Scordata: 11 gennaio 1955

La morte di Rodolfo Graziani, killer di Stato in libertà

dove Antonio Fantozzi propone anche un racconto che Hugo Pratt non ha mai scritto né disegnato

Era il 19 febbraio 1937, Anno del Signore. Eccolo, il Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani. Una faccia scolpita nella roccia dura, dura e maschia. Con l’aquila imperiale sul cappello e un fazzoletto color carta da zucchero intorno al collo. Ad Addis Abeba, il Nuovo Fiore dell’Africa, per i festeggiamenti per la nascita, a Napoli, del figlio del Re. Ce l’ha fatta, finalmente, pensava Rodolfo Graziani. Se poi è stato lui a ingravidare la Regina, ah! ah! ah! Pensieri sboccati dell’Italia fascista, un faro di civiltà, in Africa.

Gli italiani avevano promesso l’elemosina ai più bisognosi. C’era una folla enorme. Poi l’esplosione. Erano morte sette persone e Rodolfo Graziani era rimasto ferito. Se l’era legata al dito, e aveva fatto il nodo al fazzoletto. Era furioso, e con quel fazzoletto del colore della carta da zucchero si asciugava il sudore, impaziente sopra un letto d’ospedale. Un affronto personale che non poteva tollerare. Intanto i civili italiani davano la caccia ai mori. Incendiarono case e chiese copte, massacrarono uomini, donne e bambini, e tutti gli animali. Uccisero più di seimila persone solo nei primi giorni, e il massacro continuò per settimane e mesi. Allora Graziani mandò un telegramma al generale Maletti, che ci pensasse lui, a Debra Libanos. Era là, aveva sentito, che s’erano rifugiati gli attentatori. E Maletti, puntuale, eseguì l’ordine, e fu una strage. Era il 21 maggio 1937. L’uomo di roccia si congratulò con lui, e il Duce gli mandò un telegramma e una promessa.

Era alta, nera come il legno d’ebano, con i fianchi stretti e il ventre piatto e i seni maturi e sodi rivolti al cielo. Il viso bellissimo sormontato da un’aureola di riccioli di un rosso di brace. Faceva il bagno nelle calde acque dell’Oceano Indiano. Sembrava uscita da un incantato e sognante fumetto di Hugo Pratt.

Corto Maltese la guardava coricato sulla spiaggia, le mani sotto la testa e il berretto calato sugli occhi.

«Com’è l’acqua?».

«Calda e salata», rispose lei scomparendo fra le onde. «Perché non vieni anche tu?».

«Io ci navigo da quando sono nato, e questo mi basta».

«Sì, lo so, sei un lupo di mare, ma non veramente un lupo».

«Il sole sta scendendo e abbiamo un carico di armi da consegnare alla Resistenza».

«Sì, ma è ancora presto. L’appuntamento è per mezzanotte».

«Non hai fame?».

«Quando avrò finito di nuotare ne avrò anche di più».

Uscì dal mare come la Venere di Botticelli, e l’acqua le scivolava sulla pelle come rugiada sui petali di un fiore, e infiniti diamanti le brillavano tra i capelli.

«Corto, mi stai guardando».

«Anche tu mi stai guardando, Shamira».

«Però tu sei vestito».

«Io non sono così bello».

Ritornati sulla goletta, mangiarono sotto un cielo di stelle, cullati dal mare. E poi arrivarono le barche, e gli uomini trasbordarono le armi. Carabine Mauser e granate. Si preparava una battaglia per la terra. Le truppe italiane erano ammassate nei pressi di Makallè. I guerriglieri abissini avevano salutato le famiglie dicendo alle mogli e ai figli di non piangere la loro morte perché erano già morti tanto tempo prima. Il Negus aveva parlato e il grido di battaglia era fatto di tre parole: Terra o morte!

La ragazza di nome Shamira, invece, voleva vendicare la rappresaglia italiana contro gente inerme, donne e bambini soprattutto. A Debra Libanos.

«Corto, devo dirti una cosa. Lo sai cos’è un esercito d’occupazione?».

«Ho attraversato molte guerre in tante epoche diverse. Ma forse tu devi raccontarmi una storia che non conosco».

«È la storia di mia madre. Mi trovi bella? Lei lo era di più. E il suo cuore era grande come le montagne dell’Amba Alagi. Era una guaritrice. Lei toccava le persone e loro guarivano. Conosceva le erbe e le pietre, e parlava con i morti. Non mi credi?».

«Shamira, tu non sai mentire».

«Io ero piccolina, e lei mi insegnava. Un giorno le serviva veleno di serpente, e mi portò con sé nel deserto. Teneva a tracolla una sacca di pelle di capra. Pensavo che ci fosse l’acqua e il pane e qualche dattero. Arrivammo in un posto pieno di pietre. L’orizzonte baluginava come onda di mare. “È qui che vivono”, disse mia madre. “È qui che hanno la casa. Noi qui siamo gli intrusi, e si difenderanno. Non per cattiveria ma per amore della loro terra”. Lo capisci, Corto? Lei mi parlava dei serpenti e allo stesso tempo mi parlava del nostro popolo».

«Vai avanti, Shamira».

«“Shamira, le vedi quelle fessure? È lì che stanno. Da lì entrano e da lì escono. E non vogliono intrusi intorno”, disse mia madre e aprì la sacca di pelle, e dentro c’erano tanti specchi, e li dispose davanti a quelle fessure. “Le vedi le nostre immagini riflesse? È quello che vedranno anche loro. Dobbiamo solo aspettare che il sole tramonti. Passata la calura del giorno loro usciranno. Riuscirai ad avere tanta pazienza?”. Corto, riuscii ad avere tanta pazienza. Il sole in cielo era implacabile, e noi in piedi, immobili, una madre e sua figlia, le nostre immagini dentro gli specchi. Poi anche il sole si stancò di stare appollaiato là in alto, e cominciò a scendere. Allora vidi i serpenti, e avrei voluto scappare. E cominciarono ad attaccare i vetri argentati, e morsero e morsero e morsero. Infine, esausti, strisciarono via. Allora mia madre raccolse gli specchi».

«Ed erano pieni di veleno, Shamira».

«Quella era mia madre. E me l’hanno portata via. Il giorno che nel villaggio arrivarono i diavoli. Ho voglia di una tazza di tè, Corto, ne vuoi? Giunsero al sorgere del sole, figli della notte senza luna che li aveva partoriti. Razziarono gli animali, o se no li uccisero. Depredarono, fucilarono gli uomini e le donne anziane, e quelle giovani le trascinarono via. Sventrarono e violentarono e mutilarono. Lanciavano in aria i bambini più piccoli e li infilzavano con le baionette, ed era come un gioco, era il loro gioco, e ridevano, loro ridevano. Mia madre mi nascose in un buco dietro casa, dove buttava gli avanzi per il maiale. Mi coprì con una stuoia e mi disse di fare come quella volta con i serpenti, restare immobile e avere pazienza. “È come il temporale”, disse, “passa e va”. La presero e la toccarono, ma quel tocco non guarì la loro cattiveria. Non si può guarire la cattiveria. Poi, così com’era arrivato, il temporale andò via. E allora timidamente uscii. Non posso dimenticare l’orrore che mi trafisse gli occhi. C’erano teste tagliate infisse sui pali, e corpi smembrati, e incendi ovunque, e c’era l’odore del sangue e della carne bruciata. Il fumo mi accecava e mi faceva tossire, e io cercavo mia madre, però lei non c’era più. Mi muovevo in mezzo a quella rovina e inciampai su un tumulo di terra smossa, e allora cominciai a scavare, con le mani, senza saper smettere, senza poter smettere, fino a scorticarmi, ma il dolore non lo sentivo, non quello, c’era un altro dolore che mi sbranava l’anima, e allora scavavo, e scavavo, e poi toccai qualcosa che non era terra ed era caldo. C’erano sette bambini là sotto, e io riuscii a salvarne soltanto uno. Uno, Corto, uno. Di tanta vita eravamo rimasti solo noi».

Shamira mise foglie di tè nelle tazze, e poi versò acqua bollente.

«Mia madre l’avevano portata a Roma, a lavorare in un bordello. Il mal d’Africa è questo».

Corto Maltese non disse niente. Sorseggiò il tè e poi accese un sigaro. Non si era accorto che la ragazza aveva tenuto per sé una granata.

Quando Corto si svegliò, la ragazza non c’era più. Aveva un brutto presentimento, un presentimento fondato però su una certezza. Se mia madre diventò puttana in schiavitù, io potrò essere puttana per libera scelta, gli aveva detto Shamira andando a dormire. Salpò l’ancora e fece vela verso Addis Abeba. Era sicuro che la ragazza si fosse diretta là. Sì, lo so che Addis Abeba non è sul mare, ma all’interno. E non c’è un fiume e nemmeno un naviglio che al mare la colleghi. Ma qui c’è un’esigenza di narrazione che non può essere ignorata, e allora mi sono permesso una licenza. E così Corto Maltese buttò l’ancora nel porto.

Il palazzo del Viceré dominava il porto di Addis Abeba. Alto cinque piani, terminava alla sommità con un tetto piatto che girava tutt’intorno e su cui sventolava il tricolore con l’aquila imperiale. Un’altra bandiera garriva nel piazzale d’armi, e un’altra al di sopra dell’arco all’ingresso. Due giganteschi fasci littori con l’ascia bipenne, scolpiti nella pietra, gli facevano da cornice. Rodolfo Graziani si era ripreso dall’attentato di qualche mese prima e adesso si godeva il paesaggio dal terrazzo della sua reggia. La gradevole brezza marina mitigava la calura, e il cielo era incantevole.

In una mano teneva il bocchino con infilata la sigaretta, e nell’altra un bicchiere colmo di limonata ghiacciata che gocciolava condensa. Sì, perché in Africa orientale faceva caldo, molto caldo. Però lì si stava bene, sotto un gazebo di tela bianca immacolata, comodamente seduto sopra una generosa poltrona di vimini imbottita di pregiati e morbidi cuscini. Rodolfo Graziani. A guardarlo di profilo era lui l’aquila dell’impero. E lo sapeva.

Shamira entrò in una locanda frequentata dai soldati. Avanzò a testa alta e sembrava una modella o una stella del cinema. Il suo incedere s’arrestò dinanzi al bancone e, con voce di liquirizia, ordinò una tortilla molto, molto piccante.

«Guarda guarda che cosa abbiamo qui», disse un soldato. «Un cioccolatino al liquore di ciliegia».

«Una tazza di cioccolata calda con panna e succo di lamponi», disse un altro.

«Un gran pezzo di gnocca», disse un terzo.

E scoppiarono tutti e tre in una fragorosa risata.

«Soldati», disse una voce. «Qui si deve rispettare la gerarchia, e io sono un capitano, è evidente».

Intanto Shamira gustava la sua tortilla, molto, molto piccante.

«Allora, signorina, cosa desidera bere?», disse il capitano. Gli altri tre si misero quieti e preferirono disinteressarsi della questione.

«Un bicchiere di latte di cocco, che pagherò di tasca mia», disse la ragazza.

«Ahi ahi ahi, orgogliosa la signorina», disse il capitano.

«Solo con chi non conosco».

Il capitano si mise sugli attenti e batté i tacchi.

«Capitano Modesto Servillo, per servirla», sorrise.

«Allora, forse, posso rivolgermi a lei, servizievole Servillo».

«Comandi!».

«Ho qui una lettera di presentazione. Mi manda l’Agenzia, devo far visita al Viceré per tenergli compagnia. Però io sono nuova qui, e non vedo come…».

«L’accompagno io, signorina, con l’automobile».

Corto Maltese, intanto, camminava con le mani infilate in tasca, lasciandosi alle spalle le calde acque dell’Oceano Indiano. Anche oggi il sole non perdonava.

L’automobile, intanto, era arrivata al palazzo.

«La signorina deve incontrare il Viceré», disse il capitano alle guardie. «La manda l’Agenzia. L’accompagno io».

E andò proprio così.

Adesso Shamira era sola con Rodolfo Graziani, Viceré d’Etiopia, all’ombra del gazebo, sul tetto del palazzo.

«Allora, signorina, la manda l’Agenzia», disse il Viceré e sorrise scaltro.

«È quello che dice questa lettera», disse Shamira estraendo dalla tasca la granata. Rodolfo Graziani impallidì.

«Per tutti i nostri morti», disse Shamira strappando la linguetta.

«Nonno, nonno!», sentì gridare. E vide un bambino e una bambina che gli correvano incontro. Erano i suoi nipotini, venuti dall’Italia a trovarlo.

La granata stava per esplodere. Allora Shamira corse tenendola stretta al petto, e si buttò di sotto, dalla parte del mare. Non aveva avuto cuore di uccidere quei due bambini.

Corto Maltese la vide volare come un aquilone, leggera nel cielo, per poi esplodere a mezz’aria come un fuoco d’artificio. Erano petali di tutti i colori del mondo quelli che scendevano ondeggiando nella calura di un giorno africano, e una lacrima gli rigò il volto. Però, forse, era sudore.

(*) Con oggi si chiude un ciclo di «scor-date». Come sa chi frequenta da tempo questo blog da due anni – appunto dall’11 gennaio 2013 – ogni giorno la piccola redazione ha sempre offerto (salvo un paio di volte per contrattempi quasi catastrofici) una «scor-data» che in alcune occasioni raddoppiava o triplicava: appariva dopo la mezzanotte, postata con 24 ore di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio” ma qualche volta i temi erano più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi.
Tanti i temi. Molte le firme (non abbastanza per un simile impegno quotidiano). Assai diversi gli stili e le scelte; a volte post brevi e magari solo una citazione, una foto, un disegno, un’invenzione letteraria – ma a partire dalla realtà – come Antonio Fantozzi oggi. Ovviamente non sempre siamo stati soddisfatti a pieno del nostro lavoro. Se non si vuole copiare Wikipedia – e noi lo abbiamo evitato 99 volte su 100 – c’è un lavoro (duro pur se piacevole) da fare e talora ci sono mancate le competenze, la genialità  o le ore necessarie.

Abbiamo deciso, appunto dall’11 gennaio 2015, di prenderci un anno “sabbatico”, insomma un poco di riposo. Se qualche “stakanovista” (fra noi o all’esterno) sentirà il bisogno di proporre una «scor-data» ovviamente troverà posto in blog ma la redazione non le programmerà.

Nell’anno di intervallo magari cercheremo di realizzare il primo libro (sia e-book che cartaceo) delle nostre «scor-date», un progetto al quale abbiamo lavorato fra parecchie difficoltà… che per ora non siamo riusciti a superare. Ma su questa impresa vi aggiorneremo.

Però…

(c’è quasi sempre un però)

visto il “buco” e viste le proteste (la più bella: «e io che faccio a mezzanotte e dintorni?» simpaticamente firmata Thelonius Monk) abbiamo deciso di offrire comunque un piccolo servizio, cioè di ricordarvi quali sono le due – o più – «scor-date» del giorno, già apparse in blog.

Perciò buone letture o riletture

La redazione (in ordine alfabetico): Alessandro, Alexik, Andrea, Barbara, Clelia, Daniela, Daniele, David, Donata, Energu, Fabio 1 e Fabio 2, Fabrizio, Francesco, Franco, Gianluca, Giorgio, Giulia, Ignazio, Karim, Luca, Marco, Mariuccia, Massimo, Mauro Antonio, Pabuda, Remo, “Rom Vunner”, Santa, Valentina… ovviamente con l’aiuto di molte/i e con il dispiacere perché tre persone si sono perse per strada (la vita è dura in blog, fiiiiiiiiiiguratevi fuori) … ma noi speriamo che tornino.

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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