Quando i ricchi piangono

Benetton e la povertà del capitalismo italiano.

di Gianluca Cicinelli (*)

“Benetton logo on the outside of the cockpit of the 1983 Tyrrell 011” by Ben Sutherland is licensed under CC BY 2.0.

 

E’ quasi commovente l’intervista rilasciata da Luciano Benetton al Corriere della Sera sabato scorso, con cui l’imprenditore italiano, annunciando il suo ritiro, dichiara di essere stato “tradito” dal suo amministratore delegato Massimo Renon, sotto la cui gestione si sarebbe verificato un “buco” di 100 milioni di euro, tenuto nascosto dal manager. Nel 2019 il patrimonio di Luciano Benetton stimato da Forbes ammontava a 2,8 miliardi di dollari, un motivo sufficiente a ritenere che il suo modo di pensare, al di là di qualsiasi cosa si possa pensare di lui e della sua azienda, sia molto diverso da quello di noi comuni mortali.

Difficile parlare di Benetton senza ricordare le sue responsabilità nel crollo del Ponte Morandi a Genova, 43 morti e 566 sfollati, sempre nel 2019. Il processo è ancora in corso, ma l’ultima perizia di parte di Aspi (Autostrade per l’Italia, ovvero coloro che dovevano provvedere alla manutenzione) ancora insiste sull’imprevedibilità del crollo per sviare le accuse dalla mancata manutenzione. A smentirla, le foto della Nasa, che dimostrano come fin dal 2015 il ponte si stesse deformando. Imprevedibile una beata ceppa, quindi.

A pagare per il crollo, a parte i morti, i feriti e gli sfollati, è stato l’ex Ad di Aspi, ovvero gruppo Benetton al momento della tragedia, Giovanni Castellucci (condannato nel 2023 a sei anni di reclusione in appello per un’altra tragedia stradale, la strage di Acqualonga del 2013 sull’A16, 40 morti). Più che pagare lui hanno pagato i Benetton, con una buonuscita da 13 milioni di euro per quest’altro bell’esponente dell’elite del management italiano.

Luciano Benetton è uno che “chiagne e fotte” (piange, mentre ti distrae e così ti frega) spesso, come dimostra anche questa intervista, o esempio di marketing aziendale, in quella matassa indiscriminata d’interessi tra stampa italiana e stanze del potere economico. Nel novembre 2019 Luciano Benetton, invia una lettera ai maggiori quotidiani italiani in cui parla di “campagna d’odio” che si è scatenata sulla sua famiglia, definisce i Benetton “parte lesa” rispetto alle vicende di Genova perché “nessun componente della famiglia Benetton ha mai gestito Autostrade”. L’ipocrisia al potere.

Ma torniamo all’intervista di Benetton al Corriere della Sera. Il gruppo Cairo è proprietario del Corriere della Sera tramite Rcs, la stessa Rcs che aveva venduto nel 2013, prima di Cairo, per 120 milioni di euro il complesso immobiliare di Via Solferino/Via San Marco/Via Balzan, storica sede del Corriere della Sera, al Fondo Blackstone Group, un fondo Usa attualmente alleato con i Benetton per l’Opa su Atlantia, che si occupa d’infrastrutture stradali, in precedenza proprietaria di Autostrade per l’Italia, venduta da Atlantia dopo la tragedia del Ponte Morandi. Cairo dopo averlo denunciato ricucì i rapporti con il fondo Blackstone, che nel frattempo aveva venduto per 300 milioni di euro a un’altra società l’immobile, per ricomprare alla fine lo stesso complesso a 70 milioni di euro. Cairo/Rcs/Corriere della Sera, Benetton/Atlantia/Blackstone, i favori si restituiscono.

Nell’intervista Benetton denuncia Il piano triennale per il pareggio, che doveva concludersi nel 2023, è fallito. Benetton denuncia un atteggiamento “arrogante e poco capace” dei nuovi dirigenti e segnala gravi problemi finanziari: “Presentano improvvisamente un buco di bilancio drammatico, uno shock da 100 milioni di euro”.

“Guardi – dice a proposito del suo management Benetton – o sono impreparati al punto da non saper comprendere i fondamentali dell’azienda, quindi in buona fede ma gravemente inadeguati agli incarichi che hanno ricoperto, oppure hanno deciso volontariamente di tenere nascosta la realtà dei fatti quindi omettendo informazioni preziose, fino al punto in cui non hanno più potuto nascondere la verità. Ci sarà un’investigazione a riguardo”.

“Luciano Benetton” by Paul Katzenberger is licensed under CC BY-SA 4.0.

Con le lacrime agli occhi verrebbe voglia di lanciare una colletta per aiutare Benetton. Salvo poi andare a rileggersi il bilancio 2022 del Benetton Group: fatturato di 1.004 milioni di euro (+19% sul 2021), 103 milioni di euro di margine operativo lordo, 81 milioni di euro di perdita. Quindi, per quelle quattro operazioni di matematica che ricordiamo fin dalle elementari, le perdite e il buco in bilancio di Benetton è ben superiore ai 100 milioni di cui parla Luciano Benetton. Il debito finanziario di Edizione, l’holding finanziaria controllata dalla famiglia Benetton, si aggira invece intorno agli 8 miliardi di euro.

Un altro Benetton, Alessandro, presidente di Edizione, individuato come successore proprio dal padre Luciano, a gennaio di quest’anno parlava con entusiasmo del 2023 come “Un anno eccezionale di innovazioni e nuove traiettorie”. Che in un certo senso, se è vero quel che dice il padre sul buco da 100 milioni, è anche vero, seppur in negativo. In una lunga intervista rilasciata sempre al Corriere della Sera, guarda tu il caso, nel marzo scorso, Candida Morvillo gli chiedeva: “Il passaggio generazionale sta risultando devastante per altri grandi famiglie come gli Agnelli o i Del Vecchio, come avete fatto voi a fare a non tirarvi i coltelli?”. rispondeva Benetton figlio: “Il galateo mi suggerisce di non parlare degli altri. Da tecnico che ha seguito molti passaggi generazionali, soprattutto nella piccola e media impresa, credo che il segreto stia nell’usare strumenti giusti per separare l’eredità economica e la responsabilità che ti dà l’essere influente sulla vita di tante persone”. Al contrario tutto bene in casa Benetton, asserisce il sessantenne Alessandro.

Parliamo di marzo, non dell’anno scorso o di dieci anni fa. Fino a due mesi fa quindi dobbiamo pensare che il Presidente di Edizioni fosse all’oscuro del buco da cento milioni di euro di cui parla il padre. Ma lo stesso Luciano sostiene che questa situazione è diventata nota all’interno del gruppo fin dal settembre 2023. Quindi o il presidente di Edizioni è un po’ tardo a capire oppure, come spesso accade all’interno della famiglia Benetton, non la racconta giusta.

Bugie e controversie dei Benetton, anche mettendo da parte il marchio dell’infamia del Ponte Morandi, difficile da rimuovere, non sono cosa nuova. Secondo la Guida al vestire critico, Centro nuovo modello di sviluppo, 2006, Edizione Missionaria Italiana “Benetton ottiene parte dei suoi prodotti da terzisti localizzati in Cina, paese che vieta ogni libertà sindacale”. C’è poi la vicenda dell’acquisizione nel 2003 di The Argentine Southern Land Company Limited, che aveva la proprietà di circa 900 000 ettari di Patagonia. Parte di questa terra è rivendicata dal popolo Mapuche, costretto a vivere in una striscia di territorio sovraffollato, diventata manodopera a basso costo. Benetton ha tentato di rifarsi la verginità donando alla provincia argentina del Chubut ottomila ettari di terra, ricevendo un netto rifiuto da parte governatore.

Va poi ricordato il crollo del Rana Plaza di Savar nel 2013 a Dacca, in Bangladesh con 381 morti. Secondo alcune fonti lì, avrebbe avuto sede una delle fabbriche tessili a cui la Benetton appalta i suoi lavori. L’associazione Campagna Abiti Puliti ha accusato Benetton di non controllare le condizioni di sicurezza delle aziende cui affida la gestione dei loro prodotti. Infine anche sul sistema di vendita di Benetton sono sorte diverse controversie. Il gruppo impone alla rete di negozi in franchising che vendono i prodotti del suo marchio obiettivi di vendita svincolati dall’andamento della domanda di settore. I titolari sono tenuti a garantire un determinato livello minimo di forniture e di assortimento, a prescindere dalle reali probabilità di vendita a prezzo pieno e a saldo. In sostanza l’invenduto resta ai dettaglianti. Della questione si è occupata l’Antitrust, ipotizzando un abuso di dipendenza economica. Il Gruppo Benetton è anche stato sanzionato dal Garante della privacy italiano, per aver trattato illecitamente i dati personali di un numero piuttosto rilevante di clienti ed ex clienti del servizio di e-commerce.

Potremmo andare avanti a lungo, ma è evidente che le belle e innovative fotografie di Oliviero Toscani non bastano più a coprire il fallimento etico, visto che quello economico sembrerebbe alle porte, di un’azienda “modello” del capitalismo italiano, basata sulla favola del buon Luciano figlio di operai che dal nulla crea posti di lavoro e un’immensa ricchezza. Anzi, siccome siamo persone serie e non cediamo al semplicismo populista, è vero che Luciano Benetton ha avuto una grande capacità nell’impiantare la sua azienda. La verità della sua parabola però sta nel fallimento della gestione finanziaria, non da oggi, che è comune a tutte le imprese italiane e multinazionali. Anche se quello che noi definiamo fallimento, è l’essenza stessa del capitalismo attuale, il nulla fondato non soltanto sul nulla di azioni e titoli ma sulla pelle di milioni di persone in tutto il mondo.

La produzione che trascende la materialità dei prodotti, trasformandosi in scambi digitali le cui regole non sono le stesse che regolano la vita della società civile e in cui oggi la criminalità organizzata ha una capacità d’intervenire e dettare le regole stesse senza nemmeno correre il rischio di violare la legge perché è la legge. Non è stato tradito come afferma, Luciano Benetton, è semplicemente rimasto vittima di un sistema economico truffaldino a cui lui stesso ha fornito le chiavi per entrare.

“Bonn – United Colors of Benetton” by R/DV/RS is licensed under CC BY 2.0.

(*) Link all’articolo originale: https://diogeneonline.info/quando-i-ricchi-piangono-benetton-e-la-poverta-del-capitalismo-italiano/

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