Scuola: relazione finale del prof di Filosofia

La riflessione di un docente precario.

di Antonio Fiscarelli (*)

 


Che brutta la fine della scuola per un docente come me, precario, ma oltretutto non proprio giovane; non poter più contare sugli sguardi e sui gesti di quella cinquantina di adolescenti che ti hanno fatto sentire vivo per un intero anno, sguardi e gesti che ti dicono chiaramente come ti devi comportare ogni giorno, anche se a te può sembrare di essere tu a dover decidere cosa fare ogni giorno. Un’estate intera senza sentirsi in dovere di corrispondere alla loro formazione etico-intellettuale – Ohibò, quante etiche e sistemi di pensiero non dovremmo considerare! – senza sentirsi giudicati, adulati, ringraziati, anche premiati – con una battuta, uno sguardo, un gesto – coinvolti, emozionati, fotografati ogni giorno con i loro cinque sensi, oltre che con il loro smartphone.

Sì, avevamo bisogno di una boccata d’aria; certo, per i colleghi di ruolo dovrebbe essere più lunga, ma per i precari è sempre troppo lunga, stremante, addirittura angosciante, perché nemmeno sanno se possono restare nella tal scuola. Diciamolo con un inciso, una buona volta: noi docenti cosiddetti “precari” non vogliamo supplenze brevi, né ci piace lasciare la scuola dove abbiamo lavorato un intero anno scolastico per aspettare di rientrare in chissà quale altra scuola, se ci va bene, a fine settembre. Oggi, poi, con l’algoritmo, non possiamo essere certi nemmeno se saremo pescati democraticamente! Sì, abbiamo bisogno anche noi di un po’ di mare; ma il punto è che, appena ci sdraiamo in riva al mare di una spiaggia qualunque, la sabbia o i ciottoli sotto le nostre natiche per noi si fanno più bollenti al solo pensiero di dover passare almeno tre mesi a sperare di ritornare dai propri studenti e al contempo a ripeterci che, comunque sia, per il continuo cambiamento di scuole, saremo sempre più attrezzati in esperienza per rispondere alle esigenze dei nuovi che incontreremo: sicuramente nella nuova scuola ci saranno degli amici della scuola che abbiamo lasciato e questo ci aiuterà a fare subito amicizia… – Sì, certo, ma nel frattempo brucia!

La verità, dal punto di vista soggettivo, a prescindere dal fatto che il singolo possa o no essere “misura di tutte le cose”, è che a me la scuola già manca, ancor prima di fare gli scrutini, già mi mancano quelle anime che per un anno mi hanno tenuto in movimento, all’erta, sull’orlo di più di un precipizio, sull’attenti al riguardo di ogni mia eventuale propensione a giudicare. Sì, forse, talvolta o anche spesso, possono risultare cattivi, maleducati, incapaci di rispetto reciproco, presuntuosi, competitivi più che cooperativi, anche falsi, governati dal doppio pensiero, forse da un triplo, da più etiche: ce ne sono di tutti i tipi, ogni storia individuale è un cosmo di contraddizioni. Ma se non fossero così, ah se non fossero così, che senso avrebbe la scuola? la cosiddetta “professione” insegnante? Se tutti fossero bravi, buoni, educati, adattati a standard superiori, avrebbe forse senso un sistema di istruzione?

La verità è che, per un anno intero è la scuola ad essere “misura di tutte le cose”. Tutti i relativismi di questo mondo confluiscono nella scuola, dove l’oggettività o l’universalità celebrata da non poche scuole di pensiero dall’antichità a oggi, non ha alcuna voce in capitolo se non come evidenza di un diffuso schiacciante pluralismo, eteroverso, indefinitamente disidentificante, di un’esistenzialità sociale priva di orpelli ideologici – se per ideologia non intendiamo anche la genuinità e la spontaneità residue (affrancate dalle condizioni socio-economiche politiche ed economiche) degli adolescenti in formazione.


Lo Stato ci chiede di essere non solo docenti, ma anche educatori: ma chi dovremmo educare è educato in molti modi, è risultante dei vissuti quotidiani nei diversi contesti in cui cresce, non solo in famiglia; infatti, non possiamo nemmeno troppo giudicare i genitori, e per più di una ragione: sia perché non è in genere giusto giudicare, sia perché ogni genitore ha una sua storia, sia perché non siamo forse maturi per le più elevate soglie di tolleranza, di comprensione? Comunque sia, a conti fatti, resta che è sempre l’altro, con tutti i suoi retaggi culturali ed esistenziali, a educare noi, palesando, nei suoi modi di essere, di fare e pensare, sì i suoi limiti, ma anche i nostri.

Lo Stato ci chiede efficienza, peraltro in cambio di stipendi da fame, di aule pollaio, di spazi irrazionalmente gestiti e distribuiti, di strutturale penuria di mezzi per assolvere i fini, di innovazioni percepibili solo sulla carta straccia, di spese inutili o veri e propri sprechi, di vuoti approcci didattici, di evidenti fallimenti pedagogici… Sì è vero, dove c’è qualche scuola più ecologicamente corretta (mi pare non più del 4-5% delle scuole dell’intero stivale) si respira un altro clima; ma appunto come mai queste diseguaglianze territoriali eterne? Lo Stato ci chiede da sempre di chiudere gli occhi sulle tante disparità nelle scuole italiane, ma evidentemente con ciò ci sta effettivamente chiedendo di tollerare l’ipocrisia: ma non dobbiamo insegnare ai nostri giovani, il senso critico, l’etica della giustizia, tanto sul piano etico quanto su quello giuridico? Ma a cosa serviranno mai centinaia di ore di educazione civica, di bandi per le classi, di celebrazioni stagionali sui temi della legalità? Invece i nostri giovani, lucidi e diretti, ci chiedono forse soltanto di essere autentici: sì, certo, magari anche per poterci fregare meglio, per prendersi meglio gioco di noi, per giocare meglio con noi, per consolidare le nostre relazioni in modo spontaneo, per metterci alla prova, per vedere fino a che punto sappiamo reggere nel nostro ruolo di docenti, e quando invece è il momento di uscirne per abbracciare la vita (della reciprocità) nella sua interezza; magari, con la loro malizia intendono proprio aiutarci a capire che non sanno cosa farsene di docenti automi schiavi di direttive e burocrazia… Sì, la scuola, la classe, ogni classe è un idillio: lo è ogni singola persona, ogni studente, ogni docente, ogni lavoratore della scuola; lo Stato ci chiede di educare i giovani anche a ciò a cui forse non siamo educati nemmeno noi adulti, noi insegnanti: ci chiede di inoculare teoria teoria e teoria… e dove reclama la pratica, impone l’alternanza, che sarebbe una buona idea se il suo principio non fosse quello tipico di un’impresa capitalistica, lo sfruttamento, che ruba ore preziose all’istruzione (=educazione) autentica.

E’ stato troppo bello prendersi un paio di gavettoni nel cortile mezz’ora prima della chiusura ufficiale della scuola, nell’euforia collettiva (nella tensione dovuta anche al fatto di essere costretti a restare fino alla quinta ora). Vuol dire che ti vogliono bene, sanno che lo puoi accettare, che sei capace di tollerare, ti chiedono di stare alla loro altezza, di scendere letteralmente, come si suol dire, dalla cattedra. Certo, l’impressione non è rara di vedere invertiti i ruoli, per cui sembrano che siano a loro a stare dietro una cattedra. Tutto ci sta nella dialettica odio-amore studenti/docenti, anzi dovremmo dire giovani/adulti. Bachelard, nella cornice della sua “psicanalisi del fuoco”, aveva definito “complesso di Prometeo” la struttura libidinosa edipica che caratterizza il rapporto fra vecchia e nuova generazione in termini di conoscenze, ovvero ciò che si usa ancora così drasticamente chiamare “trasmissione dei saperi”. Non ci siamo più volte ripetuti che non c’è rapporto d’insegnamento, di educazione, di formazione, e nemmeno di auto-formazione senza conflitto? Comunque sia, non può esserci crescita nella piattezza.

Ma via. L’anno è passato e se i conflitti restano, c’è tempo per risolverli. Nel corridoi e e nel cortile esplode la spontaneità repressa per nove mesi: le danze i giochi i travestimenti le firme sulle magliette sulle braccia nude gli applausi e le urla incomprensibili la divisione in gruppi per organizzarsi nell’euforia finale, autonomamente, comunque nel rispetto delle regole, eccetto quella di fumare nei bagni o nell’angolo del cortile come ogni giorno… Poverini quei ritardatari con la media dal 4.25 al 5.95 che dovevano terminare qualche verifica, angosciati per eventuali rimandi a settembre se non bocciature; felice sembrava anche chi sa che non passerà l’anno…. Va bene così. L’importante è rivedersi, in terza o in quarta è lo stesso. Bello sentirsi salutare da tanti, sentirsi dire grazie, resti con noi…. è stata grande emozionante coinvolgente la felicità dei nostri studenti a fine anno…Una vera famiglia. Non ce n’è una migliore in vizi e virtù, in metamorfosi stagionali, in improvvisazione spontaneità innocenza e in contraddizioni aspirazioni desideri supposizioni tipiche dell’adolescenza. Non so se è davvero possibile amare se stessi più di quanto si possa amare loro che passano anni a sopportare dozzine di docenti con tutti i loro problemi e le loro esigenze. Siamo realistici: non è detto che li meritiamo davvero in tutto. Non è detto che meritiamo i loro sacrifici: forse non meritiamo nemmeno la libertà di giudicarli quando si prestano alla superficialità. Ma soprattutto, siamo comici nel dimenticare non raramente che essi sono il nostro specchio deformante, uno specchio che ci deforma in meglio, che ci fa più belli, mentre spesso non ci rendiamo conto di quali informi esseri possiamo rappresentare noi per loro: loro sì che hanno il diritto di giudicarci e non è detto che si prendano sempre la libertà o la briga di manifestare il loro giudizio, non è detto nemmeno che il loro giudizio sia davvero ciò che pensano: in fondo, non stanno forse maturando? e questo non significa che hanno ancora tutto il tempo per ripensare le proprie convinzioni, le proprie opinioni, se non addirittura i propri principi? se c’è una finalità sempre valida in pedagogia è l’aspirazione a favorire tutte le condizioni necessarie per la loro emancipazione da tutti i pregiudizi, gli stereotipi e i modelli interiorizzati dalla loro nascita: lavorare alla costruzione delle opportunità per ciascuno di loro di essere capaci di una critica costruttiva del presente … Non so se possiamo aspirare noi stessi ad essere modelli. Non credo… E non credo nemmeno che tutto il nostro programmare affannosamente sia davvero il programma giusto per loro. D’altra parte, ciascuno di loro non è forse un programma che si autoprogramma giornalmente? Siamo certi che abbiamo capito quali tasti pigiare per motivarli ai nostri marmorei punti di vista?

Viva la scuola, la scuola viva che è dentro ciascuno, senza cui nessuna scuola pubblica sarebbe possibile.

(*) Antonio Fiscarelli è autore del libro “La roccia rotola ancora, sulle tracce di Sisifo”, pubblicato dalle Autoproduzioni Malanotte

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