Quanto ci rende davvero umani

di Silvia Vegetti Finzi – Viviamo in un mondo dominato dall’angoscia del presente e dalla paura del futuro, un mondo dove l’individualismo competitivo ha cancellato la cifra del materno, la relazione che ci fonda.

 

 

Come scrive il grande psicoanalista inglese Donald W. Winnicott: «Mi sembra che nella società umana qualcosa vada perduto.

I bambini crescono e diventano a loro volta padri e madri ma, nel complesso non crescono nella consapevolezza di ciò che le loro madri hanno fatto per loro all’inizio della vita (…) Ma non è proprio perché è immenso che questo contributo della madre devota non viene riconosciuto? (…) Senza un vero riconoscimento del ruolo della madre, rimarrà una vaga paura della dipendenza. Questa paura prenderà qualche volta la forma di paura della donna, o di paura di una donna, e altre prenderà forme non facilmente riconoscibili, che includono sempre la paura di essere sopraffatti».

 

Certo non basta essere madri per essere materne, ma il paradigma rimane valido nonostante molte eccezioni e il termine mater, con la sua radice materia, conserva il valore simbolico che la nostra storia gli ha attribuito, anche oggi che molte cose sono cambiate.

 

La madre, che Freud definisce «quel preistorico, indimenticabile Altro, che più tardi non sarà mai eguagliato da nessuno», è investita al tempo stesso da pulsioni di amore e di odio ma di solito, grazie alla sua dedizione, l’amore prevale e si proietta poi, non senza ambivalenze, sulla donna che l’uomo sceglie come compagna della sua vita.

 

Alla luce di questa constatazione, il gesto delle donne che si oppongono alla violenza maschile con l’unica risorsa del corpo femminile e materno acquista una valenza nuova che interroga, oltre alla nostra identità, la complessa relazione tra i sessi.

 

Osservando la sequenza delle immagini pubblicate, scorgiamo da una parte un cupo, minaccioso carro blindato e, più frequentemente, un plotone antiguerriglia composto di militari in assetto di combattimento, espressione di un potere maschile violento, anonimo e impersonale. Dalla parte opposta si erge invece una donna sola che, avvolta in abiti leggeri, magari con il velo ma a volto scoperto, li fronteggia mostrando al mondo — i fotografi sono in agguato — la sua identità e le sue emozioni. La dissimmetria è evidente e lo scontro, in termini fattuali, già deciso.

 

Tuttavia la consapevolezza della nostra debolezza può tradursi in potenza eversiva, come mostra il valore del martirio nella storia della Chiesa. In quanto vittima designata della violenza maschile, la donna si offre volontariamente all’assalto dell’aggressore ma la sua esposizione non esprime rassegnazione quanto resistenza e volontà di mediazione. Ma che cosa può dire il silenzio femminile di fronte alla minaccia delle armi? Il suo corpo parla per lei evocando la dolcezza dell’amore — vi ricordate lo slogan «mettere fiori nei vostri cannoni» con cui una generazione si è opposta alla guerra in Vietnam? — e la potenza della generazione. Come scrive Adrienne Rich negli anni in cui i giovani erano veramente tali: «Tutta la vita umana nel nostro pianeta nasce da donna. L’unica esperienza unificatrice, incontrovertibile, condivisa da tutti, uomini e donne, è il periodo trascorso a formarci nel grembo di una donna… Per tutta la vita e persino nella morte conserviamo l’impronta di questa esperienza. Non a caso la prima e l’ultima parola sono appunto “mamma”».

 

Nella plurisecolare iconografia della Madonna, che ha plasmato l’inconscio femminile, l’immagine di Gesù bambino e di Cristo deposto dalla Croce, l’uno in braccio, l’altro in grembo alla Madre, si richiamano specularmente, come la Vita e la Morte.

 

Questo non significa che tutte le donne debbano essere madri ma che tutte sono potenzialmente tali, portatrici di un messaggio generativo che può essere negato o espresso in vari modi.

 

Uno di questi è promuovere la giustizia e la pace, come testimoniano le Donne in nero e le Madri di Plaza de Mayo. Là madri di figli da strappare alla morte e all’oblio, qui donne che difendono la vita e i diritti di tutti, donne che, contro la prepotenza del più forte, chiedono il riconoscimento di un altro diritto, quello della vita. A che titolo si attribuiscono questo potere?

 

In virtù del corpo materno, della sua conformazione, della sua funzione. Un corpo cavo predisposto per recepire, contenere, nutrire il figlio e infine, come osserva Cacciari in Generare Dio, per partecipare simbolicamente al suo stesso andar via, fuori, lontano, al suo esodo da lei.

 

La madre è l’unico tiranno che emancipa spontaneamente il suo suddito, l’unico padrone che libera volontariamente il suo schiavo, l’unico carceriere che apre le porte al suo prigioniero.

 

Un “lasciar andare” che non rinuncia mai alla responsabilità e alla disponibilità.

 

Ma non solo, il corpo materno ha rappresentato per secoli, prima che il meccanicismo della modernità soppiantasse il vitalismo antico, la potenza della Madre Terra. Una metafora che connette la generazione dei figli alla raccolta delle messi, il ciclo della fecondità umana con il ritmo astrale dell’universo. La donna che offre e chiede Pace si presenta come simbolo della natura che ci contiene e della natura che ci attraversa. Il suo corpo, crogiuolo di materia e forma, parla due linguaggi: quello impersonale della Vita senza aggettivi e quello simbolico della vita di relazione, della storia, della genealogia familiare, della bio-grafia che rende ciascuno un essere inconfrontabile e insostituibile.

 

Gli uomini che la fronteggiano muti, il volto oscurato dalla celata dell’elmo, temono la potenza di chi non ha paura per il solo motivo che si trova dalla parte giusta e, non sapendo come reagire, sono tentati di piegarla con la violenza che pertiene al loro genere, quella sessuale. In fondo le donne sono sempre state messe a tacere con la prepotenza del più forte. E nulla sembra essere cambiato stando alla tragedia del femminicidio che insanguina, dopo le tragedie del passato, un secolo che avrebbe voluto essere diverso. Eppure qualche cosa sta accadendo.

 

Di fronte alla coraggiosa esibizione di un corpo femminile che s’immola in nome dei valori in cui crede, per un momento, almeno per un momento, lo spazio si contrae, il tempo si ferma e, sulla concitata, rumorosa scena del conflitto cala il severo silenzio del sacro. All’improvviso un vettore verticale scende a interrompere l’orizzontale, meccanico, ritmico, procedere del tempo cronologico. Un’intenzionalità altra chiede tregua al precipitare degli eventi, alla imponderabile deriva dell’obbedienza obbligata, subita, mai pensata, come quella imposta agli eserciti.

 

Null’altro che un limite simbolico, una sospensione inattesa, analoga alla tensione spasmodica dell’equilibrista sospeso sulla corda che oscilla, ma è proprio in quell’intervallo del tempo e dello spazio che l’attesa cede il posto all’inatteso lasciando libero accesso alla speranza. Che cosa può fare il singolo, posto di fronte a eventi che non controlla, se non testimoniare?

 

Lei potrebbe parlare, suggestionare, convincere, sventolare una bandiera, proporre uno slogan. Invece il più delle volte preferisce affidarsi allo sguardo e al gesto, come conviene alla fase perinatale, al due in uno che sta prima dell’inserzione del padre nella diade originaria. Ed è in quell’epoca preistorica che, con autorevolezza, lei convoca il suo antagonista.

 

Intende ricordargli che tutti si nasce figli e che, ancor prima di venire al mondo, prima di essere un bambino, anche lui ha soggiornato per nove lune in un grembo materno. Come, per altro, faranno i suoi figli.

 

L’incontro promosso da una donna che non ha alcun titolo per farlo se non una caparbia volontà, evoca storicamente un prima, una società materna che non è mai esistita, un matriarcato mai realizzato. Eppure quell’epoca persiste nell’immaginario come un mondo di pace, di eguaglianza, di giustizia, lo stesso che sottende ogni utopia. Nell’inquieto rapporto tra i sessi, nel loro dissimmetrico confronto, possiamo scorgere un desiderio di ricominciare, di stipulare una nuova alleanza, di dire “ancora”.

 

Ma la soluzione di tanti conflitti che turbano la nostra civiltà, causati dalle pulsioni aggressive e autodistruttive dell’uomo, è un problema che rischia di restare irrisolto.

 

Come scrive Freud in conclusione a Il disagio della civiltà: «E ora dobbiamo aspettarci che l’altra “potenza celeste”, l’eterno Eros, faccia uno sforzo per imporsi nella lotta contro il suo altrettanto immortale avversario (Thanatos). Ma chi può prevedere quale sarà l’esito, e se sarà felice?».

 

Come sempre, posti di fronte ai quesiti più radicali, non ci resta che appellarci all’educazione, alla possibilità di prevenire gli scontri costruendo una nuova umanità, capace di incanalare la naturale aggressività verso ideali condivisi. A tal fine è ancora alla madre che spetta il compito fondamentale di sostituire al maschio virile, all’eroe violento, all’individuo competitivo, un soggetto capace di affermarsi accettando le componenti passive della sua identità, come la dipendenza, la vulnerabilità, la caducità: quanto ci rende davvero umani.

 

Silvia Vegetti Finzi

Redazione
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Un commento

  • gran bella riflessione, da far circolare tra donne e uomini. Non per delegare alle donne la riparazione dei disastri causati dagli uomini, ma per imparare, anche noi uomini, a riconoscerci e vivere da esseri consapevolmente umani, fragili e bisognosi di reciprocità di amore.

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