In Palestina non c’è pace (neanche) tra gli ulivi

articoli e video di Gideon Levy, Hagai El-Ad, B’Tselem, Haaretz, Antonio Mazzeo, Michele Giorgio, BDS Italia, Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese, Judy Maltz, Ali Awad, Ramzy Baroud, Amira Hass, Luigi Daniele, Yara Hawari, Eliana Riva, Yuval Abraham, Oren Ziv, Avi Mograbi, Shany Littman, sionismo, Alex Levac, Umberto De Giovannangeli, Rajaa Natura, Donato Cioli, Miko Peled, Gabriel Schubiner, Jonathan Ofir, Salam Awad, Anwar Mhajne, Nicola Perugini, Francesca Albanese, David Kattenburg, Imad Barghouthi, Mimi Kirk (*)

 

Quando nel paradiso in terra chiamato Bielorussia, nelle mani di Lukašenko, nel 2020 è stata chiusa l’Ong per la difesa dei diritti umani Viasna centinaia fra i manifestanti che protestavano sono stati arrestati.

In quel paese, Bielorussia, viene praticata la tortura (leggi qui)

Qui si possono leggere le vibranti proteste della Delegazione parlamentare italiana presso l’Assemblea del Consiglio d’Europa (tutti i partiti italiani ne fanno parte), e si può leggere anche delle sanzioni europee contro quel paese.

Quando nel paradiso in terra (nella terra dell’apartheid) chiamato Israele, nelle mani dei sionisti, nel 2021 sono state chiuse sei Ong palestinesi (non una, come in Bielorussia, ma sei), accusate di essere organizzazioni terroristiche.

In quel paese, Israele, viene praticata la tortura (leggi qui)

Le vibranti proteste e le sanzioni europee non sono pervenute.

(Francesco Masala)

 

 

Gli esperti delle Nazioni Unite condannano la designazione da parte di Israele dei difensori dei diritti umani palestinesi come organizzazioni terroristiche

 

Gli esperti delle Nazioni Unite in materia di diritti umani hanno condannato oggi in modo deciso e inequivocabile la decisione del ministro della Difesa israeliano Benny Gantz di definire organizzazioni terroristiche sei associazioni palestinesi per i diritti umani e a favore della società civile.

“Questa definizione è un attacco frontale al movimento per i diritti umani palestinese e ai diritti umani ovunque”, hanno affermato gli esperti. “Mettere a tacere le loro voci non è ciò che farebbe una democrazia rispettosa di diritti umani e norme umanitarie universalmente accettate. Chiediamo alla comunità internazionale di sostenere i difensori”.

Gli esperti hanno affermato che le leggi antiterrorismo sono progettate per uno scopo specifico e ristretto e non devono essere utilizzate per minare ingiustificatamente le libertà civili o per limitare il lavoro legittimo delle organizzazioni per i diritti umani. Essi hanno aggiunto che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’Assemblea Generale e il Consiglio per i Diritti Umani sono stati tutti chiari sulla necessità di applicare misure antiterrorismo in modo coerente con il diritto internazionale e di non violare gli obblighi internazionali degli Stati.

“Tale uso improprio delle misure antiterrorismo da parte del governo israeliano mette in pericolo la sicurezza di tutti”, hanno dichiarato gli esperti. “Le libertà di associazione e di espressione devono essere pienamente rispettate al fine di consentire alla società civile di svolgere il proprio indispensabile lavoro e non possono essere compromesse dall’abuso manifestamente eclatante della legislazione antiterrorismo e sulla sicurezza”.

Le sei organizzazioni palestinesi sono Addameer, Al-Haq, Defense for Children International – Palestine [Difesa internazionale dei bambini – Palestina, ndtr.], Union of Agricultural Work Committees [Unione dei comitati del lavoro agricolo, ndtr.], Bisan Center for Research and Development [Centro Bisan per la ricerca e lo sviluppo, ndtr.] e Union of Palestine Women Committees [Unione dei comitati delle donne palestinesi, ndtr.]. All’interno delle comunità con cui lavorano ci sono donne e ragazze palestinesi, bambini, famiglie di contadini, prigionieri e attivisti della società civile, ognuno dei quali esposto ad una crescita del grado di discriminazione e persino di violenza.

“Queste organizzazioni parlano il linguaggio dei diritti umani universali”, hanno affermato gli esperti. “Affrontano il loro lavoro basandosi sui diritti, inclusa un’analisi di genere, per documentare violazioni dei diritti umani di ogni tipo in Palestina, comprese quelle connesse alle imprese”.

Questa definizione vieterebbe di fatto a questi difensori dei diritti umani di svolgere il loro lavoro e consentirebbe ai militari israeliani di arrestare il loro personale, chiudere i loro uffici, confiscare i loro beni e proibire le loro attività e l’impegno a favore dei diritti umani. Gli esperti sottolineano la loro preoccupazione che almeno per una di queste organizzazioni questa decisione possa essere stata presa come una forma di rappresaglia nei confronti della cooperazione con gli organismi delle Nazioni Unite.

“Negli ultimi anni l’esercito israeliano ha spesso preso di mira i difensori dei diritti umani, mentre intensificava il suo intervento di occupazione, proseguiva la sua sfida al diritto internazionale e aggravava il suo primato di violazioni dei diritti umani”, hanno affermato gli esperti. “Mentre le organizzazioni internazionali e israeliane per i diritti umani hanno dovuto affrontare pesanti critiche, restrizioni legislative e persino espulsioni, i difensori dei diritti umani palestinesi hanno dovuto sempre subire le costrizioni più severe”.

Gli esperti sui diritti umani hanno invitato la comunità internazionale a far uso della sua gamma completa di strumenti politici e diplomatici per chiedere a Israele di rivedere e revocare questa decisione. “Queste organizzazioni della società civile sono i canarini nella miniera di carbone dei diritti umani, che ci mettono in guardia sui modelli di violazioni, ricordando alla comunità internazionale i suoi obblighi di garantire l’attribuzione di responsabilità e fornendo voce a coloro che non ne hanno”, hanno affermato gli esperti.

Michael Lynk, Relatore Speciale sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967; Mary Lawlor, Relatrice Speciale sulla situazione dei difensori dei diritti umani; Sig.ra Fionnuala Ní Aoláin, Relatrice Speciale sulla promozione e la protezione dei diritti umani nella lotta al terrorismo; Irene Khan, Relatrice Speciale per la promozione e la tutela del diritto alla libertà di opinione e di espressione; Melissa Upreti (presidente), Dorothy Estrada Tanck (vicepresidente), Elizabeth Broderick, Ivana Radačić e Meskerem Geset Techane, gruppo di lavoro sulla discriminazione contro le donne e le ragazze; Reem Alsalem, Relatrice Speciale sulla violenza contro le donne, le sue cause e conseguenze; Clément N. Voule Relatore Speciale dell’ONU sul diritto di riunione e associazione pacifica; Surya Deva (presidente), Elżbieta Karska (vicepresidente), Githu Muigai, Dante Pesce e Anita Ramasastry del gruppo di lavoro su imprese e diritti umani: Siobhán Mullally, Relatrice Speciale sulla tratta di persone, in particolare donne e bambini;

I Relatori Speciali fanno parte delle cosiddette Procedure Speciali del Consiglio dei Diritti Umani. Procedure speciali, il più importante organismo di esperti indipendenti all’interno dell’istituzione sui diritti umani delle Nazioni Unite, è la denominazione generica dei sistemi indipendenti di indagine e monitoraggio conoscitivi del Consiglio che affrontano situazioni specifiche di un Paese o questioni tematiche in tutte le parti del mondo. Gli esperti delle Procedure Speciali lavorano su base volontaria; non sono dipendenti delle Nazioni Unite e non ricevono uno stipendio per il loro lavoro. Sono indipendenti da qualsiasi governo o organizzazione e prestano servizio a titolo individuale.

 

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)

 

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Ci prendono di mira per una ragione: siamo riusciti a cambiare il paradigma – Yuval Abraham

 

+972 magazine

Dopo essere state messe all’improvviso fuorilegge in quanto “organizzazioni terroristiche”, le associazioni palestinesi per i diritti umani parlano a +972 del perché le accuse israeliane non solo sono infondate, ma rappresentano un atto di persecuzione politica.

La scorsa settimana, quando il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha firmato un ordine esecutivo che dichiara “organizzazioni terroristiche” sei associazioni palestinesi per i diritti umani, il governo non si è nemmeno preoccupato di fingere che si trattasse di un procedimento corretto. Con un rapido colpo di penna le ong – Al-Haq, Addameer, Bisan Center, Defense for Children International-Palestine, the Union for Agricultural Work Committees e the Union of Palestinian Women’s Committees – sono state istantaneamente messe fuori legge senza neppure un processo né la possibilità di rispondere alle accuse contro di loro.

Eppure la grande maggioranza dei mezzi di informazione israeliani, invece di mettere in discussione la dubbia natura di questa iniziativa, ha semplicemente copiato la dichiarazione ufficiale del ministero della Difesa sull’argomento, che accusa le sei organizzazioni di essere legate al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), un partito e un movimento laico e marxista-leninista definito un gruppo terroristico da Israele.

Il governo sostiene che le ong hanno riciclato fondi destinati a interventi umanitari e li hanno trasferiti invece a scopi militari, accusando inoltre i funzionari delle organizzazioni di essere, o essere stati, dell’ FPLP. Per anni anche associazioni israeliane di destra, nel tentativo di troncare i finanziamenti dall’estero, hanno cercato di mettere in rapporto queste organizzazioni con il FPLP.

La decisione del ministero della Difesa è basata su informazioni raccolte dallo Shin Bet [servizio di intelligence interna, ndtr.], che non le ha rese pubbliche. Ma, secondo fonti a conoscenza del caso giudiziario, le prove del servizio segreto sarebbero basate sulla testimonianza di un unico impiegato licenziato per corruzione da una delle associazioni.

Tuttavia esistono parecchie prove che contraddicono la versione dello Shin Bet. Negli ultimi 5 anni, su pressione del governo israeliano e di ong filo-israeliane, vari governi europei e fondazioni private che finanziano la società civile palestinese hanno condotto approfonditi controlli su ognuna delle sei organizzazioni. Nessuno ha trovato prove di uso scorretto dei fondi.

Oltretutto le stesse organizzazioni prese di mira descrivono un quadro totalmente diverso dalle accuse sollevate dallo Shin Bet, con molte prove a loro sostengo.

Ho parlato con presidenti o importanti membri di cinque ong, tutti noti attivisti, avvocati e intellettuali che criticano duramente sia il regime israeliano che l’Autorità Nazionale Palestinese (l’ Union of Palestinian Women’s Committees [Unione dei Comitati delle Donne Palestinesi] ha rifiutato di parlare con Local Call, il sito in ebraico di +972, in cui è stato originariamente pubblicato questo articolo). Rigettando totalmente le accuse israeliane, essi descrivono questi ultimi attacchi come parte della pluriennale persecuzione politica della società civile palestinese da parte di Israele per zittire il loro lavoro…

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 

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In Israele, la destra agisce e la sinistra fa solo parole – Gideon Levy

 

La frustrazione e la rabbia della vera sinistra in Israele stanno crescendo. Due scrittori hanno espresso la loro indignazione su Haaretz: “Non hai solo ucciso. Hai ucciso ed ereditato. Qualcuno ha qualche dubbio che il sionismo religioso abbia ereditato il paese? Oggi, ovunque guardi, vedi il sionismo religioso. Sono dappertutto. Con lo zucchetto, senza lo zucchetto, a destra, a sinistra, nel governo e nell’opposizione, in tutta la struttura di comando dell’esercito, nella polizia, nella Procura di Stato, nei media. Oggi tutti parlano la lingua del sionismo religioso”, ha scritto Carolina Landsmann, ogni parola scolpita col sangue della sua anima.

Tre giorni dopo, l’ex presidente di Meretz Zehava Galon ha scritto, con una rabbia ancora più feroce: “Ascolta, animale razzista, omofobo, xenofobo, misogino, che stai cercando di trascinarci in un regime simil-talebano: non abbiamo paura di te … E ora vattene, prima che ti trattiamo come trattavamo i fascisti di un tempo”, alludendo a quella che, a parer suo, sarebbe stata la risposta corretta del centrosinistra e della sinistra alla destra.

La sinistra sionista bigotta non ama questa rabbia. Rimbomba nelle loro orecchie e preferiscono la quiete educata. Ma ci sono così tanti motivi di arrabbiarsi…

La dichiarazione che le organizzazioni per i diritti umani sono organizzazioni terroristiche, la decisione di costruire migliaia di unità abitative per i coloni e il voto vergognoso alla Knesset sulla commemorazione del massacro di Kafr Qasem: queste sono le ultime tre gocce che avrebbero dovuto far traboccare il vaso della rabbia –che in realtà avrebbe dovuto traboccare da un pezzo.

Perciò è impossibile non entrare in empatia con la rabbia di Landsmann e Galon. Ma è proprio questa rabbia che mette in luce la debolezza della sinistra: son sempre soltanto parole.

La destra agisce e la sinistra grida. La destra si insediafa sommossebruciauccidemutila e si impadronisce della terra, e la sinistra tace, o documenta e condanna. Il governo prende misure alla Erdogan contro le organizzazioni per i diritti umani, la sinistra sionista al governo è complice del crimine e la vera sinistra si arrabbia…

Traduzione di Donato Cioli – AssoPace Palestina

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LA LOGICA POST-11 SETTEMBRE ALL’OPERA NELL’ATTACCO ISRAELIANO ALLA SOCIETÀ CIVILE PALESTINESE – Anwar Mhajne

La messa al bando da parte di Israele di sei ONG palestinesi fa parte di una tendenza post-11 settembre di governi che sfruttano le leggi antiterrorismo per annullare il lavoro sui diritti umani.

 

Alla fine della scorsa settimana, il ministero della Difesa israeliano ha designato sei organizzazioni palestinesi per i diritti umani, tutte con sede in Cisgiordania, come gruppi terroristici. Le organizzazioni – Al-Haq , Addameer , Bisan Center , Defense For Children International-Palestine , Union of Agricultural Work Committees e Union of Palestine Women’s Committees – sono coinvolte in una serie di attività, tra cui la difesa legale, la documentazione delle violazioni dei diritti dei bambini e il sostegno e la difesa dei palestinesi incarcerati da Israele.

La dichiarazione rappresenta una sfida per il lavoro di queste organizzazioni e favorisce l’estrema punizione legale, finanziaria e violenta. Ad esempio, fornire supporto finanziario a qualsiasi organizzazione nell’elenco, anche facendo volontariato, potrebbe ora essere considerato un’attività criminale . Ciò dissuaderà i donatori locali e internazionali, tra cui molti paesi europei , dal fornire finanziamenti alle organizzazioni, paralizzando di fatto il loro lavoro. Inoltre, in nome dell’antiterrorismo, gli individui coinvolti in queste organizzazioni potrebbero essere molestati, minacciati, attaccati, arrestati e perseguiti.

Israele ha interesse a caratterizzare queste organizzazioni come una minaccia alla sicurezza perché documentano ed espongono le quotidiane violazioni dei diritti umani da parte di Israele contro i palestinesi. I loro rapporti sono serviti come prova chiave per coloro che hanno intentato azioni penali nei tribunali internazionali contro eminenti figure israeliane per sospetti abusi del diritto internazionale.

Nel 2001 , ad esempio, i sopravvissuti al massacro di Sabra e Shatila del 1982 – in cui le milizie falangiste a Beirut uccisero centinaia di profughi palestinesi con la complicità dell’esercito israeliano – hanno intentato una causa in Belgio ai sensi della legge sulla “giurisdizione universale” dello stato, chiedendo che l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon, che era ministro della difesa all’epoca del massacro, sia incriminato per il suo ruolo nello spargimento di sangue.

Mentre la pressione politica ha costretto il parlamento belga a modificare la legge nell’aprile 2003 e ad abrogarla del tutto nell’agosto (portando la sua corte suprema ad abbandonare il caso contro Sharon), i rapporti hanno suggerito che dal momento in cui è stato depositato il reclamo, molteplici azioni legali contro funzionari israeliani sono stati presentati in numerosi paesi. Anche se nessuna di queste cause ha portato a una condanna, il governo israeliano è stato sempre più innervosito da questa tendenza, spingendo i funzionari governativi e altri attori di destra a tentare di minare le organizzazioni palestinesi per i diritti umani che lavorano per documentare e comunicare le violazioni dei diritti umani israeliane…

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La messa al bando delle ONG palestinesi è una macchia su Israele – Haaretz

 

 

La dichiarazione del governo che definisce le organizzazioni della società civile in Cisgiordania come organizzazioni terroristiche è una follia distruttiva ed è una macchia su tutti i partiti della coalizione e sullo stato stesso. La messa al bando dei gruppi per i diritti umani e la persecuzione degli attivisti umanitari sono caratteristiche tipiche dei regimi militari, in cui la democrazia nel suo senso più profondo è lettera morta.

L’ordine firmato dal ministro della Difesa Benny Gantz designa come organizzazioni terroristiche sei ONG la cui attività può essere riassunta come segue.

Addameer offre assistenza legale ai prigionieri, raccoglie dati sulle incarcerazioni, comprese le cosiddette detenzioni amministrative (senza processo) e agisce per porre fine alla tortura.

Al-Haq documenta le violazioni dei diritti umani palestinesi nei territori occupati.

La sezione palestinese di Defense for Children International monitora l’uccisione di bambini e il benessere dei bambini imprigionati in Israele.

L’Unione dei Comitati del Lavoro Agricolo aiuta gli agricoltori palestinesi, principalmente nell’area C della Cisgiordania che, in base agli accordi di Oslo, è sotto il pieno controllo israeliano.

Sono inclusi nella dichiarazione del governo anche l’Unione dei Comitati delle Donne Palestinesi e il Centro Bisan per la ricerca e lo sviluppo.

L’intenzione è chiara: Israele combatterà queste organizzazioni come combatte il terrorismo.

D’ora in poi, non c’è più distinzione tra coloro che conducono una lotta violenta contro lo stato e feriscono civili innocenti, da un lato, e dall’altro, avvocati di organizzazioni per i diritti umani che offrono assistenza legale a prigionieri o attivisti di sinistra in organizzazioni che si oppongono alla tortura, proteggono donne e bambini e i loro diritti o documentano la violazione dei diritti umani nei territori. Ora, chiunque sia affiliato a queste ultime organizzazioni è assimilato a un terrorista.

C’è una netta differenza tra definire la lotta nonviolenta contro l’occupazione come “terrore diplomatico” e designare i gruppi per i diritti umani come organizzazioni terroristiche. Il significato letterale ora è chiaro: ogni resistenza all’occupazione è terrore. Israele sta minando la distinzione tra lotta legittima e illegittima.

Questo è un vantaggio per le organizzazioni terroristiche e per l’uso della violenza. Se tutte le forme di resistenza costituiscono terrore, come si può resistere all’occupazione senza essere terroristi? Non è chiaro cosa stesse pensando Gantz quando ha firmato l’ordine.

Lui, come il ministro dell’Interno Ayelet Shaked, sta forse flirtando con un immaginario elettorato di destra, sognando il giorno in cui sarà incoronato a guidare la destra dopo Benjamin Netanyahu? È un tentativo di controbilanciare il suo incontro con il presidente palestinese Mahmoud Abbas, che ha gettato su di lui una macchia di sinistra?

In ogni caso, è indice di una confusione totale, che posiziona il cosiddetto ‘cambiamento di governo’ nell’estrema destra e trasforma in una farsa la partecipazione ad esso di partiti di sinistra e di centro.

Se questo è il cambiamento che il governo sta conducendo e questi sono i suoi colori politici, non è chiaro come lo si possa ancora difendere solo per il timore che l’alternativa siano nuove elezioni. Si può solo sperare che, in assenza di resistenze interne, sia il duro rimprovero degli Stati Uniti e la loro richiesta di chiarimenti a porre fine a questa mossa vergognosa…

 

Traduzione di Donato Cioli – AssoPacePalestina

 

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C’è anche l’Italia ai war games “Blue Flag 2021” in Israele – Antonio Mazzeo

 

La più grande e più avanzata esercitazione aerea mai effettuata in Israele. È la definizione utilizzata dal Ministero della difesa israeliano per presentare Blue Flag 2021, i war games e le simulazioni di attacchi aerei e missilistici che hanno preso il via domenica 17 ottobre dalla base aerea di Ovda (nei pressi della città meridionale di Eilat), e che si concluderanno giorno 28.

“Lo scopo di questa esercitazione è il rafforzamento strategico, l’apprendimento e il miglioramento della coordinazione internazionale nell’uso dei velivoli di quarta e quinta generazione (i cacciabombardieri Eurofighter, Rafale, Mirage 2000 e F-35 Lightning II di Lockheed Martin, nda) in un ambiente operativo stimolante, con particolare enfasi al potenziamento strutturale delle capacità operative delle forze aeree partecipanti”, riporta la nota delle autorità israeliane. “Blue Flag 2021 darà l’opportunità di condurre voli tattici congiunti contro una serie di minacce, utilizzando le tecnologie più avanzate. Nel corso delle operazioni, le forze partecipanti si eserciteranno nei combattimenti aria-aria e aria-terra, nel contrasto ai missili terra-aria (SAM) e in differenti scenari operativi in territorio nemico”. Previsti infine pericolose evoluzioni aeree e voli in formazione a pochi metri dal suolo delle grandi città di Tel Aviv e Gerusalemme.

Ai giochi di guerra partecipano oltre agli assetti aerei di Israele, quelli di Stati Uniti, Germania, Francia, Regno Unito, Grecia, India e dell’immancabile Italia, cioè i maggiori partner in campo militare-industriale e strategico di Tel Aviv. Per i cacciabombardieri della Royal Air Force si tratta della prima presenza nelle basi aeree israeliane dalla fine del mandato britannico in Palestina nel 1948. Battesimo di fuoco nel deserto del Negev pure per i caccia “Mirage” dell’aeronautica indiana e per i “Rafale” delle forze armate francesi…

 

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La raccolta delle olive in Palestina, una tradizione minacciata dai coloni israeliani – Michele Giorgio

Le olive e l’olio d’oliva (e i derivati come il sapone) restano un capitolo centrale per la vita di migliaia di famiglie nel nord e nord-ovest della Cisgiordania.
Più di 10 milioni di ulivi su circa 86mila ettari, rappresentano il 47% della superficie totale coltivata. Tra 80mila e 100mila famiglie fondano il loro reddito su questo settore che genera tra 160 e 200 milioni di dollari nelle annate buone.
Negli ultimi due anni altre migliaia di lavoratrici e lavoratori si sono aggiunti alla raccolta delle olive. Circa il 30% dei palestinesi ha perso il lavoro o lo ha visto diventare sempre più precario a causa delle restrizioni imposte dalla lotta al Covid.

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Dossier: La controversa definizione di antisemitismo dell’IHRA e la repressione della solidarietà ai palestinesi – A cura di BDS Italia e Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese

 

Combattere l’antisemitismo
Difendere la libertà di espressione

Perché la definizione IHRA dell’antisemitismo non è lo strumento adatto per nessuno dei due obiettivi

Con il sostegno di:
Assopace Palestina, Centro Frantz Fanon, Centro Studi Sereno Regis, Istituto di Ricerca per la Pace-Corpi Civili di Pace, Pax Christi Italia, Un ponte per, Volere la Luna, Roberto Beneduce, Maurizio Bergamaschi, Francesca Biancani, Ilaria Camplone, Luciana Castellina, Cristina Chiavari, Domenico Gallo, Gustavo Gozzi, Riccardo Leoncini, Sandro Mezzadra, Moni Ovadia, Nadia Pagani, Vera Pegna, Livio Pepino, Rosita Di Peri, Nicola Perugini, Daniela Pioppi, Paola Rivetti, Angelo Stefanini, Simona Taliani, Guido Veronese

 

  • Dal 2016 una discutibile “definizione provvisoria” dell’antisemitismo, precedentemente elaborata e poi rigettata da un’agenzia dell’Unione europea, viene impiegata per mettere a tacere, se non criminalizzare, i sostenitori dei diritti dei palestinesi e per proteggere l’impunità dello Stato di Israele.
  • La definizione promossa dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA)mina la libertà accademica e la libertà di espressione, sancite dall’Articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dall’Art. 21 della nostra Costituzione.
  • La definizione IHRA è stata utilizzata nel tentativo di far cancellare un evento all’Università di Oxford con il celebre regista Ken Loach; nel tentativo di far togliere il patrocinio di un municipio di Romaal festival sulla cultura palestinese; in diverse cause contro alcune università statunitensi; per negare spazi a ONG; per chiudere il conto bancario di un gruppo ebraico; e nel tentativo di cancellare corsi universitari.
  • Sono numerose le critichedella definizione IHRA da parte di autorevoli studiosi, inclusi dell’Olocausto, giuristi, organizzazioni per i diritti civili, associazioni e personaggi ebraici e israelianisindacati, 276 personalità italiane, il Consiglio accademico dell’University College di Londra, e i Consigli editoriali del New York Times, del Los Angeles Times e del Washington Post, tra gli altri.
  • Nonostante ciò, a seguito di forti pressioni da parte del governo israelianoe dei suoi sostenitori, anche se in molti Paesi non è stata formalmente adottata dal governo, la definizione è stata comunque accolta da agenzie e istituzioni dello Stato, oltre che da consigli comunali, università, mezzi d’informazione, partiti politici e organizzazioni umanitarie. Il governo italiano l’ha adottata parzialmente nel gennaio 2020.
  • Il principale bersaglio della definizione IHRA è il movimento nonviolento a guida palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS)nei confronti dell’apartheid israeliana. La Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) ha stabilito che il boicottaggio è una forma protetta di protesta.
  • Chiediamo, quindi, alle istituzioni, ai partiti politici, agli enti locali, alle università, alle ONG di:
    • Respingere le pressioniper l’adozione della definizione IHRA, che non è lo strumento adatto per combattere l’antisemitismo e mette a grave rischio il diritto alla libertà di espressione;
    • Revocarla, qualora la definizione IHRA sia già stata adottata;
    • Accogliere e promuovere i cinque principistabiliti da 15 organizzazioni ebraiche per combattere l’antisemitismo, tra cui non isolare l’ antisemitismo da altre forme di oppressione e contrastare le ideologie politiche che fomentano razzismo, odio, e paura;
    • Assicurare il rispetto e la tutela, tra gli altri, dei diritti per la libertà di espressione, di associazione e di riunione, affermando anche il diritto di promuovere e partecipare ad attività BDS;
    • Garantire e tutelare il diritto di contribuire al raggiungimento dei diritti umani del popolo palestineseattraverso la pacifica promozione del BDS.

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Ammanettato e bendato, un veterano del maggior reparto speciale israeliano ora si batte contro l’occupazione – Judy Maltz

 

Un’immagine di Avner Wishnitzer è diventata virale il mese scorso quando lo storico, un veterano della più prestigiosa unità di combattimento israeliana, è stato malmenato e detenuto dall’esercito mentre cercava di fornire acqua agli abitanti dei villaggi palestinesi

 

 

La foto mostra un uomo barbuto, bendato, con le mani legate davanti a sé. Un soldato israeliano è di guardia al suo fianco.

Senza conoscere i fatti che riguardano quell’immagine, la maggior parte degli israeliani penserebbe automaticamente che l’uomo sia un palestinese. Dopotutto, quando i palestinesi sono detenuti dalle truppe israeliane in Cisgiordania, vengono regolarmente bendati.

Tuttavia, non è così, e questo potrebbe spiegare perché questa particolare foto è diventata virale sui social media israeliani.

L’uomo bendato era un ebreo israeliano. Non un qualsiasi ebreo israeliano, ma un veterano di Sayeret Matkal, l’unità di commando più d’élite delle forze di difesa israeliane, acclamato in tutto il mondo per le sue audaci operazioni di salvataggio degli ostaggi.

Avner Wishnitzer, si potrebbe dire, è in buona compagnia: anche l’attuale primo ministro israeliano, Naftali Bennett, e due ex premier, Benjamin Netanyahu ed Ehud Barak, hanno prestato servizio in questa unità.

Ma Wishnitzer, 45 anni, non era in servizio militare quando è stato arrestato nelle colline di South Hebron quasi un mese fa. L’ex kibbutznik, che ora insegna storia del Medio Oriente e dell’Africa all’Università di Tel Aviv, era lì con un gruppo di attivisti anti-occupazione che avevano pianificato di consegnare un serbatoio d’acqua a una comunità palestinese non collegata alla rete idrica. La maggior parte degli attivisti apparteneva a Combatants for Peace, un’organizzazione no-profit israelo-palestinese che si batte per la fine dell’occupazione.

Ciò che distingue questa particolare organizzazione è il fatto che è stata fondata da individui che avevano visto la situazione da entrambi i lati del conflitto. Wishnitzer, che è nato e cresciuto nel kibbutz Kvutzat Shiller nel centro di Israele e attualmente risiede con la sua famiglia a Gerusalemme, è stato uno dei membri fondatori.

Come racconta, un gruppo di circa 50 attivisti era partito venerdì 17 settembre per consegnare un serbatoio contenente quattro metri cubi d’acqua a una comunità palestinese isolata vicino all’avamposto non autorizzato di Avigayil.

“Fa parte della nostra campagna in corso per aiutare le comunità palestinesi sotto il controllo israeliano ad avere accesso all’acqua, specialmente nelle colline a sud di Hebron e nella Valle del Giordano, che sono le aree più aride della Cisgiordania”, spiega Wishnitzer.

Egli osserva che mentre l’esercito israeliano ha negato ai palestinesi l’accesso all’acqua per il fatto che avevano fatto costruzioni illegali nell’area, lo stesso ragionamento non viene applicato ai coloni dell’avamposto illegale, che godono di acqua corrente illimitata.

Mentre lui e i suoi compagni attivisti stavano procedendo lungo la strada, ricorda, i soldati israeliani che pattugliavano l’area gli avevano ordinato di fermarsi. “Non ci hanno spiegato perché non potevamo andare avanti”, dice Wishnitzer. “Abbiamo detto loro che eravamo venuti per portare l’acqua alle persone che non hanno acqua, e che intendevamo continuare”.

In risposta, i soldati hanno cominciato a spingere gli attivisti e hanno lanciato lacrimogeni e granate stordenti contro di loro. Le riprese video dello scontro mostrano il comandante sul posto che getta a terra uno degli attivisti anziani e, in stile George Floyd, gli mette un ginocchio sul collo.

Wishnitzer non ha assistito a questo, però, perché faceva parte di un piccolo gruppo immediatamente arrestato. “Hanno preso me e un altro ragazzo e, per qualche motivo, ci hanno bendato gli occhi”, dice. “Chiaramente, la loro intenzione era quella di umiliarci”.

L’altro uomo bendato, dice, era un ex ufficiale di 60 anni della Brigata Paracadutisti che aveva prestato servizio nella prima guerra israeliana in Libano.

“Quando ho detto loro che non c’era motivo di trattenerci, che tutto ciò che volevamo fare era portare dell’acqua a queste persone, sono stato chiamato un pezzo di m….”, dice. I due ex combattenti bendati sono stati costretti a salire su un veicolo militare e trattenuti per nove ore, parte delle quali nella vicina stazione di polizia di Kiryat Arba. Non è mai stato detto loro perché erano stati detenuti…

Traduzione di Donato Cioli – AssoPacePalestina

 

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Quello che avrei detto alla Knesset sulla violenza dei coloni, se me lo avessero permesso – Ali Awad

 

Sono stato l’unico palestinese invitato a parlare della violenza dei coloni israeliani in una commissione della Knesset. Ma i membri di destra del parlamento hanno sabotato la conversazione.

 

Martedì avrei dovuto parlare con i membri della Knesset del diffuso fenomeno della violenza dei coloni. Un gruppo di organizzazioni israeliane contro l’occupazione – i nostri partner nella lotta per ottenere i nostri diritti e difendere la nostra dignità sulla nostra stessa terra – mi ha invitato a parlare alla Commissione per gli Affari Esteri e la Difesa.

Ma non l’ho potuto fare. I politici israeliani hanno intenzionalmente mandato all’aria la sessione da un momento all’altro, perché possono farlo. Queste forze di destra vogliono nascondere e distorcere una verità che è stata da tempo chiarita: la violenza dei coloni è violenza di stato.

Il parlamentare di estrema destra Itamar Ben Gvir ha definito terrorista il parlamentare palestinese Osama Saadi (Joint List) che fa parte della Commissione; non ha subito conseguenze per i suoi commenti. Poco dopo invece, il parlamentare Ofer Cassif (di Hadash) è stato espulso per aver chiamato gli autori di un pogrom avvenuto alla fine di settembre “coloni-terroristi”.

Quando il trambusto si è placato, non c’era più tempo per me –l’unico palestinese invitato a fare osservazioni sulla realtà vissuta nei territori occupati– per parlare.

Se i politici avessero deciso di ascoltare, invece di fare interruzioni in malafede da entrambe le parti, ecco cosa avevo programmato di dire:

 

Cari membri della Knesset,

Mi chiamo Ali Awad. Sono nato e cresciuto nel villaggio di Tuba nelle colline a sud di Hebron, situato in quella che il vostro governo ha dichiarato Zona di tiro 918. Ho vissuto sotto la minaccia della violenza dei coloni da quando sono nato nel 1998. Da bambino, questa minaccia è sempre esistita nella mia mente insieme a quella dell’aggressione dei soldati – e nei due decenni della mia vita sotto occupazione ho visto che in realtà le due cose si sovrappongono completamente.

L’esercito e i coloni lavorano in tandem per rubare le nostre risorse e sopprimere la nostra libertà. I soldati prendono la nostra terra con il pretesto della sicurezza, solo per poi darla ai coloni per stabilire avamposti agricoli. Questo non avviene a caso. L’espansione e la violenza dei coloni avvengono sotto la protezione dell’esercito e con il supporto delle leggi. Sia dichiarando una zona di fuoco, sia attraverso l’uso di leggi ottomane obsolete, il governo agisce per prendere il controllo di enormi porzioni di territorio che vengono poi dichiarate terra di stato e rese più disponibili all’acquisizione da parte dei coloni. In ogni fase di questo processo c’è piena cooperazione tra i coloni e l’esercito…

 

Traduzione di Donato Cioli – AssoPacePalestina

 

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La posizione pro-palestinese alla fine diventerà la norma al Congresso USA – Ramzy Baroud

 

C’è stato un inequivocabile cambiamento nella politica degli Stati Uniti riguardo alla Palestina e ad Israele, un cambiamento dovuto al modo in cui molti americani, specialmente i giovani, vedono la lotta palestinese e l’occupazione israeliana. Anche se questo cambiamento deve ancora tradursi in una diminuzione tangibile della roccaforte di Israele sul Congresso degli Stati Uniti, promette di avere importanti sviluppi nei prossimi anni.

I recenti eventi alla Camera dei Rappresentanti dimostrano chiaramente questa realtà senza precedenti. Il 21 settembre, i legislatori democratici hanno respinto con successo un caveat [avvertimento] che proponeva di dare a Israele 1 miliardo di dollari in finanziamenti militari come parte di un disegno di legge di spesa più ampio, dopo le obiezioni di diversi membri progressisti del Congresso. Il denaro era specificamente destinato a finanziare l’acquisto di nuove batterie e intercettori per il sistema di difesa missilistico israeliano Iron Dome.

Due giorni dopo, il finanziamento dell’Iron Dome è stato reintrodotto e, questa volta, è passato con successo e in modo schiacciante per 420 voti contro nove, nonostante le appassionate richieste del rappresentante palestinese-americano Rashida Tlaib. In questo voto, solo otto democratici si sono opposti al provvedimento. Il nono voto contrario è stato espresso da un membro del Partito Repubblicano, il rappresentante Thomas Massie del Kentucky. La rappresentante democratica Alexandria Ocasio-Cortez, sebbene fosse una delle voci che avevano bloccato la misura di finanziamento iniziale, ha cambiato il suo voto su “presente” –in pratica un’astensione– creando confusione e rabbia tra i suoi sostenitori.

Per quanto riguarda Massie, la sua sfida all’opinione dominante tra i repubblicani gli è valsa il titolo di “Antisemita della Settimana” dalla ben nota organizzazione filo-israeliana Stop Antisemitism.

Nonostante l’esito della controversia, il semplice fatto che un simile episodio si sia verificato al Congresso è stato un evento storico che richiede molta riflessione. Significa che parlare contro l’occupazione israeliana della Palestina non è più un tabù tra i politici statunitensi eletti.

Una volta, parlare contro Israele al Congresso generava una reazione massiccia e ben organizzata da parte della lobby pro-israeliana, in particolare l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), che in passato ha posto fine alla carriera di vari esponenti politici, anche veterani. Una combinazione di tattiche diffamatorie dei media, sostegno dei rivali elettorali nonché aperte minacce, segnava spesso il destino dei pochi membri dissenzienti del Congresso.

Mentre l’AIPAC e le sue organizzazioni sorelle continuano a utilizzare le stesse tattiche di un tempo, la strategia complessiva non è efficace come una volta

 

Traduzione di Donato Cioli – AssoPacePalestina

 

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Io finanzio gruppi terroristici – Amira Hass

 

Annuncio e confesso qui che io finanzio il terrorismo. Parte del denaro delle tasse che pago al governo israeliano viene trasferito alle sue attività terroristiche e a quelle dei suoi rappresentanti, i coloni, contro il popolo palestinese.

Se per “terrorismo” si intende imporre terrore e paura, allora cos’altro fanno i comandanti dell’esercito e del servizio di sicurezza dello Shin Bet quando inviano soldati col volto coperto a fare irruzione nelle case dei palestinesi, notte dopo notte? Accompagnati dai loro cani e con i fucili puntati, i soldati svegliano le famiglie dal sonno, rovesciano il contenuto degli armadi, confiscano beni e picchiano gli adulti davanti ai bambini.

Cosa fanno gli ispettori dell’Amministrazione Civile quando si aggirano tra comunità di pastori, e controllano se magari è stata aggiunta una tenda o uno scivolo per bambini da demolire? Cosa fanno le telecamere di sorveglianza installate ad ogni posto di blocco all’uscita da una città palestinese, se non intimidire e disciplinare?

E la polizia di frontiera maschile e femminile di Gerusalemme, che trattiene chiunque sembri un arabo, e i soldati e i poliziotti che danno un calcio qui, uno schiaffo là, a chiunque osi litigare con loro, o raccogliere olive… qual è il loro compito se non quello di incutere paura?

E le bande di coloni mascherati, a petto nudo, frange sacre, armi “non letali” e da fuoco –come chiameremo le loro orge di attacchi a persone e alberi se non terrore? Una frazione delle tasse che pago certamente li raggiunge: forse finisce per andare ai consigli di insediamento che includono i delinquenti, forse ai loro funzionari e ai funzionari del ministero della Difesa che insieme hanno progettato e realizzato il modello di successo degli avamposti di pastori.

In tutta la Cisgiordania gli avamposti operano secondo lo stesso schema: una famiglia di coloni veterani si impadronisce di un appezzamento di terra palestinese, riceve un gregge di pecore o capre e bovini, e poi, usando fucili, pietre, cani, giovani pastori e droni, minaccia i palestinesi e impedisce alle loro mandrie di raggiungere i loro pascoli.

Il concetto di “terrore” ha da tempo superato i limiti della semplice intimidazione e include anche atti di distruzione e uccisione. Le mie tasse, e quelle di tutti i cittadini e residenti israeliani, li finanziano.

Parte delle mie tasse è andata al bombardamento di strutture residenziali e all’uccisione dei loro abitanti palestinesi, compresi bambini e donne. Le mie tasse finanziano i proiettili che uccidono e feriscono i manifestanti nel villaggio di Beita in Cisgiordania e a Gaza. Le nostre tasse sovvenzionano gli insediamenti e coprono il costo della demolizione delle case palestinesi da parte dell’Amministrazione Civile e del Comune di Gerusalemme. Sotto le mentite spoglie di un paese rispettoso della legge e grazie al nostro finanziamento, Israele ha perpetrato tutti questi atti di terrore e molti altri. Giorno dopo giorno. Ora dopo ora…

 

Traduzione di Donato Cioli – AssoPacePalestina

 

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In Palestina, il “terrore” dell’uguaglianza – Luigi Daniele

 

Nel silenzio assordante delle agenzie di stampa e della politica italiana (mentre in tutto il mondo si susseguono notiziecomunicati e dure prese di posizione di parlamentari), il Ministero della Difesa israeliano guidato da Benjamin Gantz si è spinto laddove neanche i governi Netanyahu avevano osato: sei organizzazioni della società civile palestinese, tra cui ONG di prestigio mondiale e punto di riferimento internazionale per la tutela dei diritti umani nel territorio occupato dello Stato di Palestina, sono state dichiarate “organizzazioni terroristiche”.

Il cuore dell’accusa: queste organizzazioni, nella loro interezza, sarebbero “rami” sotto copertura del partito del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Le prove: riservate.

Dunque la più antica organizzazione palestinese per i diritti umani, Al Haq, assieme ad Addameer, Prisoners Support and Human Rights Association e Defense For Children International, nonché il Bisan Centre for Research and Development, l’Unione dei Comitati per il Lavoro Agricolo e l’Unione dei Comitati delle Donne Palestinesi, sono ora equiparate a tutti gli effetti, per l’ordinamento giuridico  di Israele, allo status riservato ai gruppi armati.

L’accusa è di tale gravità da instillare dubbi in chi non avesse familiarità col dibattito giuridico-internazionalistico sull’occupazione israeliana, o con nomi e attività delle organizzazioni stesse. Per identificare la natura del lavoro che esse svolgono, chi legge può consultarne i siti, riscontrando la vasta mole di ben documentati report e circostanziate denunce a proposito di: minori e bambini detenuti dalla giustizia militare israeliana, rappresentanza legale dei detenuti amministrativi e politici dinanzi alle corti militari, violazione sistematica delle garanzie del giusto processoarresti arbitraritorture fisiche e psicologiche inflitte ai cittadini e minori palestinesi, o abusi armati dei coloni, solo per citare alcuni temi.

Proprio in virtù del proprio lavoro, le organizzazioni colpite hanno immediatamente reagito affermando che la designazione di organizzazioni terroristiche rappresenta l’ultimo atto di una escalation di attacchi diffusi e sistematici ai difensori palestinesi dei diritti fondamentali, mirata a delegittimare, opprimere, silenziare e privare di risorse economiche le rispettive attività.

Il Direttore di Al Haq, Shawan Jabarin (destinatario di premi internazionali in diversi Paesi europei, tra cui Danimarca e Olanda), ha affermato che il provvedimento del Governo israeliano ben rappresenta l’impossibilità di contestare la legittimità e trasparenza del lavoro delle ONG palestinesi sulla base del diritto e delle prove, rifuggendo dunque ogni accertamento giurisdizionale e possibilità di convalida delle accuse parte di una corte.

Proprio in virtù di questo aspetto, l’ondata internazionale di allarme e indignazione è in questi giorni cresciuta. Nel momento in cui si scrive, ben 22 organizzazioni per i diritti umani israeliane hanno sottoscritto un durissimo manifesto contro il provvedimento in cui parlano di “atto di codardia caratteristico di un governo autoritario repressivo”. La lista di comunicati di solidarietà, a cominciare da quello congiunto di Amnesty International e Human Rights Watch, si allunga di ora in ora. L’inaccettabilità del provvedimento, inoltre, è stata prontamente argomentata, insistendo sulla mancanza di qualsiasi prova, dai docenti israeliani Lieblich e Shinar.

A ben vedere, chiunque si sia occupato da qualsiasi parte del mondo di diritto internazionale e conflitto mediorientale, ne ha incrociato, discusso e citato gli autorevoli report, senza considerare tutti coloro che vi abbiano collaborato direttamente (ad oggi soggetti, a rigore delle norme, a numerosi anni di reclusione in caso di transito in Israele)…

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Ricerca scientifica, istruzione superiore e diritto internazionale: la situazione nella Palestina occupata da Israele – David Kattenburg, Imad Barghouthi

 

Una popolazione istruita e una capacità di ricerca scientifica avanzata sono fattori chiave per lo sviluppo nazionale di uno stato sovrano. Nessuno lo sa meglio di “Start-Up Israel”. Secondo una stima recente, Israele ha la terza popolazione più istruita al mondo (dopo Canada e Giappone). Per quanto riguarda i cinque milioni di palestinesi che vivono sotto un governo militare permanente, Israele onora questa verità violandola sistematicamente, impedendo cioè il loro accesso all’istruzione e la possibilità per gli scienziati palestinesi di condurre ricerche.

Questa politica ha radici profonde. In un recente articolo di Ha’aretz, Adam Raz, dell’Akevot Institute for Israel-Palestinian Conflict Research, cita un paio di documenti recentemente declassificati. “Il settore arabo deve essere tenuto al più basso livello possibile, in modo che non accada nulla”, disse il commissario di polizia Yosef Nachmias, in una riunione del febbraio 1960 dei capi della sicurezza israeliana. “Finché sono istruiti a metà, sto tranquillo”, disse il capo dello Shin Bet Amos Manor. Bisogna quindi sostenere solo strutture sociali tradizionali “arabe”, aggiunse, al fine di “[rallentare] il ritmo del progresso e dello sviluppo”. Infatti, sottolineava Manor, “Le rivoluzioni non sono fomentate dal proletariato, ma da un’intellighenzia ingrassata”. Con questo in mente, Manor consigliava che “tutte le leggi devono essere applicate, anche se non sono piacevoli” e che “i mezzi illegali dovrebbero essere considerati [dalle autorità] solo quando non c’è scelta, e anche allora – solo a una condizione: che ci siano buoni risultati”. Probabilmente Manor si riferiva alle leggi interne israeliane che potrebbero essere usate per opprimere gli intellettuali palestinesi. Potrebbe anche aver avuto in mente il diritto internazionale, che dovrebbe essere ignorato. In quanto Stato membro delle Nazioni Unite, Israele è obbligato a rispettare le disposizioni della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948 che garantisce il diritto all’istruzione 1. “Tutti hanno diritto all’istruzione”, afferma l’articolo 26 della Dichiarazione Universale. “L’istruzione tecnica e professionale deve essere resa accessibile a tutti e l’istruzione superiore deve essere ugualmente accessibile a tutti sulla base del merito”.

Sei anni dopo i commenti di Manor, Israele è stato tra i primi a siglare il Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali 2, aderendo formalmente al Patto nel 1991. Tuttavia, dopo la conquista nel 1967 della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e di Gaza , Israele ha preso la posizione che il Patto non si applica in questi territori. Si trovano al di fuori del territorio sovrano israeliano, sosteneva Israele, estendendo nel contempo i diritti del Patto ai coloni ebrei in Cisgiordania. Quali sono questi diritti del Patto? L’articolo 13, paragrafo 1, recita: “Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo all’istruzione”. L’articolo 13 (2) (c) afferma: “L’istruzione superiore deve essere resa egualmente accessibile a tutti, sulla base delle capacità, con ogni mezzo appropriato…” E l’articolo 15 (3) afferma: “Gli Stati parti del presente Patto si impegnano a rispettare la libertà indispensabile alla ricerca scientifica e all’attività creativa”.

Il comitato delle Nazioni Unite responsabile dell’amministrazione del Patto ha accusato Israele per il suo rifiuto di estendere i diritti del Patto ai palestinesi. Nelle sue “Osservazioni Conclusive” del novembre 2019 sul 4° Rapporto Periodico di Israele 3, il Comitato ha espresso preoccupazione per “l’accesso limitato degli studenti [palestinesi] all’istruzione”, la “frequente demolizione di edifici scolastici e la confisca dei locali scolastici”, “perquisizioni armate o non armate di scuole palestinesi e la “frequente incidenza di molestie o minacce contro studenti e insegnanti da parte delle forze di sicurezza o dei coloni israeliani ai posti di blocco o lungo le strade, che ostacolano particolarmente le studentesse”. Il comitato delle Nazioni Unite ha anche espresso preoccupazione per “il divieto generale di istruzione in Cisgiordania imposto dal 2014 agli studenti della Striscia di Gaza” e “il grave impatto della lista [israeliana] dei dispositivi a duplice uso sulla capacità degli studenti nella Striscia di Gaza di godere del proprio diritto all’istruzione, in particolare nei campi della scienza e dell’ingegneria.”

A questi commenti fanno eco gli scienziati palestinesi. Un caso recente e drammatico è quello del professor Imad Barghouthi, astrofisico dell’Università Al-Quds, nel quartiere di Abu Dis a Gerusalemme Est. Il dottor Barghouthi è stato arrestato tre volte dalla polizia di sicurezza israeliana. Nell’occasione più recente, il 16 luglio 2020, le autorità israeliane hanno accusato Barghouthi di “incitamento” per i suoi post su Facebook. Dopo 52 giorni di reclusione, un giudice israeliano ha stabilito che i post sui social media di Barghouthi non costituivano incitamento. Allora la polizia israeliana ha optato per la “detenzione amministrativa”, una pratica di routine per incarcerare i palestinesi a tempo indeterminato, senza accuse. Barghouthi ha trascorso dieci mesi e mezzo in carcere, all’interno di Israele, in violazione dell’articolo 76 della Quarta Convenzione di Ginevra…

 

Traduzione di Donato Cioli – AssoPacePalestina

 

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Perché Israele chiama “terrorismo” i diritti umani – Raja Shehadeh

 

Con una mossa ampiamente condannata, il governo israeliano ha bandito il gruppo che ho fondato. Così si assicura l’impunità per le sue politiche illegali di occupazione.

 

Nota dell’editore della New York Review

Il 16 ottobre abbiamo parlato con Raja Shehadeh del suo lavoro come scrittore, come avvocato e fondatore, nel 1979, di Al-Haq, che presto è diventato il principale gruppo di monitoraggio dei diritti umani in Palestina.

“Il mio mondo di Ramallah, con la sua vicinanza alle colline, si stava trasformando inesorabilmente in un modo che mi sconcertava e mi spaventava”, ci ha detto. “I cambiamenti avvenuti tramite l’acquisizione di terre da parte dell’esercito israeliano, utilizzando vari stratagemmi legali spuri e sostituendo i nomi del territorio, delle città e dei villaggi con nomi ebraici, nonché i cambiamenti nella narrativa che hanno accompagnato il processo, sono stati tutti preceduti da modifiche avvenute nelle leggi locali.”

“Il mio progetto era di fare la cronaca di questi cambiamenti dal punto divista legale e mettere in guardia contro le loro conseguenze. Mi sono dedicato a questo progetto con la speranza di sensibilizzare le persone ed esercitare pressioni per fermare la colonizzazione israeliana della nostra terra”.

Quel progetto quarantennale di mettere in luce le responsabilità legali è stato interdetto la scorsa settimana quando, il 22 ottobre, il governo israeliano ha dichiarato Al-Haq e altre cinque ONG “organizzazioni terroristiche”, mettendole effettivamente al bando. Shehadeh ha scritto per noi la seguente risposta a quella dichiarazione.

 

Nel 1978 sono tornato a Ramallah dai miei studi legali a Londra, pieno di idee sull’importanza dello stato di diritto e sulle possibilità di resistere all’occupazione israeliana utilizzando il diritto internazionale. L’anno successivo, io e due colleghi, un laureato a Yale di nome Charles Shammas e l’avvocato americano Jonathan Kuttab, abbiamo fondato un’organizzazione che abbiamo chiamato Al-Haq (arabo per La Destra) affiliata alla Commissione Internazionale dei Giuristi (ICJ) di Ginevra. È stato uno dei primi gruppi per i diritti umani nel mondo arabo e il primo e unico del suo genere nei territori occupati da Israele.

La prima attività importante di Al-Haq è stata quella di documentare i vasti cambiamenti nelle leggi locali della Cisgiordania occupata, imposti dagli ordini militari israeliani. Questi cambiamenti, in violazione del diritto internazionale, sono stati progettati per consentire a Israele di compiere acquisizioni illegali di terreni per la costruzione di insediamenti israeliani illegali. In uno studio che io e Jonathan abbiamo scritto, intitolato The West Bank and the Rule of Law, pubblicato congiuntamente nel 1980 da Al-Haq e dall’ICJ, abbiamo sottolineato che quegli ordini militari erano stati nascosti alla vista del pubblico. Che Israele stesse quindi usando una legislazione segreta per violare il diritto internazionale era motivo di imbarazzo nazionale, sebbene fosse negato dal governo e inizialmente contestato da un certo numero di giornalisti israeliani. Dopo aver studiato la questione, questi giornalisti si sono resi conto che non avevamo esagerato e che quegli ordini, in effetti, non erano stati pubblicati.

Durante i più di quarant’anni dalla sua fondazione, Al-Haq ha continuato a servire gli obiettivi per cui era stata istituita: documentare e resistere attraverso la legge alle violazioni israeliane dei diritti umani, compreso il maltrattamento dei prigionieri, lo sfruttamento economico delle risorse naturali dei Territori Occupati e la costruzione di insediamenti illegali. Dopo l’istituzione dell’Autorità Palestinese in seguito agli Accordi di Oslo del 1993-1995, il monitoraggio delle violazioni da parte di Al-Haq si è esteso a quelle commesse dall’Autorità Palestinese, alla quale Israele aveva trasferito alcuni poteri civili. Grazie a questo record di impegno imparziale nei confronti della legge, Al-Haq è diventata una risorsa affidabile per numerose organizzazioni internazionali per i diritti umani, nonché per le Nazioni Unite e i governi di tutto il mondo.

Il governo israeliano ha cercato con insistenza di screditare Al-Haq e il suo lavoro. Fin dai nostri primi giorni, i suoi funzionari hanno tentato di diffamare Al-Haq definendolo una copertura per l’allora illegale Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP); ora hanno etichettato Al-Haq come un ramo di una delle fazioni più radicali dell’OLP, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Entrambe sono accuse assurde. Tuttavia, negli anni dal 1979 al 1993, quando ho agito come co-direttore di Al-Haq, ho passato molte notti insonni a preoccuparmi di quali potessero essere le rappresaglie israeliane per i nostri rapporti espliciti e schiaccianti sull’occupazione.

Oltre a fare del loro meglio per screditare i nostri rapporti sui diritti umani, le autorità israeliane mi hanno spesso chiamato per interrogarmi sul mio coinvolgimento in Al-Haq e hanno fatto pressioni su mio padre, anche lui avvocato, perché mi convincesse a dimettermi dal mio incarico. Nel frattempo, i nostri operatori sul campo sono stati molestati, membri del personale sono stati detenuti e ad altri collaboratori è stato impedito di viaggiare. Eppure, durante la re-invasione della Cisgiordania del 2002, quando l’esercito israeliano ha distrutto numerosi uffici di ONG, oltre a quelli della stessa Autorità Palestinese a Ramallah, Al-Haq è stato risparmiato. Il governo non si era mai affidato al suo senso di totale impunità da designare Al-Haq come “organizzazione terroristica” –fino ad ora.

Il 22 ottobre ero in vacanza a Edimburgo, in Scozia, quando ho sentito questa notizia scioccante: che il ministro della Difesa israeliano e vice primo ministro, Benny Gantz, aveva emesso un ordine in cui si dichiara che Al-Haq e altre cinque ONG palestinesi sono organizzazioni terroristiche. Le implicazioni di questo atto sono devastanti…

 

Raja Shehadeh è uno dei fondatori del gruppo per i diritti umani Al-Haq, affiliato alla Commissione Internazionale dei Giuristi. Il suo ultimo libro, Going Home: A Walk Through Fifty Years of Occupation, è stato pubblicato nel 2019; il suo prossimo, We Could Have been Friends, My Father and I, è previsto per il 2022.

 

Why Israel Calls Human Rights ‘Terrorism’

Traduzione di Donato Cioli – AssoPacePalestina

 

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UNA GIURISTA INTERNAZIONALE, FRANCESCA ALBANESE PARLA DELLA MESSA AL BANDO DELLE 6 ONG PALESTINESI

 

… Per comprendere meglio le ragioni alla base della decisione di Israele, nonché l’impatto che potrebbe avere sul lavoro delle ONG palestinesi, ho parlato con Francesca Albanese, avvocato e ricercatrice internazionale, e autrice di numerose pubblicazioni sulla questione dei rifugiati palestinesi, incluso ” Rifugiati palestinesi nel diritto internazionale “, scritto insieme a Lex Takkenberg.

Potrebbe spiegarci come questa mossa costituisca uno “sfrontato attacco ai diritti umani”? È una decisione legittima ai sensi del diritto internazionale?

Negli ultimi 30-40 anni, le organizzazioni prese di mira hanno lavorato per sostenere e proteggere i palestinesi sotto l’occupazione israeliana. Vale la pena ricordare che questa è la più lunga occupazione militare dei tempi moderni, che, secondo l’autorevole analisi del professor Micheal Lynk, Relatore Speciale delle Nazioni Unite per i Territori Palestinesi Occupati (oPt), ha da tempo varcato la soglia della legalità.

Infatti, secondo il diritto internazionale, l’occupazione è giustificata solo per scopi strettamente militari, e dovrebbe essere temporanea, condotta in buona fede e nel migliore interesse della popolazione occupata, e non trasformarsi mai in un’acquisizione di controllo o sovranità sulla terra occupata. o sulle persone. Inoltre, la potenza occupante non ha il diritto di insediare la sua popolazione civile in territorio occupato, o di annetterne una parte, e il territorio che Israele ha occupato nel 1967 deve essere restituito nella sua interezza al sovrano – il popolo sotto occupazione – appena possibile. Questo non è chiaramente il caso dei Territori Palestinesi Occupati, dove Israele per 54 anni ha sospeso l’ordine civile nel perseguimento di stabilire il dominio ebraico sui palestinesi, e dove Israele non ha chiaramente intenzione di rinunciare al suo controllo suIl 60% dei terreni della Cisgiordania che di fatto controlla e per molti aspetti considerati (sebbene illegittimamente) ‘annessi’.

In questo contesto, le suddette organizzazioni sono l’ultimo baluardo di protezione delle persone sotto occupazione, data la spregevole inerzia della comunità internazionale che resta responsabile di incoraggiare Israele e quindi di far andare avanti la situazione in Palestina.

Questa non è la prima volta che gruppi per i diritti umani palestinesi e israeliani vengono attaccati dal governo israeliano. Mentre le restrizioni alle ONG israeliane, in particolare quelle che combattono contro l’occupazione israeliana della Palestina, sono abbastanza recenti, nel corso degli anni, i gruppi per i diritti dei palestinesi sono stati sottoposti a pressioni, violenze, restrizioni di movimento, raid negli uffici e arresti. Perché Israele è così spaventato dai gruppi per i diritti umani, al punto che intende metterli a tacere del tutto?

Perché espongono la brutalità dell’occupazione, la precarietà delle condizioni di vita e il godimento dei diritti fondamentali sotto l’occupazione, a causa delle pratiche israeliane ma anche della condotta dell’Autorità palestinese. Israele li teme perché sono ciò che ha permesso al mondo di sapere (anche se la conoscenza non si è ancora tradotta in azioni di principio) ciò che Israele sta facendo, con il pretesto di “mantenere la sicurezza”.

In effetti, sono pienamente d’accordo sul fatto che il terrorismo sia in corso negli oPt, come ha denunciato Amira Hass nel suo ultimo pezzo : dove civili indifesi sono esposti alla paura e alla brutalità dei soldati israeliani mascherati che fanno irruzione nelle case e nei villaggi palestinesi, spesso nel cuore della notte; dove c’è una totale mancanza di responsabilità per la frequente perdita di vite civili, demolizioni ingiustificate di case palestinesi; confisca di strutture civili e mezzi di sussistenza, anche a pastori e contadini; l’incendio di frutteti e ulivi secolari; le innumerevoli umiliazioni quotidiane a cui sono esposti i palestinesi sotto il giogo dell’occupazione. A questo proposito, concordo sul fatto che le pratiche assimilabili al terrorismo nei territori occupati debbano essere indagate e i responsabili perseguiti…

da qui

 

 

Il tentativo di criminalizzare la società civile palestinese – Yara Hawari

 

Il 22 ottobre, il Ministero della Difesa israeliano ha emanato un’ordinanza militare con la quale sei ONG palestinesi vengono definite “organizzazioni terroristiche”. Le sei organizzazioni colpite sono: Addameer Prisoner Support and Human Rights Association, Al-Haq, Bisan Center for Research and Development, Defense for Children Internationa-Palestine (DCI-P), Union of Agricultural Work Committees (UAWC) e Union of Palestinian Women’s Committees (UPWC).

Il ministero, appellandosi alla legge anti-terrorismo, accusa queste organizzazioni di essere affiliate del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP), partito politico marxista-leninista. Più nello specifico, l’accusa è di costituire una “rete di organizzazioni operanti sotto copertura sul fronte internazionale” per conto del PFLP. Il regime israeliano non ha ancora fornito alcuna prova a sostegno delle accuse, ma per i palestinesi è chiaro che si tratta del più recente tentativo di criminalizzare la società civile palestinese.

Queste specifiche organizzazioni sono conosciute a livello internazionale per la loro indispensabile attività in campo sociale e dei diritti umani. Addameer, per esempio, fornisce un’importantissima assistenza sociale e legale ai prigionieri politici palestinesi ed alle loro famiglie. Al-Haq, altra organizzazione, da decenni si dedica a documentare le violazioni dei diritti umani da parte del regime israeliano, raccogliendo dati preziosi e vincendo numerosi premi internazionali. La Union of Agricultural Work Committees sostiene gli agricoltori palestinesi di fronte all’incessante occupazione ed alla sottrazione delle terre da parte del regime israeliano.

Questo attacco contro le organizzazioni palestinesi non arriva di punto in bianco. È l’escalation più recente della campagna sistematica di Israele, che dura da anni, per soffocare la società civile palestinese.

Dopo la creazione dell’Autorità Palestinese con gli Accordi di Oslo negli anni ‘90, la società civile palestinese ha assunto il ruolo principale nel denunciare e contestare i crimini del regime israeliano. Così, le organizzazioni civili sono emerse in prima linea nella lotta palestinese, il che le pone nel mirino di Israele.

Ultimamente, nell’ultimo decennio, ci sono state azioni congiunte, messe in atto da diversi gruppi non governativi che lavorano insieme al Ministero israeliano per gli affari strategici, volte a colpire e diffamare le ONG palestinesi attive nel campo dei diritti umani.

La definizione “terrorista” criminalizza effettivamente il lavoro delle sei ONG e permette al regime israeliano di chiudere uffici, sequestrare beni, arrestare membri dello staff ed addirittura di vietare le raccolte fondi o le manifestazioni pubbliche a sostegno di queste attività. Potrebbe anche indurre, nei soggetti esterni e nei partners stranieri, una certa preoccupazione per il coinvolgimento con tali organizzazioni e le loro attività…

 

Traduzione dall’inglese: Elena Bellini

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La finanza coloniale – Eliana Riva

 

 

UniCredit, ING, Santander, Deutsche Bank, Allianz, BNP Paribas sono solo alcune delle 672 istituzioni finanziarie che hanno rapporti economici con 50 aziende attivamente coinvolte nelle attività delle colonie israeliane nei Territori Palestinesi Occupati.

Le colonie costruite da Israele in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, lo sviluppo ininterrotto degli insediamenti e gli incentivi politici ed economici previsti per facilitare lo spostamento della popolazione israeliana nei Territori Palestinesi Occupati, rappresentano una violazione della Convenzione di Ginevra. Molte risoluzioni e pareri rilasciati dalla Corte Internazionale di giustizia hanno affermato e riaffermato, in tempi più recenti, l’illegalità degli insediamenti Israeliani nei territori occupati nel 1967. Alla potenza occupante è proibito dalla legge internazionale spostare la popolazione da e verso i territori che occupa, confiscare terracostruiredeportare e impedire la circolazione. Tutte attività, queste, che Israele esercita regolarmente e quotidianamente in Cisgiordania e a Gerusalemme est. E nonostante ciò, sono molte le aziende, specie quelle europee, che hanno regolari rapporti commerciali con le colonie illegali. I nomi di alcune di queste a febbraio dello scorso anno sono state inserite nella lista “nera” dell’ONU: i loro rapporti finanziari con gli insediamenti illegali riguardano, includono e facilitano le violazioni dei diritti umani. Tra le altre, Airbnb, TripAdvisor, Cisco System, Expedia Group, Motorola Solutions, Siemens, Volvo Group.

 

Si parla di fornitura di materiale di costruzione per l’espansione delle colonie, di attrezzature utilizzate per la demolizione delle abitazioni palestinesi, di partecipazione alle pratiche di restrizione della libera circolazione e di interventi che non permettono le attività economiche dei palestinesi nei Territori Occupati. Ma anche di vendita di sistemi di sicurezza e di controllo utilizzati per impedirgli gli spostamenti…

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Nelle due settimane di ottobre, i coloni israeliani hanno distrutto 1600 ulivi in Cisgiordania

 

Articolo originariamente pubblicato da Wafa e tradotto in italiano da Bocche Scucite

 

Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) nei Territori Palestinesi Occupati, in due settimane i coloni israeliani hanno distrutto o rubato il raccolto da oltre 1.600 alberi, soprattutto di ulivo.

Nel suo rapporto bisettimanale sulla protezione dei civili che copre il periodo tra il 5 e il 18 ottobre, OCHA ha riportato che dall’inizio della raccolta annuale delle olive, il 12 ottobre, più di 1.400 alberi, soprattutto ulivi, sono stati vandalizzati o il loro raccolto è stato rubato nei villaggi intorno a Nablus, Hebron, Salfit e Ramallah, come indicato da agricoltori palestinesi, testimoni oculari e proprietari di terreni, in alcuni casi supportati da rapporti del ministero dell’Agricoltura. Molti di questi alberi sono stati piantati su terreni di proprietà palestinese vicino agli insediamenti. I restanti 200 alberi danneggiati sono stati segnalati dai loro proprietari, poco prima dell’inizio della stagione.

Quattro palestinesi sono stati anche feriti quando sono stati presi a sassate dai coloni israeliani che hanno fatto irruzione nel villaggio di Burin, vicino a Nablus, e hanno causato danni a case e alberi. Una donna è stata attaccata con lo spray al peperoncino da alcuni coloni, i quali hanno anche preso a sassate altri palestinesi che raccoglievano olive nel villaggio di Yasuf, sempre vicino a Nablus.

I coloni hanno anche distrutto diverse auto a Marda, nel distretto di Salfit, e a Beit Iksa e nel quartiere di Silwan, entrambi nella zona di Gerusalemme.

Durante lo stesso periodo di riferimento, OCHA ha riportato che le forze di occupazione israeliane hanno ucciso un ragazzo palestinese di 14 anni e ne hanno ferito e arrestato un altro. L’incidente è avvenuto il 14 ottobre, vicino al checkpoint Tunnels, che controlla l’accesso dalla Cisgiordania meridionale alla zona di Gerusalemme.

Complessivamente, durante il periodo di riferimento, le forze israeliane hanno ferito 159 palestinesi in tutta la Cisgiordania. La maggior parte, 115, sono stati feriti durante le regolari proteste contro le attività di insediamento vicino a Beita (90) e Beit Dajan (25) nell’area di Nablus…

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Ai palestinesi viene impedito anche di raccogliere le loro olive – Amira Hass

 

Mohammed al Khatib, del villaggio palestinese di Bilin, sfrutta ogni occasione utile per parlare ai soldati, in ebraico. Anche dopo che lo hanno picchiato, fatto stendere a terra e arrestato, anche dopo che uno dei soldati gli ha piantato imperiosamente un piede nella schiena, com’è successo l’11 ottobre vicino alla cittadina di Salfit, in Cisgiordania.

“Mi piace parlare ai soldati giovani, spiegargli l’occupazione”, dice Khatib. “‘Cosa intendi per occupazione?’, mi chiedono. ‘Voi palestinesi potete fare tutto quello che volete’. E io gli spiego: ‘E se vi dicessi che un palestinese non può costruire sulla sua terra? Cercate su internet. Non ascoltate solo i vostri superiori’”. Khatib ha parlato con Haaretz due giorni dopo essere stato detenuto per un periodo molto più breve del solito nelle circostanze che sto per raccontarvi.

 

Rivivere la tradizione
Khatib ha dimenticato quante volte è stato arrestato perché partecipa ai comitati popolari che si battono contro la barriera di separazione. La ragione dell’arresto questa volta è stata la raccolta delle olive. In questi giorni gruppi di volontari vanno in giro per la Cisgiordania a dare una mano, soprattutto nelle aree più soggette alle violenze degli israeliani che vivono nei vicini insediamenti illegali.

Dal 3 ottobre, primo giorno della raccolta, fino al 16 ottobre i cittadini israeliani in Cisgiordania hanno compiuto diciotto azioni di sabotaggio, aggredendo fisicamente gli agricoltori, tagliando e spezzando gli ulivi, o rubando il raccolto.

Tra i gruppi di volontari ce n’è uno, Faza – di cui Khatib è stato uno dei fondatori – intenzionato a far rivivere la tradizione di volontariato e di mutuo aiuto che caratterizzava la società palestinese negli anni settanta e ottanta.

Se non sono i coloni a ostacolare la raccolta, ci pensano i soldati. È successo l’11 ottobre in un oliveto di Al Ras, vicino a Salfit, a nord dell’insediamento di Ariel. Appena un anno fa in quell’area è sorto l’avamposto illegale di Nof Avi. Da allora i proprietari palestinesi dell’oliveto possono guardare il loro appezzamento solo da lontano. Ora che le olive sono mature, gli agricoltori hanno invitato i volontari a unirsi a loro, nella convinzione che un maggior numero di persone possa scoraggiare le violenze israeliane e permettere di terminare più rapidamente il raccolto, prima che le olive vengano rubate.

Quando i volontari sono arrivati intorno alle 8.30 del mattino si sono stupiti di trovare “un numero incredibile di soldati”, ha raccontato ad Haaretz l’attivista israeliano Gil Hammerschlag. I soldati avevano teso un nastro tra alcuni pali piantati nel terreno e avevano appeso degli avvisi, in inglese e in arabo, con cui si dichiarava l’area “zona militare chiusa”. Secondo gli attivisti presenti sul posto, i soldati non hanno mostrato alcun ordine firmato (come hanno fatto il giorno dopo in tribunale). A ogni modo gli attivisti hanno avuto premura di restare al di fuori dell’area segnata, decidendo di raggiungere a piedi l’oliveto da un’altra strada, anche questa sbarrata dai soldati.

Khatib spiega che non si aspettava che l’area sarebbe stata chiusa. “È vero che sulla cima della collina c’è un colono che ne ha preso possesso. Ma noi stavamo andando a proteggere qualcosa di legale, come la raccolta delle olive, da qualcosa di illegale, come la violenza dei coloni. Se l’esercito era davvero preoccupato della sicurezza del colono, perché non ha messo dei soldati intorno alle costruzioni illegali dell’insediamento? Perché impedire la raccolta delle olive? Tutto dipende da cosa aveva deciso il comandante”.

“Il giorno prima”, continua Khatib, “avevamo raccolto le olive a Beita. Per farlo siamo passati dall’insediamento di Evyatar. L’esercito non ci ha dato noie e non ci sono stati problemi. In altre parole, a decidere come andranno le cose è il comandante militare. Noi andiamo a raccogliere le olive: non ci interessa creare tensioni. Non vogliamo provocare nessuno, ma ci rifiutiamo di avvisare l’esercito se vogliamo entrare in un oliveto privato solo perché un colono ha preso possesso di un terreno di proprietà palestinese. A causa di quell’avamposto la terra di quell’oliveto non è stata arata per un anno intero. È piena di rovi”…

 

(Traduzione di Francesco De Lellis)

Questo articolo è stato pubblicato da Haaretz.

 

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L’acqua come arma di guerra: gli attivisti affermano che Israele sta prosciugando la Cisgiordania per cacciare i palestinesi – Jessica Buxbaum

 

Masafer Yatta, Cisgiordania occupata –  Lo scorso fine settimana, circa 600 attivisti israeliani, palestinesi e internazionali hanno marciato attraverso Masafer Yatta nella Cisgiordania occupata per consegnare una cisterna d’acqua agli abitanti dei villaggi palestinesi. Il loro messaggio era chiaro: l’acqua è un diritto umano e Israele sta privando la Palestina di questa necessità fondamentale.

In mezzo a un mare di bandiere palestinesi al vento, i manifestanti hanno camminato accanto a un trattore che trasportava la cisterna dell’acqua dal villaggio di At-Tuwani. I manifestanti non hanno raggiunto la destinazione prevista, sono invece tornati al villaggio di Mfakara per evitare uno scontro con l’esercito israeliano che li aspettava in cima a una collina vicina.

“L’acqua è un diritto di tutti. Non importa se sei nero o bianco o ebreo o arabo”, ha detto a MintPress News Adam Rabee, un attivista di Combatants for Peace (CFP), uno degli organizzatori della marcia.

Lunedì, la CFP, insieme ad altre organizzazioni per i diritti umani, ha presentato un appello urgente agli organismi internazionali, chiedendo loro di “fare pressione su Israele per consentire l’accesso all’acqua ai palestinesi che vivono nell’Area C”, l’area occupata della Cisgiordania che include Masafer Yatta.

La CFP ha avviato la campagna per l’accessibilità all’acqua per la Palestina ad agosto. A settembre ha guidato una visita sul campo a Masafer Yatta per 20 diplomatici dell’Unione europea, del Regno Unito, del Canada, del Brasile, del Messico e della Svizzera. Durante il giro, la CFP ha sensibilizzato sulla crisi idrica della Palestina e ha esortato i rappresentanti a impegnarsi in un dialogo con Israele per fornire ai palestinesi pieno accesso all’acqua.

“[I diplomatici] hanno visto famiglie e bambini senza acqua”, ha detto Rabee riguardo alla visita. “La mia sensazione è che vogliano aiutare e noi abbiamo supporto”.

 

Soldati che aiutano i coloni durante gli attacchi per l’acqua

La protesta di sabato è stata calma e senza scontri, ma l’evento è stato segnato  da precedenti violenze.

Martedì di quella settimana, almeno 60 coloni israeliani mascherati hanno fatto irruzione a Mfakara, lanciando pietre, ribaltando automobili, tagliando tubi dell’acqua e sgozzando pecore. Cinque bambini sono rimasti feriti durante l’attacco, tra cui un bambino di quattro anni che è stato ricoverato in ospedale dopo essere stato colpito alla testa con pietre. I soldati israeliani hanno osservato da bordo campo – durante quello che gli attivisti stanno descrivendo come un “pogrom” – e sono intervenuti solo per sparare gas lacrimogeni, granate stordenti e proiettili d’acciaio rivestiti di gomma contro i palestinesi.

All’inizio di settembre, una protesta della CFP per fornire acqua alle comunità palestinesi è stata respinta con violenza da parte dei soldati israeliani. Sei israeliani e due palestinesi sono rimasti feriti, incluso Rabee, che è stato colpito allo stomaco con una bomboletta di gas lacrimogeno.

I manifestanti hanno mostrato immagini ingrandite delle recenti violenze durante la marcia dello scorso fine settimana. A Mfakara il terreno era cosparso di schegge di vetro. Molte delle auto degli abitanti del villaggio sono state ammaccate e i parabrezza sono andati in frantumi.

 

Noma Hamamdah, un pastore palestinese che vive a Mfakara, ha raccolto un lacrimogeno da terra fuori dalla sua casa. Ha detto che questo era uno dei 20 lanciati martedì dall’esercito contro la comunità. Ha sollevato la gamba dei pantaloni per rivelare dove è stato colpito da un proiettile di gomma. Sua nuora, Sabreen Hamamdah, ha detto che l’esercito ha sparato gas lacrimogeni nelle loro case e che i coloni hanno tagliato le gomme della loro cisterna d’acqua durante il raid.

“Da martedì scorso non abbiamo ricevuto acqua fino ad oggi”, ha detto Noma, riferendosi alla consegna della nuova cisterna da parte degli attivisti. “L’esercito aiuta i coloni ed è grazie all’esercito che i coloni hanno la capacità di attaccarci e distruggere i nostri serbatoi d’acqua”. Otto finestre nella casa della famiglia sono state rotte, ha detto Noma. Ha indicato un foro di proiettile nel muro della sua casa dove i soldati israeliani hanno sparato nel tentativo di disperdere i coloni. “Ci è stato detto che [il presidente Joe] Biden è un uomo di pace e ama la pace, ma non gli abbiamo mai sentito menzionare i palestinesi nemmeno una volta”, ha continuato Noma. “E se l’insediamento illegale di Havat Maon ci lascia in pace, allora ci sarà la pace in quest’area”.

Havat Maon è un avamposto di insediamento illegale, notoriamente violento, adiacente ai villaggi palestinesi di Masafer Yatta. Tutti gli insediamenti israeliani sono illegali secondo il diritto internazionale ma legali secondo il diritto israeliano. Gli avamposti, costruiti senza l’autorità israeliana, sono definiti illegali sia dal diritto internazionale che da quello israeliano…

 

Jessica Buxbaum è una giornalista con sede a Gerusalemme per MintPress News che copre Palestina, Israele e Siria. Il suo lavoro è apparso su Middle East Eye, The New Arab e Gulf News.

Water as Weapon of War: Activists Say Israel is Drying Out the West Bank to Drive Out Palestinians (mintpressnews.com)

 

Traduzione a cura di Associazione di Amicizia Italo-Palestinese

 

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Soldati israeliani picchiano e arrestano un attivista palestinese durante la raccolta delle olive – Oren Ziv

 

 

Mohammed Khatib è stato brutalmente arrestato assieme a due israeliani di sinistra mentre cercava di proteggere i contadini palestinesi dalla violenza dei coloni e dell’esercito.

Soldati israeliani hanno arrestato brutalmente un importante attivista palestinese e due israeliani di sinistra durante l’annuale raccolta delle olive nella Cisgiordania occupata. L’arresto è avvenuto nella regione di Salfit, vicino all’avamposto illegale di Havat Nof Avi, eretto dai coloni lo scorso anno su un terreno appartenente ai palestinesi abitanti nell’area.

Un soldato è stato fotografato mentre prendeva a pugni e poi calpestava, dopo il suo arresto, Mohammed Khatib, attivista del Comitato di coordinamento della lotta popolare che aiuta a organizzare la resistenza non violenta all’occupazione e all’insediamento di Israele.

“Siamo arrivati intorno alle 10 e abbiamo trovato molti soldati nella zona”, ha detto Abdullah Abu Rahmeh, un altro importante attivista palestinese del Comitato. “Hanno transennato l’area e l’hanno dichiarata zona militare chiusa”.

Diversi agricoltori palestinesi hanno cercato di ragionare con gli ufficiali e i rappresentanti dell’amministrazione civile – il ramo dell’esercito israeliano che governa la vita quotidiana di milioni di palestinesi sotto occupazione – per cercare di accedere alla loro terra, ha detto Abu Rahmeh. Mezz’ora dopo, quando né gli agenti né l’Amministrazione Civile si sono spostati, i contadini si sono incamminati lungo il tratto transennato per cercare di raggiungere i loro ulivi mediante un altro percorso.

“I soldati ci hanno seguito e ci hanno attaccato con i loro fucili”, ha ricordato Abu Rahmeh. “Portavamo gli attrezzi per il raccolto. Non stavamo protestando, ma ci offrivamo volontari per aiutare i contadini. Tuttavia, i soldati non ci hanno permesso di raccogliere”.

I volontari sono arrivati nel quadro dell’iniziativa Faz3a, che significa “sostegno” in arabo. Tale progetto è stato varato l’anno scorso. L’organizzazione assiste gli agricoltori palestinesi durante la raccolta delle olive per difenderli dalla violenza dei coloni e dei militari. “È una campagna annuale”, ha detto Abu Rahmeh. “In questa zona i contadini non hanno abbastanza tempo per completare il raccolto, quindi portiamo delle persone per aiutare. Cerchiamo di sostenerli e proteggerli dagli attacchi dei coloni”…

 

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)

 

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Intervista di Shany Littman ad Avi Mograbi

 

Il più recente documentario del noto regista israeliano Avi Mograbi si basa sulle denunce dei soldati per smascherare l’occupazione israeliana. Non aspettatevi di vederlo alla tv israeliana o a qualche festival cinematografico locale

 

Il nuovo film di Avi Mograbi: “The First 54 Years – An Abbreviated Manual for Military Occupation,” [I primi 54 anni – un breve manuale per un’occupazione militare] non è stato fra le proposte di nessun festival cinematografico in Israele di quest’anno e, fino ad ora, neanche un canale televisivo israeliano si è offerto di trasmetterlo. Questa volta neppure le fondazioni senza fini di lucro che di solito sostengono i documentari vogliono essere coinvolte, anche se Mograbi è un regista da tempo molto apprezzato e i cui film precedenti hanno avuto un gran successo e sono stati presentati a decine di festival in tutto il mondo.

Il suo film ha comunque cominciato a fare il giro dei festival cinematografici internazionali e si è guadagnato una menzione d’onore al festival di Berlino. Ma il regista non è stato per niente sorpreso dalla sfilza di rifiuti ricevuti in Israele.

“O è un brutto film o tratta di qualcosa con cui la gente non vuole fare i conti. Eppure all’estero è un enorme successo,” commenta.

Le sono state date delle spiegazioni per i rifiuti in Israele?

“No. Ma non sono neanche uno di quelli che vanno a indagare. Sapevo che questo film avrebbe creato dei problemi.”

Un motivo, ipotizza, è che è basato sulle testimonianze dei soldati raccolte da Breaking the Silence, l’organizzazione israeliana contro l’occupazione fondata da veterani dell’esercito. Il gruppo raccoglie testimonianze di presunti abusi da parte dell’esercito nei territori occupati e su situazioni problematiche in cui i soldati si sono trovati durante il loro servizio militare.

Breaking the Silence non è, per usare un eufemismo, fra le organizzazioni più popolari in Israele,” aggiunge Mograbi. “Ho anche la sensazione che il personaggio che io interpreto nel film faccia arrabbiare persino quelli di sinistra, per il cinismo [del personaggio], a causa del fatto che alla sua radice c’è il male. Perché persino quando facciamo delle cose orribili, non vogliamo pensare che agiamo mossi dal male. Ma a questo personaggio tutto ciò non importa. Gli importa solo raggiungere gli scopi che si è prefissato.”

Mograbi interpreta un esperto o un oratore che spiega come attuare un’occupazione militare nel modo più efficiente. L’esperto organizza il film intorno allo sviluppo cronologico dell’occupazione nei territori, sostenendola con parecchi importanti criteri. Intrecciate con le testimonianze degli ex soldati, le spiegazioni machiavelliche dell’esperto rivelano come il processo sia metodico e agghiacciante. Il risultato è un film deliberatamente pedagogico, praticamente didattico. “Se vuoi la tua occupazione, ti aiuterò a evitare alcune delle parti più seccanti,” scherza Mograbi.

Praticamente sorvoli sulle cose poco chiare e presenti l’occupazione quasi come una formula matematica, rivelando che non c’è niente di casuale.

“Quando guardi al risultato, capisci che non poteva semplicemente essere capitato così per caso. Qualcuno da qualche parte deve essersi seduto a tavolino e averlo studiato. Non sto dicendo che questo manuale esista in una cassaforte alla sezione operativa del Ministero della Difesa, ma esiste nelle menti di parecchie persone che l’hanno creata,” afferma.

“A noi piace dare la colpa ai coloni, ma nella valle del Giordano hanno cominciato a costruire una fila di colonie subito dopo la guerra dei Sei Giorni. Quella linea secondo i leader ha delimitato il confine. E per tutti questi anni ci hanno venduto la storia che gli insediamenti civili lungo il Giordano stavano là come difesa. Ma per difendersi lungo il canale di Suez hanno costruito la linea Bar-Lev,” dice, facendo riferimento alle fortificazioni militari, “non si sono affidati a un manipolo di civili con trattori. E, come dice l’oratore nel film, la presenza dei civili trasmette un messaggio in termini di proprietà della terra.”

Il regista afferma che l’occupazione deve essere vista come parte di una sequenza di eventi che comporta la confisca della proprietà della terra e che risale alla guerra di Indipendenza israeliana del 1948.

“Il lavoro non era stato completato nel ’48 perché la terra non fu sgombrata dagli arabi. Nella guerra del 1967, furono 250.000 le persone che fuggirono e a cui fu impedito di ritornare. Le azioni si sono sempre concluse sottraendo le terre e rendendo la vita difficile a quelli che vi erano rimasti in modo tale da incoraggiarli ad andarsene. Quando arriva qualcuno dall’estero a trovarmi lo porto ad Abu Dis che una volta era il cuore di un quartiere animato e che ora è attraversato dalle barriere di sicurezza,” dice, riferendosi alla cittadina della Cisgiordania alla periferia di Gerusalemme.

“Per percorrere la stessa strada da un lato all’altro [della barriera] ci vogliono 40 minuti in auto, senza contare le attese ai checkpoint. Immagina se per venire a casa mia nel centro di Tel Aviv dovessi fare una deviazione passando da Holon quando casa tua dista appena un chilometro da qui. Se cerchi di immaginare di dover vivere così non è difficile vedervi il male.”

Quindi chi sono i cattivi? Chi è responsabile? Di chi è la colpa?

“Non si tratta di una persona. Tutti i governi israeliani ne sono responsabili. Affinché Israele sia uno Stato ebraico, deve avere una maggioranza ebraica. E questa maggioranza non deve essere data per scontata. Quindi tale maggioranza deve essere rilevante e considerevole. Perché non si dà la cittadinanza agli abitanti dei territori? Perché non è dato loro un documento di identità israeliano e la possibilità di partecipare alla vita politica come cittadini a tutti gli effetti? Perché poi ci sarebbe il problema che non saremmo più la maggioranza e questo Paese smetterebbe di esistere come Stato ebraico.”

Quindi, secondo lei, quale sarebbe la soluzione?

“Io non penso che i palestinesi mi stiano minacciando. Non è possibile che non si riesca a vivere insieme. Credo che la natura umana sia intrinsecamente buona, non intrinsecamente malvagia. L’idea che per vivere vicino ad altri si debba sottometterli al tuo potere secondo me non ha senso. E sono convinto che proprio com’è possibile avere eccellenti relazioni con i palestinesi a livello individuale, senza arrivare a picchiarsi, è anche possibile farlo a livello nazionale. Ma devi volerlo veramente, soprattutto quando ti trovi nel tipo di pasticcio in cui siamo. Io non vedo un briciolo di speranza che un giorno Israele non voglia più essere una potenza occupante e voglia concedere la cittadinanza a tutti i palestinesi dei territori occupati. Quindi potrebbe essere che questo finirà semplicemente in un folle bagno di sangue. Il futuro non sembra essere promettente.”

Sinistrismo come ribellione giovanile

Mograbi, 65 anni, è nato a Tel Aviv. Suo padre, Gabi, che veniva da una famiglia facoltosa arrivata dalla Siria, costruì il famoso Cinema Tel Aviv all’angolo di Ben-Yehuda e Allenby, più per un acuto senso degli affari che per un particolare amore per i film.

“Negli anni ‘20 la famiglia stava costruendo un edificio al numero 72 di Herzl Street e mio zio Ya’akov, che stava supervisionando il progetto, un giorno notò che i muratori non pranzavano. Chiese il perché e gli dissero che stavano risparmiando per andare al cinema. Se gli operai saltavano i pasti per andare al cinema, doveva essere un buon affare, si disse. Così comprò il terreno e costruì il cinema.”

Mograbi dice che suo padre non era un cinefilo, ma che, senza volerlo, ha dato al figlio una cultura cinematografica molto ampia.

“Aveva una qualità molto importante per un proprietario di cinema. Sentiva quali film sarebbero andati bene e quali non avrebbero avuto successo. Avevamo una relazione interessante. Lui guardava film in formato 35 mm in una piccola sala da proiezioni in Ahad Ha’am Street, prima che le copie venissero sottoposte alla censura e io mi sedevo a guardarle con lui. Ho visto cose che non avrei dovuto vedere, dato che ero un bambino,” ricorda Mograbi. “Ho lavorato nel cinema fin da ragazzo. Ma fra di noi c’era anche una grande tensione.”

Dice che suo padre si è sempre opposto ai suoi progetti di studiare cinematografia. “Quando avevo 18 anni stavo al botteghino quando proiettavamo Big Eyes di Uri Zohar, che era seduto dietro di me e poteva contare sulle dita di una mano i biglietti che avevo venduto. Mio padre entrò nel botteghino e mi disse, proprio davanti a lui: ‘È questo quello che vuoi diventare?’”

Invece di fare la scuola di cinema, Mograbi ha studiato filosofia all’università di Tel Aviv e arte presso la scuola d’arte di Hamidrasha che allora era a Ramat Hasharon. Ha cominciato a girare solo dopo la morte del padre, quando aveva 33 anni.

Fino ad ora tutti i suoi film sono stati imperniati su temi politici, a iniziare dal suo primo corto, “Deportation,” includendo il suo primo e ben noto film, “How I Learned to Overcome My Fear and Love Arik Sharon.” [Come ho fatto a superare le mie paure e amare Arik Sharon]. Sono stati seguiti da “Happy Birthday, Mr. Mograbi”, “Avenge But One of My Two Eyes” [Per uno solo dei miei due occhi], “August: A Moment Before the Eruption, [Agosto: un momento prima dell’eruzione]” “Z32” e il suo ultimo, “The First 54 Years” [I primi 54 anni]. Mograbi dice che pensava che i film potessero cambiare la realtà. Adesso non ci crede più, ma continua a farli su situazioni che sembrano cause perse, come l’occupazione.

“Ho sempre pensato che se solo la gente avesse saputo quello che stava succedendo non avrebbe continuato a farlo e la realtà sarebbe cambiata. Ogni volta ero deluso che i miei film non riuscissero a fare il salto dalle pagine culturali al dibattito politico e sociale. All’estero, nel resto del mondo, avevo una fantastica carriera ed ero ammirato come regista e là, qualche volta, i miei film riuscivano persino a uscire dagli inserti culturali. Ma non qui,” osserva.

“Nessuno dei miei film ci è riuscito, neppure ‘Per uno solo dei miei due occhi’ che pensavo avrebbe suscitato rabbia nei miei confronti perché alla fine del film urlo contro i soldati e non mi rivolgo a loro in modo gentile. Dopo quel film ho veramente provato un momento di disperazione, in cui mi sono chiesto se continuare a fare film.”

Il suo penultimo, “Between Fences” [Fra le recinzioni], che ha girato con il regista teatrale Chen Alon e che nessuna rete televisiva israeliana ha voluto trasmettere, è un documentario su un laboratorio teatrale per richiedenti asilo eritrei e sudanesi del centro di detenzione di Holot, basato sul metodo del “Teatro dell’oppresso” sviluppato dall’artista brasiliano Augusto Boal negli anni ’60 durante la dittatura militare in Brasile.

“Il metodo stabilisce che si tratti di una produzione teatrale da parte di appartenenti a un gruppo emarginato che scrive una pièce basata sulla propria esperienza e la rappresenta davanti a un pubblico che assiste a una performance composta da due parti. La prima è l’opera teatrale in sé e nella seconda parte si scelgono volontari fra il pubblico che entrano nei panni del personaggio che sta soffrendo, recitano in una delle scene e suggeriscono una soluzione alternativa al dilemma che è stato presentato,” spiega Mograbi.

“Boal diceva che questo tipo di teatro è essenzialmente una preparazione per una rivoluzione, non nel senso di imparare a fare bombe molotov e sparare, ma come tentativo di coinvolgere il pubblico, incitarlo all’azione, all’attivismo. Con il cinema non è possibile farlo, ma io vedo i miei film come un innesco, un tipo di sostegno o di servizio al cliente per quella brava gente di sinistra che non è contenta della realtà in cui sta vivendo.”

Mograbi è ben consapevole che questi film non convinceranno quelli che in partenza non lo sono già.

“Le persone che vengono a vederli non appartengono mai all’opposizione. Quelli di destra non vanno a vedere i film di sinistra, non ne hanno bisogno per litigare con quelli di sinistra. Sostanzialmente il pubblico che viene a vedere il film è il coro, sono quelli che sono già stati convertiti. Ciononostante penso ancora che i film abbiano un ruolo da giocare nel rafforzare e offrire del materiale ai convertiti,” sottolinea. “La sinistra è in calo in tutto il mondo. Non è qualcosa che succede solo in Israele. Quindi io non ho più idee ingenue su come cambiare la realtà,” dice, prima di aggiungere velocemente: “Per la verità le ho ancora, ma solo nei miei sogni. A ogni film comincio pensando che questa volta lo spettatore morirà dalla voglia di agire, che non c’è altra soluzione e che è impossibile che non faranno niente dopo quello che hanno visto.”

Quindi ogni volta ti sottometti a un processo in cui menti a te stesso.

“Non so farne a meno. La realtà che vedo mi addolora e mi sconvolge. Io non posso rimanere in silenzio e non esprimermi. Non penso che nessuno a cui importi veramente possa farlo. Ma sì, ogni volta che comincio a girare provo la stessa cosa: questa volta ci riuscirò. Questa volta succederà. Solo per scoprire ogni volta che la sua portata è molto più ridotta.”

“Capisco che le mie possibilità di avere un impatto fuori dalla mia comunità siano minime. D’altro canto non penso che 10 anni prima della fine dell’apartheid ci fossero persone che dicevano: fra 10 anni non esisterà più. Così guardo alla realtà e cerco quel barlume di speranza che fra 10 anni l’occupazione non esisterà più. Non puoi chiamarmi un ottimista, ma uno deve avere il tipo di energia che hanno gli ottimisti che non riescono a rinunciare o a smettere di desiderare e sperare che le cose cambino,” dice Mograbi.

Perché pensa che i suoi film trovino un’accoglienza migliore all’estero?

“Altrove è più facile perché non li riguarda direttamente. Sono appena stato in Francia per delle proiezioni del film [The First 54 Years], e c’era della brava gente di sinistra seduta in sala e hanno chiesto: ‘Come possono gli ebrei fare cose simili dopo tutto quello che hanno passato?’ che è una domanda logica. Come quando la gente chiede come sia possibile che i genitori abusati da piccoli possano a loro volta trasformarsi in genitori che fanno altrettanto. Ed io rispondo: ‘Come avete fatto, dopo l’occupazione tedesca in Francia, ad andare in Indocina e in Algeria e fare quello che avete fatto?’ Guardarsi dentro è molto più difficile che guardare fuori.”

Il pubblico migliore è in Francia, dice. “Quando c’è stata la prima di ‘How I Learned to Overcome My Fear and Love Arik Sharon’ al festival del documentario a Lussas nel 1997, per tre giorni dopo la proiezione ogni volta che camminavo lungo l’unica strada del paese tutti mi sorridevano. Avevano riso come matti guardando il film. L’hanno adorato. Una delle cose incredibili del festival è quanti giovani siano venuti anche se è un paesino in mezzo al nulla. Il pubblico è sempre più giovane,” nota.

“La Francia è veramente l’ultima superpotenza cinematografica. Alle persone si insegna ad amare i film fin da piccoli e inoltre il governo sostiene i cinema che proiettano pellicole sperimentali e documentari, che altrimenti non potrebbero sopravvivere.”

Forse anche per noi è più facile guardare film che criticano altri posti.

“Io ho un problema con i film che parlano delle sofferenze degli altri, film su persone che muoiono di fame nel terzo mondo. Questo voyeurismo necrofilo è molto inquietante. Spero di non cadere in tale necrofilia.”

Nonostante il caldo abbraccio che riceve all’estero, Mograbi non ha mai pensato di vivere altrove se non in Israele.

“Nella mia situazione e con la mia posizione nel mondo potrei trasferirmi ovunque io voglia,” dice. “Ma non ho piani o desideri simili. Sono affezionato a questa città. Sono cresciuto a Tel Aviv e la conosco a menadito. Sottoterra all’angolo di Allenby e Ben-Yehuda sono sepolti tutti i miei sogni. Dove potrei andare? Anche ogni altro Paese a cui potrei pensare ha un suo passato sordido. Francia, Olanda, Belgio, America. E che tipo di film potrei fare fuori da Israele? Qui conosco le cose belle e quelle brutte. Vivo totalmente immerso nella storia e nella politica e cultura di questo posto e lo amo.”

Ma non ci sono momenti in cui si sente minacciato o emarginato?

“No. Non ho mai ricevuto attacchi personali. Ho sofferto per qualcosa di persino peggiore: essere ignorato. Sono riconosciuto nella comunità cinematografica e in quella minuscola e sempre più piccola della sinistra, ma quando si fa un film che passa in televisione ci si aspetta una reazione da un po’ più di quelle centinaia o migliaia di persone che conosci già per nome. Essere ignorato può essere una cosa molto deprimente quando il tuo campo è quello dei mass media.”…

 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 

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Non c’è destra o sinistra in Israele, solo sionismo e non sionismo – Gideon Levy

 

La scorsa settimana Angela Merkel ha espresso la sua ammirazione per la solidità della nuova coalizione israeliana. L’editorialista di Haaretz Carolina Landsmann si chiede su questo sito se abbiamo a che fare con un governo ambiguo oppure con uno che ha messo allo scoperto il più grande inganno di tutti i tempi. Il giornalista Ron Cahlili afferma che la destra ideologica e la sinistra sionista sono la stessa cosa. Tutti e due evocano una vecchia storia, quella del gatto che esce dal sacco: in Israele non c’è né sinistra né destra. L’unica divisione ideologica è tra sionisti, vale a dire quasi tutti, e non sionisti, molto meno numerosi.

La cancelliera può quindi tranquillizzarsi. Quando è stato formato l’attuale governo non è avvenuto nessun miracolo e la Germania non ha nulla da imparare da esso. Non c’è stata nessuna “contingenza politica”, per usare la frase coniata dal primo ministro. L’attuale coalizione si mantiene facilmente poiché è una coalizione basata sul consenso, senza grandi divari tra i suoi componenti. Il Likud [il principale partito israeliano di centro destra, ndtr.] (meno Netanyahu) e gli ultra-ortodossi potrebbero formare un’estesa coalizione trasversale, che rappresenti una società ampiamente trasversale.

Questo governo sarà ricordato come quello che, pur non volendolo, ha smascherato il grande inganno. È sorto sulle onde dell’odio provato nei confronti di Netanyahu, e vive (e continuerà a vivere) sulla base dell’unità di fondo dei suoi componenti. Se domani mattina Merav Michaeli [leader del Partito Laburista Israeliano e Ministra dei Trasporti nel Governo Bennett, ndtr.] sostituisse Naftali Bennett [leader del partito Nuova Destra e attuale primo ministro israeliano ndtr.], non si verificherebbe alcun terremoto. A parte qualche cambio di stile, Israele resterebbe uguale a quello di prima…

 

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)

 

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Dopo Corbyn, la lobby israeliana prende di mira il mondo accademico britannico – Jonathan Cook

 

Sembra che la lobby israeliana si stia preparando a una campagna per sradicare gli accademici di sinistra che nel Regno Unito sono critici verso la continua oppressione israeliana del popolo palestinese, impegnandosi in sforzi simili a quelli messi in atto contro l’ex leader laburista Jeremy Corbyn.

Come per gli attacchi contro Corbyn, quello contro gli accademici è guidato dal Jewish Chronicle, settimanale inglese che si rivolge ai più ardenti sostenitori di Israele fra la comunità ebraica britannica.

La mossa segue il successo che la lobby ha ottenuto questo mese con le sue pressioni sull’università di Bristol affinché licenziasse uno dei suoi docenti, David Miller, anche dopo le indagini dalla stessa università, condotte da un giurista, che avevano concluso che le accuse di antisemitismo contro Miller erano infondate.

Miller è stato formalmente licenziato con la generica motivazione secondo cui egli “non risponde ai criteri di comportamento che ci si aspetta dai nostri dipendenti e dall’Università”.

La lobby ha mascherato a stento la propria soddisfazione dopo che, apparentemente per paura di pubblicità negativa, l’università di Bristol ha capitolato davanti a una campagna di affermazioni infondate in base alle quali Miller “ha vessato” gli studenti ebrei.

Miller, sociologo, è all’avanguardia per le sue ricerche sulle fonti dell’islamofobia nel Regno Unito. Il suo lavoro presenta un esame dettagliato del ruolo della lobby israeliana nel fomentare il razzismo contro musulmani, arabi e palestinesi.

Israele ha promosso da tempo l’idea di essere un baluardo contro la presunta barbarie islamica e il terrorismo, in quello che lo Stato e i suoi sostenitori presentano come uno “scontro di civiltà”.

Più di un secolo fa, Theodor Herzl, il padre del sionismo politico, sosteneva nel linguaggio colonialista dell’epoca che uno Stato ebraico in Medio Oriente sarebbe servito come “un muro di difesa per l’Europa in Asia, un avamposto di civiltà contro la barbarie”.

Questo è il concetto chiave a cui il movimento sionista fece ricorso per far pressione sulle principali potenze del tempo, principalmente l’Inghilterra, perché contribuisse a cacciare il popolo palestinese autoctono dalla maggior parte della sua patria in modo che potesse invece insediarsi l’auto-dichiarato Stato ebraico di Israele.

A tutt’oggi Israele incoraggia sia l’idea di essere vittima di una minaccia esistenziale permanente da parte di un odio apparentemente irrazionale e dal fanatismo dei musulmani, sia di giocare un ruolo cruciale di prima linea nella difesa dei valori occidentali. Di conseguenza i palestinesi si sono trovati isolatati a livello diplomatico.

 

Punta dell’iceberg’

A indicare la direzione che probabilmente la lobby intende seguire d’ora in poi, questo mese il Jewish Chronicle ha pubblicato un editoriale intitolato “Il licenziamento di Miller dovrebbe essere l’inizio, non la fine”. In esso si conclude: “Miller non è una voce isolata, ma è rappresentativo di una scuola di pensiero radicata quasi ovunque nel mondo accademico.”

Allo stesso tempo, sotto il titolo “Miller se ne è andato, ma lui è solo la punta dell’iceberg”, si riporta che, all’inizio dell’anno, studiosi in “74 diverse istituzioni britanniche di istruzione superiore” hanno firmato una lettera di sostegno a Miller rivelando “la vastità della rete che lo sostiene nelle università in tutto il Regno Unito”.

Si fa notare che fra i firmatari è incluso “un numero significativo di rappresentanti dell’establishment del Russell Group, costituito da 24 delle più prestigiose università britanniche”.

Il Chronicle sottolinea il fatto che 13 dei firmatari appartenevano all’università di Bristol e faceva il nome di parecchi docenti.

L’insinuazione appena velata è che ci sia un problema di antisemitismo nelle università britanniche e che sia tollerata dai piani alti.

La lobby ha usato la stessa tesi con Corbyn, sostenendo, nonostante la scarsità delle prove, che lui e la sua cerchia più ristretta fossero indulgenti verso una ipotetica esplosione di antisemitismo all’interno del partito, insinuando in modo pesante che la stessero incoraggiando.

Le affermazioni della lobby sono state entusiasticamente amplificate dai media in mano ai miliardari e dalla burocrazia di destra del partito laburista, profondamente ostili al socialismo di Corbyn…

 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 

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LA DICHIARAZIONE BALFOUR E EDIMBURGO: È ORA CHE L’UNIVERSITÀ FACCIA AMMENDA? – Nicola Perugini

 

L’8 luglio 1903, presso l’Hotel Cecil sull’argine del Tamigi a Londra, ebbe luogo la prima Conferenza dell’Università Coloniale Alleata. Lo sviluppo della produzione di conoscenza e delle reti universitarie aveva lo scopo di favorire il dominio imperiale britannico.

 

Uno dei principali artefici di questa svolta imperiale all’accademia fu Arthur James Balfour, all’epoca primo ministro del Regno Unito e anche rettore dell’Università di Edimburgo. Balfour era stato nominato alla carica di Edimburgo nel 1891 e alla fine mantenne la carica fino al 1930, il più lungo cancellierato nella storia dell’università.

All’Hotel Cecil, Balfour presiedette la cena congressuale a cui parteciparono delegati di università, direttori di college e “uomini di spicco nel lavoro educativo e scientifico”.

Dopo i consueti brindisi, Balfour pronunciò un discorso in cui celebrava la fondazione della nuova alleanza accademica britannico-coloniale e spiegava perché questo fosse stato un notevole risultato politico: “Non è solo, o semplicemente, o principalmente che ci sono qui in questa sala rappresentanti dell’erudizione, della scienza, di tutte le grandi sfere di attività in cui si dispiega il pensiero moderno. È che qui rappresentiamo quella che si rivelerà, credo, una grande alleanza dei più grandi strumenti educativi dell’Impero, un’alleanza di tutte le università che, in misura crescente, sentono le proprie responsabilità, non solo per la formazione della gioventù destinata a portare avanti le tradizioni dell’Impero Britannico, ma anche per favorire quei grandi interessi di conoscenza, ricerca scientifica e cultura senza i quali nessun Impero, per quanto materialmente magnifico, può davvero dire di condividere nel progresso del mondo”.

Nella mente di Balfour, la nuova alleanza accademica era uno strumento cruciale per cementare il dominio globale della Gran Bretagna. Ma era anche uno strumento chiave per affermare il senso di un’unità anglosassone razzializzata: “Noi vantiamo una comunità di sangue, di lingua, di leggi, di letteratura”, esclamava l’estatico Cancelliere-Primo Ministro alla cena della conferenza.

Dopo aver terminato il suo incarico di primo ministro nel 1905, Balfour si ritirò per quasi un decennio dalla scena centrale della politica estera imperiale, prima di tornare nel 1916 come ministro degli esteri. Ma in quei 10 anni, il rettore dell’Università di Edimburgo continuò a costruire lo spazio accademico britannico come un progetto imperiale.

Nel 1912, forse anche a causa del suo crescente interesse per “l’Oriente”, a Balfour fu chiesto di presiedere una sessione del Secondo Congresso delle Università dell’Impero sul Problema delle Università in Oriente riguardo alla loro Influenza sul Carattere e sugli Ideali Morali…

 

Traduzione di Angelo Stefanini

 

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Barghouti: l’Autorità Palestinese non ha autorità

 

Ieri l’agenzia di stampa Sama [agenzia di notizie siriana, ndtr.] ha riferito che Marwan Barghouti, membro del Comitato Centrale di Fatah, ha detto dal carcere: “ L’Autorità Palestinese (ANP) non ha autorità” e ha aggiunto che la battaglia per Gerusalemme “ha rivelato l’inettitudine e la fragilità” del sistema politico palestinese.

Barghouti ha anche detto che l’ANP “ha permesso all’occupazione israeliana di non spendere nulla,” facendo notare che l’occupazione “pratica la pulizia etnica ed è responsabile di molti atti di aggressione contro i palestinesi.”

Ha spiegato che la frazione principale dell’Olp ” ha accettato condizioni inferiori al minimo” necessario per raggiungere la pace con l’occupazione israeliana.

Immigrazione, colonie, rafforzamento dell’esercito e potenti alleanze internazionali “sono il pilastro dell’occupazione israeliana,” ha spiegato Barghouti, osservando che gli ebrei immigrati in Israele sono 32.000 all’anno e che il numero dei coloni ebrei israeliani nella Cisgiordania occupata è salito negli ultimi dieci anni a 200.000.

Nel frattempo Israele ha accresciuto la sua potenza militare e sta stringendo alleanze con Russia, Cina e India, oltre agli USA. Questo Stato occupante sta cercando al contempo di diventare una nazione centrale nella regione con cui i Paesi vicini stanno cercando di stringere alleanze, ha spiegato.

La recente battaglia per Gerusalemme avvenuta a maggio nei territori occupati e in Israele, “è la prova che, nonostante sofferenze e dolori, i palestinesi non smetteranno di combattere per i propri diritti,” ha concluso Barghouti.

Ciò ha anche “evidenziato l’inettitudine e la fragilità del sistema politico palestinese e dimostrato che dobbiamo produrre una nuova leadership alternativa tramite elezioni generali.”

 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 

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Un’immagine, 2 milioni di persone private della loro dignità. Gaza – Gideon Levy

 

Una massa di persone si accalca davanti alla camera di commercio del campo profughi di Jabalya, nel disperato tentativo di ottenere un permesso per lavorare in Israele  È necessario guardare le espressioni, gli occhi tetri, la barba, la supplica, la disperazione che si manifesta sul volto di ogni persona in fila, che lotta per la propria sopravvivenza. Agitano i moduli, come se li aiutassero a realizzare il loro sogno. Le mani tese, come se allungando il braccio qualcuno potesse raggiungere il suo sogno, ma è il lungo braccio di Israele, che dispensa a queste persone tutto questo male.

  

Per decenni Israele ha abusato di loro, dei loro genitori e dei loro figli. Non c’è posto come Gaza per raccontare questa storia del male, dall’espulsione e fuga nel 1948, alle azioni idi rappresaglia e alle  conquiste, a questo assedio di 15 anni. Questo è il vero braccio lungo di Israele, che ne modella il profilo morale.

Ogni uomo sta guardando in una direzione diversa, sinistra, destra o verso il cielo, da dove potrebbe venire un aiuto, forse. La ressa è tremenda . La vista ricorda le spedizioni di bestiame vivo in Israele. La tristezza negli occhi di queste persone indifese e lo shock che suscitano sono così simili, vitelli e persone. Qui sono persone senza dignità. Israele li ha spogliati delle ultime vestigia della loro dignità.

Khoury ha riferito che alcuni sono disposti a lavorare su turni di costruzione di 12 ore per 20 shekel [6,20 dollari], e per questo privilegio si affollano strettamente come bestie. La guerra è per oltre 3.000 permessi che Israele ha così gentilmente offerto. Almeno 300.000 disoccupati in competizione per 3.000 permessi. 

Uno su cento potrebbe vincere. In un territorio dove la disoccupazione ha raggiunto complessivamente il 48 per cento e il 66 per cento tra i giovani adulti, il rispetto di sé è andato perso. Come sarebbe facile restituire a questi miserabili uomini la loro dignità e il loro sostentamento. Apri la Striscia di Gaza, ricollegala alla Cisgiordania e consenti a queste persone di lavorare in Israele, che importa lavoratori dalla Cina…

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Ritorno al sito di un pogrom , israeliano – Ilana Hammerman

 

Al-Tawani : manifestazioni di ebrei e arabi

Sull’autobus ci hanno detto che l’esercito poteva fermarci lungo la strada e non saremmo stati in grado di continuare e forse ci avrebbero detto di scendere. Se ciò accade, dicevano, obbediamo: non resistiamo, non usiamo la forza, non malediciamo nemmeno. Questa è una protesta non violenta. Non violenta ! Ma non ci hanno fermato lungo la strada. Sabato lo spazioso bus con aria condizionata ci ha portato sani e salvi, in meno di un’ora, all’ingresso di Al-Tawani, che purtroppo si trova tra due covi di teppisti dai bei nomi: Havat Maon e Avigayl.

Quando siamo arrivati al villaggio regnava già un allegro caos: decine di macchine erano parcheggiate ai bordi della stradina e continuavano ad arrivare. E arrivavano autobus e minibus più spaziosi e climatizzati, da Gerusalemme, Tel Aviv, Haifa, Beer Sheva. Centinaia di persone , giovani e meno giovani, sono uscite dai veicoli salutandosi calorosamente, con abbracci e pacche sulle spalle. Si sono mescolati con la gente del posto di Al-Tawani e della zona circostante – alcuni di loro sono vecchi amici. Perché qui lo slogan “ebrei e arabi rifiutano di essere nemici” non sono solo parole, è la verità assoluta – una verità che ha resistito a parecchie prove difficili.

 

Al-Mufqara con cartelli e bandiere palestinesi

E’ trascorsa così un’ora piacevole, e poi, dopo aver ascoltato brevi spiegazioni in ebraico e in arabo, che ribadivano la natura non violenta della protesta chiamata : Marcia dell’Acquaci siamo avviati verso la comunità di Al-Mufqara.

La strada asfaltata di Al-Tawani si trasforma in un terreno pietroso e pieno di buche, che scende e sale tra le colline aride e desolate. Il sole mattutino leggermente caldo diventava leggermente più caldo, poi ancora più caldo, fino a diventare insopportabile per le persone anziane tra noi.

Tuttavia, il morale era alto. Come vincitori, portando una serie di cartelli di protesta sotto le bandiere palestinesi , abbiamo accompagnato il modesto e simbolico serbatoio dell’acqua trainato da un trattore blu alla piccola comunità, una delle tante che Israele ha condannato ad avvizzire per la sete per la pulizia etnica di queste vaste distese.

Siamo passati davanti alla fattoria degli autori del pogrom, circondata da alberi verdi e ben irrigati. Nessuno ci ha fermato. Non è stata lanciata una pietra e nessun ufficiale è venuto a dirci che si trattava di una “zona militare chiusa”. Una valle poco profonda ci separava da loro. Una settimana fa i rivoltosi avevano attraversato questa valle, spinti in una frenesia di dominio, odio e gelosia , per vandalizzare le proprietà dei pastori e ferito loro e le loro famiglie. Nessuno li fermò allora.

Ora non li vedevamo né li sentivamo. Solo pochi soldati camminavano avanti e indietro lungo i bordi della valle. Era chiaro: questa volta l’esercito era deciso, ed era ovviamente d’accordo con i teppisti, che le scene spiacevoli delle ultime settimane non si sarebbero ripetute. La marcia sarebbe passata, sarebbe arrivata dove stava andando e sarebbe tornata indietro.

I marciatori sarebbero tornati alle loro case tranquilli. I signori della terra ebraica dei pogrom avrebbero poi completare l’opera insieme all’esercito con i suoi bulldozer e altre rovinose attrezzature pesanti.

Quel sabato hanno rispettato lo Shabbat e noi, stanchi ma soddisfatti, abbiamo raggiunto le colline di Al-Mufqara con le nostre bandiere, i nostri manifesti e le nostre grida ritmiche, accompagnati dai tamburi.

Ma poi mi sono resa conto che la marcia non era arrivata a destinazione…

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Appello italiano “In difesa e in solidarietà con le Ong palestinesi dichiarate ‘terroriste’ “”

 

All’attenzione del Presidente del Consiglio, Mario Draghi, del Ministro degli Esteri, Luigi Di Maio e della Vice Ministra Esteri, Marina Sereni
Ai sensi della legge nazionale antiterrorismo israeliana del 2016, il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha dichiarato «organizzazioni terroristiche» sei associazioni della società civile palestinese: Al-Haq, Addameer, Defense for Children-International, Union of Palestinian Women’s Committees, the Bisan Research and Advocacy Center e Union Of Agricultural Work Committees.Si tratta di un fatto gravissimo.

Lo stesso Gantz, ex-capo di stato maggiore, durante una recente campagna elettorale si è vantato di aver fatto tornare alcuni quartieri di Gaza “all’età della pietra”, per aver guidato la sanguinosa operazione militare “Margine Protettivo”. In effetti il bilancio dell’attacco è stato di oltre 2.000 vittime, in maggioranza civili, migliaia di feriti e la distruzione di moltissimi edifici civili.

Le Ong in questione si occupano della difesa dei diritti umani dei minorenni, delle donne e di altre categorie vittime delle politiche israeliane di occupazione e di pulizia etnica strisciante. Non a caso hanno ricevuto la solidarietà di importanti ONG internazionali come Human Rights Watch e Amnesty International e di oltre venti organizzazioni israeliane, tra cui la più nota a livello internazionale è B’Tselem.

I sottoscritti esprimono stupore e dissenso per la decisione del ministero della Difesa israeliano e si riconoscono in quanto scrivono le Ong israeliane: «La documentazione, la difesa e l’assistenza legale sono attività fondamentali per la protezione dei diritti umani in tutto il mondo. Criminalizzare tale lavoro è un atto di codardia, caratteristico dei regimi autoritari repressivi. La società civile e i difensori dei diritti umani devono essere protetti». Questa ennesima iniziativa rischia di rappresentare un precedente e potrebbe far presagire ulteriori interventi repressivi nei confronti dei difensori del diritto internazionale e dei diritti umani.

Ci rivolgiamo al Governo italiano e al nostro Ministro degli Esteri perché intervengano nei confronti del Governo israeliano e lo inducano a revocare una decisione che tanta sorpresa e indignazione ha suscitato.

 

I PRIMI FIRMATARI…

 

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Perché i soldati aiutano i coloni ad abusare degli arabi? – Yossi Klein

 

Ideologia della società dei coloni

I fatti sono noti: è una società chiusa, conservatrice, religiosa. Il suo approccio alle istituzioni governative è ostile e diffidente. Ai suoi margini ci sono bande di giovani, esasperati dalla disoccupazione e dalla noia. Queste bande non attaccano la loro stessa comunità, solo i loro vicini. Distruggono, sradicano, bruciano e picchiano. La loro comunità è impotente, questa violenza ne rovina l’immagine. I suoi leader non sanno cosa fare. Questo comportamento da delinquenti può soddisfare alcuni desideri nascosti che nutrono, ma vorrebbero comunque sembrare “normativi”.

I capi di questa comunità “condannano” debolmente questi delinquenti, esprimendo alcune tiepide riserve. Cercano di ridimensionare la gravità di questi crimini, descrivendo gli autori come “erbacce selvatiche”. Quando viene chiesto loro di rispondere con più determinazione, alzano le spalle e dicono: Non siamo poliziotti? .Lascia che la polizia entri nei nostri villaggi e risolva le cose.

 

La paura della polizia

La polizia non lo farà . Hanno paura di farlo. Ci sono molte pistole lì, un sacco di dita dal grilletto facile. Questo settore non è grande, ma il suo potere è intimidatorio. È ben collegato, rappresentato nella Knesset e nel governo. La polizia non ha interesse a scontrarsi con esso. Non vogliono essere coinvolti .. Finora, elementi criminali di questo settore hanno ucciso bambini : rapendolo e uccidendone uno e bruciandone un altro. Hanno anche altri metodi per gestire i loro vicini. Non ci sono dati precisi sui loro crimini, dal momento che le vittime con chi possono lamentarsi? All’esercito che aiuta i criminali? Ai media apatici, deboli e sottomessi?…

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2300 rabbini condannano la decisione di etichettare i gruppi palestinesi per i diritti umani come terroristi.

 

T’ruah , un’organizzazione rabbinica diritti umani rappresenta oltre 2.300 rabbini e cantori e le loro comunità nel Nord America, ha condannato la mossa di oggi dal ministero della Difesa israeliano di dichiarare un certo numero di organizzazioni palestinesi – tra cui alcune delle più importanti società civile palestinese e organizzazioni per i diritti umani – come gruppi terroristici, avvertendo che una ridotta trasparenza metterebbe in pericolo i diritti umani sia  degli israeliani che dei palestinesi. 

 

Il rabbino Jill Jacobs, CEO di T’ruah, ha rilasciato la seguente dichiarazione: 

 

“Questa decisione è un allarmante tentativo da parte del governo israeliano di mettere a tacere i difensori dei diritti umani palestinesi, compresi quelli che denunciano violazioni dei diritti umani da parte del governo israeliano, dell’Autorità palestinese e di Hamas e quelli che offrono supporto legale e difendono i palestinesi soggetti  ad abusi. 

 

Un  forte settore dei diritti umani è un elemento essenziale per  qualsiasi democrazia. Etichettando falsamente le organizzazioni della società civile palestinese come gruppi terroristici, il governo israeliano riduce la trasparenza e viola i diritti fondamentali dei palestinesi in modi che possono avere conseguenze potenzialmente letali. Una componente chiave di un futuro stato palestinese è una società civile forte e i gruppi per i diritti umani sono una parte essenziale della costruzione verso tale obiettivo…

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Per 17 anni, i coloni che lanciano pietre hanno terrorizzato i bambini palestinesi. Ero uno di loro – Ali Awad

 

Il primo giorno di scuola , nella Cisgiordania occupata, gli studenti che vivono a Tuba, un villaggio palestinese nelle colline a sud di Hebron, aspettano che i soldati israeliani li accompagnino a scuola.

Il loro percorso li porta attraverso l’avamposto illegale israeliano di Havat Maon, costruito su un terreno palestinese di proprietà privata tra Tuba e il vicino villaggio di At-Tuwani . La scorta militare non solo è necessaria ma, ormai, routine.

Negli ultimi 17 anni, due settimane prima dell’inizio della scuola, gli studenti di Tuba iniziano i loro preparativi con attivisti ed educatori – non per raccogliere libri e iniziare a studiare, ma per ristabilire un contatto con l’esercito israeliano per assicurarsi che possano arrivare a scuola in sicurezza .

La scuola più vicina a Tuba è nel villaggio di At-Tuwani. Quando l’insediamento di Maon si è espanso nei primi anni 2000 per collegarsi a un nuovo avamposto illegale, Havat Maon, Tuba è stata tagliata fuori dalla strada che conduce ad At-Tuwani, che prosegue fino alla città palestinese più vicina, Yatta.

La distanza da Tuba a Yatta è di 3 chilometri (circa 20 minuti a piedi). Tuttavia, a causa dell’avamposto , i palestinesi devono percorrere Havat Maon, una deviazione che aumenta la distanza a 20 chilometri. Anche la deviazione incide in modo significativo sul diritto degli studenti di accedere alle strutture educative di At-Tuwani.

 

La violenza dei coloni dell’avamposto illegale

Inizialmente, quando fu costruito l’avamposto, gli studenti erano ancora determinati a utilizzare il percorso diretto attraverso Havat Maon per andare a scuola a piedi. Tuttavia, nel 2002, dopo aver subito attacchi quotidiani da parte dei coloni, gli studenti sono stati costretti a smettere di usare la strada. Di conseguenza, avrebbero dovuto camminare per 10 chilometri (nelle colline a sud di Hebron, circa due ore) costeggiando l’avamposto per evitare la violenza dei coloni. Gli studenti andavano a scuola a cavallo degli asini e talvolta i genitori, che temevano per l’incolumità dei propri figli, li accompagnavano.

Nel 2004, un gruppo di volontari americani del Christian Peacemaker Team, un gruppo basato sulla fede che sostiene la nonviolenza , è arrivato nella regione. I volontari hanno visto la sofferenza quotidiana degli scolari e hanno parlato con i loro genitori, da quel momento, con il loro consenso, hanno accompagnato gli studenti sattraverso l’avamposto illegale. I genitori erano ancora in apprensione, così decisero di unirsi alla scorta, insieme ai volontari internazionali.

Tuttavia, durante la prima settimana del semestre, i ragazzi e i volontari sono stati brutalmente attaccati dai coloni: cinque uomini mascherati armati di catena e mazza..

Invece di rimuovere l’avamposto illegale (che viola anche la legge israeliana), si è deciso di assegnare una pattuglia dell’esercito per accompagnare a piedi gli studenti che vanno e vengono dalla scuola. Ironia della sorte, gli studenti sono diventati dipendenti dall’IDF : non possono frequentare la scuola a meno che non si presenti l’ esercito . Nonostante la presenza dell’esercito, i coloni illegali continuano a minacciare i bambini. Per 17 anni, questa strana e moralmente carente disposizione è andata avanti.

 

Le difficoltà

 

Ho iniziato la prima elementare nel 2004, sotto scorta dell’esercito, e ho studiato così per 12 anni. Ricordo di non aver potuto frequentare la scuola, o di essere arrivato tardi, perché io e i miei amici stavamo aspettando l’arrivo della scorta militare. Ricordo di essere stato attaccato dai coloni anche con l’IDF proprio lì. La frequenza delle lezioni dipendeva dall’umore dei soldati. Se decidevano di presentarsi, allora si poteva andare a scuola. In caso contrario, si aspettava il loro arrivo .

Quando tornavamo a casa, il nostro pranzo ci stava aspettando, ma era quasi ora di cena. All’alba e al tramonto camminavamo . Vivevo in uno stato permanente di movimento e disorientamento: non riuscivo a calcolare l’ora della colazione e l’ora della cena . La mia mente e il mio corpo erano consumati dal viaggio quotidiano verso la scuola.

E non c’era spazio nei nostri stomaci per molto cibo, perché erano troppo pieni di tristezza. I nostri corpi erano molto magri e deboli. Le nostre gambe erano doloranti a causa della lunga camminata. Le nostre menti si sono allontanate dai nostri studi. Per la maggior parte del tempo non siamo stati veramente impegnati con la scuola a causa del nostro faticoso viaggio…

 

tratto da questo sito

 

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Vi racconto la barbarie delle detenzioni amministrative e il coraggio di chi si oppone – Amira Hass

 

(a cura di Umberto De Giovannangeli)

 

Per Israele sono terroristi quando si fanno strumento di morte. E sono sempre terroristi se usano il loro corpo per manifestare la loro voglia di libertà.

 

La storia di Kayed e Miqqad

A raccontarla è la giornalista israeliana che meglio di chiunque altro reporter conosce la realtà palestinese. Amira Hass, firma storica di Haaretz

“Il Comitato Internazionale della Croce Rossa – scrive Hass – ha dichiarato questa settimana di essere gravemente preoccupato per la salute di due detenuti amministrativi palestinesi incarcerati da Israele, che stanno facendo uno sciopero della fame da circa 80 giorni.

I due sono Kayed Nammoura (Fasfous), un 32enne che da venerdì rifiuta il cibo da 87 giorni, per protestare contro la sua continua detenzione, e Miqdad Qawasmeh, 24 anni, che è in sciopero da 80 giorni. I due sono stati ricoverati al Kaplan Medical Center di Rehovot. Il 29 settembre, in risposta a un appello presentato dall’avvocato Jawad Boulos, la Corte suprema ha ordinato che la detenzione amministrativa di Qawasmeh fosse “congelata” a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute. Non gli è permesso di lasciare l’ospedale, anche se può avere visite e non è più incatenato al letto.

Anche altri quattro detenuti amministrativi stanno protestando contro il fatto che Israele li ha imprigionati per un periodo indefinito senza un’accusa, prove o testimoni, negando loro il diritto alla difesa. I quattro, che sono rinchiusi in una clinica della prigione di Ramle, sono Alla al-A’araj, in sciopero della fame da 63 giorni, Hisham Abu Hawash (in sciopero da 54 giorni), Raik Bisharat (49 giorni) e Shadi Abu Aker (46 giorni).

I sei scioperanti della fame sono tra i circa 520 palestinesi detenuti in detenzione amministrativa nelle prigioni israeliane per ordine del servizio di sicurezza Shin Bet, lontano dagli occhi del pubblico israeliano.

Le famiglie dei detenuti, alle quali sono state vietate le visite come parte della punizione del servizio carcerario israeliano nei confronti degli scioperanti della fame, sono state informate dagli avvocati che la salute dei loro figli sta peggiorando. Ma le famiglie stanno criticando non solo Israele ma anche l’Autorità Palestinese, che dicono non ha mostrato alcun serio interesse per la sorte dei detenuti. Né l’AP ha cercato di far interessare l’opinione pubblica israeliana o la comunità internazionale allo sciopero, o alla pratica illegale di Israele di detenere i palestinesi senza processo, dicono le famiglie. Due settimane fa, la madre di Fasfous, Fawzia Fasfous, ha cercato di superare l’impotenza che le famiglie stanno provando viaggiando dalla sua casa di Dura, nel sud della Cisgiordania, a Ramallah. Lì si è fermata in piazza Emile Habibi, davanti all’ufficio del primo ministro palestinese, con una fotografia di suo figlio. Uno dei suoi nipoti l’ha accompagnata. Una protesta presso un simbolo dell’autogoverno palestinese è un evento raro. Una delle guardie di sicurezza le ha offerto una sedia. Due poliziotti si sono aggirati imbarazzati e alla fine hanno chiesto a Fawzia di entrare nel piccolo edificio delle guardie. Lei ha rifiutato. Gli ufficiali hanno detto ad Haaretz che era vietato fotografare la protesta, ma non hanno saputo spiegare perché. In ogni caso, nessun giornalista palestinese stava coprendo la tranquilla dimostrazione di una madre la cui vita del figlio è sempre più a rischio. ‘Siamo con voi – ci identifichiamo con voi”, ha detto uno degli ufficiali. Un funzionario dell’ufficio del primo ministro alla fine ha convinto Fawzia a entrare nell’edificio delle guardie, dove le ha detto con voce compassionevole: ‘Non siamo noi l’indirizzo. Se, Dio non voglia, suo figlio fosse stato arrestato da una delle agenzie di sicurezza palestinesi, potremmo intervenire. Ma è detenuto dalle autorità di occupazione…

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La carica dei rabbini Usa contro i coloni di Eretz Israel – Umberto De Giovannangeli

 

La loro voce è di quelle che contano. Negli Stati Uniti e non solo. Talmente forte, quella voce, di arrivare fino a Tel Aviv e nei palazzi del potere israeliani. In risposta all’assalto con lancio di pietre contro un villaggio palestinese nelle colline di Hebron Sud all’inizio di questa settimana, che ha lasciato più di una dozzina di palestinesi gravemente feriti, tra cui un bambino di tre anni, T’ruah, un’organizzazione rabbinica per i diritti umani che rappresenta oltre 2.300 rabbini e cantori e le loro comunità in Nord America, ha espresso sdegno e ha chiesto al governo israeliano di avviare immediatamente un’indagine completa per rendere giustizia alle persone attaccate.

Rabbini contro

Il rabbino Jill Jacobs, Ceo di T’ruah, ha rilasciato la seguente dichiarazione:

“Siamo inorriditi da questo disgustoso attacco a Khirbet al-Mufkara da parte di coloni estremisti, che hanno distrutto case e ferito più palestinesi, tra cui un bambino che è stato ricoverato in ospedale con una ferita alla testa. Questo incidente non è un attacco isolato. Dall’inizio dell’anno al 20 settembre, le Nazioni Unite hanno documentato 333 attacchi di coloni contro palestinesi della Cisgiordania, 93 dei quali hanno provocato feriti. Come abbiamo visto nei video degli attacchi di questa settimana, l’esercito sta regolarmente a guardare e si astiene dall’arrestare o fermare gli israeliani che compiono tali violenze, mentre i palestinesi e i difensori dei diritti umani israeliani sono spesso arrestati su ordine dei coloni.

 

“Ho osservato personalmente i coloni di questi avamposti minacciare gli attivisti israeliani per i diritti umani e i loro ospiti. Quando si tratta di palestinesi, questi estremisti non esercitano alcun ritegno ma si sentono autorizzati a compiere attacchi violenti contro adulti e bambini.

“È particolarmente offensivo che questo attacco abbia avuto luogo durante Shemini Atzeret/Simchat Torah (secondo il calendario delle festività israeliane), la celebrazione annuale della Torah, che la nostra tradizione vede come una forza che dà vita e un simbolo di amorevolezza, purezza e grazia. Nonostante le loro affermazioni di essere spinti da impegni religiosi, questi coloni hanno profanato uno dei giorni più sacri dell’anno ebraico per compiere violenze contro i palestinesi. Gli aggressori che hanno compiuto un pogrom in questo giorno hanno violato la Torah e portato vergogna a Israele e al popolo ebraico.

“Accogliamo con favore quanto affermato dal ministro degli Esteri Yair Lapid che etichetta questo incidente come un attacco terroristico. Ma Lapid deve anche agire, sia contro questi autori che contro altri che compiono violenze quasi quotidianamente contro i palestinesi e le loro proprietà. Israele deve lanciare immediatamente un’indagine completa per identificare e arrestare tutte le dozzine di colpevoli coinvolti e assicurarsi che siano assicurati alla giustizia, cambiare la politica dell’esercito in modo che i soldati non stiano più in disparte a guardare questi attacchi, e smantellare avamposti come Havat Maon, dove vivono alcuni degli aggressori, e che sono illegali anche secondo la legge israeliana. La continua mancanza di ripercussioni per gli estremisti israeliani coinvolti in attacchi violenti, insieme al rifiuto di smantellare gli avamposti illegali anche mentre si demoliscono regolarmente le case palestinesi costruite senza permesso, testimonia la politica pro-insediamento e anti-pace del governo israeliano, che premia la violenza, mentre viola anche i diritti umani e minaccia la sicurezza dei palestinesi.

 

“I rabbini e i cantori di T’ruah continueranno ad essere voci morali impegnate nella difesa dei diritti umani sia per gli israeliani che per i palestinesi. Continuiamo a stare dalla parte delle comunità palestinesi minacciate dalla violenza dei coloni, dagli ordini di sfratto e dalle demolizioni delle case, e stiamo anche dalla parte dei nostri partner israeliani – le organizzazioni dei diritti umani e della società civile che lavorano per garantire i diritti umani sia dei palestinesi che degli israeliani.”

Così il rabbino Jacobs.

 

Lo “Stato” dei coloni

Settecentocinquantamila abitanti. Centocinquanta insediamenti. Centodiciannove avamposti. Il 42 per cento della West Bank controllato. L’86 per cento di Gerusalemme Est “colonizzata”. Uno Stato nello Stato. Dominato da una destra militante, fortemente aggressiva, ideologicamente motivata dalla convinzione di essere espressione dei nuovi eroi di Eretz Israel, i pionieri della Grande Israele. Quella che si svela è una verità spiazzante: oggi in Terrasanta, due “Stati” esistono già: c’è lo Stato ufficiale, quello d’Israele, e lo “Stato di fatto”, consolidatosi in questi ultimi cinquant’anni: lo “Stato” dei coloni in Giudea e Samaria (i nomi biblici della West Bank).

A dar conto della dimensione di questo “Stato” sono i dati di un recente rapporto di B’tselem (l’ong pacifista israeliana che monitorizza la situazione nei Territori). Lo Stato “di fatto” ha le sue leggi, non scritte, ma che scandiscono la quotidianità di oltre 750mila coloni.

Lo “Stato di Giudea e Samaria” è armato e si difende e spesso si fa giustizia da sé contro i “terroristi palestinesi” che, in questa visione manichea, coincidono con l’intera popolazione della Cisgiordania. Molti attacchi contro i palestinesi sono stati registrati nelle aree di Ramallah e Nablus (Cisgiordania occupata). In particolare, nella zona vicina agli avamposti della Valle Shiloh e in quella in prossimità degli insediamenti israeliani di Yitzhar (Nablus) e Amona (Ramallah), quest’ultimo da poco evacuato dal governo israeliano. Nel villaggio di Yasuf (governatorato di Salfit), i residenti palestinesi si sono svegliati con i pneumatici di 24 auto bucati e alcune scritte razziste in ebraico (“Morte agli arabi” tra le più diffuse) lasciate sulle loro abitazioni. Sono i cosiddetti “price-tag” (tag mechir in ebraico) ovvero gli atti di ritorsione (il “prezzo da pagare”) compiuti dagli attivisti di destra e coloni israeliani contro i palestinesi in risposta ad un attacco da parte di quest’ultimi.

Citando ufficiali della difesa, Haaretz scrive che gli attivisti di destra più estremisti sono “i giovani delle colline”, molti dei quali vivono negli avamposti illegali della Cisgiordania e il cui numero è stimato intorno alle trecento unità. Un dato interessante è che la maggior parte dei responsabili delle violenze è giovanissima (tra i quindici e i sedici anni). Nel 1997, a un anno dal primo mandato di Benjamin Netanyahu come primo ministro, c’erano circa 150.000 coloni in Cisgiordania. Due decenni dopo il numero dei coloni è vicino ai 600.000, esclusi i quartieri di Gerusalemme est oltre la Linea Verde. Questi dati non includono i coloni che vivevano negli avamposti illegali (complessivamente si superano i 750.000)…

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L’unica speranza per la lotta palestinese è liberarla dalla sua narrativa machista – Rajaa Natura

 

Spetta alle donne palestinesi combattere l’enfasi esagerata della loro società sui valori e sui simboli dell’eroismo maschile, che stanno condannando la battaglia contro l’occupazione israeliana a un tragico vicolo cieco.

 

La stampa arabo-palestinese ha sfoderato ogni possibile superlativo per descrivere Zubeidi: combattente per la libertà, drago di Palestina, pantera nera, leggenda, eroe della Seconda Intifada. Zubeidi, in quanto uomo palestinese, ha superato la prova nazionale a cui è stato sottoposto: l’eloquio dominante palestinese ha lodato lui in particolare e la mascolinità palestinese in generale come eroica.

Il problema è che la sua mascolinità, come quella di molti uomini palestinesi, è direttamente proporzionale alla violenza della mascolinità dell’occupante israeliano. Le percosse, gli arresti, le torture e le incarcerazioni subite sono riti di passaggio per l’eroica mascolinità nazionale palestinese. Questo è ciò che la società palestinese si aspetta da un uomo che sta vivendo una trasformazione da ragazzo normale a eroe. La mascolinità ordinaria e mortale significa sconfitta, che è qualcosa che il centro interno palestinese rifiuta di comprendere.

La richiesta è di un contrappeso che sia “uguale” alla mascolinità israeliana occupante. Ogni giorno, l’occupazione crea una forma di mascolinità palestinese simile a un manifesto o a una sconfitta; restringe lo spazio in cui opera, canalizza e detta le sue risposte sociali e politiche.

È pretenzioso e fuorviante affermare che la mascolinità palestinese, che è regolarmente alimentata e gonfiata dalla passionalità palestinese, è equivalente in potenza fisica e simbolica alla mascolinità israeliana occupante solo perché è in grado di reagire ad essa. Questa reattività in realtà non altera effettivamente l’equilibrio del potere e quindi il suo rifugio finale è la replica ripetitiva del modello eroico, nel tentativo di dare vita alla narrativa palestinese che lentamente sbiadisce.

La fuga di Zubeidi è una risposta combattiva tra una serie di possibili reazioni all’oppressione politico-maschile israeliana. Non è l’ultima e unica risposta, quindi non può essere descritta come una completa vittoria nazionale palestinese sull’occupazione, come è stato il tema dominante nel dibattito della comunità.

In generale, la fuga di Zubeidi e l’eroismo maschile palestinese non dovrebbero diventare l’unico significante di ciò che significa essere palestinesi, o della causa palestinese. Non ha sconfitto l’occupazione né la sconfiggerà presto. La sua fuga non ha “minato la sicurezza di Israele e degli israeliani”.

Questo è un discorso vuoto, storicamente errato e distruttivo che lascia intendere in modo nostalgico che solo l’eroismo maschile palestinese può trionfare. Di fatto, nessun eroismo maschile palestinese ha posto fine all’occupazione, alterato il dibattito politico sull’occupazione o offerto prove o strumenti alternativi alle generazioni più giovani, a parte la glorificazione del sacrificio e del martirio…

 

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

 

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I prigionieri palestinesi in detenzione amministrativa israeliana continuano lunghi ed estenuanti scioperi della fame – Jessica Buxbaum

 

“Non esiste un sistema giudiziario per giudicarli in modo equo. Non c’è nessuno all’interno del carcere che possa appoggiare le loro richieste. Quindi l’unico strumento che i prigionieri palestinesi possono usare per protestare e combattere per i loro diritti sono i loro corpi”. — La portavoce di Addameer Milena Ansari

Il prigioniero palestinese Miqdad al-Qawasmeh è entrato nel suo 86° giorno di sciopero della fame. È sopraffatto dalla debolezza e non può muoversi dal letto d’ospedale, nemmeno per fare la doccia o usare il bagno. Soffre di dolori articolari, renali, muscolari e addominali, alla testa, alle ossa. Ha difficoltà a parlare e ha perso più di 34 chili. Nonostante la sua salute deteriorata, al-Qawasmeh non vuole porre fine allo sciopero della fame, poiché lui e altri sei prigionieri rifiutano il cibo per protestare contro la loro detenzione amministrativa in corso.

Kayed Fasfous è in sciopero della fame da 92 giorni; Alaa Al Araj ha trascorso 68 giorni senza cibo; Hisham Abu Hawash ha iniziato il suo sciopero della fame 61 giorni fa; Rayeq Bsharat non mangia da 56 giorni; Shadi Abu Akar è ora al suo 52° giorno senza cibo; e Hassan Shouka è in sciopero della fame da 27 giorni. Inoltre, almeno 250 prigionieri associati all’organizzazione della Jihad Islamica hanno iniziato uno sciopero della fame il 13 ottobre in segno di protesta per il loro trasferimento in celle isolate.

La Corte Suprema israeliana ha congelato le detenzioni sia di al-Qawasmeh che di Fasfous a causa del peggioramento delle loro condizioni di salute. Al-Qawasmeh è stato arrestato il 2 gennaio e Fasfous nel luglio 2020. Tuttavia, i parenti dei prigionieri e le organizzazioni governative palestinesi affermano che la decisione israeliana non deriva da un senso di moralità, ma piuttosto da preoccupazioni di responsabilità. La Commissione per gli Affari dei Detenuti e Degli Ex Detenuti ha dichiarato in una nota:

“La decisione di congelare non significa annullare, ma in realtà, è la rinuncia dell’Amministrazione delle Carceri di Occupazione e del servizio di sicurezza Shin Bet alla responsabilità per il destino e la vita del prigioniero Fasfous, trasformandolo in un “prigioniero” non ufficiale durante la sua permanenza in ospedale. Rimane sotto la supervisione degli agenti della “sicurezza” dell’ospedale invece che delle guardie della prigione. I familiari e i parenti possono fargli visita come tutti i pazienti secondo le regole dell’ospedale, ma non possono trasferirlo da nessuna parte”.

La Commissione ha aggiunto che la salute di Fasfous peggiora ogni giorno. Il 32enne soffre di vertigini persistenti, ha grave affaticamento e dolore al petto, e la sua pressione sanguigna e i livelli di zucchero nel sangue sono bassi. Fasfous si rifiuta anche di assumere integratori o di sottoporsi a esami medici, affermando di non aver sofferto di problemi di salute o malattie prima del suo arresto.

Fasfous e al-Qawasmeh sono stati trasferiti dalle cliniche della prigione agli ospedali israeliani. La madre di al-Qawasmeh, Umm Hazem, ha detto che la famiglia ha ricevuto un permesso per entrare in Israele (Palestina occupata nel 1948). “Il Servizio Carcerario Israeliano vuole sollevarsi da ogni responsabilità per la sua vita nel caso succeda qualcosa”, ha detto Hazem. “Non è una questione di diritti umani”.

Aumento delle detenzioni amministrative

La politica di detenzione amministrativa di Israele consente di imprigionare a tempo indeterminato persone sulla base di informazioni segrete senza accusarli o consentire loro di essere processati per un periodo di sei mesi, con possibilità di rinnovo. Né il detenuto né il suo avvocato possono accedere alle prove secretate. Anche se israeliani e stranieri possono essere soggetti a detenzione amministrativa, la pratica è usata principalmente contro i palestinesi.

A settembre, l’organizzazione palestinese per i diritti dei prigionieri Addameer ha inviato un appello urgente alle Nazioni Unite affinché intervenga e faccia pressione su Israele per porre fine alla detenzione amministrativa. La lettera di Addameer ha sottolineato il fatto che recentemente le detenzioni amministrative sono aumentate. Milena Ansari, avvocato difensore internazionale di Adameer, ha dichiarato:

L’uso della detenzione amministrativa da parte dell’occupazione israeliana è drasticamente aumentato, specialmente quest’anno, dove la detenzione arbitraria è stata una caratteristica chiave per mantenere il controllo sui palestinesi, specialmente per quanto riguarda ciò che stava accadendo a Gerusalemme, allo Sheikh Jarrah e in Cisgiordania, e soprattutto  con la fuga dei sei prigionieri dalla prigione di Gilboa.”

Nel 2020, Israele ha emesso almeno 1.114 ordini di detenzione amministrativa contro palestinesi, mentre da gennaio a giugno 2021 ne sono stati emessi non meno di 759. Attualmente, 520 palestinesi sono detenuti in detenzione amministrativa. Ansari sospetta che il numero di fermi amministrativi subirà un ulteriore aumento prima della fine dell’anno.

Ciò che è diventato particolarmente preoccupante è il drammatico aumento dei bambini palestinesi detenuti in detenzione amministrativa. In seguito ad un accesso agli atti pubblici, l’organizzazione israeliana per i diritti umani HaMoked ha scoperto che tre minori sono stati detenuti in detenzione amministrativa nel gennaio di quest’anno. A giugno, quel numero era salito a otto.

Amal Nakhleh, 17 anni, è stato arrestato e posto in detenzione amministrativa il 21 gennaio 2020. Gli è stata diagnosticata la miastenia grave, una condizione medica rara che richiede cure mediche e monitoraggio costanti. “Anche un minore che soffre di problemi di salute è sottoposto a detenzione amministrativa”, ha detto Ansari, aggiungendo che la sua detenzione è stata rinnovata tre volte. “Quindi si può vedere l’uso arbitrario di questo contro i minori quando secondo il diritto internazionale la detenzione dei minorenni dovrebbe essere l’ultima risorsa e per il minor tempo possibile. Ma questo è in totale contrasto con l’uso da parte di Israele della detenzione amministrativa”…

 

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

 

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Come Israele usa il “pinkwashing” con il mese di sensibilizzazione sul cancro al seno per nascondere la sua crudeltà – Mimi Kirk

 

Nessuna luce rosa proiettata sul quartier generale dell’IDF a Tel Aviv per celebrare il mese della sensibilizzazione sul cancro al seno, può oscurare la crudeltà di Israele nei confronti delle donne palestinesi.

 

I sostenitori dei diritti dei palestinesi, come il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni, hanno stigmatizzato la strategia del governo israeliano del “pinkwashing”, una pratica propagandistica che  mostra solidarietà con i diritti LGBTQ+ mentre oscura l’occupazione israeliana, l’apartheid e le politiche coloniali che opprimono i  palestinesi.

Eppure c’è un altro tipo di pinkwashing israeliano, ed è stato messo in mostra questo mese, dedicato alla sensibilizzazione sul cancro al seno.

Il 1° ottobre, l’account Twitter delle forze di difesa israeliane ha pubblicato una foto della Torre Marganit, presso il quartier generale dell’IDF a Tel Aviv, inondata di luce rosa. “Per coloro che stanno combattendo, per coloro che sono morte e per coloro che sono sopravvissute, il quartier generale dell’IDF è illuminato di rosa per questo #BreastCancerAwarenessMonth”, recitava il tweet.

“Il recente gesto di solidarietà contro il cancro al seno dell’IDF è particolarmente ipocrita, data la discrepanza nel trattamento del cancro al seno tra donne palestinesi e israeliane”

Le attiviste contro il cancro al seno negli Stati Uniti  hanno criticato le società statunitensi per sfoggiare cinicamente nastri rosa e proclamare il loro sostegno alla consapevolezza e alla ricerca sul cancro al seno – in particolare durante il mese di ottobre – solo per rafforzare le loro vendite o la loro immagine, chiamando anch’esse tale pratica “pinkwashing”. Come ha osservato un autore di Everyday Health, “Tutte le persone  considerano questo atteggiamento come un vantaggio dell’attuale clima politico, capitalizzare su una causa, senza dover effettivamente impegnarsi.”.

Un post di Slate del 2016 aveva rimproverato la Marina degli Stati Uniti e l’aeronautica israeliana per aver dipinto i loro aerei da combattimento di rosa per il mese della prevenzione del cancro al seno. Nel caso degli Stati Uniti, la vernice al lattice rosa era stata apparentemente mescolata con detersivo per piatti per facilitarne la facile rimozione una volta che il 1novembre fosse arrivato. L’autrice Christina Cauterucci aveva ironicamente detto: “Come il cancro al seno, i jet da combattimento uccidono le donne… [portano] morte rosa e distruzione rosa e vittime civili rosa e crisi di rifugiati rosa e distruzione rosa del patrimonio culturale ovunque conducano i loro nobili piloti consapevoli del cancro”.

Allo stesso modo, il recente gesto di solidarietà contro il cancro al seno dell’IDF sembra particolarmente ipocrita, data la discrepanza nel trattamento del cancro al seno tra donne palestinesi e israeliane, resa ancora più grave dalla pandemia di Covid-19.

I tassi di sopravvivenza a cinque anni per le donne con cancro al seno in Israele rispetto a quelle con cancro al seno nei Territori palestinesi occupati (OPT) illustrano questa discrepanza: in Israele, questa cifra è superiore all’88%, contro il 65% nella Striscia di Gaza.

“Questo è in parte il risultato delle restrizioni al movimento dei palestinesi e delle sfide esistenti che devono affrontare nel sistema sanitario, che indeboliscono e limitano lo screening del cancro al seno, le capacità diagnostiche e terapeutiche nei TPO”, dice Fikr Shalltoot, Direttore per il Gaza organizzazione Medical Aid for Palestines.

Shalltoot sottolinea come il Ministero della Salute di Gaza ha solo una macchina per mammografia dedicata allo screening del cancro al seno, ed è attualmente rotta. Anche con una diagnosi, i malati di cancro hanno spesso bisogno di viaggiare da Gaza alla Cisgiordania, a Gerusalemme Est e agli ospedali israeliani per accedere a trattamenti di base come radiazioni, chemioterapia, scansioni PET e chirurgia. Questi test e trattamenti non sono disponibili a Gaza in gran parte a causa del blocco che Israele impone alla Striscia, che include restrizioni all’importazione di articoli “a duplice uso”, o quelli che il governo israeliano sostiene abbiano un uso sia civile che militare e sono quindi proibito.

I malati di cancro negli OPT devono richiedere i permessi di viaggio per le cure e le autorità israeliane possono rifiutare o ritardare l’elaborazione dei permessi per mesi. Nell’agosto 2021, il tasso di approvazione del permesso per i pazienti di Gaza (cancro e non) era del 64%. Sebbene il tasso di approvazione per le domande dalla Cisgiordania sia più elevato, l’autorizzazione non è ancora garantita. Nello stesso mese, il tasso di approvazione per i pazienti della Cisgiordania è stato dell’87%.

“Sono come un uccello in gabbia”, ha detto ad Al Jazeera nel 2017 Hind Shaheen, una malata di cancro al seno a cui era stata negata l’uscita da Gaza per le cure, dal suo letto d’ospedale. “Fuori dalla mia gabbia vedo acqua e cibo, ma non riesco a raggiungerlo.”…

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestian.org

 

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La Spada e il Libro: Come il sionismo usa violenza alla tradizione ebraica – Miko Peled

 

Nel suo ampio trattato sul tema del giudaismo contro il sionismo, il Rabbino Yaakov Shapiro scrive: “Lo stile di vita ebraico è incompatibile con la Spada (il terrorismo sacro di Israele)”. La violenza e la guerra sono disapprovate nell’ebraismo, che è una delle ragioni per cui gli ebrei tradizionali e ortodossi prendono ampiamente le distanze dal sionismo, se non lo rifiutano completamente. Spiega anche perché i giovani uomini e donne ultra ortodossi si rifiutano di servire nell’esercito israeliano, e di fatto preferiscono andare in prigione.

La violenza e la brutalità con cui lo Stato di Israele si è comportato sin dalla sua costituzione dimostra che è uno Stato che ha un’insaziabile brama di guerra. Poiché la falsa affermazione di Israele di essere lo Stato del popolo ebraico è stata ampiamente accettata, si può erroneamente presumere che la violenza e il razzismo che sono così parte integrante di Israele siano in qualche modo un riflesso del popolo ebraico e della religione ebraica. Questo, tuttavia, non potrebbe essere più lontano dalla realtà.

Il Rabbino Shapiro scrive: “Non abbiamo mai glorificato la guerra o i guerrieri come hanno fatto le altre nazioni. Le uniche persone da noi glorificate sono i nostri studiosi della Torah”. E anche se gli ebrei hanno siti che considerano santi, “gli ebrei non hanno mai commemorato come simbolo nazionale il luogo di una battaglia storica”, né gli ebrei commemorano battaglie o vittorie come festività o ricorrenze.

Hanukkah

Una festa ebraica che è fraintesa e completamente travisata dai sionisti è Hanukkah. I sionisti affermano che è una celebrazione di una vittoria militare degli ebrei contro i loro oppressori greci. Tuttavia, dice il Rabbino Shapiro, questa è un’interpretazione laico-sionista di una festa religiosa.

La festa di Hanukkah è la celebrazione di un miracolo in cui l’olio per la lampada per illuminare il tempio di Gerusalemme è durato più a lungo di quanto altrimenti sarebbe stato naturalmente. In effetti, il Rabbino Shapiro ci dice che anche Maimonide, che è probabilmente il più grande studioso ebreo che sia mai vissuto, commentò questo problema e affermò che celebrare Hanukkah come una vittoria militare sarebbe contrario alla Torah “perché la Torah celebra la pace sopra ogni altra cosa”.

Per dimostrare come Hannukah sia stato travisato, il Rabbino Shapiro cita figure sioniste come il poeta Chaim Nachman Bialik, l’autore Leon Uris e persino lo stesso Theodor Hertzl. Hanno creato e perpetuato il mito che i Macabei combattessero per i diritti nazionali e l’autodeterminazione. Questa, secondo il Rabbino Shapiro, “è un’interpretazione violenta e sionista”. “La guerra nella storia di Hanukkah non è nemmeno menzionata nel Talmud”, ha sottolineato il Rabbino Shapiro quando gli ho chiesto di questo.

Il Rabbino Shapiro cita il Rabbino Shimon Shwab (1908-1995), un rabbino antisionista tedesco che servì come rabbino capo degli ebrei di Washington Heights (un quartiere nella parte settentrionale del distretto di Manhattan a New York). Riguardo ad Hanukkah, ha detto: “I Maccabei non hanno combattuto per gli ebrei, hanno combattuto per la Torah; darebbero la vita per rimanere ebrei. Per dimostrare che preferiscono morire piuttosto che non poter adorare”. Il Rabbino Shwab disse inoltre: “Beis ha mikdash (il Tempio) non vale una vita. Non siamo andati in guerra per questo, ma perché hanno cercato di renderci non ebrei”.

La Spada e il Libro

Il concetto del Libro contro la Spada è centrale per il giudaismo. L’ebraismo è una religione che esige dai suoi seguaci che osservino il Libro e non la Spada. Questo risale al Libro della Genesi, dove il Patriarca Yitzhak ha due figli, i gemelli Ya’akov ed Esav. Ciascuno dei suoi figli rappresenta una di queste due qualità. Ya’akov, che eredita dal padre e diventa il terzo patriarca, rappresenta lo studioso fedele alla Torah. Il secondo figlio, Esav, rappresenta il guerriero. La Torah parla della “voce di Ya’akov e delle mani di Esav”. Più tardi nella storia ebraica questi termini furono conosciuti come Safra, in aramaico per la parola “Libro”, e Saifa, in aramaico per la parola “Spada”. I due sono incompatibili e saranno per sempre in contrasto tra loro.

Per illustrare ulteriormente questo caso, il Rabbino Shapiro porta una storia dalla Gemara, uno dei numerosi elementi che compongono il Talmud, che è la raccolta di opere che costituisce la vita, la legge e l’apprendimento ebraici. In questa storia, Eleazar Ben Perata era un rabbino che visse in Palestina durante il secondo secolo d.C., quando il paese era governato dai romani. I romani, che secondo la storia resero illegale lo studio della Torah, lo accusarono di attacco armato e di studio della Torah. Quando è stato portato davanti al giudice ha affermato: “Posso essere colpevole di Safra (studiare il Libro o la Torah) o Saifa (tenere la Spada) ma non di entrambi”…

 

Miko Peled è uno scrittore e attivista per i diritti umani, nato a Gerusalemme. E’ autore di “The General’s Son. Journey of an Israeli in Palestine” e “Injustice, the Story of the Holy Land Foundation Five”.

 

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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I cinque della Holy Land Foundation: Come la geopolitica statunitense-israeliana ha barbaramente distorto il processo giudiziario statunitense – Miko Peled

 

Mentre Bush si affrettava a designare la Holy Land Foundation (Fondazione Terra Santa) come organizzazione terroristica e dichiarava che chiuderla era in qualche modo un grande risultato nella lotta al terrorismo, in realtà non aveva prove.

 

Sembrano esserci pochi limiti al pregiudizio e alla barbarie quando si tratta del sistema giudiziario degli Stati Uniti al servizio delle agende politiche e geopolitiche. Le comunità di colore negli Stati Uniti hanno sperimentato questa crudeltà per secoli, ma per quelli di noi che vivono al di fuori di quel mondo, che vivono nella sfera dei privilegiati, scontrarsi con questa crudeltà è scioccante.

Nel mio libro “Injustice, The Story of the Holy Land Foundation Five” (Ingiustizia, La Storia Dei Cinque Della Fondazione Terra Santa), pubblicato nel 2018, racconto la storia di cinque uomini innocenti che sono stati ingiustamente accusati, processati e condannati per finanziamento a un’organizzazione terroristica. Se erano colpevoli di qualcosa, era preoccuparsi più dei loro simili che di se stessi. I cinque uomini hanno attraversato due processi e alla fine sono stati condannati a pene detentive dai 15 ai 65 anni da scontare in una prigione federale. Gli uomini sono Shukri Abu Baker, condannato a 65 anni; Ghassan Elashi, condannato a 65 anni; Mufid Abdulqader, condannato a 20 anni; Abdulrahman Odeh, condannato a 15 anni; e Mohammad Elmezain, condannato a 15 anni.

Sono quasi passati quindici anni e due dei cinque uomini sono in attesa di rilascio. Abdulrahman Odeh è finalmente a casa a Dallas, pur vivendo con le restrizioni di un criminale rilasciato. Mohammad Elmezain avrebbe dovuto essere rilasciato ma, poiché non è un cittadino naturalizzato degli Stati Uniti, piuttosto che lasciarlo andare dalla sua famiglia, le autorità lo hanno “rilasciato” (consegnato) all’Ufficio Immigrazione e Dogana degli Stati Uniti, noto anche come ICE.

La Holy Land Foundation

Un tempo la più grande organizzazione di soccorso musulmana negli Stati Uniti, la Holy Land Foundation (HLF)  venne chiusa dopo gli attacchi dell’11 settembre dal presidente George W. Bush tramite un ordine esecutivo. Dopo gli attacchi dell’11 settembre, il governo degli Stati Uniti voleva dimostrare che stava agendo in modo rapido ed efficace contro il terrorismo, quindi il Dipartimento del Tesoro  fu  incaricato di individuare e chiudere le operazioni che finanziavano il terrorismo negli Stati Uniti.

Nel suo libro “The Price of Loyalty: George W. Bush, the White House, and the Education of Paul O’Neill” (Il Prezzo Della Lealtà: George W. Bush, la Casa Bianca e l’Educazione di Paul O’Neill), pubblicato nel 2004, l’autore vincitore del Premio Pulitzer Ron Suskind descrive l’atmosfera post 11 settembre a Washington come una “persecuzione dei soliti sospetti”. La Holy Land Foundation, essendo un ente di beneficenza musulmano incentrato sulla Palestina, era un obiettivo primario.

Inoltre, dall’inizio degli anni ’90 l’Anti-Defamation League (Lega Anti-Diffamazione – ADL), che è un’organizzazione anti-palestinese e sionista, si è impegnata in una campagna diffamatoria contro la Holy Land Foundation. Insieme a politici sionisti americani come Chuck Schumer, Anthony Wiener e altri, l’ADL sosteneva che HLF stesse finanziando il terrorismo.

La campagna diffamatoria contro HLF stava funzionando anche prima degli attacchi dell’11 settembre 2001. Come gli imputati appresero  durante il processo, l’FBI aveva intercettato alcuni dei loro telefoni dagli anni ’90. Inoltre, la campagna stava danneggiando i rapporti che HLF aveva con altre organizzazioni; e in alcuni casi importanti alleanze erano state interrotte a causa delle false accuse.

Il 4 dicembre 2001 il Presidente degli Stati Uniti dichiarò di aver chiuso “un’importante rete di finanziamento del terrorismo” e la Holy Land Foundation fu designata come organizzazione terroristica dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti. Il processo di designazione in tal modo di un’organizzazione o di un individuo richiede un processo limitato, molto meno di quanto richiesto in un tribunale…

 

Traduzione di Beniamino Rocchetto  -Invictapalestina.org

 

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I lavoratori di Amazon e di Google contro i nuovi contratti con Israele: “Tradiscono i valori dell’azienda e i lavoratori come noi” – Gabriel Schubiner

 

All’inizio della nostra carriera, eravamo entusiasti di contribuire a una tecnologia che avrebbe potuto creare nuovi modi di interagire gli uni con gli altri, con i nostri dispositivi e diffondere informazioni in tutto il mondo. Oggi lavoriamo in due delle più grandi società tecnologiche, Google e Amazon. Ci siamo uniti a queste aziende perché abbiamo visto l’enorme impatto che hanno sulla vita delle persone a livello globale e perché credevamo che lo sviluppo di una tecnologia su tale scala potesse promuovere il bene e unire le persone.

 

Chiediamo ad Amazon e Google di porre fine ai loro nuovi contratti con il governo e l’esercito israeliani.

Non siamo ingenui riguardo al danno che la tecnologia può generare. Come lavoratori, siamo responsabili dei prodotti che creiamo. Poiché crediamo che ogni persona meriti di vivere con libertà e dignità, chiediamo ad Amazon e Google di porre fine ai loro nuovi contratti con il governo e le forze armate israeliane, che opprimono violentemente milioni di palestinesi.

Ci siamo uniti per la prima volta come lavoratori martedì, attraverso i canali aziendali, per inviare una lettera congiunta chiedendo a Google e Amazon di rispettare i diritti umani dei palestinesi e annullare il Progetto Nimbus, il progetto da 1,2 miliardi di dollari che fornirà servizi cloud al governo israeliano, compresi i militari. I servizi comprendono risorse di archiviazione e computazione, nonché funzionalità che consentono agli utenti di addestrare facilmente una potente intelligenza artificiale.

In base a questi contratti, i nostri servizi cloud aiuteranno a facilitare il controllo e la persecuzione dei palestinesi da parte dell’esercito israeliano, la demolizione di case palestinesi nei territori palestinesi occupati e gli attacchi a Gaza che in passato hanno colpito obiettivi civili come gli ospedali. Oltre alle forze armate, Project Nimbus fornirà anche i nostri servizi cloud all’Israel Land Authority, un’agenzia che consente la continua espansione di Israele degli insediamenti illegali in violazione del diritto internazionale e della politica degli Stati Uniti.

Questa storica campagna segue gli sforzi separati dei nostri colleghi dipendenti che hanno esortato i nostri rispettivi datori di lavoro a sostenere i diritti dei palestinesi e a porre fine ai loro legami con l’esercito israeliano durante l’ondata di violenza dello scorso maggio, che ha ucciso almeno 230 palestinesi nella Gaza assediata, tra cui 65 bambini. Secondo i nostri dati, quasi 1.000 firmatari anonimi di Amazon e più di 600 di Google hanno aderito a questa chiamata.

Il Progetto Nimbus

Non è la prima volta che Amazon e Google collaborano con istituzioni violente e dannose. In risposta a un contratto con l’Immigration and Customs Enforcement degli Stati Uniti, che sorveglia e ingabbia sistematicamente i migranti privi di documenti, i lavoratori di Amazon hanno lanciato “We Won’t Build It”, che ha invitato Amazon a porre fine ai suoi investimenti nella tecnologia di riconoscimento facciale che consente abusi verso persone emarginate. Quando Google ha firmato Project Maven, un contratto per migliorare la tecnologia dei droni per l’esercito degli Stati Uniti, i lavoratori di Google hanno fatto pressione sulla società per rescindere il contratto e istituire una politica che si impegnasse a un uso etico dell’intelligenza artificiale…

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org

 

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Il significato dell’Apartheid per Israele – Jonathan Ofir

 

È autunno. Le foglie cadono e i frutti maturano. Ciò che è cresciuto dall’inizio dell’anno si stacca e cade a terra.

All’inizio di quest’anno, sono apparsi due importanti rapporti sull’apartheid israeliano di importanti organizzazioni per i diritti umani: l’israeliana B’Tselem e l’Internazionale Human Rights Watch (HRW). B’Tselem a gennaio, con il titolo “Un Regime di Supremazia Ebraica dal Fiume Giordano al Mar Mediterraneo: Questo è l’Apartheid”; Quello di HRW ad aprile, intitolato “Varcata Una Soglia: Le Autorità Israeliane e i Crimini di Apartheid e Persecuzione”.

I media israeliani sono stati piuttosto silenziosi su questo, e non c’è da meravigliarsi: la negazione è stata lo strumento principale con cui il sionismo ha compiuto le sue atrocità colonialiste. Dapprima negando l’esistenza palestinese (Yisrael Zangvil del 1894 “una terra senza popolo per un popolo senza terra” e Golda Meir del 1969 “non c’erano cose come i palestinesi non esistevano”), poi negando il loro ritorno dopo averli epurati.

Questo è l’approccio sionista preferito: fingere che non esistano. Combattere qualcosa frontalmente di solito richiede più tempo ed energia che negarne l’esistenza e seppellirlo sotto la sabbia, come i 230 corpi del massacro di Tantura del 1948 sepolti in una fossa comune sotto il parcheggio del kibbutz Nachsholim’s Dor Beach. E se si è lo storico israeliano Benny Morris, si può sostenere una completa pulizia etnica di “tutta la Terra d’Israele, fino al fiume Giordano”, e poi fingere di non aver mai detto pulizia etnica.

Poiché questo aspetto della negazione è così grande e radicato nel sionismo, è importante non solo affrontarlo con la realtà, ma anche consentire alla verità di penetrare nello spazio e nel tempo. E se 73 anni non sono bastati, quest’anno lo ha scolpito in: Israele è uno Stato di apartheid.

Non ho intenzione di andare oltre gli innumerevoli dettagli che lo rendono così. Vorrei piuttosto contemplare il significato di questo per Israele, al di là della sua negazione e del suo disperato contrasto di prove e dati con propaganda e accuse di “antisemitismo”. Per i negazionisti sionisti, si tratta di farsi una semplice domanda: e se avessero ragione, e se Israele fosse uno Stato di apartheid?

Israele non ha alcuna via di scampo. È così profondamente radicato in questo apartheid, che un suo smantellamento sembra praticabile quanto lo smantellamento del sogno sionista della supremazia ebraica in una terra in gran parte epurata dai non ebrei. Sebbene B’Tselem e HRW non accettino il sionismo come ideologia (poiché si riferiscono agli sviluppi politici), il sionismo è implicitamente condannato, poiché le politiche sono venute da qualche parte, non sono semplicemente avvenute. E che da qualche parte c’è il sionismo. L’avidità sionista per la terra era così grande, che non poteva fare a meno di “completare il lavoro” nel 1967 e conquistare il resto della Palestina storica. Non è stato un incidente. Il desiderio sionista di “liberare l’intero paese”, come scrisse David Ben-Gurion a suo figlio Amos nel 1937, fu sempre molto forte. E poi, quando hanno conquistato il resto, hanno iniziato a fingere che fosse solo temporaneo.

E così è andato il “processo di pace”, dove Israele avrebbe presumibilmente parlato di una “soluzione a due Stati”, ma in realtà significava la segregazione razziale per i palestinesi.

Anche gli appelli israeliani più rumorosi al “divorzio” e alla “separazione” dai palestinesi si basano sulla stessa mentalità razzista dell’Apartheid, come se dimenticassero che apartheid significa “separazione”…

 

Traduzione di Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

 

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(*) testi e video ripresi da

www.assopacepalestina.org , https://pagineesteri.it/ , www.lavoroculturale.org, www.comune-info , www.internazionale.it, http://zeitun.info/, https://www.amiciziaitalo-palestinese.org/, http://frammentivocalimo.blogspot.com/, www.invictapalestina.org , https://palestinaculturaliberta.org/

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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