Palestina: preparando il 28/29 novembre

a seguire:

1 – aggiornamenti attraverso Anbamed

2 – aggiornamenti attraverso Radio Onda d’Urto

3 – comunicato Cub su sciopero e manifestazione del 28 e 29 novembre

4 – un aspetto poco indagato – tratto da R/Project sulle milizie israeliane irregolari di Ryan Tfaily

5 – Festival Internazionale di cinema delle donne a Gaza – da Comune.info di Alessandra Mecozzi

6 – appello Stop ReArm Europe: lo sguardo si allarga.

Genocidio a Gaza

Un’altra giornata di bombardamenti, attacchi e demolizioni. E c’è chi la chiama ancora tregua. Netanyahu ha ottenuto la restituzione degli ostaggi e adesso, per continuare a reggere la propria poltrona, prosegue l’aggressione con il pretesto del ritrovamento degli ultimi tre corpi di ostaggi uccisi nei bombardamenti suoi sulla popolazione.

Suprematismo colonialista.

Secondo rapporti di giornalisti locali sono stati 6 i civili uccisi e 11 i feriti. L’esercito israeliano ha comunicato di aver ucciso 5 combattenti mentre stavano abbandonando un tunnel. Non c’è ancora conferma da parte di Hamas.

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Il nostro commento quotidiano fisso: Ci sono ancora coloro che obiettano che non si tratti di genocidio, basandosi su congetture storiche e non guardando la realtà delle cifre e delle intenzioni, dicono: “Dire che Israele commette genocidio è una bestemmia”.

Pronunciare una frase simile è la vera bestemmia nei confronti della memoria dei sei milioni di ebrei assassinati dal nazismo tedesco.

Situazione umanitaria a Gaza

Il portavoce dell’Unicef, da Ginevra, ha denunciato che a Gaza vengono assassinati dall’esercito israeliano “due bambini al giorno dalla data dell’entrata in vigore della tregua. Decine di altri sono rimasti feriti”, ha dichiarato Ricardo Perez.

L’UNICEF aveva dichiarato giovedì che una neonata è stata uccisa in un attacco aereo israeliano a est di Khan Younis, insieme ai suoi genitori, mentre il giorno prima, mercoledì, sette bambini erano stati uccisi in attacchi aerei israeliani su Gaza City.

Medici senza Frontiere ha denunciato, invece, la gravità degli attacchi contro i civili con i missili e le mitragliatrici dei droni e elicotteri. L’organizzazione ha affermato che le sue “équipe mediche nel nord e nel sud di Gaza hanno curato donne e bambini con fratture esposte e ferite da arma da fuoco agli arti e alla testa. Un’infermiera di Gaza ha dichiarato che una bambina di nove anni è stata curata in un ospedale di Gaza City per una ferita al viso causata dagli spari di un drone israeliano”.

Cisgiordania

Colonizzazione sionista vicino a Betlemme

Tutti i giorni si svolgono funerali di palestinesi assassinati dall’esercito di occupazione in Cisgiordania. Dopo l’assassinio dei due giovani ad Aab, a nord di Gerusalemme, l’esercito di occupazione ha ucciso ieri un poliziotto dell’ANP e ferito altri 3. La casa della famiglia del poliziotto palestinese, Younis Shtie, a Tel a sud di Nablus, è stata circondata e crivellata di spari e granate, per poi colpirla con il lancio di un carro armato. Il corpo della vittima è stato preso in ostaggio.

È stato arrestato all’alba di oggi un deputato palestinese del Consiglio legislativo, Giamal Tirauoi, e due suoi figli.

È l’inizio di una campagna per lo smantellamento dii ogni autorità palestinese autonoma per la totale annessione delle terre dei palestinesi e cancellare ogni futura soluzione basata sui due Stati.

Nel villaggio di Al-Mughyir, vicino a Ramallah, l’esercito israeliano ha lanciato lacrimogeni e sparato contro i fedeli in preghiera all’interno della moschea.

Non cessano le aggressioni dei coloni contro i villaggi palestinesi. Ieri è stata incendiata una fattoria vicino a Betlemme. Prima di ritirarsi, sotto la copertura dei soldati, hanno scritto frasi razziste contro gli arabi. Ieri ne sono stati contati 11 di attacchi simili.

Libano

Un civile ucciso da un missile lanciato da un drone israeliano vicino a Nabatie. Altri 5 sono rimasti feriti.

Un soldato libanese è rimasto gravemente ferito da un obice lanciato dall’artiglieria israeliana in sud Libano, mentre svolgeva con l’assistenza di truppe internazionali dei Caschi blu dell’Unifil, operazioni di sminamento e di sistemazione delle strade rurali, vicino al confine.

Israele non vuole ammettere il ritorno della popolazione libanese ai propri villaggi sfollati un anno fa a causa dell’invasione. Obiettivo è l’annessione strisciante.

22 novembre “Giornata nazionale di digiuno x Gaza”

Oggi è giornata di digiuno. Per non voltare la faccia dall’altra parte. Per far sentire ai bambini palestinesi che siamo al loro fianco.

“Oltre il digiuno, Gaza nel cuore”. Si propone di devolvere il costo di un pasto a favore di una raccolta fondi per la Palestina. Il link: https://gofund.me/4c0d34e2c

Per leggere il comunicato: clicca! Per seguire l’incontro: canale You Tube,

Per partecipare: chiedi il link Zoom a mailto:anbamedaps@gmail.com .

È stato deciso di dedicare la giornata alla figura del Mandela palestinese, Marwan Barghouti, da 23 anni in carcere in Israele.

Stanno arrivando molte adesioni alla giornata del 22 novembre. Di singoli e di collettivi, comitati, associazioni, comunità, ecc…

 

tratto da Fuori Onda newsletter di Radio Onda d’Urto

BOLOGNA – Mentre scriviamo è in corso il corteo “Show Israel Red Card”, contro la partita di basket della vergogna, quella delle ore 20.30 al PalaDozza tra Virtus Bologna e Maccabi Tel Aviv, club e tifoseria sionista, razzista e suprematista, nota per il supporto esplicito all’occupazione coloniale e al genocidio. Viminale e Questura felsinea hanno voluto mostrare i muscoli, circondando il palazzetto dello sport in centro città con un enorme dispositivo poliziesco, doppia zona rossa, negozi, strade e scuole chiuse, oltre a 500 agenti schierati in antisommossa. Ascolta qui gli aggiornamenti del tardo pomeriggio su Radio Onda d’Urto.

PALESTINA – In Palestina, intanto, l’esercito di occupazione israeliano continua a bombardare la Striscia di Gaza nonostante il finto cessate il fuoco. Dopo le stragi delle scorse 24 ore, con 33 palestinesi uccisi nei raid di Tel Aviv, oggi almeno 6 persone sono state uccise e altri 5 arrestate a Rafah, dove nei tunnel finiti dietro la cosiddetta Linea Gialla ci sono ancora decine di combattenti della Resistenza. Sempre a Rafah Netanyahu continua a tenere chiuso il valico più importante, quello con l’Egitto, fino a quando “ci sarà presenza ostile”, ossia qualunque palestinese. I raid hanno colpito anche il centro e il nord della Striscia, con il ferimento di 4 bambini.

Nonostante l’accordo di ottobre prevedesse l’ingresso di aiuti per la popolazione di Gaza ridotta allo stremo da due anni di genocidio, Israele inoltre continua a bloccare l’ingresso degli aiuti dai border della Striscia, aprendo limitatamente e a singhiozzo, a sua discrezione. Oggi, come ogni venerdì – giorno…festivo – tutti i valichi sono chiusi, lasciando senza cibo e beni essenziali 2 milioni di persone.

3 vittime delle forze di occupazione anche in Cisgiordania; 2 adolescenti nei raid contro la città di Kafr Aqab. 1 poliziotto della stessa Anp a Nablus, mentre i coloni hanno attaccato almeno una decina di villaggi, scortati dall’esercito israeliano che ha colto l’occasione per…emettere ordini di sequestro di terreni privati e statali di proprietà palestinese a Tubas e Valle del Giordano. Arrestati pure un giornalista, Hisham Abu Shaqra, e un attivista che stava filmando i crimini dei coloni.

Sulla West Bank l’Fplp, Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, avverte: “La Cisgiordania è alle porte di una Terza Intifada. Omicidi, violenze e furto di terra sono la scintilla che brucerà ogni illusione di calma residua e che la rabbia palestinese accumulata esploderà come lava fusa contro l’occupazione”

Infine ancora l’Italia, da L’Aquila: in Tribunale chiusa l’istruttoria dibatimentale del processo contro tre compagni palestinesi, Anan, Ali e Mansour. Venerdì 28 novembre conclusioni di accusa e difesa e poi si andrà a sentenza. Anan, Ali e Mansour sono accusati di “terrorismo”, cioè di sostenere la legittima resistenza palestinese in Cisgiordania. All’esterno del Tribunale presidio nazionale con oltre 200 compagne-i.


SCIOPERO GENERALE, 28 Novembre – MANIFESTAZIONE in solidarietà del popolo palestinese, 29 Novembre

SCIOPERO GENERALE 28 NOVEMBRE – MANIFESTAZIONE IN SOLIDARIETA’ DEL POPOLO PALESTINESE 29 NOVEMBRE

Il nostro “weekend lungo” per contrastare l’attacco ai diritti sociali e la crescente militarizzazione della società

Come associazioni palestinesi, sindacati di base, movimenti sociali e realtà politiche torniamo a mobilitarci a Milano e Roma in concerto con una mobilitazione nazionale e internazionale

La solidarietà che ha riempito le piazze – in particolare negli ultimi due mesi – si è accompagnata dalla consapevolezza che il genocidio del popolo palestinese è parte di una lotta più ampia contro un sistema che alimenta guerre, povertà, precarietà e disuguaglianze. Il genocidio del popolo palestinese, l’economia di guerra, l’aumento delle spese militari, i tagli a sanità e scuola, il lavoro nero, i bassi salari, la disoccupazione e il caro affitti fanno parte della stessa strategia: quella con cui le classi al potere difendono i propri interessi a scapito dei diritti umani. Anche in Italia, mentre cresce la povertà e si tagliano i servizi pubblici, il governo continua a finanziare il riarmo e a collaborare militarmente con “Israele”, responsabile di violazioni sistematiche dei diritti umani. L’economia del genocidio ha le sue radici anche qui in Italia dove aziende private, multinazionali, università, fondi di investimento, banche, società di high-tech fanno parte del sistema di complicità che il genocidio in corso a Gaza ha reso più visibile.

Non un soldo deve essere dato alla guerra e le ultime oceaniche manifestazioni che hanno riempito le strade di tutto il paese ci indicano che la lotta non si può fermare ora.

Per tutti questi motivi le giornate e le manifestazioni del 28 e 29 novembre sono legate, come legate saranno le diverse piazze che si mobiliteranno. Lo sciopero generale, dove lavoratrici e lavoratori si mobiliteranno per bloccare la macchina produttiva e il sistema economico che, tramite l’erosione dei diritti sociali, tornano sempre di più ad investire nella guerra. La giornata internazionale di solidarietà al Popolo Palestinese, per cui Roma e Milano si faranno catalizzatrici della partecipazione anche internazionale, per contrastare la politica coloniale e genocida israeliana, la vergognosa complicità dei governi italiano e globali e per rispondere all’ipocrita narrazione della pace trumpiana.

Torniamo ad invadere le strade

A Milano:

-Concentramento 28 novembre ore 9.30  📌📌📌 PORTA VENEZIA 📌📌📌

-Concentramento 29 novembre ore 14 Piazza XXIV Maggio


A Roma:

-Concentramento 28 novembre alle ore 9,30 in Piazza Indipendenza.

 

I MOLTEPLICI ATTORI SIONISTI DEL GENOCIDIO

Tra esercito e milizie irregolari, i molteplici attori del genocidio a Gaza

Ryan Tfaily, laureato presso Sciences Po Paris e EHESS (École des Hautes Études en Sciences Sociales), master in Studi politici.

Raramente citate dalla stampa, le milizie israeliane più o meno autonome hanno svolto un ruolo non trascurabile nella guerra genocida contro Gaza. Al fianco dell’esercito ufficiale, queste forze irregolari hanno avuto essenzialmente il compito di radere sistematicamente al suolo le infrastrutture civili palestinesi, nell’ambito di una politica dichiarata di pulizia etnica. Sotto il controllo dello Stato o tollerate da esso, queste milizie devono essere comprese nel contesto più generale del colonialismo di insediamento in Israele-Palestina, dove la violenza contro i palestinesi non è solo opera delle istituzioni israeliane, ma anche di una moltitudine di attori extra-statali.

Nel cuore della guerra genocida condotta dallo Stato israeliano contro i palestinesi di Gaza, la politica di urbicidio ha come obiettivo dichiarato quello di rendere il territorio invivibile e costringere i suoi abitanti all’esilio. Tipico del colonialismo di insediamento, che intende cancellare la popolazione autoctona e le sue aspirazioni nazionali attraverso un costante lavoro di ingegneria demografica, la demolizione di Gaza è stata applicata gradualmente, prima nella parte orientale e nei corridoi controllati dall’esercito israeliano, poi nei campi a nord dell’enclave, a Jabalia e Beit Hanoun, prima di essere estesa a Rafah, Khan Younès e infine alla città di Gaza.

Dopo essere state assediate e bombardate dall’aviazione israeliana, queste zone sono state metodicamente rase al suolo da gruppi extra-statali, oltre che dalle truppe ufficiali dello Stato.

L’analisi di queste forze irregolari e delle loro relazioni con il potere politico e la gerarchia militare permette di avanzare due ipotesi più generali sul progetto politico israeliano. Da un lato, ripensare il modello weberiano dello Stato come detentore del monopolio della violenza legittima, per cogliere la complessità dell’esercizio della violenza in un contesto coloniale. Dall’altro, invita a comprendere meglio le divisioni interne alle élite israeliane, in particolare per quanto riguarda il loro rapporto con le istituzioni dello Stato.

Milizie autonome al servizio del genocidio a Gaza

Il quotidiano israeliano Haaretz ha regolarmente riportato la notizia di una serie di forze israeliane extra-statali, più o meno ufficiali, che hanno partecipato alla guerra contro Gaza in modo relativamente indipendente dall’esercito ufficiale. Sebbene di natura diversa, tre di essi testimoniano la frammentazione della violenza diretta contro i palestinesi.

In primo luogo, all’interno dello stesso esercito, alcuni battaglioni hanno agito come milizie autonome o «eserciti nell’esercito». La 252ª divisione corazzata, comandata dall’agosto 2024 dal generale Yehuda Vach – un colono della Cisgiordania che si dichiara sostenitore della corrente messianica e fascista al potere in Israele –, è stata definita «esercito privato» dal quotidiano Haaretz. Il quotidiano ha indagato sulle pratiche agghiaccianti del generale e dei suoi uomini contro i civili palestinesi nel famoso «corridoio di Netzarim», occupato da questa divisione da agosto a novembre 2024. L’interessato non ha esitato a costituire una propria milizia, facendo arrivare a Gaza soldati religiosi ma anche coloni della Cisgiordania, tramite suo fratello Golan Vach. Senza informare i loro superiori, i fratelli Vach hanno preso iniziative autonome, con l’obiettivo di “appiattire” Gaza, ovvero radere al suolo sistematicamente le infrastrutture palestinesi al fine di spopolare il territorio.

È importante sottolineare che Haaretz riferisce che l’esercito israeliano stesso, in quel periodo, stava cercando di radere al suolo un numero significativo di edifici nel “corridoio di Netzarim” per dividere in due la Striscia di Gaza. Tuttavia, la forza istituita dal tandem Vach, chiamata Pladot Heavy Engineering Equipment, sembra aver operato come un’entità paramilitare, parallelamente all’esercito ufficiale. Interrogato, il portavoce dell’esercito israeliano nega il coinvolgimento di “civili” e sostiene che le operazioni dei due fratelli siano state approvate dalla gerarchia militare. Di fatto, la milizia dei Vach ha ricevuto il tacito consenso dello Stato Maggiore per operare secondo un proprio programma, che coincideva con quello dell’esercito ufficiale, ovvero la demolizione del “corridoio di Netzarim”.

Allo stesso modo, sempre Haaretz ha rivelato nel settembre 2025 l’esistenza di una misteriosa forza chiamata Uriah, attiva a Gaza da più di un anno al momento della pubblicazione dell’articolo. Questa forza si è arrogata lo stesso ruolo del battaglione-milizia dei Vach: radere al suolo il maggior numero possibile di edifici con l’ausilio di mezzi pesanti. Composta anch’essa da coloni della Cisgiordania, la forza Uriah sembrava tuttavia più indipendente dall’esercito. Senza alcun legame apparente con alcuna unità regolare, si era formata su iniziativa autonoma dei coloni e non informava alcun superiore delle sue attività quando operava nell’enclave. Inoltre, sebbene fossero autorizzati ad entrare a Gaza, questi “israeliani indipendenti” non registravano i loro nomi presso il quartier generale militare. Anche in questo caso, il portavoce dell’esercito elude la domanda sull’esistenza di questa forza non ufficiale, sostenendo che agiva sotto la supervisione dell’esercito, cosa che smentisce le informazioni fornite da Haaretz.

Al contrario, le istituzioni israeliane hanno apertamente ammesso di aver delegato la gestione della loro guerra espansionistica a subappaltatori «civili». Affiancato dai riservisti dell’esercito, il Ministero della Difesa è infatti riuscito a mobilitare numerosi imprenditori la cui unica missione consisteva nel demolire le infrastrutture con i bulldozer. Tra l’altro, il listino prezzi stabilito dal ministero su base giornaliera o mensile rivela quanto l’obiettivo fosse quello di radere al suolo Gaza il più rapidamente possibile: l’esercito offriva di pagare 2.500 shekel (circa 650 euro) a ogni conducente di bulldozer per la distruzione di edifici di tre piani e 5.000 shekel (circa 1.300 euro) per strutture più alte. Queste assunzioni avvenivano tramite contratti tra il ministero della Difesa e aziende private specializzate nella logistica. Alcune di queste aziende sono inoltre direttamente coinvolte nella colonizzazione della Cisgiordania, come la Libi construction and infrastructure, un’azienda sanzionata dal Regno Unito che ha fornito il proprio contingente di operatori a Gaza. Come per la milizia dei Vach e per la forza Uriah, la maggior parte di questi imprenditori erano coloni della Cisgiordania, motivati almeno tanto dalla lauta retribuzione che veniva loro offerta quanto da ambizioni politiche e ideologiche.

Il monopolio della violenza in un contesto coloniale

Come qualificare e comprendere questi gruppi extra-statali, composti da uomini che non fanno parte dell’esercito regolare, ma che hanno collaborato con esso alla distruzione di Gaza?

Ispirandosi alla definizione weberiana dello Stato come detentore del monopolio della violenza legittima, la teoria politica classica interpreta generalmente l’emergere di gruppi irregolari violenti un segnale dell’indebolimento dello Stato e dell’erosione della sovranità, o alla luce della delega della violenza. Quando esula dal quadro cosiddetto “ufficiale” dell’apparato statale ed è esercitata da “civili indipendenti” che si costituiscono in milizie autonome, la violenza è talvolta percepita come una sfida al capitale coercitivo dello Stato o come il prodotto di un comportamento sociale deviante legato al caos istituzionale.

Tuttavia, questa interpretazione classica di Weber non riesce a cogliere la complessità dell’esercizio della violenza da parte degli Stati coloniali che si formano, si mantengono e si espandono in un processo continuo di colonialismo di popolamento. È questa la tesi sviluppata dalla sociologa palestinese Areej Sabbagh-Khoury in  un articolo che propone proprio di discutere il concetto di monopolio della violenza nel caso degli Stati coloniali a partire dall’esempio israeliano.

A differenza di altri contesti statali, gli Stati coloniali non si costruiscono attraverso una separazione delle sfere e una concentrazione della violenza nelle mani delle istituzioni, ma al contrario attraverso la delega di quest’ultima a una società civile che funge da agente dello Stato. Sebbene si manifesti in forme diverse a seconda degli spazi sotto il suo controllo, la cosiddetta violenza “legittima” dello Stato coloniale include la continua espropriazione, spoliazione ed epurazione etnica degli indigeni, con l’obiettivo di accumulare più terra possibile con il minor numero possibile di nativi.

Un simile progetto territoriale e demografico si basa sull’eliminazione dei confini categorici tra civili e combattenti, tra cittadini e coloni, un’eliminazione di cui la sociologa rende conto coniando la categoria di «cittadini-coloni». Condivisa tra lo Stato e i «cittadini-coloni», la violenza è in parte esercitata da attori che lei definisce «extralegali», nel senso che esulano dal quadro cosiddetto «classico» dell’apparato statale. Tuttavia, questa violenza rimane «legittima», nel senso weberiano, in quanto è sostenuta e incoraggiata dallo Stato.

Si può citare, ad esempio, il famoso caso del secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Questo garantisce il diritto di portare armi sostenendo che una “milizia ben organizzata” è “necessaria alla sicurezza di uno Stato libero”; ed è un’eredità diretta della formazione coloniale dello Stato.

Strumenti di controllo…

L’analisi di Areej Sabbagh-Khoury sostiene quindi che la violenza extra-statale, lungi dal costituire una deviazione dall’ordine statale coloniale, contribuisce alla sua costruzione e al suo rafforzamento.

Applicato al caso Israele-Palestina, questo schema rivela innanzitutto tutta la sua rilevanza storica. Ancor prima della sua istituzionalizzazione, il proto-Stato sionista ha fatto ricorso alle popolazioni civili nella sua strategia di accaparramento e controllo delle terre fino ad allora popolate da palestinesi. Ne è testimonianza l’operazione «Torre e Mura», decisa e attuata dallo Yishuv dal 1936 al 1939, durante la quale furono costruite 52 colonie ebraiche, con al centro una torre di sorveglianza, al fine della «messa in sicurezza» dei confini e diventare così gli avamposti del futuro Stato israeliano.

Questa politica prosegue ovviamente in Cisgiordania, dove le milizie armate dei coloni israeliani, che moltiplicano le attività violente contro i palestinesi, possono essere definite come agenti informali dello Stato, incaricati da quest’ultimo di affermare la sua sovranità e la sua autorità sui territori e sulle popolazioni subordinate.

La collusione dialettica tra Stato e i «cittadini-coloni» non si manifesta solo nei territori occupati illegalmente. È presente anche all’interno della Linea Verde, dove civili israeliani di estrema destra si comportano come vigilanti o addirittura miliziani nei confronti dei palestinesi di Israele o degli israeliani dissidenti, contrari al genocidio e all’occupazione. È stato il caso dell’«Intifada dell’unità» nel maggio 2021, repressa in Israele non solo dalle forze dell’ordine, ma anche da «civili radicali» vicini all’attuale ministro kahanista della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir. Dopo gli attacchi del 7 ottobre, quest’ultimo ha inoltre rilasciato  oltre 100.000 permessi di porto d’armi agli israeliani su entrambi i lati della Linea Verde, creando contemporaneamente “unità” composte da civili armati per “proteggere le città israeliane”.

In questo contesto generale, la distruzione di Gaza da parte di gruppi irregolari diventa più comprensibile. Si tratta tipicamente di una divisione dei compiti tra Stato e i «cittadini-coloni», dove i secondi fanno il «lavoro sporco» sotto lo sguardo benevolo del primo. È tuttavia importante distinguere due fenomeni diversi all’opera nella partecipazione di queste forze alla distruzione di Gaza.

Nel caso degli operatori reclutati dal Ministero della Difesa per radere al suolo l’enclave, è proprio lo Stato stesso che avvia e incoraggia la violenza extra-statale, coinvolgendo direttamente la sua società nell’impresa di pulizia etnica. Strumenti sotto il suo diretto controllo, i gruppi di coloni-demolitori gli consentono inoltre di alleggerire il carico dell’esercito regolare, alle prese una crisi di riservisti, in particolare dopo la violazione unilaterale della tregua nel marzo 2025.

Nel caso delle milizie autonome dei fratelli Vach e della forza Uriah, l’autorità politica non è l’istigatrice diretta della violenza. Quest’ultima è opera di attori autonomi, che agiscono al di fuori di qualsiasi direttiva ufficiale. Ma queste pratiche, lungi dall’essere sanzionate, sono state tollerate. Sebbene extralegale, poiché superava e persino metteva in discussione l’autorità ufficiale dell’istituzione militare, l’intervento dei «cittadini-coloni» a Gaza non disturbava la classe politica, poiché facilitava direttamente uno degli obiettivi della sua guerra genocida, ovvero la cancellazione del paesaggio palestinese.

…o strumenti fuori controllo?

Sebbene siano innegabilmente strumenti al servizio del potere coloniale, questi gruppi rimangono comunque armi a doppio taglio, utili fino a quando la loro agenda non entra in conflitto con altre esigenze.

Sia la milizia dei Vach che la forza Uriah sono state oggetto di critiche da parte di una parte del comando militare attivo a Gaza. Entrambe sono accusate, per il loro comportamento irregolare e la loro gestione caotica delle zone in cui operavano, di aver messo in pericolo i soldati dell’esercito regolare.

Nelle testimonianze riportate da Haaretz, alcuni ufficiali israeliani hanno lamentato le decisioni prese da questi due gruppi: Yehuda Vach è stato accusato di aver causato la morte di otto riservisti israeliani inviandoli in una zona che non era stata preventivamente “ispezionata” – secondo il linguaggio militare israeliano; mentre la forza Uriah era nota per spostarsi da un luogo all’altro in modo disordinato, senza alcuna precauzione, ma anche per inviare soldati a pattugliare settori che non erano stati “messi in sicurezza”.

È significativo che le rivelazioni del giornale siano state rese possibili grazie a fughe di notizie interne da parte di ufficiali scontenti del grado di autonomia di cui godevano questi due gruppi. Tra le righe, emerge chiaramente una tensione tra i superiori militari sensibili al rispetto della gerarchia e le forze composte essenzialmente da coloni della Cisgiordania, determinati a emanciparsi dal comando dell’esercito e persino critici nei suoi confronti.

«Due Israele»?

Tuttavia, le tensioni relative alla sicurezza che circondano la presenza di questi attori irregolari a Gaza non sono che l’espressione di una divisione certamente antica, ma ormai crescente in Israele.

Tale divisione è venuta alla luce durante l’”incidente di Sde Teiman” nel luglio 2024, quando manifestanti israeliani di estrema destra, la maggior parte dei quali armati, hanno assaltato una base militare per opporsi a una procedura interna dell’esercito – volta essenzialmente a fare bella figura davanti alla “comunità internazionale” – volta a indagare sulle violenze sessuali commesse dai riservisti israeliani sui detenuti palestinesi in quella base militare. La stessa divisione si è osservata anche nelle rivolte scoppiate a Gerusalemme nel gennaio 2025 per protestare contro la firma di una tregua da parte del governo israeliano. Si percepisce durante gli attacchi dei coloni della Cisgiordania alle basi militari israeliane. In ciascuno di questi casi, miliziani radicali, all’interno e all’esterno della Linea Verde, finiscono per sfuggire all’autorità di uno Stato che li ha tuttavia armati e incoraggiati.

Sebbene sia troppo presto per parlare di un «ordine miliziano» in Israele e sia opportuno non sopravvalutare l’importanza di queste fratture interne, sarebbe sbagliato ignorarne completamente la portata.

La questione del grado di autonomia di cui devono godere questi gruppi rientra in quella che la giornalista israeliana Mairav Zonszein definito “la guerra nascosta di Israele“, un conflitto che oppone le élite israeliane tra loro. Infatti, alcune élite “classiche” della sicurezza e dell’esercito ritengono che le fazioni della destra nazionalista e le milizie dei coloni minaccino talvolta quelli che definiscono “gli interessi superiori dello Stato”; mentre gli ideologi del Grande Israele, più direttamente alleati al movimento dei coloni, non esitano a sfidare apertamente l’autorità istituzionale, compreso l’esercito.

Riformulata in altri termini, questa tensione intra-israeliana si colloca nella gerarchia delle priorità stabilite dalle classi dirigenti israeliane tra la giudaizzazione dei territori palestinesi e il rispetto delle istituzioni: da un lato, alcune élite della sicurezza, il cui potere è in costante declino, che vogliono subordinare la giudaizzazione al rispetto delle istituzioni dello Stato; dall’altro, i leader che ora vedono queste istituzioni come un freno al progresso del progetto coloniale.

In Israele, la crescente appropriazione dell’apparato statale da parte dei rappresentanti diretti delle milizie dei coloni indica che gli ideologi del Grande Israele stanno gradualmente prendendo il sopravvento. Lo dimostra il capo ufficioso della forza Uriah a Gaza: si trattava nientemeno che di Bezalel Zini, fratello del nuovo capo dello Shin Bet, David Zini, un colono ultranazionalista nominato da Benyamin Netanyahu

Va precisato che questo conflitto intra-statale non riflette in alcun modo una divisione morale, e certamente non una differenza di opinione sulla risoluzione della questione palestinese. Riguarda soprattutto l’immagine che gli israeliani hanno di se stessi e quella che vogliono trasmettere alla «comunità internazionale».

Concludiamo infine che questa divisione non è né del tutto nuova né specifica al contesto coloniale israeliano. La possibilità di una dinamica faziosa in Israele e le tensioni che essa suscita si presentano dal 1967 e risalgono addirittura al 1948, quando due milizie sioniste, l’Irgun e il Lehi, rifiutarono l’ordine di istituzionalizzazione dato da David Ben Gurion all’interno del nuovo esercito israeliano. Questa frattura ricorda altri casi di colonialismo di insediamento, come quello francese in Algeria, dove i coloni rivendicavano il diritto di sfidare l’autorità di Parigi quando la percepivano contraria ai loro interessi. Già nel 1998, il sociologo israeliano Uri Ben-Eliezer studiava la possibilità un colpo di stato militare in Israele, proponendo un paragone con la Francia coloniale durante la guerra d’Algeria. L’ascesa in Israele di un’estrema destra faziosa e persino secessionista, che arriva persino a contestare pubblicamente il vassallaggio agli Stati Uniti, non fa che rafforzare questa analogia.

9 novembre 2025

Tratto da: www.yaani.fr

Traduzione a cura della Redazione di Rproject.it

 

tratto da Comune.info di Alessandra Mecozzi

Gaza. Palestinesi si avviano a presentare il festival (foto da Ezzeldeen Shalah)


Non potremo che ricordare questo evento come un’“utopia realizzata”, tra il 26 e il 31 ottobre 2025, a Deir el Balah nella striscia di Gaza. Anche chi, come me, stentava un anno fa a credere che questo progetto avrebbe preso corpo nel corso di un genocidio, nella distruzione di Gaza, sotto i continui crimini dell’esercito israeliano, con la paura delle bombe, le condizioni di sofferenza, di fame, di mancanza di tutto della popolazione, ha dovuto ricredersi. Sembrava una sfida impossibile, di fronte alle difficoltà materiali, enormi, ma anche al sentire delle persone. Un festival di cinema non era un lusso insostenibile?

Ezzeldeen Shalah

Credo che mi abbia convinto a sostenerlo, come ha convinto tutti coloro che hanno aderito attivamente al progetto, la determinazione del suo ideatore Ezzeldeen Shalah, critico e regista, di cui abbiamo più volte ascoltato da Gaza, nelle conversazioni online dei mesi di preparazione, la voce ferma, le parole convinte e irremovibili che dicevano di andare avanti, comprese quelle dette in uno dei momenti più terribili degli attacchi dell’esercito israeliano, l’invasione di terra unita a incessanti bombardamenti, di Gaza City: “Se io non ci sarò più, continuate questo lavoro…”. Parole che ci hanno stretto il cuore, ma anche rafforzati nella convinzione di sostenere la realizzazione del progetto, in tutti i modi possibili.

Il festival è stato presentato, raccogliendo fondi, in varie iniziative in Italia, e in molti paesi delle associazioni e festival di cinema che compongono l’ampia rete internazionale: è arrivato a Cannes, a Venezia, a Firenze gemellandosi con il Festival di cinema delle donne e poi al Festival dei Popoli dove il suo fondatore ha meritatamente ricevuto il premio SUMUD, parola che appartiene storicamente alla cultura palestinese: la perseveranza, la resistenza civile.

Ancora una volta la cultura ha mostrato di essere non lusso, ma risposta a esigenze fondamentali: la speranza in un futuro possibile, la sua capacità di essere vita contro la morte, una forma alta di resistenza.

E a chi gli domanda se ha senso parlare di cultura in tempi di genocidio e di fame, Ezzeldeen ha risposto: “Sì, ed è fondamentale. Il cinema è vita, è una presenza ostinata contro il nulla. Realizzare un festival tra le macerie significa dire che siamo ancora qui, che resistiamo e che c’è speranza. È il nostro modo di sfidare la morte con la vita. Vogliamo trasmettere al pubblico una carica di fiducia: la speranza, in questi tempi, è già una forma di resistenza. (fonte: pungolorosso.com).

Dunque a dispetto di tutti gli ostacoli e le difficoltà, il festival si è fatto, il tappeto rosso è stato steso, le persone che potevano hanno partecipato numerose e attente. È iniziato, come previsto, il 26 ottobre, data scelta per ricordare la Giornata delle donne palestinesi e la prima Conferenza delle donne palestinesi tenutasi a Gerusalemme nel 1929. Si è aperto con la proiezione del film vincitore del Leone d’Argento al Festival di Venezia: “La voce di Hind Rajab” di Kaouther Ben Hania, tunisina, Leone d’Argento a Venezia. Sconvolgente racconto dell’attesa e poi dell’uccisione sotto decine di colpi israeliani, di una bambina in un’auto con i familiari. Terribile e straordinariamente commovente, realizzato con grande capacità tecnica, fa rivivere quei dolorosi momenti in mezzo al genocidio di Gaza.

I 79 film in programma, tra documentari, cortometraggi e lungometraggi di finzione provengono da 28 paesi. Tutti raccontano le vite, le voci e le lotte delle donne. Il Festival è stato poi sospeso per i nuovi bombardamenti nel corso della cosiddetta “tregua” (!) e si è concluso il 31 ottobre con le premiazioni (qui trovate conclusioni e assegnazione dei premi).

La realizzazione di questa edizione del Festival incoraggia a lavorare ad una seconda edizione, come assicura il suo fondatore: “Desideriamo assicurarvi che, a partire da domani, inizieremo i preparativi per la seconda edizione”, ha detto davanti al pubblico Ezzaldeen Shalah, presidente e animatore instancabile del festival che, dal cuore di Gaza, a Deir al-Balah, dove il Sindacato dei giornalisti palestinesi ha offerto la sua sede, ha parlato al cuore del mondo.

“Gaza International Women’s Cinema”. Chiusa la prima edizione si lavora già alla seconda

La prima edizione del Gaza International Women’s Cinema si è appena conclusa il 31 ottobre. “Ma desideriamo assicurarvi che, a … Leggi tutto 

 

messaggi da Stop ReArm Europe

Oltre 800 organizzazioni chiedono agli eurodeputati di spostare i fondi dalla guerra alla pace

20 novembre 2025
Egregio/a deputato/a al Parlamento europeo,
La prossima settimana sarete chiamati a votare su una questione cruciale, il bilancio 2026, e altre importanti votazioni e negoziati sono imminenti o già in corso, tra cui il prossimo bilancio pluriennale dell’UE (QFP 2028-2034) e una serie di “pacchetti omnibus”, ovvero processi di deregolamentazione. Tutte queste proposte prevedono massicci aumenti della spesa militare e donazioni all’industria bellica. Vi chiediamo fermamente di opporvi a queste mosse pericolose e di reindirizzare le risorse verso autentiche politiche di pace. Siamo Stop ReArm Europe, una coalizione di oltre 800 organizzazioni e movimenti della società civile provenienti da tutta Europa, che rappresentano una varietà di settori e/o contesti politici, e abbiamo qualcosa in comune:
Vogliamo una sicurezza autentica, ovvero una sicurezza incentrata sui bisogni umani come la sicurezza ambientale e climatica, la sicurezza alimentare ed economica, la sicurezza sociale e sanitaria, la sicurezza comunitaria e politica, per gli europei e per tutti i cittadini del mondo.
Vogliamo una pace giusta e trasformativa che includa le condizioni affinché le società prosperino, come l’affrontare le cause profonde dei conflitti, il buon governo, la libertà e la promozione del potenziale creativo umano.
In breve, una sicurezza comune per gli Stati e i popoli.
Come attori della società civile, siamo più determinati che mai a fare tutto ciò che è in nostro potere per far sì che questo accada; ma non possiamo farcela da soli.
Abbiamo bisogno del vostro aiuto come decisori; abbiamo bisogno del vostro aiuto per fare dei valori universali dei diritti umani e del diritto internazionale i principi guida delle politiche dell’UE e per porre fine a decenni di pratiche di doppi standard che sono diventate così evidenti negli ultimi anni. La storia stessa dell’integrazione europea la rende particolarmente vulnerabile all’indebita influenza degli interessi aziendali, come dimostrato da numerosi rapporti, e le politiche di riarmo non fanno eccezione a questa regola, anzi.
La discreta ma potente attività di lobbying dell’industria bellica ha svolto un ruolo decisivo nell’adozione dei primi sussidi UE dieci anni fa, e la sua influenza sulle politiche europee, sia militari che civili, ha continuato a crescere da allora. I budget per le attività di lobbying delle dieci maggiori aziende produttrici di armi sono aumentati del 40% tra il 2022 e il 2023.
Solo nel 2025 (fino a ottobre), la Commissione ha incontrato i lobbisti del settore delle armi 89 volte per discutere di riarmo e geopolitica, e solo 15 volte con sindacati, ONG o scienziati sugli stessi argomenti. Nel frattempo, gli eurodeputati hanno incontrato la lobby delle armi 197 volte tra giugno 2024 e giugno 2025, rispetto alle 78 volte nei cinque anni precedenti. Di conseguenza, il cosiddetto piano di “prontezza alla difesa” per una presunta autonomia europea si riduce in ultima analisi a sovvenzionare grandi aziende militari, spesso internazionali, incrementando la produzione e le vendite di armi, comprese le esportazioni al di fuori dell’Europa.
Il pacchetto “omnibus per la difesa” segue la stessa logica, poiché deregolamenta ulteriormente le norme sociali e ambientali, nonché gli standard etici e di esportazione di armi, distoglie risorse da programmi civili come la politica di coesione e perverte i principi della finanza sostenibile, il tutto nell’interesse del settore degli armamenti. Quando sarà abbastanza per l’industria degli armamenti?
Oltre a indebitare l’Europa, e quindi i suoi cittadini, a beneficio dell’industria degli armamenti e di un modello economico estrattivo e ingiusto, i piani di riarmo distolgono risorse finanziarie, umane e politiche dalla sicurezza umana, nonché dalla prevenzione e dalla risoluzione pacifica dei conflitti e dalle principali sfide che l’umanità si trova ad affrontare, dai cambiamenti climatici alla perdita di biodiversità o alle crisi sanitarie, solo per citarne alcune. E la proposta per il prossimo quadro finanziario compie un ulteriore passo in questa direzione, poiché prevede un aumento di cinque volte del bilancio destinato direttamente alle politiche di difesa e spaziali, oltre a programmi civili ampiamente aperti all’industria bellica. Con il bilancio complessivo dell’UE che rimane praticamente stabile, ciò significa necessariamente uno spostamento di risorse finanziarie precedentemente destinate alle politiche civili, anche se la profonda ristrutturazione del QFP rende molto difficile identificare trasferimenti specifici.
Nel complesso, il piano ReArm Europe del marzo 2025, insieme a tutte le politiche precedenti e successive ad esso correlate, è destinato al fallimento perché rafforzerà essenzialmente l’insicurezza europea e globale, alimenterà la corsa agli armamenti globale – che a sua volta alimenta i conflitti armati – e aggraverà il cambiamento climatico e il danno ambientale, data l’impronta di carbonio e ambientale delle forze armate.
È questo il futuro che voi e noi vogliamo per la prossima generazione? Noi no, e siamo convinti che nemmeno voi lo vogliate.
Vi esortiamo quindi a spostare i fondi dalla guerra alla pace, al fine di creare le condizioni ambientali, economiche, sociali, politiche e diplomatiche per una pace positiva, la sicurezza umana e la sicurezza comune.
Ci sono una serie di passi e decisioni concrete che potete intraprendere nelle prossime settimane e nei prossimi mesi per iniziare a preparare un futuro migliore. In particolare, vi esortiamo a:
1. Respingere il bilancio 2026 durante la votazione in plenaria della prossima settimana e chiedere:
 la ripresa dei negoziati per ridurre i sussidi all’industria bellica e aumentare gli stanziamenti per la diplomazia e la prevenzione e risoluzione pacifica dei conflitti con urgenza;
 la fine di tutte le clausole di esenzione che impediscono il normale controllo parlamentare su tutti i programmi militari;
2. Difendere le norme sociali e ambientali, nonché gli standard etici, opponendosi alle diverse proposte dell'”omnibus per la difesa”, in particolare:
 impedire al Fondo per la Difesa dell’UE di iniziare a finanziare attività di sperimentazione al di fuori dell’Europa, poiché ciò consentirebbe di utilizzare il denaro dei contribuenti dell’UE per testare armi e tecnologie militari in qualsiasi zona di guerra come Gaza e l’Ucraina;  opporsi entro il 29 novembre alla proposta di limitare la definizione di armi controverse alle armi proibite, a condizione che l’UE finanzi lo sviluppo di armi dirompenti;
 respingere l’agevolazione dei trasferimenti di armi all’interno dell’UE, che contraddice gli obblighi dei paesi dell’UE ai sensi del diritto internazionale;
 respingere l’estensione di esenzioni e deroghe alle norme in materia di lavoro, sostanze chimiche, ambiente e altre norme a favore dell’industria bellica;
 respingere l’allentamento degli obblighi di rendicontazione per l’industria degli armamenti nell’ambito degli attuali quadri di responsabilità aziendale e sostenibilità
3. respingere l’attuale proposta del prossimo Quadro Finanziario Pluriennale (QFP 2028-2034) per quanto riguarda i seguenti aspetti:
 respingere il Fondo per la Competitività che stanzia 130 miliardi di euro per gli armamenti e lo spazio militarizzato
 respingere la deviazione di programmi civili, in particolare la ricerca civile come Horizon, nonché i programmi digitali, di mobilità, di coesione e altri, per scopi militari
 riassegnare questi fondi al rafforzamento della diplomazia e degli aiuti esterni, con una chiara attenzione alla lotta al cambiamento climatico, alla povertà e alle disuguaglianze, nonché alla tutela dei diritti umani e dell’ambiente, e un sostegno risoluto e coerente alla risoluzione pacifica dei conflitti con il coinvolgimento di donne, giovani e comunità emarginate
4. opporsi fermamente alle attuali pressioni volte a limitare significativamente la capacità e la legittimità degli attori della società civile di controbilanciare l’influenza delle imprese a livello dell’UE; L’attuale equilibrio di potere è già fortemente sbilanciato a favore degli interessi aziendali e un’ulteriore marginalizzazione delle voci della società civile rappresenta una minaccia diretta al dibattito democratico
nell’interesse pubblico.
Lettera di StopReArm agli eurodeputati, 20/11/25, pag. 2
Se desiderate interagire e discutere con noi delle questioni sollevate in questa lettera, vi preghiamo di contattarci all’indirizzo contact@stoprearm.org. Saremo lieti di organizzare incontri online in cui potrete condividere con molti di noi la vostra visione, le vostre speranze e i vostri progetti per la pace.
Vi ringraziamo per l’attenzione e attendiamo con ansia un vostro riscontro.

A nome della campagna Stop ReArm Europe
Il team di coordinamento di StopReArm Europe
Avvertenza: fa fede solo la versione originale in inglese

 

Enrico Semprini

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