Maccheroni (di Pabuda)

Come catapultato da una navicella spaziale proveniente da chissà dove, mi son ritrovato da qualche parte, in una periferia urbana d’una metropoli europea non precisata, in orario serale o notturno. Lungo una strada a quattro corsie (ma, ovviamente, deserta di traffico veicolare e di qualsivoglia presenza umana) scorreva un doppio filare di altissimi lampioni dallo stelo grigio leggermente cadente ed emananti una luce bianca vaporosa, o nebbiosa, a essere pignoli. Sul ciglio di quella specie di tangenziale inutile ho camminato per un bel pezzo, come mi accadde una volta che, per essermi addormentato sul bus, mi ritrovai a notte fonda al capolinea di Abbiategrasso (intendo dire la città, non la piazza) e dovetti scarpinare qualche ora per tornare a Corsico e da lì fino all’assembramento di case popolari ai margini meridionali di Milano, dove dormivo all’epoca. Accadde quasi trent’anni fa, poco dopo il trasferimento in Lombardia, e fu il mio “battesimo della nebbia”. Anche stavolta ho camminato parecchio, ma senza fatica, né preoccupazione. Il panico è arrivato tutto d’un botto, quando m’è capitato di fare una sosta in uno strano luogo, assemblato in maniera scriteriata e leggermente mostruosa. Per certi aspetti ricordava un’officina meccanica. Anzi: era tale e quale alla rimessa di un car washing dove lavorai, per poche lire e poche settimane, un paio di vite fa. Ma, allo stesso tempo, era una specie di ambulatorio medico. A testimoniarlo senza ombra di dubbio ci stavano le pareti piastrellate esattamente nello stesso modo in cui sono mestamente rifasciati gli ambulatori infognati nelle fondamenta dell’ospedale San Paolo, che per un periodo frequentai con una certa assiduità. A fugare ogni ulteriore incertezza, poi, c’era un infermiere. Indossava una tuta da meccanico blu e un berretto bisunto da ferroviere dello stesso colore. Ma la sua solerzia infermieristica era inconfondibile. Così – come faccio sempre quando sono in balia del personale sanitario d’ogni tipo, specialità, grado e livello – mi sono affidato con fiducia alle sue cure (sebbene ignorassi il motivo per cui mi trovavo colà) e mi sono lasciato docilmente esaminare. Da quel che ho potuto capire lì per lì, la prima ricognizione è stata piuttosto sommaria e superficiale. Il giovanotto – non molto alto e con un viso quadrato ma simpatico – mi ha risparmiato test dolorosi o perlustrazioni imbarazzanti. In un secondo momento, però, m’ha scrutato da capo a piedi con l’ausilio di una grossa lente a ingrandire ogni centimetro quadro della mia pallida cute. Sinché, tutto a un tratto, ha emesso un lamentoso e cantilenante “Aiaiaiaiai…”. Mi sono preoccupato un po’, ma mai avrei potuto immaginare lo spettacolo cui sono stato costretto ad assistere da lì a poco. Giusto il tempo che l’infermiere/meccanico si procurasse uno specchio tramite il quale anch’io potessi dare un’occhiata alla mia testa.

L’immagine riflessa era disgustosa: dal mio cranio pelato spuntavano, distanziati tra loro di 6 o 7 centimetri, dei piccoli maccheroni al pomodoro, molto unti, pparentemente al dente! A malapena ho trattenuto un conato di vomito, rischiando di soffocare. Dopo di che devo aver rivolto uno sguardo atterrito all’infermiere, il quale, per tutta risposta ha commentato: “È un sintomo abbastanza evidente, purtroppo… le converrà fare una serie completa di esami ivati”. L’ha detto con un tono vagamente complice, ma fastidiosamente sbrigativo. “Ivaatiii? e che cazzo vuol dire!? Cosa minchia c’entra l’Iva con gli esami diagnostici!!?” ho pensato tra me. Gli ho girato subito la domanda, in termini un po’ più educati. E lui: “pour la Sida…”. Superata la sorpresa per l’inattesa rivelazione delle competenze linguistiche francofone del tizio, mi sono soffermato per un attimo sulla faccenda più sgradevole: l’Aids. “Ma come? Non era il flagello del secolo scorso!? Belin, tanto per cambiare… sono in ritardo sui tempi dello sviluppo storico!”. Mi sentivo mortificato. Ma ben presto il rammarico per la mia mancanza di tempismo sull’incedere dei fenomeni pandemici evaporò per lasciare spazio a un rovello più terra terra: “Come diavolo è possibile? È una vita che ho abbracciato la castità e, quando – magari per semplice buona educazione – non ho proprio potuto tirarmi indietro… l’ho fatto con tutti gli accorgimenti consigliabili – cioè… infilandomi quella specie di gommino sul coso –, infischiandomene degli anatemi demenziali di quell’anziano vestito di bianco che pretende d’essere discendente di Pietro da Betsaida, fratello di Andrea”. Sarà stato per questa mancanza di rispetto nei riguardi del monarca assoluto dello stato vaticano che avevo appena richiamato alla mente, ma… vraaam!

Improvvisamente… una luce accecante m’ha inondato. Calma, calma, ragazzi! Scherzavo: nessun intervento soprannaturale, nessun fulmine vendicativo dal Cielo: era solo la mia gatta, Negrita, che, saltando di qua e di là a caccia di zanzare, era piombata sull’interruttore della potente lampada che tengo in camera… quasi un faretto cinematografico. Così facendo, a parte il rischio di incenerirmi la retina, stava cavandomi fuori da quell’incubo. Perché di questo si trattava, fratelli miei. Un maledetto sogno angosciante! Mi capita ogni tanto. Non so se a causa del sovraffollamento che affligge il mio subconscio o per la cucina meticcia della mia cara coinquilina: ogni giorno più deliziosa, ma sempre sovraccarica d’aglio e delle spezie dei due continenti culinari che ormai le appartengono. Mi spiacerebbe aver deluso chi legge: ho raccontato solo uno stupido trip onirico andato a male. O forse no, a essere sincero, non mi dispiace affatto: m’ero talmente cagato sotto che l’illuminazione risolutiva provocata da Negrita – chissà se inconsapevolmente o per imperscrutabile amorevolezza felina –è stata davvero un sollievo, una liberazione.

Tanto per dare un’idea della paranoia in cui ero stato risucchiato, confesso che la mattina successiva, prima di lavarmi i denti, dopo essermi carezzato più volte il cranio, l’ho esaminato con attenzione riflesso nello specchio del bagno. Nessuna traccia di maccheroncini rossicci spuntati qua e là dalla mia bella testa pelata. Tutto regolare.

Però, però… prima che io mangi di nuovo un piatto di maccheroni al pomodoro ci vorrà un bel pezzo. D’ora in poi, solo trenette al pesto.

 

Redazione
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  • Bel scritto, Paolo, alla maniera lisergica dei beats. A proposito: mandami un po’ delle spezie bi-continentali che usa la tua coinquilina senza farlo sapere a Giovanardi, grazie.

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