vi entrasse in qualche modo. Nessuno sapeva niente di più, nè era interessato a saperlo.

Per tutti Azzok era ormai morto e, in realtà, fu come se lo fosse.

Il guerriero rivide la luce dopo molto tempo passato al buio, ma non furono i suoi occhi, gettati da qualche parte, forse in un letamaio a sfamare qualche maiale, a mostrargli l’assolata campagna primaverile, bensì quelli di un gatto che ebbe la sfortuna di scegliere le gambe di Thorak contro le quali strofinare la schiena. Nulla di quello che Azzok era adesso ricordava ciò che era stato un tempo, nè il viso, grifagno ed orribile, nè le mani, dotate di artigli terribili come quelli di un animale selvaggio; nulla. Il re era morto. Al suo posto calcava la terra un animale feroce, guardingo ed attento, mugolante e bestiale, docile e fedele solo col proprio padrone. Sei lune ci erano volute all’alchimista per creare quel mostro, orribile insulto alla natura, meschino ibrido di bestia ed uomo; sei lune perchè Azzok morisse e qualcosa d’altro prendesse il suo posto. Con artifici a lui solo noti e con oscure alchimie, Thorak l’Anziano l’aveva privato della sua umanità, donandogli quella che poteva sembrare l’immortalità del corpo. In realtà questo andava ben oltre le possibilità dello stregone, che aveva, comunque, incommensurabilmente accresciuto la forza vitale del guerriero: egli poteva ora sopportare ferite che avrebbero straziato qualunque altro uomo e che, inoltre, si rimarginavano con velocità strepitosa. Anche il miserando Azzok sarebbe morto un giorno, come chiunque altro, solo con qualche secolo di ritardo sulla data che il fato gli aveva dato in sorte all’inizio della sua vita mortale. Lo stesso Thorak era curioso di sapere come tale fine sarebbe giunta. Secondo i suoi calcoli la carne avrebbe dovuto  cominciare a marcire lentamente, e, come in preda ad una sorta di abominevole  lebbra, l’intero corpo si sarebbe pian piano corrotto,  fino a lasciare, come vestigia del re, solo le ossa a calcinarsi al sole. Ma tutto questo importava ben poco all’Ultimo ora che finalmente aveva a disposizione il suo sicario.

Azzok dipendeva in tutto e per tutto dall’alchimista: questi aveva plasmato il suo cervello, sezionandolo, rovistandolo e mischiandolo con pozioni e filtri, fino a privarlo di ogni atomo d’arbitrio o discrezionalità. Rispondeva a pochi stimoli quali la fame o la sete. La sua ferocia era inimmaginabile quando gli si ordinava d’uccidere. Bastava sussurrargli un nome e Azzok avrebbe straziato, mutilato, fatto a pezzi il corpo che apparteneva a quel nome. Senza gioia o rammarico. Con lo stesso scrupolo con cui si sbriga il proprio lavoro e con la stessa indifferenza con la quale si schiaccia un insetto.

Ah, quale terribile arte è questa! Ma non servono pozioni o filtri o stregonerie di tempi arcani, e forse mai esistiti, per rendere un uomo un docile animale da ornamento e compagnia. Il re, questo mostro venefico che striscia in quelle che un tempo furono le sale del sapere e della saggezza, ha ottenuto il medesimo risultato su noi tutti, pur privo di questa putrida scienza.

Il primo compito di Azzok fu quello di eliminare il vecchio despota dell’Isola di Ghiaccio.

Solo lui era in grado di tenere a freno i recalcitranti feudatari, mantenendo tra loro l’ordine, o meglio una sua comica parvenza, e non disdegnando di utilizzare il ferro e la corda nel farlo; era odiato dai suoi sudditi per la sua ferocia, ma nessuno aveva mai osato ucciderlo. Lo fece Azzok, in una tranquilla e fresca sera di primavera. Nessuno pagò Thorak per questo lavoro, nè l’Ultimo reclamò per sè alcun compenso; uccidere il tiranno era stata per lui la migliore delle pubblicità e, cosa non trascurabile, ora che erano senza un padrone i notabili più ambiziosi si sarebbero avventati l’uno contro l’altro, come animali inferociti. Le conseguenze non erano difficili da immaginare: anarchia, disordini, razzie, saccheggi; in breve, ottimi affari per il vecchio e scaltro Thorak.

Il tiranno morì supplicando e pregando. Il suo corpo squartato e mutilato venne trovato all’alba nella piazza della capitale. Il palazzo sembrava essere stato investito da un uragano dal quale piovesse e turbinasse sangue anzichè acqua, mentre i cadaveri delle guardie erano sparsi dovunque, e le loro teste ammonticchiate in un angolo, in una sorta di oscena piramide.

Furono in molti nelle settimane seguenti ad assaggiare l’acciaio di Azzok; a decine furono i cadaveri ritrovati in una pozza di sangue coagulato e circondati da nugoli di mosche. La fama del re-guerriero raggiunse ogni angolo dell’isola, le sue precedenti imprese furono dimenticate, così come si abbandona in fretta un vecchio abito per sfoggiarne uno nuovo, il suo nome venne accostato a quello degli antichi eroi e semidei delle leggende.

Dopotutto il vecchio alchimista aveva davvero mantenuto la propria promessa.

Assoldare il fantoccio di Thorak era estremamente semplice: bastava farsi trovare ad una certa ora della notte presso la Rocca dell’Infamia, un luogo oscuro e dannato, evitato dai più, dove erano soliti ritrovarsi coloro che facevano della morte e della sofferenza altrui la propria moneta di scambio, e sussurrare con discrezione un nome all’orecchio del maligno alchimista per poi  fargli scivolare tra le mani il prezzo pattuito.

Ma il clima cominciò presto a cambiare e le notti si fecero sempre più gelide ed ostili, presso quella roccia dalla strana foggia, sferzata costantemente dal tagliente maestrale. Diveniva sempre più spiacevole attendere fino a tardi nel buio della notte, e quando la neve cominciò ad incanutire le creste delle vicine colline, la veglia si fece intollerabile.

Thorak non solo era avaro, ma anche estremamente pigro, e ben presto cominciò ad odiare quelle notti insonni. Non ci volle molto all’astuto stregone per escogitare un’alternativa: bastò restituire alla sua docile creatura quel tanto di intelletto necessario perchè imparasse di nuovo a leggere e fosse in grado di comprendere ciò che veniva vergato dai committenti sui piccoli foglietti di carta che gli venivano consegnati.

Che sia quello stupido bestione, pensò Thorak, a subire l’inclemenza del dio delle Nevi; di certo io  preferisco il caldo delle coperte ed il palpitante corpo di una giovane fanciulla.

L’efficienza di Azzok si rivelò superiore ad ogni aspettativa e l’Anziano cominciò a disinteressarsi degli affari stipulati in suo nome, limitandosi a raccogliere, ogni mattina, il ricavato dell’opera notturna del suo coscienzioso sicario.

Fu durante una di queste gelide nottate che un ragazzo avvolto in un pesante mantello ed armato solo di una spada imbrattata di sangue di pipistrello, scivolò furtivo alle spalle del possente guerriero. Era giunto in quel luogo silenzioso dai margini estremi dell’isola con lo scopo di ucciderlo. Azzok era ritenuto immortale e nessuno osava più incrociare la lama con lui, ma il ragazzo sapeva per certo che il sangue di pipistrello, mescolato a certe erbe che gli aveva indicato la madre quand’era ancora bambino, era letale per chiunque. Sarebbe perciò bastato anche solo ferirlo, semplicemente scalfirgli o graffiargli la pelle, cogliendolo di sorpresa, perchè quel veleno entrasse in circolo e suo padre, la cui morte era stata pagata poche lune prima, fosse finalmente vendicato.

Il gigantesco guerriero era accovacciato a terra, in silenzio;  fissava, immobile ed inespressivo, il cielo, d’una bellezza sconvolgente quella notte.

Per qualche istante gli occhi del ragazzo, dilatati da una viscerale paura, indugiarono su quella deforme figura, sulla quale si erano posati dolcemente alcuni fiocchi di neve; il giovane stringeva spasmodicamente l’elsa della spada e cercava il coraggio di gettarsi in avanti, poi, lentamente, mosse i primi passi, facendo scricchiolare sotto i sandali il nevischio ghiacciato. Il gigante parve ignorarlo finchè non fu giunto a pochi passi da lui, quindi, come svegliato di soprassalto da un incantesimo, si voltò, mostrando il volto orribilmente sfigurato.

Il ragazzo ebbe un tremito violento.

Visto da vicino Azzok era veramente impressionante e terribile. Nulla, o quasi, v’era più d’umano in lui; nulla, eppure qualcosa d’indefinibile parlava ancora di ciò che una volta quella creatura era stata e mai sarebbe stata più. Il sicario tese meccanicamente la mano a chi giudicava essere nient’altro che un nuovo cliente, non certo in segno di amicizia, però: voleva l’oro che lo avrebbe compensato del futuro assassinio. Il ragazzo arretrò d’istinto, confuso, gli occhi incollati a quelli, felini, del guerriero. Una folla di pensieri ed emozioni gli si accavallarono nella mente, la spada cadde con un tintinnio contro una roccia ai suoi piedi e la mano, tremando, salì a stringere quella dell’immobile guerriero. Quindi, volgendogli le spalle, si allontanò in fretta, impaurito, forse, di poter nuovamente cambiare idea.

Qualche ora più tardi, mentre l’orizzonte si macchiava di sangue per il nascere del nuovo sole, il ragazzo, confuso e rabbioso, chino sul collo del proprio cavallo spinto al galoppo, ancora tentava di spiegare a se stesso come aveva potuto provare un’indicibile pietà per l’assassino di suo padre.

Nuove emozioni invadono la mia fanciullesca mente di vecchio scrivano di corte; perchè non ho nome nè ho età, e sempre mi pare di aver vissuto tra questi scaffali e queste cartapecore, leggendo, raccontando, copiando queste parole di fronte alle quali sono ben poca cosa, essere fatto di inconsistente fiato e fumo, eppure ancora dopo millenni la mia mente che si rigenera entro se stessa come araba fenice, immortale ed umana, ancora riesce a turbarsi di fronte alle umane passioni. Pietà fu ciò che fermò la mano del ragazzo; pietà per un essere miserando e miserrimo, che fu tutto ed ora non è più nulla, primo ed ultimo di una razza che è nata e morirà con lui, invisa agli dei ed odiata dall’uomo; pietà, dunque, ma, quale ironia a rifletterci, tale sentimento non salvò forse la stessa vita di chi lo provava, piuttosto che quella dell’oggetto di tale passione?Perchè non ho dubbio alcuno che nessun unguento o pozione o erba o sangue di nottola o vampiro avrebbe potuto ferire mortalmente quel corpo di roccia e ferro, sì che il destino del figlio di non molto si sarebbe scostato da ciò che toccò al padre. Perciò si può dire che la pietà per la vittima salvò l’assassino dal divenire vittima lui stesso. Non è ciò che dice la pergamena, è vero, ma spesso le cose più importanti sono quelle taciute, e spetta a chi legge di interpretare le nascoste volontà di chi scrive. Non sono certo vanagloria o superbia, sentimenti sconosciuti a chi abita entro queste mura, a farmi parlare in questo modo. E’ piuttosto la saggezza che sgorga dall’infinita mia conoscenza delle cose e del mondo, perchè tramite me esso ha ruotato e tuttora ruota, se così io credo possa essere.

Una mattina, una delle tante albe che seguirono quella che aveva visto il ritorno a casa dello sconvolto ragazzo, Thorak venne svegliato da un ritmico bussare al suo portone. Bestemmiando malevolo contro la sua creatura irrispettosa e troppo mattiniera, si vestì velocemente, indugiando con lo sguardo voglioso sulle curve della ragazza addormentata sul suo letto, poi raggiunse a passi veloci l’atrio, fece scorrere il vecchio chiavistello e spalancò la porta.

Azzok entrò insieme ad una gelida folata di vento.

Gli avidi occhi dell’Ultimo individuarono subito una borsa di cuoio grezzo stretta nel pugno sinistro della sua creatura ed ebbero un guizzo di gioia: era da parecchio che nessuno proponeva più un contratto al suo sicario e aveva cominciato a dubitare della malvagità dei suoi concittadini. Con cupidigia artigliò la borsa, rovesciandone il contenuto tintinnante sul tavolo.

Una vera fortuna, constatò con esultanza, e nella sua felicità non notò che Azzok, scivolato come sempre in silenzio alle sue spalle, aveva stretto con entrambe le mani il proprio spadone. Continuando a rimestare le monete Thorak trovò tra esse un frammento sfilacciato di pergamena. Incuriosito l’Anziano lo avvicinò al volto; chi mai può mandarmi un messaggio?; e in quel momento Azzok fece ciò che gli era stato insegnato a fare.

La testa dell’ alchimista, recisa di netto, rimbalzò contro il muro con un tonfo raccapricciante, per poi rotolare ai piedi del sicario. Questi la sollevò per i capelli, lasciandola cadere sul tavolo, tra le monete che l’avevano pagata, poi uscì. La testa era voltata verso l’ingresso, così che gli occhi di Thorak l’Anziano, sebbene ciechi, sembrarono osservarlo mentre si allontanava.

L’ultima cosa che l’alchimista aveva avuto il tempo di vedere nella propria esistenza mortale era stato il suo nome vergato sul piccolo foglio dalla pietosa mano di un giovane mercante che aveva da poco perso il padre e che aveva, infine, compreso quale fosse la giusta cosa da fare.

Questo fu l’ultimo contratto di Azzok.

Nessuno sull’isola, benchè animato dai più barbari istinti, osò più chiedere il suo aiuto, ma il sicario, ancora fedele al proprio padrone, non smise di obbedire ai suoi ordini. Si mormorò che fosse tornato presso la Rocca dell’Infamia, aspettando nuovi clienti, come gli era stato insegnato a fare. E  nelle notti più fredde, quando il fuoco crepita e spande calore ed allegria e il vino libera le menti e scioglie le lingue, si cominciò a raccontare che il figlio del mercante fosse l’unico a recarsi là periodicamente, portando al guerriero cibo e acqua, e che avesse insegnato a farlo ai suoi figli e ai figli dei suoi figli, e che questo fosse continuato per generazioni.

Sono passati innumerevoli anni da allora, ma c’è  chi afferma , forse più ubriaco degli altri, che Azzok sia ancora  seduto nei pressi  della Rocca dell’Infamia, la spada stretta tra le mani, aspettando che la propria carne, così come il suo creatore aveva predetto, cominci ad imputridire e la Morte cali finalmente anche su di lui.

Si racconta che Azzok sia ancora là, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di andare a verificarlo.

La storia si è conclusa, ma forse potrebbe continuare  e allacciarsi così ad altre vicende, ad altri destini, ad altri fatti, come legna di diversi alberi che contribuisce all’ardere del medesimo fuoco; perchè non esiste storia che sia unica, così come non esiste pioggia che non bagni. Bello sarebbe il ricercare questi fili da tessere, che come radici si dipartono ognuna versa una sua propria destinazione, caparbie nello scavarsi una strada nel fango e nella terra, e bello sarebbe il seguire  tutti questi sentieri, ad uno ad uno, per poi tornare indietro e riprendere il percorso da un altro punto di vista, perdendosi con felice incoscienza in questa trama di ragnatele che dovunque e da nessuna parte conduce chi si lascia condurre. Bello sarebbe il coinvolgere in questa danza ogni essere che la terra abbia partorito e riconosciuto come proprio figlio, rendendolo ad un tempo spettatore ed attore, scritto e scrittore, narrato e narratore della propria storia  e di quella di altri. L’indifferenza non potrebbe sopravvivere in questo mondo, perchè ogni spazio sarebbe fitto di storie, numerose al punto da impedire la presenza di ogni altra cosa che non fosse l’essenza stessa del narrare e dell’essere narrato. Bello sarebbe, ma la luce della lampada si è fatta nera; potrebbe essere terminato l’olio combustibile; io credo però che sia la notte ad essersi impadronita della mia mente, celando infine al mio sguardo le parole vergate su questa e su ogni altra pergamena.

Luca Barbieri è autore di racconti dei generi più vari (dal western-horror al fantasy), alcuni dei quali sono stati premiati nell’ambito di prestigiosi concorsi nazionali. Ha pubblicato tre libri: “Amore negato”, Ananke, 2005; “Five Fingers”, Il Foglio, 2008; “Storia dei pistoleri”, Odoya, 2010. A questa sua breve nota auto-biografica devo forse aggiungere che… non siamo parenti; la nota sottostante è di Luca ma io (è ovvio) la condivuido: nessun recinto al sapere o al cielo ma neanche è giusto arricchirsi sui frutti delle menti altrui. O almeno questo è il mondo che vagheggio.

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Un commento

  • Mario Sumiraschi

    E’ veramente scritto bene. Lascia intravvedere tante cose senza appesantire il racconto, inserito in quella grande tradizione “esoterica” del fantasy, di tipo lovecraftiano: conoscenza arcaica e monstrum. Proprio bravo il Luca ! Ah questi Barbieri…

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