SCIOPERO GENERALE 28 NOVEMBRE – MANIFESTAZIONE IN SOLIDARIETA’ DEL POPOLO PALESTINESE 29 NOVEMBRE
Il nostro “weekend lungo” per contrastare l’attacco ai diritti sociali e la crescente militarizzazione della società
Come associazioni palestinesi, sindacati di base, movimenti sociali e realtà politiche torniamo a mobilitarci a Milano e Roma in concerto con una mobilitazione nazionale e internazionale
La solidarietà che ha riempito le piazze – in particolare negli ultimi due mesi – si è accompagnata dalla consapevolezza che il genocidio del popolo palestinese è parte di una lotta più ampia contro un sistema che alimenta guerre, povertà, precarietà e disuguaglianze. Il genocidio del popolo palestinese, l’economia di guerra, l’aumento delle spese militari, i tagli a sanità e scuola, il lavoro nero, i bassi salari, la disoccupazione e il caro affitti fanno parte della stessa strategia: quella con cui le classi al potere difendono i propri interessi a scapito dei diritti umani. Anche in Italia, mentre cresce la povertà e si tagliano i servizi pubblici, il governo continua a finanziare il riarmo e a collaborare militarmente con “Israele”, responsabile di violazioni sistematiche dei diritti umani. L’economia del genocidio ha le sue radici anche qui in Italia dove aziende private, multinazionali, università, fondi di investimento, banche, società di high-tech fanno parte del sistema di complicità che il genocidio in corso a Gaza ha reso più visibile.
Non un soldo deve essere dato alla guerra e le ultime oceaniche manifestazioni che hanno riempito le strade di tutto il paese ci indicano che la lotta non si può fermare ora.

Per tutti questi motivi le giornate e le manifestazioni del 28 e 29 novembre sono legate, come legate saranno le diverse piazze che si mobiliteranno. Lo sciopero generale, dove lavoratrici e lavoratori si mobiliteranno per bloccare la macchina produttiva e il sistema economico che, tramite l’erosione dei diritti sociali, tornano sempre di più ad investire nella guerra. La giornata internazionale di solidarietà al Popolo Palestinese, per cui Roma e Milano si faranno catalizzatrici della partecipazione anche internazionale, per contrastare la politica coloniale e genocida israeliana, la vergognosa complicità dei governi italiano e globali e per rispondere all’ipocrita narrazione della pace trumpiana.
Torniamo ad invadere le strade
A Milano:
-Concentramento 28 novembre ore 9.30 📌📌📌 PORTA VENEZIA 📌📌📌
-Concentramento 29 novembre ore 14 Piazza XXIV Maggio
A Roma:
-Concentramento 28 novembre alle ore 9,30 in Piazza Indipendenza.
Tra esercito e milizie irregolari, i molteplici attori del genocidio a Gaza
Ryan Tfaily, laureato presso Sciences Po Paris e EHESS (École des Hautes Études en Sciences Sociales), master in Studi politici.
Raramente citate dalla stampa, le milizie israeliane più o meno autonome hanno svolto un ruolo non trascurabile nella guerra genocida contro Gaza. Al fianco dell’esercito ufficiale, queste forze irregolari hanno avuto essenzialmente il compito di radere sistematicamente al suolo le infrastrutture civili palestinesi, nell’ambito di una politica dichiarata di pulizia etnica. Sotto il controllo dello Stato o tollerate da esso, queste milizie devono essere comprese nel contesto più generale del colonialismo di insediamento in Israele-Palestina, dove la violenza contro i palestinesi non è solo opera delle istituzioni israeliane, ma anche di una moltitudine di attori extra-statali.
Nel cuore della guerra genocida condotta dallo Stato israeliano contro i palestinesi di Gaza, la politica di urbicidio ha come obiettivo dichiarato quello di rendere il territorio invivibile e costringere i suoi abitanti all’esilio. Tipico del colonialismo di insediamento, che intende cancellare la popolazione autoctona e le sue aspirazioni nazionali attraverso un costante lavoro di ingegneria demografica, la demolizione di Gaza è stata applicata gradualmente, prima nella parte orientale e nei corridoi controllati dall’esercito israeliano, poi nei campi a nord dell’enclave, a Jabalia e Beit Hanoun, prima di essere estesa a Rafah, Khan Younès e infine alla città di Gaza.
Dopo essere state assediate e bombardate dall’aviazione israeliana, queste zone sono state metodicamente rase al suolo da gruppi extra-statali, oltre che dalle truppe ufficiali dello Stato.
L’analisi di queste forze irregolari e delle loro relazioni con il potere politico e la gerarchia militare permette di avanzare due ipotesi più generali sul progetto politico israeliano. Da un lato, ripensare il modello weberiano dello Stato come detentore del monopolio della violenza legittima, per cogliere la complessità dell’esercizio della violenza in un contesto coloniale. Dall’altro, invita a comprendere meglio le divisioni interne alle élite israeliane, in particolare per quanto riguarda il loro rapporto con le istituzioni dello Stato.
Milizie autonome al servizio del genocidio a Gaza
Il quotidiano israeliano Haaretz ha regolarmente riportato la notizia di una serie di forze israeliane extra-statali, più o meno ufficiali, che hanno partecipato alla guerra contro Gaza in modo relativamente indipendente dall’esercito ufficiale. Sebbene di natura diversa, tre di essi testimoniano la frammentazione della violenza diretta contro i palestinesi.
In primo luogo, all’interno dello stesso esercito, alcuni battaglioni hanno agito come milizie autonome o «eserciti nell’esercito». La 252ª divisione corazzata, comandata dall’agosto 2024 dal generale Yehuda Vach – un colono della Cisgiordania che si dichiara sostenitore della corrente messianica e fascista al potere in Israele –, è stata definita «esercito privato» dal quotidiano Haaretz. Il quotidiano ha indagato sulle pratiche agghiaccianti del generale e dei suoi uomini contro i civili palestinesi nel famoso «corridoio di Netzarim», occupato da questa divisione da agosto a novembre 2024. L’interessato non ha esitato a costituire una propria milizia, facendo arrivare a Gaza soldati religiosi ma anche coloni della Cisgiordania, tramite suo fratello Golan Vach. Senza informare i loro superiori, i fratelli Vach hanno preso iniziative autonome, con l’obiettivo di “appiattire” Gaza, ovvero radere al suolo sistematicamente le infrastrutture palestinesi al fine di spopolare il territorio.
È importante sottolineare che Haaretz riferisce che l’esercito israeliano stesso, in quel periodo, stava cercando di radere al suolo un numero significativo di edifici nel “corridoio di Netzarim” per dividere in due la Striscia di Gaza. Tuttavia, la forza istituita dal tandem Vach, chiamata Pladot Heavy Engineering Equipment, sembra aver operato come un’entità paramilitare, parallelamente all’esercito ufficiale. Interrogato, il portavoce dell’esercito israeliano nega il coinvolgimento di “civili” e sostiene che le operazioni dei due fratelli siano state approvate dalla gerarchia militare. Di fatto, la milizia dei Vach ha ricevuto il tacito consenso dello Stato Maggiore per operare secondo un proprio programma, che coincideva con quello dell’esercito ufficiale, ovvero la demolizione del “corridoio di Netzarim”.
Allo stesso modo, sempre Haaretz ha rivelato nel settembre 2025 l’esistenza di una misteriosa forza chiamata Uriah, attiva a Gaza da più di un anno al momento della pubblicazione dell’articolo. Questa forza si è arrogata lo stesso ruolo del battaglione-milizia dei Vach: radere al suolo il maggior numero possibile di edifici con l’ausilio di mezzi pesanti. Composta anch’essa da coloni della Cisgiordania, la forza Uriah sembrava tuttavia più indipendente dall’esercito. Senza alcun legame apparente con alcuna unità regolare, si era formata su iniziativa autonoma dei coloni e non informava alcun superiore delle sue attività quando operava nell’enclave. Inoltre, sebbene fossero autorizzati ad entrare a Gaza, questi “israeliani indipendenti” non registravano i loro nomi presso il quartier generale militare. Anche in questo caso, il portavoce dell’esercito elude la domanda sull’esistenza di questa forza non ufficiale, sostenendo che agiva sotto la supervisione dell’esercito, cosa che smentisce le informazioni fornite da Haaretz.
Al contrario, le istituzioni israeliane hanno apertamente ammesso di aver delegato la gestione della loro guerra espansionistica a subappaltatori «civili». Affiancato dai riservisti dell’esercito, il Ministero della Difesa è infatti riuscito a mobilitare numerosi imprenditori la cui unica missione consisteva nel demolire le infrastrutture con i bulldozer. Tra l’altro, il listino prezzi stabilito dal ministero su base giornaliera o mensile rivela quanto l’obiettivo fosse quello di radere al suolo Gaza il più rapidamente possibile: l’esercito offriva di pagare 2.500 shekel (circa 650 euro) a ogni conducente di bulldozer per la distruzione di edifici di tre piani e 5.000 shekel (circa 1.300 euro) per strutture più alte. Queste assunzioni avvenivano tramite contratti tra il ministero della Difesa e aziende private specializzate nella logistica. Alcune di queste aziende sono inoltre direttamente coinvolte nella colonizzazione della Cisgiordania, come la Libi construction and infrastructure, un’azienda sanzionata dal Regno Unito che ha fornito il proprio contingente di operatori a Gaza. Come per la milizia dei Vach e per la forza Uriah, la maggior parte di questi imprenditori erano coloni della Cisgiordania, motivati almeno tanto dalla lauta retribuzione che veniva loro offerta quanto da ambizioni politiche e ideologiche.
Il monopolio della violenza in un contesto coloniale
Come qualificare e comprendere questi gruppi extra-statali, composti da uomini che non fanno parte dell’esercito regolare, ma che hanno collaborato con esso alla distruzione di Gaza?
Ispirandosi alla definizione weberiana dello Stato come detentore del monopolio della violenza legittima, la teoria politica classica interpreta generalmente l’emergere di gruppi irregolari violenti un segnale dell’indebolimento dello Stato e dell’erosione della sovranità, o alla luce della delega della violenza. Quando esula dal quadro cosiddetto “ufficiale” dell’apparato statale ed è esercitata da “civili indipendenti” che si costituiscono in milizie autonome, la violenza è talvolta percepita come una sfida al capitale coercitivo dello Stato o come il prodotto di un comportamento sociale deviante legato al caos istituzionale.
Tuttavia, questa interpretazione classica di Weber non riesce a cogliere la complessità dell’esercizio della violenza da parte degli Stati coloniali che si formano, si mantengono e si espandono in un processo continuo di colonialismo di popolamento. È questa la tesi sviluppata dalla sociologa palestinese Areej Sabbagh-Khoury in un articolo che propone proprio di discutere il concetto di monopolio della violenza nel caso degli Stati coloniali a partire dall’esempio israeliano.
A differenza di altri contesti statali, gli Stati coloniali non si costruiscono attraverso una separazione delle sfere e una concentrazione della violenza nelle mani delle istituzioni, ma al contrario attraverso la delega di quest’ultima a una società civile che funge da agente dello Stato. Sebbene si manifesti in forme diverse a seconda degli spazi sotto il suo controllo, la cosiddetta violenza “legittima” dello Stato coloniale include la continua espropriazione, spoliazione ed epurazione etnica degli indigeni, con l’obiettivo di accumulare più terra possibile con il minor numero possibile di nativi.
Un simile progetto territoriale e demografico si basa sull’eliminazione dei confini categorici tra civili e combattenti, tra cittadini e coloni, un’eliminazione di cui la sociologa rende conto coniando la categoria di «cittadini-coloni». Condivisa tra lo Stato e i «cittadini-coloni», la violenza è in parte esercitata da attori che lei definisce «extralegali», nel senso che esulano dal quadro cosiddetto «classico» dell’apparato statale. Tuttavia, questa violenza rimane «legittima», nel senso weberiano, in quanto è sostenuta e incoraggiata dallo Stato.
Si può citare, ad esempio, il famoso caso del secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Questo garantisce il diritto di portare armi sostenendo che una “milizia ben organizzata” è “necessaria alla sicurezza di uno Stato libero”; ed è un’eredità diretta della formazione coloniale dello Stato.
L’analisi di Areej Sabbagh-Khoury sostiene quindi che la violenza extra-statale, lungi dal costituire una deviazione dall’ordine statale coloniale, contribuisce alla sua costruzione e al suo rafforzamento.
Applicato al caso Israele-Palestina, questo schema rivela innanzitutto tutta la sua rilevanza storica. Ancor prima della sua istituzionalizzazione, il proto-Stato sionista ha fatto ricorso alle popolazioni civili nella sua strategia di accaparramento e controllo delle terre fino ad allora popolate da palestinesi. Ne è testimonianza l’operazione «Torre e Mura», decisa e attuata dallo Yishuv dal 1936 al 1939, durante la quale furono costruite 52 colonie ebraiche, con al centro una torre di sorveglianza, al fine della «messa in sicurezza» dei confini e diventare così gli avamposti del futuro Stato israeliano.
Questa politica prosegue ovviamente in Cisgiordania, dove le milizie armate dei coloni israeliani, che moltiplicano le attività violente contro i palestinesi, possono essere definite come agenti informali dello Stato, incaricati da quest’ultimo di affermare la sua sovranità e la sua autorità sui territori e sulle popolazioni subordinate.
La collusione dialettica tra Stato e i «cittadini-coloni» non si manifesta solo nei territori occupati illegalmente. È presente anche all’interno della Linea Verde, dove civili israeliani di estrema destra si comportano come vigilanti o addirittura miliziani nei confronti dei palestinesi di Israele o degli israeliani dissidenti, contrari al genocidio e all’occupazione. È stato il caso dell’«Intifada dell’unità» nel maggio 2021, repressa in Israele non solo dalle forze dell’ordine, ma anche da «civili radicali» vicini all’attuale ministro kahanista della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir. Dopo gli attacchi del 7 ottobre, quest’ultimo ha inoltre rilasciato oltre 100.000 permessi di porto d’armi agli israeliani su entrambi i lati della Linea Verde, creando contemporaneamente “unità” composte da civili armati per “proteggere le città israeliane”.
In questo contesto generale, la distruzione di Gaza da parte di gruppi irregolari diventa più comprensibile. Si tratta tipicamente di una divisione dei compiti tra Stato e i «cittadini-coloni», dove i secondi fanno il «lavoro sporco» sotto lo sguardo benevolo del primo. È tuttavia importante distinguere due fenomeni diversi all’opera nella partecipazione di queste forze alla distruzione di Gaza.
Nel caso degli operatori reclutati dal Ministero della Difesa per radere al suolo l’enclave, è proprio lo Stato stesso che avvia e incoraggia la violenza extra-statale, coinvolgendo direttamente la sua società nell’impresa di pulizia etnica. Strumenti sotto il suo diretto controllo, i gruppi di coloni-demolitori gli consentono inoltre di alleggerire il carico dell’esercito regolare, alle prese una crisi di riservisti, in particolare dopo la violazione unilaterale della tregua nel marzo 2025.
Nel caso delle milizie autonome dei fratelli Vach e della forza Uriah, l’autorità politica non è l’istigatrice diretta della violenza. Quest’ultima è opera di attori autonomi, che agiscono al di fuori di qualsiasi direttiva ufficiale. Ma queste pratiche, lungi dall’essere sanzionate, sono state tollerate. Sebbene extralegale, poiché superava e persino metteva in discussione l’autorità ufficiale dell’istituzione militare, l’intervento dei «cittadini-coloni» a Gaza non disturbava la classe politica, poiché facilitava direttamente uno degli obiettivi della sua guerra genocida, ovvero la cancellazione del paesaggio palestinese.
…o strumenti fuori controllo?
Sebbene siano innegabilmente strumenti al servizio del potere coloniale, questi gruppi rimangono comunque armi a doppio taglio, utili fino a quando la loro agenda non entra in conflitto con altre esigenze.
Sia la milizia dei Vach che la forza Uriah sono state oggetto di critiche da parte di una parte del comando militare attivo a Gaza. Entrambe sono accusate, per il loro comportamento irregolare e la loro gestione caotica delle zone in cui operavano, di aver messo in pericolo i soldati dell’esercito regolare.
Nelle testimonianze riportate da Haaretz, alcuni ufficiali israeliani hanno lamentato le decisioni prese da questi due gruppi: Yehuda Vach è stato accusato di aver causato la morte di otto riservisti israeliani inviandoli in una zona che non era stata preventivamente “ispezionata” – secondo il linguaggio militare israeliano; mentre la forza Uriah era nota per spostarsi da un luogo all’altro in modo disordinato, senza alcuna precauzione, ma anche per inviare soldati a pattugliare settori che non erano stati “messi in sicurezza”.
È significativo che le rivelazioni del giornale siano state rese possibili grazie a fughe di notizie interne da parte di ufficiali scontenti del grado di autonomia di cui godevano questi due gruppi. Tra le righe, emerge chiaramente una tensione tra i superiori militari sensibili al rispetto della gerarchia e le forze composte essenzialmente da coloni della Cisgiordania, determinati a emanciparsi dal comando dell’esercito e persino critici nei suoi confronti.
Tuttavia, le tensioni relative alla sicurezza che circondano la presenza di questi attori irregolari a Gaza non sono che l’espressione di una divisione certamente antica, ma ormai crescente in Israele.
Tale divisione è venuta alla luce durante l’”incidente di Sde Teiman” nel luglio 2024, quando manifestanti israeliani di estrema destra, la maggior parte dei quali armati, hanno assaltato una base militare per opporsi a una procedura interna dell’esercito – volta essenzialmente a fare bella figura davanti alla “comunità internazionale” – volta a indagare sulle violenze sessuali commesse dai riservisti israeliani sui detenuti palestinesi in quella base militare. La stessa divisione si è osservata anche nelle rivolte scoppiate a Gerusalemme nel gennaio 2025 per protestare contro la firma di una tregua da parte del governo israeliano. Si percepisce durante gli attacchi dei coloni della Cisgiordania alle basi militari israeliane. In ciascuno di questi casi, miliziani radicali, all’interno e all’esterno della Linea Verde, finiscono per sfuggire all’autorità di uno Stato che li ha tuttavia armati e incoraggiati.
Sebbene sia troppo presto per parlare di un «ordine miliziano» in Israele e sia opportuno non sopravvalutare l’importanza di queste fratture interne, sarebbe sbagliato ignorarne completamente la portata.
La questione del grado di autonomia di cui devono godere questi gruppi rientra in quella che la giornalista israeliana Mairav Zonszein definito “la guerra nascosta di Israele“, un conflitto che oppone le élite israeliane tra loro. Infatti, alcune élite “classiche” della sicurezza e dell’esercito ritengono che le fazioni della destra nazionalista e le milizie dei coloni minaccino talvolta quelli che definiscono “gli interessi superiori dello Stato”; mentre gli ideologi del Grande Israele, più direttamente alleati al movimento dei coloni, non esitano a sfidare apertamente l’autorità istituzionale, compreso l’esercito.
Riformulata in altri termini, questa tensione intra-israeliana si colloca nella gerarchia delle priorità stabilite dalle classi dirigenti israeliane tra la giudaizzazione dei territori palestinesi e il rispetto delle istituzioni: da un lato, alcune élite della sicurezza, il cui potere è in costante declino, che vogliono subordinare la giudaizzazione al rispetto delle istituzioni dello Stato; dall’altro, i leader che ora vedono queste istituzioni come un freno al progresso del progetto coloniale.
In Israele, la crescente appropriazione dell’apparato statale da parte dei rappresentanti diretti delle milizie dei coloni indica che gli ideologi del Grande Israele stanno gradualmente prendendo il sopravvento. Lo dimostra il capo ufficioso della forza Uriah a Gaza: si trattava nientemeno che di Bezalel Zini, fratello del nuovo capo dello Shin Bet, David Zini, un colono ultranazionalista nominato da Benyamin Netanyahu
Va precisato che questo conflitto intra-statale non riflette in alcun modo una divisione morale, e certamente non una differenza di opinione sulla risoluzione della questione palestinese. Riguarda soprattutto l’immagine che gli israeliani hanno di se stessi e quella che vogliono trasmettere alla «comunità internazionale».
Concludiamo infine che questa divisione non è né del tutto nuova né specifica al contesto coloniale israeliano. La possibilità di una dinamica faziosa in Israele e le tensioni che essa suscita si presentano dal 1967 e risalgono addirittura al 1948, quando due milizie sioniste, l’Irgun e il Lehi, rifiutarono l’ordine di istituzionalizzazione dato da David Ben Gurion all’interno del nuovo esercito israeliano. Questa frattura ricorda altri casi di colonialismo di insediamento, come quello francese in Algeria, dove i coloni rivendicavano il diritto di sfidare l’autorità di Parigi quando la percepivano contraria ai loro interessi. Già nel 1998, il sociologo israeliano Uri Ben-Eliezer studiava la possibilità un colpo di stato militare in Israele, proponendo un paragone con la Francia coloniale durante la guerra d’Algeria. L’ascesa in Israele di un’estrema destra faziosa e persino secessionista, che arriva persino a contestare pubblicamente il vassallaggio agli Stati Uniti, non fa che rafforzare questa analogia.
9 novembre 2025
Tratto da: www.yaani.fr
Traduzione a cura della Redazione di Rproject.it
tratto da Comune.info di Alessandra Mecozzi
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