Scor-data: 17 luglio 1959

R. I. P. Billie Holiday1

di Franco Minganti (*)  

Nat Hentoff, critico di jazz assoldato dal produttore Robert Herridge per la cura e l’organizzazione di The Sound of Jazz – un programma televisivo andato in onda sulla CBS domenica pomeriggio 8 dicembre 1957, dalle 5 alle 6, che avrebbe rivoluzionato il modo di trattare il jazz –, naturalmente presente nello studio 61 della CBS, così ricorda la performance di Billie Holiday di «Fine and Mellow»:2

Pronta a cantare, [Billie] era appollaiata su un alto sgabello, di fronte ai musicisti, in piedi in semicerchio. Tranne uno, Lester Young. Prez (così Billie lo aveva soprannominato tempo prima) non stava bene. Era così debole durante le prove che la maggior parte dei suoi assoli durante il segmento precedente con l’orchestra di Basie se li erano divisi Ben Webster e Coleman Hawkins. Ora Prez era abbandonato su una sedia, gli occhi discosti da Billie, con la quale non parlava da un po’ di tempo. Un tempo erano molto amici e non sapevo quale disaccordo li avesse separati per così tanto tempo, ma durante le prove si erano ignorati.

Lady Day (così Prez l’aveva soprannominata) iniziò a cantare; e nel buio della sala regia il produttore, il direttore e il resto dei tecnici si sporsero in avanti. La canzone, scritta da Billie, era uno dei pochi blues del suo repertorio. Questa volta la usava per parlare non tanto di guai, quanto piuttosto del trionfo dolceamaro di essere sopravvissuta – con alcuni rovesci lungo la strada. A dispetto del mito secondo cui, verso la fine, Billie suonasse invariabilmente come una incrinatura arrochita di quanto era stata anni prima, quel pomeriggio aveva il pieno controllo di quello strumento aspro, penetrante, sinuosamente swingante che era la sua voce.

Era il momento dell’assolo di Prez. In qualche modo riuscì ad alzarsi in piedi e si produsse nel più scarno, nel più puro chorus di blues che io abbia mai ascoltato. Billie, sorridendo, annuendo a tempo, guardò negli occhi Prez, e Prez la guardò nei suoi. Lei ripensava, con il più dolce dei rimpianti, al loro passato. Anche Prez stava ricordando. Ciò che aveva fatto appassire la loro relazione venne dimenticato nella comunione della musica.3

All’indubitabile successo di quel filmato contribuisce direttamente la ricerca di ‘onestà’ da parte di Hentoff e soprattutto Herridge, un colpo d’occhio, in sintonia con lo spirito della session, che non passa inosservato al pubblico televisivo, forse un po’ casualmente seduto davanti all’apparecchio tv in quel pomeriggio di dicembre.4 Il senso di realtà della jam session viene rinforzato dalla decisione di mostrare la musica lì dove ha luogo, in uno studio televisivo: niente scenografie né messe in scena, e anche la macchina (ri)produttiva dello spettacolo tv resta in scena, le telecamere (ben in vista il logo CBS), i cameramen, gli assistenti di studio e gli altri pochi presenti.5 Rispetto alle ingessature delle riprese di sempre, qui la straordinaria fluidità della musica viene ripristinata e rinforzata anche attraverso il rifiuto della rigidità di ruoli e costumi: i musicisti sono vestiti normalmente.

Ero sicuro di aver spiegato a Billie Holiday che lo spettacolo sarebbe stato del tutto informale, ma quando me lo sentì ripetere qualche giorno prima di andare in onda, si mostrò piuttosto delusa. ‘Ho appena speso 500 dollari per una dannata gonna’ mi disse in faccia. A spettacolo finito, un minuto dopo le sei di quella domenica pomeriggio dell’8 dicembre 1957, Billie era così felice per come erano andate le cose in quell’ora che venne da me e mi baciò.6

A sentire il suo biografo forse più sensibile, Robert O’Meally, autore di Lady Day: The Many Faces of Billie Holiday (1991), Billie sicuramente alimentò la diffusione di miti intorno alla propria vita, dato in qualche modo incoraggiato anche da certi dettagli ‘falsificati’ della sua autobiografia, Lady Sings the Blues (1956), affidata al ghost writing di William Dufty, libro che probabilmente lei non lesse mai. Eppure, uno dei segni forti della sua immagine è quello dell’autenticità: una voce segnata che si incarna perfettamente in un corpo segnato e cangiante – dispiace non avere la sua opinione diretta sulla registrazione di The Sound of Jazz, visto che la sua autobiografia esce giusto l’anno prima.

Farah Jasmine Griffin dedica a quella performance un intero capitolo del suo libro («Coda: A Morning Song»). Proprio a partire dalla topologia di quella performance, con Billie Holiday seduta su uno sgabello di fronte ai musicisti schierati a semicerchio,7 Griffin legge una sorta di archetipo rituale, erede forse dei ring shouts e di cerimonie vudù, in cui Holiday, unica donna, presiede a una cerimonia antica e sempre attuale. E’ sacerdotessa di un rito animistico che riconosce gli antenati scomparsi e fa omaggio agli anziani ancora vivi, e ciò che canta è un sermone che, in una specie di quieto stato di grazia, elabora saggezza profana: se il tuo uomo ti tratta male e non rinuncia ai suoi vizi, anche se fa l’amore come un dio, dagli un avvertimento e, se non si comporta come si deve, lascialo pure.

«Indossa una gonna diritta, con la cerniera di lato, e una maglia chiara – epitome del ‘casual chic’ anni cinquanta – la coda di cavallo suo segno distintivo, orecchini ad anello che le pendono dai lobi»:8 pur al centro della rete degli sguardi dei musicisti – della gente in studio, dell’audience televisiva – sono gli occhi di Holiday a dirigere affettivamente il nostro sguardo sugli altri suoi compagni di viaggio musicale, a farci assecondare le sue risposte ai loro assoli, i suoi sorrisi di apprezzamento e incoraggiamento, e persino certe espressioni che paiono più profondamente autodirette.

Il primissimo piano del suo volto è tagliato dalla luce, il contrastatissimo bianco e nero della telecamera stretta su di lei. «My man don’t love me …», l’orecchino che dondola mentre il viso accompagna impercettibilmente la modulazione della voce. Occhi, naso e bocca sono in piena luce, la carnagione appare segnata, forse rovinata, l’espressione è dolce ma provata, l’intimità che viviamo rasenta l’interiorità impossibile «…treats me awful mean». Al cambio dell’inquadratura – «my man, he don’t love me …» – andiamo su un piano americano dell’altra parte del viso, in piena luce, davanti al microfono, per poi ritornare subito al primissimo piano: «he’s the lowest man I’ve ever seen». Billie prende il respiro, concentrata, sposta impercettibilmente lo sguardo verso l’esterno, composta e assorta cerca una messa a fuoco per gli occhi. Segue poi gli assolo, dolce lo sguardo su Lester Young, che nelle strofe l’aveva sostenuta nota per nota all’unisono, quasi fosse il corpo del soffio dell’anima di lei, mentre ogni tanto la regia stacca su un’inquadratura di schiena di Holiday, con il semicerchio dei musicisti davanti a lei, oggetto del suo e nostro sguardo. E’ una musicista tra musicisti – è lei ad aver detto «Non credo di cantare. Sento piuttosto di suonare uno strumento a fiato. Tento di improvvisare come Les Young, come Louis Armstrong, o come qualcun altro che ammiro»9 – e la voce è il suo strumento. Sorride e assente alle performance altrui, il viso mobile, alza lo sguardo lontano, all’infinito, viene inquadrata di profilo, in basso a sinistra sullo schermo – «… he’s so fine and mellow» – con i sassofoni tutti schierati. Poi entra nell’inquadratura con le trombe, inumidisce le labbra, scosta lo sguardo, si lascia attraversare dagli assolo, quindi risponde ironica col sorriso agli stacchi di batteria.

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(*) Nella foto si vedono Billie Holiday, Lester Young, Ben Webster e Gerry Mulligan. “Lady Day” muore il 17 luglio 1959.

Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano. Dall’11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» – qualche volta raddoppia, pochi minuti dopo – di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio”. Ma qualche volta ci sono argomrenti più leggeri che… ogni tanto sorridere non fa male.

Molti i temi possibili. A esempio, nel mio babelico archivio, sul 17 luglio fra l’altro avevo ipotizzato: 1566: muore Bartolomeo de Las Casas; 1793: Charlotte Corday al patibolo; 1871: grande sciopero negli Usa; 1959: in Tanzania i coniugi Leakey trovano i resti di un ominide con utensili di pietra; 1969: muore John Coltrane; 1942: inizia la battaglia di Stalingrado; 1973: protesta dei pescatori giapponesi per lo scarico di mercurio nelle acque; 1987: 53 morti in Valtellina.E chissà a ben cercare quante altre «scordate» salterebbero fuori.

Molte le firme (non abbastanza forse per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi: magari solo una citazione, una foto o un disegno. Se l’idea vi piace fate circolare le «scordate» o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare – ribadisco: ne abbiamo bisogno – mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”. (db

1 Questo brano costituisce un paragrafo del saggio “Qualcosa sulle immagini in movimento di Billie Holiday” che compare nel volume Altre X-roads. Modi dell’espressività afroamericana. Jazz, cinema, letteratura, storytelling, performance, Bacchilega Editore, Imola 2009.

2 Nel 1939 «Fine and Mellow», scritta dalla stessa Billie Holiday, era stata il retro di «Strange Fruit», nell’immaginario popolare decisamente la canzone di Billie Holiday, nonostante l’autore del testo sia il poeta Lewis Allan. Eppure, nei juke-box, «Fine and Mellow» fu un successo maggiore.

3 N. Hentoff, ‘The Sound of Jazz’: Sunday Afternoon, 5-6, December 8, 1957, in Jazz on Television, The Museum of Broadcasting, New York 1985, pp. 39-43, pp. 42-43.

4 Lo stesso Hentoff ricorda la lettera di una spettatrice affascinata dal programma perchè così di rado si aveva l’opportunità di «vedere [in tv] gente vera fare qualcosa in cui crede davvero».

5 La natura improvvisativa del jazz viene amplificata dal contributo di cameramen cui viene richiesto dal produttore di ‘improvvisare’ le inquadrature, ovvero di ricercare tagli inediti, al cui montaggio istantaneo provvederà comunque Jack Smight – futuro regista cinematografico di vaglia – che siede in cabina-regia.

6 N. Hentoff, ‘The Sound of Jazz’: Sunday Afternoon, 5-6, December 8, 1957 cit., p. 40.

7 C’è, più vicina, una sezione fiati con Lester Young, Ben Webster, Coleman Hawkins ai tenori, Gerry Mulligan al baritono, Vic Dickinson al trombone, Roy Eldridge e Rex Stewart alle trombe; poi, oltre quel primo cerchio, c’è la sezione ritmica con Jim Hall alla chitarra, Jo Jones alla batteria e Milt Hinton al contrabbasso.

8 F.J. Griffin, In Search of Billie Holiday cit., p. 194.

9 Nat Shapiro e Nat Hentoff (editors), Hear Me Talkin’ to Ya, Penguin, Harmondsworth 1955, p. 200.

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