Se anche il New York Times dà ragione a Putin…

…sulla denazificazione dell’Ucraina

articoli, video, disegni di Raniero La Valle, Jesùs López Almejo, Michele Santoro, Raniero La Valle, Massimo Cacciari, Manlio Dinucci, Ariel Umpierrez, Alessandro Marescotti, Antonio Mazzeo, Rete Italiana Pace e Disarmo, Stefano Orsi, Giuseppe Masala, Giulio Palermo, Nicolai Lilin, Sergei Lavrov, Donatella Di Cesare, Francesco Masala, Clara Statello, Fabio Mini, Alessandro Somma, Alessandro Di Battista, Fabrizio Poggi, Diego Ruzzarin, Fabrizio Verde, Carlos Latuff, Jeremy Corbyn, Demostenes Floros, Elena Basile, Seymour Hersh

Simboli nazisti in Ucraina: il NYT apre (finalmente) il vaso di Pandora

“Da quando la Russia ha iniziato la sua invasione dell’Ucraina lo scorso anno, il governo ucraino e gli alleati della NATO hanno pubblicato, poi tranquillamente cancellato, tre fotografie apparentemente innocue dai loro feed sui social media: un soldato in piedi, un altro che riposa in una trincea e un operatore sanitario in posa davanti a un camion.” In tutti e tre i casi i protagonisti indossavano simboli riconducibili al nazismo.

Inizia così un sorprendente articolo del New York Times di Thomas Gibbons-Neff segnalato con giusta enfasi dal grande giornalista d’inchiesta Glenn Greenwold su Twitter.

Nel proseguo dell’articolo il NYT sottolinea correttamente come quelli che per anni hanno massacrato la popolazione del Donbass dopo il golpe di Maidan utilizzano simboli nazisti chiari.

Quello, cioè, che la propaganda liberal ha cercato di nascondere emerge ora con estrema forza nel giornale tempio della propaganda Nato.

“L’iconografia di questi gruppi, tra cui una toppa con teschio e ossa incrociate indossata dalle guardie dei campi di concentramento e un simbolo noto come Sole Nero, appare ora con una certa regolarità sulle uniformi dei soldati che combattono in prima linea … l’ambivalenza dell’Ucraina nei confronti di questi simboli, e talvolta persino la sua accettazione, rischia di dare nuova vita mainstream a icone che l’Occidente ha passato più di mezzo secolo a cercare di eliminare. … Tuttavia, ha lasciato diplomatici, giornalisti occidentali e gruppi di difesa in una posizione difficile: Richiamare l’attenzione sull’iconografia rischia di fare il gioco della propaganda russa. Persino i gruppi ebraici e le organizzazioni contro l’odio … sono rimasti in gran parte in silenzio.”, prosegue il giornalista del NYT.

Finora, prosegue Gibbons-Neff nella sua analisi, queste immagini “non hanno eroso il sostegno internazionale alla guerra” con diplomatici, politici e giornalisti occindentali che hanno preferito il silenzio per non fare eco alla “propaganda russa”. Persino i gruppi ebraici e le organizzazioni “anti-odio” che tradizionalmente sono particolarmente attenti al tema, sottolinea correttamente il giornalista del NYT, “sono rimasti in gran parte in silenzio”…

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L’improbabile riconquista non vale l’autogenocidio – Raniero La Valle

Nel summit a Singapore sulla sicurezza nell’indo-Pacifico, l’Indonesia – che con Brasile, Cina, altri Paesi del Sud e Santa Sede ha mantenuto la lucidità e la magnanimità di cercare alternative alla guerra – ha proposto un piano di pace per l’Ucraina. Il piano prevede l’immediato cessate il fuoco, il ritiro delle truppe russe e ucraine di 15 km per parte, il territorio così smilitarizzato presidiato da forze di pace Onu e nei territori contesi un referendum indetto dall’Onu stessa per accertare la volontà delle popolazioni sul loro futuro.

Il ministro della Difesa indonesiano ha detto che misure simili si sono mostrate efficaci nella storia, come in Corea, dove certo non si è raggiunta una soluzione definitiva, ma “da 50 anni abbiamo almeno un po’ di pace, molto meglio della distruzione e della morte di innocenti”: concetti fruibili anche da un bambino, se non da illustri e maturi statisti. Ha aggiunto che le nazioni asiatiche (si pensi al Giappone!) “conoscono i costi della guerra quanto e meglio delle controparti europee”, mentre da questa sono già colpiti nella loro economia e sufficienza alimentare.

La proposta indonesiana è stata immediatamente respinta dall’Alto Rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell, perché non introdurrebbe un discrimine tra aggressore e aggredito e non postulerebbe la pace “giusta” che “l’Europa vuole”.

La proposta è stata subito respinta anche da Zelensky che ha ribadito, come già riguardo al Papa, di non aver bisogno di mediatori, e ha dichiarato imminente la tanto annunciata controffensiva, del cui successo si è detto certo con la riconquista dei territori perduti, anche al costo di un gran numero di soldati uccisi.

In questo triangolare gioco con la morte si sono così delineate tre posizioni su guerra e pace.

1) Quella indonesiana non promette la luna, ma ha cura di porsi al di sopra di un livello pur minimo di razionalità, preferendo una pace imperfetta e magari provvisoria (50 anni?) alla distruzione e alla morte di persone “innocenti”.

2) Quella dell’Ue si fa giudice della pace altrui e rovescia completamente quella rigenerazione ideale a cui deve la sua nascita. Essa doveva essere una comunità di popoli e ordinamenti giuridici che, andando oltre gli Stati, nello stesso tempo li demitizza e li depone dal trono: invece si erge invece come un SuperStato che reprime le differenze, si dà un’identità contrapponendosi a un Nemico (la Russia, o “il resto del mondo”, come scrive il Corriere della Sera), vuole crearsi un esercito, si immerge in un’alleanza militare e si pavoneggia nel mondo come Potenza tra le Potenze.

3) Quella ucraina di Zelensky, di fronte a due valori in gioco – i confini supposti come suoi e la vita di un gran numero di soldati – li mette in scala gerarchica l’uno sull’altro e sceglie i confini a spese (dice il ministro indonesiano) “della distruzione e della morte di innocenti”. La scelta sarebbe tra una nuova spartizione dei territori e la vita di persone e popoli. Per il diritto internazionale la scelta è chiara: al centro ci sono i popoli, il bando della guerra, la condanna del genocidio.

L’Europa dovrebbe ricordare con orrore la sua storia di guerre per ridisegnare i confini, da cui, unendosi, ha voluto uscire; dovrebbe ricordarsi dell’Alsazia e Lorena nel 1870-’71, di Danzica nel 1939, del Kosovo nel 1999, per non parlare delle “terre irredente” della propaganda fascista per l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940. Per contro gli accordi di Helsinki proclamavano l’intangibilità dei confini, ma ne ammettevano il cambiamento pacifico in nome dell’autodeterminazione (i referendum?) dei popoli.

Ma più ancora si può dire che la lotta per la spartizione delle terre appartiene a un’epoca primitiva e pregiuridica della storia umana: come ha spiegato Carl Schmitt il nomos, che si è poi tradotto nel diritto e nella legge, viene da un verbo, nemein, che significa tre cose, appropriarsi, dividere e sfruttare, per cui il “nomos della Terra” da allora consisterebbe nel processo di appropriazione, spartizione e produzione che giunge, come diceva il filosofo economista Claudio Napoleoni, fino all’attuale espropriazione e alienazione dell’uomo ridotto a merce, a prodotto e a cosa. La lotta per stabilire il dominio su territori spartiti, la lotta per i confini, senza tener conto dalla vita e dalla pace delle persone, è dunque una lotta ferina, barbarica, di età tribale, ben diversa dalle lotte per la liberazione dei popoli, che ha a che fare con la pace se – come Giovanni XXIII scriveva nella Pacem in Terris – questa liberazione appartiene ai “segni del tempo” che annunciano la pace: “Non più popoli dominatori e popoli dominati”. Ed è fuorviante e puerile intendere questa guerra innescata dalla disputa sulla Nato non come una guerra in cui ne va della vita dei popoli, che siano ucraini, russi o del Donbass, ma per stabilire confini tra territori che intanto vengono contaminati, resi inabitabili e distrutti.

La riconquista non vale un genocidio, non del proprio popolo.

da qui

 

Il ministro degli Esteri della Germania, Annalena Berbock, ha chiesto ai media di non chiamare i Leopardi “carri armati tedeschi”.

“Capite, non fa assolutamente differenza dove viene prodotto qualcosa. Non si dice che il proprio iPhone è americano o di Tim Cook. Dite che è vostro. Lo stesso vale per i carri armati… Quelli tedeschi sono in Germania e questi sono ucraini. E quello che fanno con loro non ha nulla a che fare con noi. Grazie!”. – Ha dichiarato ai giornalisti il ministro degli Esteri tedesco Annalena Berbock.
L’ennesima lezione d’ipocrisia.

 

dice, fra le altre cose, Ariel Umpierrez:

non sarà una terza guerra mondiale, ma una guerra civile fra europei (la Nato contro la Russia, che è Europa)

gli anglosassoni stanno preparando la terza guerra mondiale

gli anglosassoni (gli inglesi soprattutto) odiano l’Europa e soprattutto la Germania

è una guerra fra bianchi, se la facciano fra di loro

signori europei se volete suicidarvi, come sembra, e suicidare i vostri popoli, fatelo, ma non rompete le scatole al Sud America, all’Africa, all’Asia

ha detto bene Lula, non ci interessano le sanzioni, né mandare armi

questa guerra non doveva succedere, bastava che l’Ucraina restasse neutrale e non continuassero ad ammazzare i russofoni del Donbass

gli inglesi sono ancora peggio degli Usa, sono loro che odiano l’Europa e i tedeschi

la foto della tavola rotonda del G7, a Hiroshima, è patetica,  a quel tavolo non ci sono statisti, solo pagliacci, l’ultima arrivata è Meloni, sono il nulla

l’Europa ha il 7% del territorio e della popolazione del mondo, e il 12% del PIL del mondo, sono patetici, si si credono importanti, sono pieni di basi militari Usa, sono paesi occupati.

Zelensky ha rubato 400 milioni di dollari, secondo la tv francese

in geopolitica non esistono le coincidenze

Borrell ministro della sottomissione

 

 

Questi soldati ucraini sono stati mandati al massacro – Alessandro Marescotti

La controffensiva di Kiev è cominciata. Ed è andata male per gli ucraini. I sopravvissuti raccontano di essere stati usati come carne da cannone. Era stato raccontato loro che non avrebbero incontrato resistenze e invece sono stati bersagliati. Uno su tre non ce l’ha fatta a ritornare indietro.

Questi sono i soldati ucraini sopravvissuti a un assalto. Protestano con un video per essere stati mandati allo sbaraglio.

Era stato detto loro che non avrebbero incontrato resistenza sulle linee di difesa russe, e invece sono stati massacrati.

(Aquí están las palabras de los soldados, después del minuto 38: https://www.youtube.com/watch?v=0AgJFtsqD3I)

Gli assalti ordinati da Zelensky e sostenuti dalla NATO stanno fallendo tragicamente.

La controffensiva si sta rivelando un bagno di sangue.

Uno su tre non torna più indietro.

Viene da pensare agli assalti impossibili ordinati dal generale Cadorna nella prima guerra mondiale, raccontati da Emilio Lussu in “Un anno sull’Altipiano” e descritti magistralmente nel film di Francesco Rosi “Uomini contro”.

Queste immagini ritornano drammaticamente alla mente oggi.

«Morire, non ripiegare», era la frase celebre del generale Cadorna.

Gli assalti frontali allo scoperto, attacchi suicidi che sotto il comando di Cadorna erano la regola: nelle undici battaglie dell’Isonzo, oltre 120 mila morti, per spostare il fronte di pochi metri.

Oggi rischiamo di rivedere lo stesso copione di sangue.

E le armi inviate dall’Europa e dagli Stati Uniti, ben lungi dall’avere come scopo la protezione dei civili, sono uno strumento messo in mano a giovani che conosceranno la morte nelle prossime ore.

Servano a mandare allo sbaraglio i militari ucraini in un’assurda quanto sanguinosa controffensiva contro quelle che sono probabilmente, in questo momento, le linee militarmente più fortificate del mondo.

Zelensky come Cadorna.

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La società civile internazionale da Vienna: “Servono negoziati che possano rafforzare la logica della Pace invece dell’illogica della guerra” – Rete Italiana Pace e Disarmo

Dopo due intensi giorni di lavoro e confronto è stata diffusa dai Promotori del Vertice di Vienna per la Pace la Dichiarazione finaledella società civile internazionale, che verrà inviata ai leader politici di tutto il mondo invitandoli ad agire in sostegno di un cessate il fuoco e di negoziati in Ucraina.
Un risultato importante – a cui hanno contribuito le realtà italiane della coalizione “Europe for Peace” tra gli organizzatori del Vertice – che permetterà al movimento pacifista internazionale di lavorare congiuntamente nei prossimi mesi a percorsi di Pace giusta e possibile. Con un cammino verso la Pace che deve basarsi sui principi della sicurezza comune, del rispetto internazionale dei diritti umani e dell’autodeterminazione di tutte le comunità. E con un prossimo appuntamento già definito: nella Dichiarazione finale del Vertice si legge infatti l’invito alla società civile di tutti i Paesi ad unirsi per la realizzazione di “una settimana di mobilitazione globale (da sabato 30 settembre a domenica 8 ottobre 2023) per un cessate il fuoco immediato e per negoziati di Pace che pongano fine a questa guerra”.

Nei due giorni di dibattito si è lavorato per costruire un’alternativa politica ad una guerra che continua ad impressionare il Mondo intero per la sua malvagità e capacità di distruzione delle vite e dell’ambiente. Gli interventi in plenaria e i gruppi di lavoro hanno affrontato da diversi punti di vista ciò che determina questa guerra in termini di sofferenze, disastri, crisi e rischi di incidente o guerra nucleare. Oltre che, ovviamente, come riuscire a solidarizzare concretamente con la popolazione ucraina sotto assedio e bombardamenti da 16 mesi. Perché salvare le vite umane è la priorità, e la guerra non è certamente una risposta.
“Abbiamo ascoltato, commossi, le testimonianze di Yuri, Olga, Oleg, Karina, Nina che ci hanno trasmesso cosa significa vivere sotto le bombe o in esilio, dover decidere in pochi secondi dove andare, se fuggire dal proprio Paese o nascondersi per non finire in galera con l’accusa di terrorismo. Chi ha partecipato al Vertice di Vienna si misura con questa realtà, ricercando strade di dialogo per ricostruire reciproca fiducia, riaffermare solidarietà. La strada che chiediamo sia intrapresa da tutti i movimenti della società civile per rendere possibile l’alternativa alla guerra” sottolinea Sergio Bassoli della Rete Pace Disarmo e tra i coordinatori di “Europe For Peace”.

Nella Dichiarazione finale le organizzazioni dell’ampia coalizione presente evidenziano di essere “fermamente uniti nella convinzione che la guerra sia un crimine contro l’umanità e che non esista una soluzione militare alla crisi attuale”, esprimendo allarme per la guerra in corso.
Viene ribadita esplicitamente la condanna per l’invasione illegale dell’Ucraina da parte della Russia, sottolineando come “le istituzioni create per garantire la Pace e la sicurezza in Europa hanno fallito e il fallimento della diplomazia ha portato alla guerra. Ora la diplomazia è urgentemente necessaria per porre fine al conflitto armato prima che distrugga l’Ucraina e metta in pericolo l’umanità”.

La richiesta condivisa su cui convergerà il lavoro di tutte le organizzazioni della società civile coinvolta è quella di “negoziati che possano rafforzare la logica della Pace invece dell’illogica della guerra”.

Di seguito il testo della “Dichiarazione di Vienna per la Pace” elaborata dalle organizzazioni partecipanti al Vertice

Pace con mezzi pacifici. Cessate il fuoco e negoziati ora!

Noi, organizzatori del Vertice internazionale per la Pace in Ucraina, chiediamo ai leader di tutti i Paesi di agire a sostegno di un immediato cessate il fuoco e di negoziati per porre fine alla guerra in Ucraina.

Siamo una coalizione ampia e politicamente diversificata che rappresenta i movimenti per la Pace la società civile, compresi i credenti, in molti Paesi. Siamo fermamente uniti nella convinzione che la guerra sia un crimine contro l’umanità e che non esista una soluzione militare alla crisi attuale.

Siamo profondamente allarmati e rattristati dalla guerra. Centinaia di migliaia di persone sono state uccise e ferite, e milioni di persone sono sfollate e traumatizzate. Città e villaggi in tutta l’Ucraina, così come l’ambiente naturale, sono stati distrutti.

Morti e sofferenze ben più gravi potrebbero ancora verificarsi se il conflitto dovesse degenerare fino all’uso di armi nucleari, un rischio che oggi è più alto di qualsiasi altro momento dalla crisi dei missili di Cuba.

Condanniamo l’invasione illegale dell’Ucraina da parte della Russia. Le istituzioni create per garantire la Pace e la sicurezza in Europa hanno fallito e il fallimento della diplomazia ha portato alla guerra. Ora la diplomazia è urgentemente necessaria per porre fine al conflitto armato prima che distrugga l’Ucraina e metta in pericolo l’umanità.

Il cammino verso la Pace deve basarsi sui principi della sicurezza comune, del rispetto internazionale dei diritti umani e dell’autodeterminazione di tutte le comunità.

Sosteniamo tutti i negoziati che possano rafforzare la logica della Pace invece dell’illogica della guerra.

Affermiamo il nostro sostegno alla società civile ucraina che difende i propri diritti. Ci impegniamo a rafforzare il dialogo con coloro che in Russia e Bielorussia mettono a rischio la propria vita per opporsi alla guerra e proteggere la democrazia.

Invitiamo la società civile di tutti i Paesi a unirsi a noi in una settimana di mobilitazione globale (da sabato 30 settembre a domenica 8 ottobre 2023) per un cessate il fuoco immediato e per negoziati di Pace che pongano fine a questa guerra.

Vienna, 11 giugno 2023

“Tutti dobbiamo fare la nostra parte, per essere all’altezza del compito della Pace” 

(Albert Einstein).

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“La strategia imperialistica Usa in Europa ha radici lontane. In Ucraina assistiamo all’ultimo atto”

Alessandro Bianchi intervista Giulio Palermo

“La distruzione delle risorse materiali dell’Ucraina è la prerogativa per l’accaparramento delle sue risorse materiali e umane nella fase di ricostruzione”. Giulio Palermo, economista autore con la nostra casa editrice di “Il conflitto russo-ucraino” (LAD, 2023), ci rilascia una lunga e illuminante intervista per argomentare e attualizzare le sue tesi ad oltre un anno dall’inizio dell’operazione speciale russa.

“Il continente europeo costituisce la scacchiera ma gli scacchi sono per lo più americani e russi e, sullo sfondo, cinesi. La strategia europea per l’Europa semplicemente non esiste. Esistono interessi economici convergenti e divergenti tra settori e tra stati”. Stiamo vivendo una fase di cambiamenti epocali ma per quel che riguarda i processi finanziari Giulio Palermo invita alla prudenza perché il ruolo del dollaro nel breve e medio periodo resta ancora forte. Ma nel lungo periodo i movimenti tellurici saranno inevitabili. “Anche se per il momento questo processo sembra portare alla progressiva chiusura tra blocchi contrapposti, la crescita di un sistema di relazioni internazionali meno sbilanciata su un singolo attore è vista da molti paesi con interesse. La Cina e la Russia hanno le carte in regola per guidare questo processo, sia economicamente, sia politicamente, sia anche militarmente. E a un certo punto anche i paesi europei dovranno fare le loro scelte. È nel corso di queste trasformazioni reali dei rapporti economici, politici e militari che si ridefinirà nel tempo il ruolo del dollaro, il suo ridimensionamento e la fine della sua egemonia, non attraverso semplici accordi per denominare i contratti in rubli o in renminbi.”, chiosa l’economista.

* * * *

  1. Nel suo “Conflitto russo-ucraino” porta avanti la tesi che l’imperialismo Usa abbia come obiettivo principale l’Europa attraverso il pretesto ucraino. Ad oltre un anno dall’inizio del conflitto a che punto siamo?
  2. La strategia imperialistica Usa in Europa ha radici lontane ed è tutt’uno con la politica antisovietica prima e antirussa poi. Un anno di conflitto ufficiale tra Russia e Ucraina (e già, perché otto anni di aggressione armata nel Donbass e in altre parti del paese da parte delle forze golpiste armate dalla Nato non contano come guerra nella narrazione occidentale) non cambia veramente i termini del problema. Stati uniti e Unione europea sono le aree economiche con il più alto grado di integrazione nel mondo. Questo è il risultato di un lungo processo. Nella fase imperialistica del capitalismo, i rapporti tra stati sono sempre più condizionati dai rapporti tra capitali. Per questo, invece di cercare l’origine dei rapporti Usa/Europa e la nascita stessa dell’Unione europea negli alti valori liberali, nell’unità dei popoli e nella solidarietà internazionale, conviene ripercorrere il processo di integrazione economica sotto la guida dei capitali transnazionali.

L’asimmetria economica tra i capitali sulle due sponde dell’Atlantico — che è alla base del disegno imperialistico Usa in Europa — si definisce all’indomani della sconfitta nazista nella Seconda guerra mondiale.

Storicamente, non si può dire che gli Stati uniti abbiano dimostrato una grande reattività all’avanzata nazista in Europa. Per tutta la prima fase della guerra, la disfatta dei paesi capitalistici di fronte all’esercito tedesco è totale e la resistenza al nazismo riposa quasi interamente sulle spalle dell’Unione sovietica. Stalin chiede ripetutamente agli alleati l’apertura di un secondo fronte contro la Germania — il fronte occidentale — per costringere Hitler ad allentare la presa a est. Ma gli Stati uniti e l’Inghilterra tergiversano.

Decidono di passare all’azione nel giugno del 1944, con lo sbarco in Normandia, dopo che l’Armata rossa ha stroncato le truppe naziste e avanza ormai inarrestabile verso Berlino. E soprattutto dopo aver organizzato minuziosamente la conferenza di Bretton Woods (New Hampshire, Usa), che si terrà nel mese successivo: un mega-incontro di tre settimane tra le principali potenze capitalistiche in cui si definisce il quadro economico-finanziario postbellico, incentrato sul dollaro e sul capitale finanziario statunitense.

Da allora, la penetrazione dei capitali americani in Europa è aumentata sensibilmente, prima attraverso il piano Marshall — un colossale piano di investimenti Usa in Europa — poi attraverso ulteriori esportazioni di capitali e fusioni con i capitali europei.

Finché è convenuto, gli Stati uniti hanno imposto un regime di tassi di cambio incentrato sul dollaro — che ha consentito alla valuta statunitense di imporsi come riferimento internazionale — e quando non è più servito, lo hanno abolito, nel 1971, con un gesto unilaterale del presidente Nixon, in violazione degli accordi che proprio gli Stati uniti avevano imposto. Risultato: il più grande default della storia del capitalismo (il rifiuto degli Stati uniti di onorare i propri impegni finanziari) si è risolto con nuovi accordi valutari tra i principali paesi capitalistici per scaricare i problemi finanziari degli Stati uniti sul resto del mondo.

È in questo quadro di rapporti asimmetrici di forza che si sviluppa l’unificazione europea, un’unificazione commerciale, monetaria e finanziaria voluta proprio dal capitale Usa, al fine di penetrare e soggiogare ordinatamente l’intera area economica europea.

Nel libro, dedico un intero capitolo a ricostruire il lungo processo che porta alla creazione dell’Unione europea e dell’euro, sottolineando il ruolo cruciale degli Stati uniti. Parallelamente, sul piano politico e militare, analizzo il processo di espansione della Nato, come braccio armato del processo di espansione economico-finanziaria.

In quest’ottica più generale, l’Ucraina è poco più di un tassello, per quanto decisivo, di un lungo processo di espansione dei capitali e delle forze armate statunitensi in Europa.

La distruzione delle risorse materiali dell’Ucraina è la prerogativa per l’accaparramento delle sue risorse materiali e umane nella fase di ricostruzione, un bottino allettante per tutte le potenze occidentali. Ma il vero obiettivo strategico degli Stati uniti non è affatto la conquista economica dell’Ucraina bensì quella dell’Europa. La guerra contro la Russia deve essere lunga e costosa. È questo il modo migliore per allentare i rapporti tra la Russia e l’Unione europea, indebolendole entrambe.

Ma gli Stati uniti non vogliono veramente la fine dell’Unione europea e dell’euro. Sarebbe un autogol clamoroso. L’Europa è già americana, sia economicamente che militarmente. Non conviene affatto ingaggiare una guerra economica a tutto campo contro i capitali europei. Conviene invece stringere alleanze selettive, in determinati settori e in determinati paesi, e assicurarsi che l’Europa nel suo complesso agisca secondo gli interessi dei capitali statunitensi. Da questo punto di vista, la crescita di un asse russo-tedesco o addirittura russo-europeo costituiva un ostacolo oggettivo alla strategia Usa.

A un anno dall’intervento russo, la situazione economica e militare dell’Ucraina è disperata. L’Ucraina non ha futuro: militarmente, conta sulle armi inviate sempre più generosamente dai paesi Nato a un esercito mal addestrato, che ha subito già ingenti perdite; economicamente, è tenuta a galla dai prestiti internazionali, senza nessuna possibilità di ripagarli. Insomma, gli ucraini che non muoiono in guerra sotto l’artiglieria russa, saranno schiacciati in tempi di pace dal capitale Usa/Ue.

La guerra può e deve durare. Finché Stati uniti e paesi Nato hanno armi e denaro con cui sostenere l’Ucraina, the show must go on e finché l’Ucraina ha uomini deve mandarli a morire. Un anno e mezzo di sostegno aperto all’esercito ucraino e ai suoi battaglioni nazisti (che, per la verità, dettano legge su gran parte del territorio ucraino ormai da nove anni) non è che l’inizio. Si deve fare in modo che i rapporti economici tra la Russia e l’Unione europea si interrompano per sempre, che si ridefinisca l’intero sistema di approvvigionamento energetico e di materie prime in Europa e che saltino definitivamente lo scambio tecnologico e i progetti di sviluppo congiunti con la Russia e con la Cina.

Insomma, gli Stati uniti vogliono creare una muraglia americana nel cuore dell’Europa per isolarla a est e costringerla ad accettare come referente la sola e unica superpotenza occidentale. Questo è in definitiva l’obiettivo della strategia Usa in Europa: forzare il divorzio tra Russia e Unione europea. Sulla pelle del popolo ucraino…

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Lavrov: L’Occidente cerca di aprire un secondo e un terzo fronte contro la Russia

Parlando ieri al contingente militare russo schierato in Tagikistan, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha affermato  che, a parte il conflitto in Ucraina, l’Occidente cerca di aprire nuovi fronti contro Mosca, compresa la regione dell’Asia centrale.

“È significativo che, dopo aver allentato il guinzaglio al regime ucraino e aver continuato a pomparlo con le armi più moderne, l’Occidente sia costantemente alla ricerca di ulteriori direzioni da cui possa ‘irritare’ la Russia, aprendo un ‘secondo’ e un ‘ terzo fronte. Già molti politologi e politici parlano direttamente dell’obiettivo di smembrare la Russia”, ha osservato il ministro degli Esteri.

In questo senso, ha sottolineato che tra i fronti che si intende aprire c’è non solo la regione transcaucasica, ma anche l’Asia centrale. Il ministro russo ha ricordato in particolare la situazione in Afghanistan, dove ” si stanno verificando vicende difficili dopo la fuga della coalizione [dalla Nato, guidata dagli Usa]”, che non ha potuto apportare qualcosa di “costruttivo” a quel Paese e ha scelto di andarsene sotto lo status di “crescente minaccia di terrorismo”.

“Si sa con certezza”, ha sottolineato Lavrov, che Washington sostiene “attivamente” lo Stato islamico, Al-Qaeda e altre organizzazioni terroristiche ancora presenti sul suolo afghano. “L’obiettivo è semplice: […] non lasciare che l’Afghanistan si calmi. È nell’interesse degli Stati Uniti che ci sia una sorta di processo destabilizzante in corso tutto il tempo”, ha detto.

Riferendosi al conflitto ucraino, il capo della diplomazia russa ha ribadito che Mosca tiene conto che una delle modifiche apportate ai caccia F-16 , di cui Kiev attende la fornitura, è quella di poter trasportare armi nucleari. “Si stanno preparando a continuare l’escalation della guerra che è stata intrapresa contro di noi”, ha lamentato.

Ha anche sottolineato che Washington “ha nutrito” le attuali autorità di Kiev per garantire che l’Ucraina non sia mai più dalla parte della Russia. “Non abbiamo dubbi che quei piani non si avvereranno mai”.

D’altro canto, ha ricordato che Mosca “ha raggiunto la determinazione” a “non seguire mai” le regole dettate da Washington, che sta “progressivamente” perdendo il suo ruolo a livello mondiale. Invece, la Russia sostiene l’avanzamento di accordi come i BRICS o l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, scommettendo sulla sua cooperazione con l’Africa e l’America Latina.

L’Occidente ha unito i russi

Secondo Lavrov, Il popolo russo ha chiuso i ranghi solo di fronte alle azioni dell’Occidente.

Ha osservato che il popolo russo, a causa dei suoi “codici storici, radici, memoria degli antenati”, si è trovato in prima linea nello scontro scatenato dall’Occidente.

“Quello che hanno fatto ci ha unito ancora di più. Se c’erano sentimenti contrastanti nella società quando qualcuno si sentiva rilassato su certe tendenze intorno a noi, principalmente in Ucraina, questi sentimenti ora sono completamente scomparsi o persistono solo tra gruppi marginali”, ha concluso Lavrov.

da qui

 

 

…“TEAM LEADER” CHE COMANDANO DAI CINQUE AI SETTE SOLDATI… MANDATI A ORGANIZZARE UN BATTAGLIONE!!! CON GLI ISTRUTTORI AL TELEFONO CHE GLI DANNO LE DRITTE!!!!!!!!!! MA DOVE SIAMO, AL CENTRO DI ASSISTENZA TELEFONICO??????????????????

Perdio, ma ci rendiamo conto di cosa è successo in questi giorni? Di cosa vuol dire “carne da cannone” mandata completamente allo sbaraglio? PER AMMISSIONE STESSA NON DELLA PRAVDA, MA DEL WP??? Con quei quattro mentecatti ripresi ieri notte con la cartina davanti a far finta di valutare piani d’attacco??? e oggi ancora, e domani anche??? DA LI’ NON SE NE VA NESSUNO, ANZI, ALTRI VENTIMILA SOLDATI SONO ATTESI ENTRO BREVE PER RINFORZARE IL GRUPPO D’ATTACCO

 

…SI TRATTA DELLA MAGGIORE DISFATTA NATO IN BATTAGLIA DA QUANDO ESISTE IL PATTO ATLANTICO. Con, in aggiunta, E A PARTE IL FATTO CHE POLACCHI, BALTICI, ROMENI ABBIANO O MENO PARTECIPATO ALL’AZIONE ESATTAMENTE COME A SETTEMBRE 2022 (per esempio, nelle intercettazioni radio si sentiva parlare polacco), l’ipocrisia di mandare a crepare non cittadini americani, ma loro schiavi, addestrati per l’occasione “to fight like an American army might — but on their own”.

Li avete “formati”? Li avete “educati” a combattere esattamente come voi? Li avete giudicati “pronti”? Li avete imbottiti di vostre armi? Li avete infine mandati a crepare? Quel sangue ricade INTERAMENTE su di voi, anche se tecnicamente nessun aereo viaggerà sull’Atlantico con sacchi neri….

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L’Europa si fotta (Fuck the UE) – Francesco Masala

Chissà se Giorgia, donna, madre, italiana e cristiana sa che (anche) grazie alle sue decisioni è complice della morte di centinaia di migliaia di soldati, che combattono per la patria ucraina, che centinaia di migliaia di vedove la ringrazieranno, che forse milioni di orfani cristiani la ricorderanno nelle preghiere.

Chissà se quando va insieme a Ursula Pfizer Von der Leyen, sempre con la permanente perfetta, a pregare che non arrivino migranti poveri dall’Africa e dall’Asia, si ricorda che l’Unione europea è una grande produttrice di migranti, per esempio dalla distrutta Ucraina saranno milioni e milioni di poveri cristi.

Chissà se qualcuno dei potenti europei aveva capito nel 2014 le parole di Victoria Devil Nuland.

Chissà se dell’Europa che si fotte gliene frega qualcosa, a quelle due (e a tutti i loro colleghi, va da sé).

Chissà se un giorno gli europei verranno a chiedere conto dei loro tradimenti, complicità e sottomissione.

 

 

 

La guerra Ibrida totale ai BRICS è pronta – Pepe Escobar

Strategic Culture

[Traduzione a cura di: Nora Hoppe]

 

Gli scribacchini statunitensi del Think Tank Land – non è che abbiano una forte dimestichezza con Montaigne: “Puoi essere seduto sul trono più alto del mondo, ma sarai sempre comunque seduto sul tuo sedere!”

La tracotanza porta questi esemplari a presumere che i loro flaccidi sederi siano al di sopra di quelli degli altri. Il risultato è che un mix caratteristico di arroganza e ignoranza finisce sempre per smascherare la prevedibilità delle loro decisioni.

Il Think Tank Land statunitense – inebriato dalla sua aura di potere auto-creata – telegrafa sempre in anticipo ciò che hanno in mente. È stato il caso del Progetto 11 settembre (“Abbiamo bisogno di una nuova Pearl Harbor“). È stato il caso del rapporto RAND sull’estensione eccessiva e lo sbilanciamento della Russia.

E ora è il caso dell’imminente Guerra americana ai BRICS, come descritto dal presidente dell’Eurasia Group di New York.

È sempre doloroso subire i sogni bagnati intellettualmente superficiali del Think Tank Land, mascherati da “analisi”, ma in questo caso particolare i principali attori del Sud Globale devono essere fermamente consapevoli di ciò che li attende.

Prevedibilmente, l’intera “analisi” ruota attorno all’imminente, devastante umiliazione per l’Egemone e i suoi vassalli: cosa succederà nel Paese 404, noto – almeno per ora – come Ucraina.

Il Brasile, l’India, l’Indonesia e l’Arabia Saudita vengono respinti come “quattro grandi indecisi” quando si tratta della guerra per procura tra gli Stati Uniti e NATO contro la Russia. È il solito vecchio tropo del “siete con noi o contro di noi“.

Ma poi ci vengono presentati i sei principali colpevoli del Sud Globale: Brasile, India, Indonesia, Arabia Saudita, Sudafrica e Turchia.

In un altro rozzo e campanilistico remix di una frase ad effetto riferita alle elezioni americane, questi sono qualificati come gli swing states [Stati in bilico] chiave… che l’Egemone dovrà sedurre, convincere, intimidire e minacciare per assicurarsi il dominio dell'”ordine internazionale basato sulle regole”.

L’Arabia Saudita e il Sudafrica si aggiungono a un precedente rapporto incentrato sui “quattro indecisi principali “.

Il messaggio per questi “swing state”/ “Stati in bilico” sottolinea che sono tutti membri del G-20 e “attivi sia in geopolitica che in geoeconomia” (Eh, davvero? Questa sì che è una notizia bomba). Quello che non dice è che tre di loro sono membri dei BRICS (Brasile, India, Sudafrica) e che gli altri tre sono seriamente candidati a far parte dei BRICS+: le delibere saranno messe in turbo nel prossimo vertice dei BRICS in Sudafrica ad agosto.

È quindi chiaro il messaggio per gli Stati in bilico: una chiamata alle armi per la guerra americana contro i BRICS.

 

E allora “i BRICS non fanno strada”

Gli ideatori del messaggio per gli Stati in bilico si crogiolano in sogni bagnati che il nearshoring [l’esternalizzazione di operazioni o servizi aziendali in un’area vicina] e il friendshoring [l’atto di produrre e approvvigionarsi da paesi che sono alleati geopolitici] si allontanino dalla Cina. Tutte fesserie: il potenziamento del commercio intra-BRICS+ sarà all’ordine del giorno d’ora in poi, soprattutto con l’estensione della pratica del commercio in valute nazionali (vedi Brasile-Cina o all’interno dell’ASEAN), il primo passo verso una diffusa de-dollarizzazione.

Gli Stati in bilico sono caratterizzati come “non una nuova incarnazione” del Movimento dei Non Allineati (NAM), o “altri raggruppamenti dominati dal Sud globale, come il G-77 e i BRICS”.

Fesserie esponenziali… Qui si tratta di BRICS+ – che ora hanno gli strumenti (tra cui la NDB, la banca dei BRICS) per fare ciò che il NAM non ha mai potuto realizzare durante la Guerra Fredda: stabilire il quadro di un nuovo sistema che aggiri Bretton Woods e i meccanismi di coercizione a incastro dell’Egemone.

Quanto all’affermazione che i BRICS non hanno “fatto molta strada”, essa rivela solo l’ignoranza cosmica del Think Tank Land statunitense riguardo al significato di BRICS +.

La posizione dell’India è considerata solo in termini di membro del Quartetto, definito come uno “sforzo guidato dagli Stati Uniti per bilanciare la Cina”. Correzione: contenere la Cina.

Per quanto riguarda la “scelta” degli Stati in bilico di scegliere tra gli Stati Uniti e la Cina per semiconduttori, IA, tecnologia quantistica, 5G e biotecnologie, non si tratta di una “scelta”, ma del livello in cui sono in grado di sostenere la pressione dell’Egemone per demonizzare la tecnologia cinese.

La pressione sul Brasile, ad esempio, è molto più forte di quella sull’Arabia Saudita o sull’Indonesia.

Alla fine, però, tutto torna all’ossessione neocon straussiana: l’Ucraina. Gli Stati in bilico, in varia misura, sono colpevoli di opporsi e/o minare il delirio delle sanzioni. La Turchia, ad esempio, è accusata di aver convogliato articoli “a doppio uso” verso la Russia. Nessuna parola sul sistema finanziario statunitense che ha costretto le banche turche a non accettare più le carte di pagamento russe MIR.

Sul fronte dei pii desideri, spicca questa perla tra le tante: “Il Cremlino sembra credere di poter può guadagnarsi da vivere rivolgendo il suo commercio verso sud e verso est.”

Beh, la Russia sta già facendo ottimi affari in tutta l’Eurasia e in una vasta area del Sud Globale.

L’economia è ripartita (i motori sono il turismo interno, la costruzione di macchine e l’industria dei metalli); l’inflazione è solo al 2,5% (più bassa che in tutta l’UE); la disoccupazione è solo al 3,5%; e il capo della Banca Centrale Elvira Nabiullina ha detto che entro il 2024 la crescita tornerà ai livelli pre-OMS.

Il Think Tank Land statunitense è congenitamente incapace di comprendere che, anche se le nazioni BRICS+ possono ancora avere alcuni seri problemi di credito commerciale da risolvere, Mosca ha già dimostrato come anche un implicito sostegno duro di una valuta possa rivelarsi un immediato cambio di gioco. La Russia sta sostenendo non solo rubli ma anche yuan.

Nel frattempo, la carovana della de-dollarizzazione del Sud Globale avanza inesorabilmente, per quanto le iene della guerra per procura possano continuare a ululare nel buio. Quando si svelerà l’intera – sbalorditiva – portata dell’umiliazione della NATO in Ucraina, probabilmente entro la metà dell’estate, il treno ad alta velocità della de-dollarizzazione sarà al completo, senza sosta.

 

Quell'”offerta che non si può rifiutare” colpisce ancora

Se tutto ciò non fosse già abbastanza sciocco, il messaggio per gli Stati in bilico raddoppia sul fronte nucleare, accusandoli di “futuri rischi di proliferazione (nucleare)”: in particolare – chi altro – l’Iran.

A proposito, la Russia viene definita una “media potenza, ma in declino”. E per giunta “iper-revisionista”. Oh cielo: con “esperti” come questi, gli americani non hanno nemmeno bisogno di nemici.

E sì, a questo punto siete autorizzati a ridere a crepapelle: La Cina è accusata di voler dirigere e cooptare i BRICS.

Il “suggerimento” – o “l’offerta che non potete rifiutare”, in stile mafioso – agli Stati in bilico è che non potete unirvi a un “organismo diretto dalla Cina e assistito dalla Russia che si oppone attivamente agli Stati Uniti”.

Il messaggio è inequivocabile: “La minaccia di una cooptazione sino-russa di un BRICS allargato – e attraverso di esso, del Sud Globale – è reale e deve essere affrontata”.

Ed ecco le ricette per affrontarla. Invitare la maggior parte degli Stati in bilico al G-7 (che è stato un misero fiasco). “Più visite ad alto livello da parte dei principali diplomatici statunitensi” (benvenuti tutti alla distributrice di biscotti Vicky Nuland). E infine, ma non per questo meno importante, tattiche mafiose, come una “strategia commerciale più agile che inizi a rompere il ghiaccio dell’accesso al mercato statunitense”.

Il pizzino per gli Stati in bilico non poteva non far emergere l’elefante nella stanza, prevedendo, anzi pregando, che “le tensioni tra Stati Uniti e Cina aumentino drammaticamente e si trasformino in un confronto in stile Guerra Fredda”.

Questo sta già accadendo – scatenato dall’Egemone.

Quale sarebbe il seguito? Il tanto ricercato e strombazzato “disaccoppiamento”, che costringerebbe gli Stati in bilico ad “allinearsi più strettamente con una parte o con l’altra”. È di nuovo “o sei con noi o contro di noi“.

Quindi eccoci qui. Crudo, in carne e ossa – con minacce velate incorporate. La Guerra Ibrida 2.0 contro il Sud Globale non è nemmeno iniziata. Voi Stati in bilico: siete stati avvertiti.

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Antonov 124 “Ruslan”. Il Canada “donerà” a Kiev l’area cargo più grande al mondo che ha rubato alla Russia – Clara Statello

Il Canada “ruba” alla Russia il più grande aereo cargo al mondo, sequestrato più di un anno fa all’aeroporto internazionale di Toronto. Trasportava dispostivi COVID-19 da consegnare al governo canadese, che adesso si arroga il diritto di trasferire la proprietà del velivolo all’Ucraina, a titolo di risarcimento.

Lo ha annunciato il primo ministro Justin Trudeau sabato pomeriggio durante la sua visita a Kiev.

“Oggi, grazie alle norme che abbiamo approvato, confischeremo questo aereo di proprietà russa. Inizieremo il processo di trasferimento di questo bene all’Ucraina in modo che non venga mai più utilizzato dalla Russia a sostegno della guerra”, ha detto.


La confisca

Il velivolo è un Antonov 124 “Ruslan” della Volga Dnepr, che era stato bloccato all’aeroporto internazionale Pearson di Toronto il 27 febbraio 2022, dopo il divieto di volo per gli aerei russi. La compagnia ne aveva subito chiesto la restituzione dichiarando di aver “effettuato una serie di voli charter nell’interesse del governo canadese, per consegnare dalla Cina prodotti vitali legati al COVID-19″.

Ma la modifica alle leggi sulle “misure economiche speciali” e “giustizia per le vittime di funzionari stranieri corrotti”, entrate in vigore nel giugno del 2022, e le più recenti sanzioni disposte contro la Volga-Dnepr Airlines LLC e Volga-Dnepr Group hanno reso legale nel Paese ciò che è a tutti gli effetti un furto internazionale.

Il governo canadese ostenta come un trofeo la confisca di un bene appartenente ad una compagnia straniera…

Il Canada non è l’unico Paese ad utilizzare questi provvedimenti. In maniera analoga, la suprema corte olandese ha deciso di consegnare a Kiev una preziosissima collezione di tesori appartenenti alla Crimea.  La decisione presa venerdì pone fine alla controversia sull’”Oro degli Sciti”. I pregiati manufatti erano stati prestati al Museo Allard Pierson poco prima dell’ingresso della Crimea alla Federazione Russa. Sia Kiev che quattro musei della penisola chiedevano la restituzione.

Questi metodi con cui i Paesi del cosiddetto mondo libero si arrogano l’autorità di sottrarre beni e patrimoni di altri Stati non sono affatto una novità. Il caso più eclatante è la disputa sulle riserve auree del Venezuela, 32 tonnellate di oro depositate nella Banca d’Inghilterra. In nome della democrazia e della libertà  la “giustizia” britannica ha privato il popolo venezuelano di circa un miliardo di dollari, proprio nel periodo più buio della crisi sanitaria ed economica, precludendo al governo di Maduro di poter accedere alle riserve.

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L’offensiva dell’Ucraina e il cinico piacere bellico – Fabio Mini

C’è una nota di disperazione nell’annuncio di Zelensky sull’imminente controffensiva. E di cinico piacere. E d’ipocrisia. Secondo lui la vittoria è certa, ma ci saranno molte perdite. Molti uomini e donne ucraini moriranno, molti altri perderanno casa, familiari e futuro. Gli americani e gli europei che lo sostengono sono d’accordo sulle perdite ma non sono così certi della vittoria. Mentre il presidente Biden e i vertici europei assicurano l’invio di altre armi e soldi, il Segretario alla Difesa Austin ribadisce che la controffensiva consentirà all’Ucraina di guadagnare posizioni sul terreno da far valere nei successivi negoziati. Un messaggio che tutti gli europei, a partire dal nostro governo, hanno mutuato e inteso come affermazione di vittoria, ma che Zelensky potrebbe e dovrebbe invece intendere come una sconfitta programmata: l’Ucraina dovrà trattare con la Russia, a prescindere dal risultato. E tale prospettiva fieramente negata sarà costata la vita ad altre migliaia di soldati e cittadini. Tutti si preparano a sfruttare il loro sacrificio non tanto per un pezzo di terra che avrebbero potuto ottenere senza sparare un colpo, ma proprio per favorire chi dalle armi e dalle distruzioni trae i maggiori vantaggi.

Per la controffensiva, l’Ucraina avrebbe bisogno di altri sistemi contraerei e aerei, tempo per prepararsi, combattenti, migliori condizioni del campo di battaglia: ma ha deciso di partire lo stesso. Deve sacrificare tutto ciò che possiede per indurre gli altri, i reticenti e gli stessi sostenitori a entrare in guerra. Se l’Ucraina punta tutto su una vittoria determinante corre il più subdolo dei rischi: se fallisce perde tutto e chi la sostiene dovrebbe intervenire non al suo fianco, perché non avrà più forze, ma al suo posto. Tutte le volte che ciò è accaduto, l’alleato impotente è diventato il suddito o il potente è venuto a patti con l’avversario.

In guerra il comandante in capo non dichiara l’entità delle perdite e dei sacrifici prima di cominciarla e neppure dopo. Anzi è sempre stato fatto di tutto per nascondere o minimizzare i rischi e le perdite e delegittimare i generali che avrebbero voluto “informare” su rischi e limiti.

La retorica della vittoria e la promessa di “lacrime e sangue” per conseguirla fanno parte della propaganda di guerra. Zelensky non ha mai saputo molto di guerra, ma dopo un corso intensivo di oltre un anno, ascoltando le lezioni di abili maestri occidentali e ruvidi ma efficaci maestri di casa propria, sa qualcosa della guerra di propaganda. Sa anche che essa è importante ma da sola non vince. Lo ha constatato in questo anno e mezzo in cui, con la propaganda ha vinto sugli alleati, ma secondo alcuni analisti statunitensi “ha perso completamente il proprio esercito” (Col. Doug MacGregor et al.). E quindi questa retorica nasconde il piacere della guerra e l’ipocrisia.

Sono rari gli uomini che confessano il piacere della guerra, come Ernst Jünger, che descrisse l’intima esaltazione provata nello “scannatoio” della battaglia dai giovani come lui “ubriachi di guerra”. È invece più facile trovare coloro che simulano buoni sentimenti, ma soddisfano il gusto segreto per la guerra ricorrendo alla retorica, appellandosi ai codici d’onore, alla patria e al dovere di chi è superiore per razza o missione divina. Winston Churchill, dopo la disfatta di Dunkerque del 1940, ricorse alla straordinaria sequenza retorica di we shall fight: “noi combatteremo” per chiamare alla riscossa. Il discorso tradiva però il sottile piacere della battaglia e l’orgoglio di sapere che l’esortazione alla lotta era inutile perché il suo popolo e la Corona non volevano altro.

Il generale George Patton ostentava l’amore per la guerra, eppure ricorreva all’ ipocrisia retorica quando definiva demoniaco ogni nemico dell’America, quando definiva veri uomini non quelli che morivano in guerra ma quelli che sapevano uccidere, anche gli inermi. Diceva: “Nessuno va in guerra per essere ucciso ma per uccidere un altro bastardo dannato figlio di puttana che vuole ucciderlo”. E diceva che l’America non avrebbe mai perduto perché gli americani amano combattere.

L’ipocrisia ha prodotto milioni di vittime ignare e giustificato molti crimini. Patton non fu mai inquisito per quelli istigati dalle sue parole e dai suoi ordini come quello di fucilare prigionieri italiani inermi. Fu sollevato dall’incarico per aver preso a schiaffi un soldato americano in preda a una crisi di panico: per lui era un affronto personale, la dimostrazione evidente che non tutti gli americani amano combattere e uccidere. Il suo mito dell’invincibilità e il suo paradigma demoniaco erano necessari alla guerra ma si sono rivelati profetici all’incontrario: dalla Seconda guerra mondiale gli americani non hanno più vinto una guerra e per gran parte del mondo è l’America a essere il nemico demoniaco.

Pensare che oggi Patton sarebbe censurato e condannato è pura ipocrisia. Ci sono molti militari che lo imitano e molti civili che condividono il suo disprezzo per ogni avversario. Questo disprezzo incombe su tutti i campi di battaglia; pronto a insinuarsi negli ideali dei soldati e modificarli camuffandosi da spirito di corpo, onore e amor di patria. In Ucraina è presente come una colla appiccicosa sparsa sulle popolazioni e stesa anche su tutti i popoli alleati proprio dalla retorica e dall’ipocrisia dei capi, incitati e guidati dalla altrettanto ipocrita e retorica riconoscenza per chi “combatte per tutti noi”. Il popolo ucraino non avrebbe voluto la guerra né tantomeno una guerra nella quale sacrificarsi per “tutti noi”, ma combatterà perché i suoi capi lo vogliono, perché devono disprezzare l’avversario e perché le “Corone” europee e americane lo pretendono.

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UE e guerra in Ucraina. Le inquietanti (e sincere) parole di Draghi al MIT – Giuseppe Masala

Capita davvero raramente di leggere articoli della stampa mainstream per i quali vale davvero la pena spendere il prezzo del giornale cartaceo.

Oggi il Sole 24 Ore pubblica uno di questi articoli: si tratta di una preziosa prolusione di Mario Draghi l’Amerikano nell’ambito della consegna al Massachusetts Institute of Technology del Miriam Pozen Prize del quale è stato insignito (1).

Verrebbe da pensare, dato lo smalto dimostrato da Draghi, che in questi mesi di eremo umbro abbia ritemprato l’animo (dopo la bocciatura alla Presidenza della Repubblica) ed ora sia pronto a combattere nuove battaglie.

Si è trattato di una prolusione davvero ad ampio spettro, quasi un bilancio di questi trenta anni di globalizzazione, di integrazione europea e di presunta Pax Liberale Americana. Un bilancio non privo di autocritica, e questo fa davvero onore a Mario Draghi, anche se, mi permetto di dire, non lo solleva dalle personali responsabilità politiche essendo stato uno dei massimi architetti dell’ordine che ha regolato il mondo in questi decenni.

Anni di globalizzazione dove a detta di Draghi: «Supponevamo che le istituzioni che avevamo costruito, insieme ai legami economici e commerciali, sarebbero state sufficienti per prevenire una nuova guerra di aggressione in Europa. E credevamo che le banche centrali indipendenti avessero padroneggiato la capacità di limitare le aspettative di inflazione, al punto da temere una stagnazione secolare».

In pratica quella di Draghi è una piena confessione che l’Unione Europea (e la moneta unica) sono state basate su assunti sbagliati che ci hanno portato alla guerra alle porte dell’Europa.

Ovviamente non può dire la causa principale del fallimento che è legata certamente all’accrescimento dei legami economici e commerciali (come li chiama lui stesso): il problema è che questi legami economici e commerciali non erano equi, ma erano sfacciatamente vantaggiosi per qualcuno e enormemente dannosi per altri.

Ovviamente non c’era alcun problema; fino a quando a subire il colonialismo (tale era di fatto) nord europeo erano i paesi del sud Europa. Ma quando la situazione è diventata insostenibile per gli USA e per la Gran Bretagna la musica è cambiata.

Washington e Londra hanno fatto saltare in aria tutto demolendo il meccanismo perfetto che la Merkel aveva costruito a vantaggio della Germania e degli altri stati nordeuropei: fine dell’energia a basso costo dalla Russia e fine del mercato di sbocco della stessa Mosca, sempre a causa delle sanzioni.

Da questo si ha anche la fine della leggenda che le politiche monetarie delle banche centrali riescano a garantire potere d’acquisto stabile alla moneta: questo è avvenuto a causa dell’esplosione dei costi dell’energia che ha comportato la crescita esponenziale dell’inflazione con relativo crollo del potere d’acquisto per le famiglie e la perdita di competitività per le imprese nei confronti della concorrenza extra europea.

Insomma, il paradigma su cui è stata fondata tutta la costruzione europea degli ultimi trenta anni (dal trattato di Maastricht) è miseramente fallito e lo ammette anche Draghi, anche se si guarda bene dallo spiegare le motivazioni di fondo, ma sarebbe stato onestamente pretendere troppo.

E dunque che fare? E’ lo stesso Draghi a porsi la domanda, arrivando alla conclusione che per l’Europa e l’Occidente non c’è altra scelta che sconfiggere la Russia e abbattere Putin: «I valori esistenziali dell’Unione europea sono la pace, la libertà e il rispetto della sovranità democratica ed è per questo che non c’è alternativa per gli Stati Uniti, l’Europa e i loro alleati ad assicurare che l’Ucraina vinca questa guerra». Sempre Draghi sottolinea che questo potrà avvenire solo a costo di «un conflitto prolungato al confine orientale dell’Europa».

Una vera e propria dichiarazione di intenti da parte di una persona che ha senza dubbio accesso alle Segrete Stanze dove si decidono i destini dei popoli.

Quindi un passaggio questo da prendere con la massima considerazione ovviamente al netto del passaggio retorico sui “sacri valori europei” dei quali francamente non importa nulla a nessuno, tantomeno a chi ci governa come, appunto, Draghi. Ciò che è in ballo è molto più prosaico: la permanenza dell’Occidente nel ruolo di monopolista mondiale del potere politico, militare, economico, finanziario e diplomatico. Insomma, ciò che è in ballo è la gerarchia di potere nata dalla sconfitta dell’Unione Sovietica e dal crollo del Muro di Berlino.

Ma Draghi non ci risparmia neanche l’indicazione sul modo in cui l’Europa e l’Occidente dovranno affrontare questa fase difficilissima che si annuncia come un vero e proprio tornante della storia: «In primo luogo, l’Ue deve essere disposta a rafforzare le proprie capacità di difesa. Questo è essenziale per aiutare l’Ucraina per tutto il tempo necessario e per fornire una deterrenza significativa contro la Russia». Poi continua dicendo che: «dobbiamo essere pronti a iniziare un viaggio con l’Ucraina che porti alla sua adesione alla Nato».

Insomma, per sconfiggere la Russia dobbiamo prepararci ad una guerra di lungo periodo; preparare un esercito unico europeo (per mandare contingenti di spedizione in Ucraina? Questo non lo annuncia, ma in compenso lo ha detto ieri al Guardian l’ex Segretario Generale della Nato Anders Rasmussen (2) e poi far entrare la stessa Ucraina nella Nato. Insomma, Draghi non dice che dobbiamo dichiarare guerra formalmente alla Russia, ma la sostanza è questa e che Iddio ce la mandi buona.

Naturalmente da un ex banchiere centrale dello spessore di Draghi non possono mancare due parole sulle prospettive dell’economia: «dobbiamo prepararci a un periodo prolungato in cui l’economia globale si comporterà in modo molto diverso dal recente passato». E poi ancora, il banchiere romano nota che: «cambiamenti geopolitici e dinamiche dell’inflazione si intersecano» e infine quello che secondo me è il passaggio chiave: «ha contribuito all’aumento delle pressioni inflazionistiche a breve termine, ma è anche probabile che inneschi cambiamenti duraturi che preannunciano un aumento dell’inflazione in futuro».

Insomma per Draghi la crisi ucraina comporterà un sostanziale aumento dell’inflazione di lungo periodo (e come potrebbe essere altrimenti se lui stesso vaticina una guerra di lungo perioodo?) che tradotto significa impoverimento dei popoli. Come peraltro sempre capita durante le guerre.

Questa è a mio avviso la parola di Draghi. Parola quanto mai sincera, ma quanto mai inquietante.

NOTE

(1) Sole24Ore, Draghi: <<Kiev deve vincere la guerra o per la UE sarà un colpo fatale>>, 8 Giugno 2023 Link: https://www.ilsole24ore.com/art/draghi-kiev-deve-vincere-guerra-o-l-ue-sara-colpo-fatale-AEm2zdbD

(2) The Guardian, Nato members may send troops to Ukraine,  warns former alliance chief, 7 Giugno 2023. Link: https://www.theguardian.com/world/2023/jun/07/nato-members-may-send-troops-to-ukraine-warns-former-alliance-chief

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Dal mercato senza Stato all’esercito senza Stato: cosa comporta l’economia di guerra nell’UE – Alessandro Somma

Le conseguenze della guerra non sono solo quelle visibili a occhio nudo, quelle denunciate dalle innumerevoli immagini che raccontano la tragica quotidianità di chi sopravvive e muore sotto le bombe. Non sono da meno gli effetti su chi viene apparentemente risparmiato dal conflitto perché vive in Paesi non direttamente coinvolti nei combattimenti. Semplicemente sono meno riconoscibili, sebbene coinvolgano il complessivo modo di stare insieme come società e in ultima analisi i fondamenti di quanto siamo soliti chiamare Occidente.

A mutare profondamente è l’ordine politico: la guerra richiede decisioni rapide e unanimi, a monte processi deliberativi opachi, e questo incide profondamente sulla qualità della democrazia, che vive al contrario di conflitti, di tempi scanditi dai ritmi della partecipazione e soprattutto di trasparenza. E anche l’ordine economico viene travolto: la produzione di armamenti e altri beni funzionali al conflitto deve procedere con modalità per certi aspetti incompatibili con il capitalismo, che tra i propri fondamenti vanta l’avversione verso il dirigismo e la pianificazione, utile invece a concentrare lo sforzo produttivo.

La guerra introduce insomma uno stato di eccezione, a ben vedere incrementando dinamiche che hanno preceduto il conflitto in corso[1]. Questo incide invero su un ordine politico e un ordine economico già pregiudicati dalla pandemia, e ancora prima dalle crisi economico finanziarie che hanno scosso il pianeta a partire dal 2008. Forse la novità dell’attuale stato di eccezione si coglie al meglio considerando una deriva che non era finora emersa con la stessa nettezza con cui si sta mostrando ora: la transizione verso l’economia di guerra, ovvero «un sistema di produzione, mobilitazione e allocazione di risorse finalizzate al sostegno della violenza»[2].

Accelerare la consegna e l’acquisizione congiunta di munizioni

Nel marzo del 2023 il Consiglio affari esteri, ovvero il Consiglio dell’Unione europea nella formazione comprendente i Ministri degli esteri dei Paesi membri[3], ha approvato una risoluzione per «accelerare la consegna e l’acquisizione congiunta di munizioni per l’Ucraina» sulla base di tre linee di intervento[4].

La prima linea riguarda il rimborso nella misura del 50-60% delle «munizioni di artiglieria» e dei «missili» già donati o da donare prima del 31 maggio 2023, e la seconda l’acquisto congiunto dello stesso materiale «nel modo più rapido possibile prima del 30 settembre 2023». Per realizzarlo, a margine della riunione del Consiglio affari esteri, si è sottoscritto nell’ambito dell’Agenzia europea per la difesa un accordo di progetto che coinvolge 25 Stati. A ben vedere un accordo che prende spunto dal conflitto in corso, ma che mira ad avere effetti sul lungo periodo: sebbene la fornitura di munizioni all’Ucraina riguardi l’immediato futuro, si estende per un arco temporale di sette anni[5].

La terza linea di intervento, per la quale si invita la Commissione a presentare proposte, concerne invece «l’incremento delle capacità di produzione dell’industria europea della difesa». In particolare si chiede di «garantire catene di approvvigionamento sicure, agevolare procedure di acquisizione efficienti, colmare le carenze nelle capacità di produzione e promuovere gli investimenti»[6].

Il fondo con il quale finanziare la prima e la seconda linea di intervento ha un nome decisamente fuorviante: lo Strumento europeo per la pace (European peace facility). Si tratta di un fondo istituito un paio di anni or sono al fine di «preservare la pace, prevenire i conflitti e rafforzare la sicurezza internazionale»[7], finanziato fuori bilancio da contributi diretti degli Stati determinati sulla base di un criterio di ripartizione fondato sul reddito nazionale lordo. Il tutto per una cifra che ha nel tempo raggiunto gli otto miliardi di Euro, e che si propone ora di incrementare di ulteriori tre miliardi e mezzo per finanziare il conflitto russo ucraino: ipotesi a cui il Consiglio europeo[8] ha genericamente dato seguito invocando la «mobilitazione di finanziamenti adeguati»[9]. Fornendoci così il riscontro definitivo di come furono facili profeti le organizzazioni non governative che criticarono aspramente l’istituzione dello Strumento europeo per la pace, prevedendo che sarebbe divenuto un nemico dei diritti umani e una fonte di «danni alle popolazioni civili»[10].


Burro o cannoni?

Diversi sono i canali indicati per finanziare la terza linea di intervento, per la quale il Consiglio affari esteri, diversamente da quanto immaginato per la prima e la seconda linea, prevede la possibilità di mobilitare il bilancio dell’Unione. Li ha indicati la Commissione, che come abbiamo detto è stata invitata a formulare proposte circa il modo di incrementare la capacità di produzione dell’industria bellica. Di qui un recente progetto di regolamento che in inglese ha un acronimo accattivante: Asap (Act in Support of Ammunition Production), che significa anche «il prima possibile» (as soon as possible)[11].

Il primo canale di finanziamento, come abbiamo detto, è il bilancio europeo, dal quale si preleveranno 500 milioni. Vi è poi la possibilità di distrarre risorse da fondi già esistenti e destinati ad altre finalità. Gli Stati membri possono invero impiegare le risorse dei celeberrimi Piani nazionali di ripresa e resilienza (Pnrr), e soprattutto «le risorse loro assegnate in regime di gestione concorrente»: formula criptica che allude a un insieme di fondi con i quali l’Europa unita realizza le politiche in senso lato sociali. Il riferimento è infatti al Fondo europeo di sviluppo regionale, al Fondo sociale europeo Plus, al Fondo di coesione, al Fondo per una transizione giusta, al Fondo europeo per gli affari marittimi, la pesca e l’acquacoltura, al Fondo Asilo, migrazione e integrazione[12].

Quest’ultimo è stato l’unico aspetto sul quale si è concentrato il dibattito attorno alla proposta della Commissione, appena approvata senza modifiche dal Parlamento europeo[13]. Non solo: se si è discusso di questo aspetto è solo per stigmatizzare la consueta ambiguità del Partito democratico, che non poteva bocciare la proposta per non scontentare la sua componente bellicista, ma doveva concedere qualcosa al suo elettorato non proprio in linea con i vertici (i sondaggi documentano una contrarietà alla guerra decisamente più diffusa e radicata di quella espressa dalla politica). Di qui la scelta di approvare la proposta della Commissione, avanzando però nel contempo la richiesta di escludere la possibilità di finanziare l’incremento della capacità produttiva dell’industria delle armi sottraendo soldi al Pnrr e ai Fondi di coesione: cosa che oltretutto neppure è stata accolta dal Parlamento europeo.


Sovvenzionare e imporre la produzione di armi

È gioco facile osservare che, se anche si fosse deciso diversamente, le cose non sarebbero mutate. Per finanziare l’industria delle armi da qualche parte i soldi devono venire, e non si va molto lontano se si apre una discussione su quali siano i tagli preferibili: l’alternativa resta in buona sostanza quella tra burro e cannoni. Il punto però è un altro: la proposta della Commissione approvata dal Parlamento europeo contiene elementi ben più preoccupanti di quelli relativi ai canali di finanziamento, che pure inquietano non poco. Sono tali innanzi tutto le modalità individuate per sovvenzionare e addirittura imporre la produzione di materiale bellico…

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I deliri di Rasmussen e i “desideri” polacchi sui territori in Ucraina e Bielorussia – Fabrizio Poggi

Sono riportate ormai da giorni, un po’ dappertutto, le parole dell’ex segretario generale NATO, Anders Fogh Rasmussen, a proposito della possibilità che alcuni paesi dell’Alleanza atlantica decidano “su base individuale” di introdurre proprie truppe in Ucraina: «Un gruppo di paesi NATO può inviare truppe in Ucraina, se gli Stati membri, compresi gli Stati Uniti, non possono garantire la sicurezza all’Ucraina al vertice dell’Alleanza a Vilnius». Il riferimento diretto è, ancora una volta alla Polonia, che mirerebbe a mettere insieme una «coalizione di volenterosi», tra cui, in primo luogo, i Paesi baltici, i cui bilanci militari, dell’una e degli altri, vengono ampliati a spese delle sovvenzioni UE. Se si andasse in questa direzione – su Ukraina.ru, commentatori polacchi lo ritengono molto verosimile – non scatterebbe l’art. 5 della NATO, ma sarebbe assicurato un pericolosissimo allargamento continentale del conflitto.

E, comunque, le esternazioni dell’ex segretario e, dal 2014, “consigliere presidenziale ucraino”, sembrano dar voce alle ambizioni polacche, di cui si vocifera da tempo, pur se, a parere dell’osservatore militare Aleksej Leonkov, «è improbabile che l’idea di Rasmussen venga sostenuta dalla maggioranza dei paesi NATO». Tanto più che si parla della presenza in Ucraina, già da tempo, di circa ventimila polacchi i quali, per il carattere delle azioni belliche condotte, somigliano tanto a truppe regolari ben addestrate, nonostante la Varsavia ufficiale si premuri di “non averci niente a che fare”, come ha fatto coi terroristi del Polski Korpus Ochotniczy (PKO).

Su Life.ru, Elena Ladilova scrive che i social polacchi raccontano di ripetuti transiti di mezzi militari nell’est del paese, in direzione di L’vov: la città ucraina che i polacchi considerano “la più polacca delle città polacche”; mentre la rivista polacca Niezalezna Dziennik Polityczny scrive che sono stati chiusi per 90 giorni, a partire dal 23 maggio, gli accessi alle aree confinarie polacco-ucraine, specificamente nel Voivodato della Precarpazia (confinante direttamente con la regione di L’vov) in modo da non interferire con le esercitazioni NATO. Ancora Leonkov afferma che Varsavia, al confine con l’Ucraina, avrebbe messo a punto una sorta di “corpo di spedizione”, ma che è improbabile che intraprenda azioni concrete prima del vertice NATO del 11-12 luglio a Vilnius, da cui la Polonia si attenderebbe il sostegno finanziario all’impresa.

Da rilevare che, probabilmente non a caso, l’uscita di Rasmussen, coordinata con Varsavia, abbia preceduto di pochi giorni il vertice del 12 giugno a Parigi tra Emmanuel Macron, Andrzej Duda e Olaf Scholz, il cui tema centrale, secondo l’edizione belga di Politico, saranno le garanzie di sicurezza all’Ucraina al vertice NATO. E anche al recente summit “Bucarest Nine”, Duda ha incontrato diversi leader di paesi NATO dell’Europa orientale, coi quali ha discusso della guerra e della volontà ucraina di aderire all’Alleanza atlantica.

A proposito delle esternazioni di Rasmussen, Ukraina.ru riporta una serie di ipotesi, formulate da osservatori polacchi. Esistono due possibilità, nota Konrad Rekas: una è che Rasmussen sia una “pezza da piedi russa”, come vengono definiti in Polonia gli “agenti del Cremlino”, cioè un provocatore al «soldo della propaganda militare di Mosca». L’altra ipotesi è che si stia verificando ciò che «temiamo praticamente dal febbraio 2022: la Polonia sarà il prossimo paese che l’Occidente manderà in guerra contro la Russia. E Varsavia verrà mandata da sola, senza l’appoggio attivo delle principali potenze NATO: una guerra destinata al fallimento fin dall’inizio». Ma, di fatto, osserva Rekas, un piano di invio di truppe polacche in Ucraina esiste sin dall’inizio del conflitto, come da tempo indicato da alcune dichiarazioni di Jaroslaw Kaczynski e di  esponenti militari, anche se negato. Fino a poco tempo fa, l’accenno pubblico a tale possibilità comportava l’accusa di agente del nemico o provocatore, mentre oggi ne parla a viva voce Rasmussen. Tanto un conflitto diretto di Polonia e Paesi baltici contro la Russia, quanto l’intervento polacco in Ucraina non sono più una questione di “se”, ma una questione di “quando”».

Si avvereranno così i sogni di Varsavia di tornare in possesso dei cosiddetti “Kresy Wschodnie”, passati all’Ucraina nel 1945 – L’vov, Stanislavov (l’attuale Ivano-Frankovsk) e Ternopol – e la questione, a detta di Rekas, riguarderà anche la Lituania, con l’introduzione di truppe polacche nella regione di Vilnius, popolata in maggioranza da polacchi; per quanto riguarda la Bielorussia, le operazioni militari interesseranno probabilmente la sua parte di “Kresy”, cioè la regione di Grodno, anch’essa popolata da una numerosa minoranza polacca. Questo, volendo ignorare la data ormai stabilita – mese di luglio – per la dislocazione di armi nucleari tattiche in Bielorussia, come concordato nel recente vertice Putin-Lukašenko.

Si tratterà, dice Rekas, di un enorme conflitto «interetnico, simile a quelli che distrussero in modo estremamente sanguinoso e brutale l’ex Jugoslavia. L’Occidente ama quando gli slavi si uccidono a vicenda, e la dichiarazione di Rasmussen suggerisce che, forse, presto i nostri nemici comuni avranno ancora più motivi per rallegrarsi, alla contemplazione del sangue slavo versato in una guerra fratricida»…

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TVE rompe l’omertà occidentale sul numero dei militari ucraini morti

In occidente, e ovviamente anche in Italia, vige una ferra censura riguardo le ingenti perdite che quotidianamente subisce l’esercito del regime di Kiev. L’intento è chiaro: far credere alle popolazioni occidentali che grazie al sostegno di USA e NATO l’esercito ucraino stia sconfiggendo sul campo la Russia. Così facendo si possono portare avanti le politiche guerrafondaie e continuare il sostegno bellico al regime di Kiev che ingrossa i forzieri dei produttori di armi, mentre le condizioni di vita delle popolazioni europee continuano a degradarsi.

La televisione pubblica spagnola TVE con un servizio ha però rotto il muro di omertà. Lontano dalle fiere di armi della capitale Kiev, dove si sentono annunci di nuove consegne, i cimiteri ucraini si stanno silenziosamente ingrandendo. Alla periferia di Charkiv, a 30 chilometri dal confine con la Russia, ce n’è uno che si chiama semplicemente “Numero 18”.

Lyuba viene qui quasi ogni giorno. Racconta all’emittente iberica che suo figlio si è arruolato dopo la morte del padre in combattimento. Anche lui è morto a Kramatorsk.

Nel servizio si vede come poggiati per terra, nei pressi delle tombe, ci siano fiori e oggetti che i morti amavano quando erano vivi: sigarette, una bevanda energetica o una sciarpa di una squadra di calcio, e in cima c’è una foto. Per esempio, come sulla tomba del padre di Natalia, che, racconta, è morto ad Artemivsk.

Il corrispondente di TVE, Alberto Freile, afferma: “Tra questo mare di bandiere nella parte nuova del cimitero, possiamo vedere qui i simboli dei battaglioni a cui appartenevano questi soldati, o quelli delle milizie e delle fazioni. Molti di loro hanno appena 20 anni. Sono un po’ più vecchi, a giudicare da ciò che possiamo vedere sulle lapidi. I parenti che vengono a visitare le tombe dei morti e a piangerli ci dicono che questa parte del cimitero non smette mai di crescere”.

“Ogni volta che vengo, è orribile vedere le sue dimensioni”, dice una ragazza, in piedi accanto alla tomba del fratello ucciso da una mina. Sull’altro lato della strada, nuove tombe sono già state scavate nel terreno.

Gli USA mentono riguardo le perdite ucraine

Intanto anche negli Stati Uniti monta la polemica riguardo le perdite ucraine occultate dalle autorità statunitensi. Il candidato democratico alla presidenza Robert Kennedy Jr. denuncia ai microfoni di Fox News che Washington non vuole sentire parlare di colloqui di pace, anche se le vittime ucraine sono centinaia di migliaia.

Il candidato afferma: “Penso che ci abbiano mentito durante la pandemia. Ci hanno sempre mentito sulla guerra in Iraq, sul conflitto in Ucraina. Ci hanno raccontato che siamo andati in Ucraina per scopi umanitari, ma si è scoperto che gli scopi erano altri, che l’obiettivo era il cambio di regime e l’indebolimento dei russi. Gli ucraini sono intrappolati in un conflitto mediato tra due superpotenze, che ha causato la morte di centinaia di migliaia di giovani ucraini”.

“Penso che l’amministrazione e il Pentagono siano disonesti con il popolo statunitense riguardo alle reali perdite ucraine”. Continua il j’accuse di Robert Kennedy Jr., “e credo che anche il governo ucraino stia mentendo. Secondo alcuni rapporti, circa 350 mila ucraini sono già morti sul fronte. E non ce lo dicono. Ci hanno mentito sulle cause del conflitto.

Ci hanno fatto credere che il conflitto sia la nostra risposta all’aggressione illegale e brutale di Putin. Ma in realtà i neo-conservatori della Casa Bianca hanno preparato e istigato questo conflitto per dieci anni e continuano a evitare qualsiasi discorso di pace o qualsiasi tentativo di risolverlo”.

Queste voci coraggiose si aggiungono a quelle di diversi analisti militari indipendenti come il Scott Ritter, o il colonnello McGregor, che denunciano come in occidente tramite censura e disinformazione, venga occultata la realtà di un esercito ucraino in pessime condizioni.

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Donna ucraina condannata in Germania per aver sostenuto la Russia – Fabrizio Verde

Una cittadina ucraina residente nella città occidentale tedesca di Colonia è stata condannata a pagare una multa di circa 900 euro per aver esternato dei commenti a sostegno dell’operazione militare speciale avviata dalla Russia in Ucraina per denazificare e smilitarizzare il regime di Kiev.

Elena Kolbasnikova – considerata un volto di spicco tra i sostenitori del presidente russo Vladimir Putin in Germania – ha “rappresentato una minaccia per la pace pubblica” pronunciando un discorso in occasione di una protesta filorussa, ha stabilito martedì un tribunale di Colonia condannando così la donna per le sue opinioni.

Durante una protesta tenutasi l’anno scorso, Kolbasnikova avrebbe affermato che l’operazione in Ucraina era “necessaria” e avrebbe anche aggiunto a un canale televisivo che “la Russia non è un aggressore”, secondo quanto riferisce l’emittente tedesca Deutsche Welle.

Un giudice ha stabilito che questi commenti della donna di 48 anni erano una prova sufficiente per dimostrare che aveva violato le leggi tedesche. Secondo il Telegraph, la donna ha “appoggiato e sostenuto” la guerra russa “in modo percepibile da altri”.

La Kolbasnikova, soprannominata “fangirl di Putin” dai media tedeschi, rischiava una possibile pena detentiva fino a tre anni in Germania o una pesante multa. Tuttavia, il giudice ha emesso la multa solo dopo aver considerato il fatto che la madre di due figli era disoccupata.

L’emittente di Stato teutonica ha definito la multa clemente.

Dopo la sentenza, Kolbasnikova si è detta “innocente”.

“Vivo e dirò la verità”, ha dichiarato “l’attivista per la pace” all’esterno dal tribunale distrettuale di Colonia dopo il processo. “E in questo senso mi considero innocente”.

Kolbasnikova ha detto di essere pronta a essere punita se questo porterà alla “liberazione dell’Ucraina dai nazisti”. La donna nello scorso anno aveva organizzato una manifestazione in sostegno della Russia. “La Russia non è un aggressore. La Russia sta aiutando a porre fine alla guerra in Ucraina”, aveva dichiarato all’epoca al tabloid tedesco Bild.

Intanto la donna non si lascia intimidire dalla decisione del tribunale tedesco.

“Assolutamente”, ha detto l’attivista quando i giornalisti le hanno chiesto se avrebbe impugnato la sentenza del tribunale. La donna ucraina si è presentata all’udienza indossando i colori della bandiera russa. Come ha detto ai giornalisti, viene processata in Germania esclusivamente per delle opinioni.

Il marito dell’attivista, Maxim Shlund, è stato scortato fuori dall’aula. Secondo quanto riferisce il quotidiano Izvestia, il motivo è stato un tafferuglio tra l’uomo e i provocatori filo-ucraini.

Elena Kolbasnikova è originaria della città ucraina di Dnipro (ex Dnepropetrovsk). È nota come organizzatrice di grandi manifestazioni filorusse e di raduni di auto in Germania. A seguito delle accuse mosse contro di lei, nel marzo di quest’anno ha chiesto la cittadinanza russa.

Ipocrisia occidentale

Quindi in Germania, nel cuore della ‘democratica’ e ‘civile’ Europa, una donna viene condannata per un reato di opinione. Per aver espresso liberamente il proprio pensiero. Non si è udita alcuna voce a difesa della libertà di parola e della libertà di Elena Kolbasnikova di esprimere le proprie opinioni.

Proviamo a immaginare che una cittadina russa, oppure iraniana, venezuelana, cinese o di qualsiasi altro paese non allineato alla politica occidentale fosse stata arrestata o multata per aver espresso delle opinioni.

Apriti cielo.

Prime pagine dei giornali. Apertura dei notiziari. I soliti liberali e democratici a giorni alterni ci avrebbero spiegato con i loro ipocriti sermoni che i regimi autoritari e dittatoriali non occidentali impediscono la libertà di opinione e quindi reprimono, creano un clima di paura, per non permettere alle persone di pensare. Di rendersi conto che i loro governi applicano politiche criminali e anti-popolari. Ecco. Questo è proprio quanto accade in occidente. Un occidente dove ormai le cosiddette libertà, tanto sbandierate, restano vigenti solo sul piano formale.

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Corbyn: “Chi chiede pace non è il lacchè di Putin. Lodo il Papa per l’impegno” – intervista di Stefania Maurizi

È al cuore della battaglia per l’identità della sinistra inglese da anni. Jeremy Corbyn, ex leader del Partito laburista britannico, nel 2020 è stato sospeso dal nuovo leader del Labour, Keir Starmer, ufficialmente per le sue dichiarazioni su un report riguardante alcuni problemi di antisemitismo nel partito. Corbyn non era accusato di essere un antisemita, semplicemente aveva commentato che il problema era stato “drammaticamente esagerato per ragioni politiche”. Riammesso nel partito, non gli è comunque permesso di rappresentarlo in Parlamento.

Lo sente ancora come il suo partito?

Sono ancora un membro del Labour e ci sono stato per tutta la vita. Nei suoi momenti migliori è stato un veicolo di cambiamento sociale, ma in altri si è spostato molto a destra, verso modelli economici liberisti, che io non condivido e che in tutta la mia vita ho combattuto. Ma ho anche passato la mia esistenza nei movimenti sociali e pacifisti. Per esempio, nella Stop The War Coalition, sebbene ora il Labour abbia vietato alle sue sezioni locali anche di aderire alla Stop The War Coalition.

Ken Loach ha fortemente criticato Keir Starmer, dicendo che usa in modo strumentale le accuse di antisemitismo per far fuori gli esponenti di sinistra del Labour. È così?

Ci sono serie preoccupazioni per il fatto che ebrei socialisti e di sinistra siano stati rimossi, a volte, con l’accusa di antisemitismo, che mi pare a dir poco bizzarra.

Starmer ha ripetutamente sottolineato l’appoggio alla Nato e ha criticato la Stop The War Coalition, accusandola di stare dalla parte della Russia, sull’Ucraina. Esiste un ruolo importante per la pace nella sinistra?

Prima di tutto lui non capisce nulla di Stop The War Coalition e poi non racconta le cose come stanno. La Stop The War Coalition è una coalizione di organizzazioni per la pace. Ci siamo costituiti nel settembre del 2001, poche settimane dopo l’11 settembre e da lì siamo cresciuti. Sono stato uno dei membri fondatori, sono stato presidente varie volte e ora ne sono vicepresidente. L’idea che sia uno strumento di qualche governo è assurda. Senza Stop The War Coalition non avremmo avuto la forte opposizione alla guerra in Iraq. È vero che non abbiamo fermato la guerra, ma abbiamo evitato il coinvolgimento del nostro Paese in Siria e ridotto quello in Libia.

Lei è un grande sostenitore di Julian Assange. Possiamo vincere?

Sì. La storia gli darà ragione. È una persona veramente coraggiosa.

Il governo inglese ha fornito all’Ucraina armi all’uranio impoverito e chiunque suggerisca che la guerra vada fermata con le negoziazioni viene bollato come “a letto con Putin”. Che ne pensa?

È assurdo che coloro che chiedono la pace in Ucraina siano considerati a letto con Putin. L’unica volta che sono andato in Russia è stato per supportare il popolo ceceno per gli abusi dei diritti umani che stava subendo. E quando Putin fu accolto in Gran Bretagna da Tony Blair – e di fatto passò una bella serata all’Opera con Blair – c’erano solo due persone fuori a protestare contro la situazione dei diritti umani in Russia: Tony Benn e io. L’idea che io sia un lacchè di Putin è da fuori di testa. L’uranio impoverito, a mio avviso, andrebbe messo al bando. La Gran Bretagna non dovrebbe esportarlo in nessun Paese. Il punto fondamentale sull’Ucraina è questo: a un certo punto, Russia e Ucraina dovranno parlare. Perché farlo dopo aver ucciso migliaia di soldati russi, migliaia di soldati ucraini, migliaia di civili e dopo che sono stati arrestati tanti in Russia per aver protestato a favore della pace? Perché non possiamo ascoltare gli appelli del presidente Lula, di quello del Messico Lopez Obrador, del Sudafrica, Ramaphosa e del Papa? Non ho a che fare con la Chiesa cattolica, ma credo che Papa Francesco dovrebbe essere lodato per la sua disponibilità a intervenire in questo caso e a fare le dichiarazioni che ha fatto.

da qui

 

 

BASTA GUERRA – Elena Basile

Oggi – come nel primo dopoguerra – domina il bellicismo. Ma i ‘Commis de l’Etat’ hanno giurato fedeltà alla Costituzione, non al potere politico. Ecco perché bisogna spiegare che il negoziato conviene. A tutti.

Viviamo un momento delicato della storia occidentale. La guerra è ritornata sul suolo europeo. L’Unione Europea, avendo deciso di partecipare attivamente con l’invio di armi a favore del Paese aggredito, ha dovuto rinnegare le finalità costituzionali che la caratterizzano: la ricerca della pace e della prosperità.

È doveroso per ogni cittadino intervenire se può nel dibattito pubblico ed evitare l’autocensura che rischia di cancellare il ruolo di freno svolto storicamente dall’opinione pubblica di fronte agli eccessi della classe dirigente europea.

Il diplomatico ha l’obbligo di mettere il mestiere, l’esperienza e la competenza a disposizione del dibattito pubblico. La riservatezza è richiesta ed è d’obbligo per chi gestisce un dossier delicato a contatto con l’autorità politica e con accesso alle fonti riservate. Diviene tuttavia ridicola e insopportabile se viene estesa agli altri funzionari che hanno, come tutti i cittadini, il diritto costituzionalmente garantito di libertà d’espressione.

Questa premessa si rende necessaria perché purtroppo molte volte si è fatta una brutta confusione tra i doveri e i diritti di una professione composta da “Commis de l’Etat” che hanno giurato fede alla costituzione e allo Stato, ma non al potere politico.

La guerra in Ucraina ha portato la nostra epoca a somigliare per molti aspetti al periodo che ha preceduto la prima guerra mondiale. Allora come oggi, in società affluenti e libere, la potenza degli Stati e la loro arroganza hanno svolto e svolgono un ruolo nefasto. Nel primo dopoguerra fecero precipitare l’umanità in un abisso di dolore e di distruzione. Allora come oggi il nazionalismo e il riarmo furono e sono considerati valori e obiettivi da perseguire. La retorica bellicista imperversava e imperversa.

Stefan Zweig scrive nell’estate del 1914: “Alla guerra pensavamo di tanto in tanto così come sovente si pensa alla morte, qualcosa di possibile ma ancora lontano”. Gli appelli alla pace di tanti intellettuali, cattolici, liberali e socialisti non furono ascoltati.

Oggi potremmo, come i “Sonnambuli” descritti dal magnifico libro di Cristopher Clark, incamminarci verso lo stesso vicolo cieco dal quale è più difficile fare ritorno, soprattutto se si tiene conto che nell’epoca contemporanea esiste l’opzione nucleare, sconosciuta nel 1914.

Il mantra ripetuto dalle classi al potere in Europa (purtroppo assecondato da tanti analisti sulla stampa occidentale) è costituito dalla ricerca della “pace giusta”, in altre parole dalla sconfitta della Russia. La mediazione è considerata impossibile in quanto entrambe le parti credono ancora di potere avere la meglio l’una sull’altra e non sono disposte a concessioni.

Gli obiettivi massimali sono per l’Ucraina la riconquista di tutti i territori occupati dai russi, inclusa la Crimea; per la Russia sembrerebbe essenziale l’avanzata militare fino a Odessa, in modo da ricongiungere le regioni ucraine occupate alla Transinistria.

In considerazione del massacro di giovani che in Ucraina forse più che in Russia (100.000 da fonti Usa, 250.000 da fonti turche non contraddette dal Mossad) è stato realizzato in maniera funzionale ai menzionati obiettivi, essi più difficilmente potranno essere sconfessati da Kiev come da Mosca. La mediazione tra interessi geo-politici contrapposti, per la quale avremmo voluto l’Europa si attivasse, sarebbe stata facile prima della guerra e forse anche a pochi mesi dall’invasione. La Storia stabilirà a chi va attribuita la responsabilità di aver arrestato gli sforzi della diplomazia.

Anche oggi tuttavia è necessario adoperarsi per giungere rapidamente al negoziato al fine di evitare il massacro dei giovani ucraini e russi, nonché il rischio di un’escalation che potrebbe portare a un conflitto allargato. L’utilizzo del nucleare tattico diverrebbe un’ipotesi plausibile in questo contesto.

Paesi come la Cina, la Turchia, Israele, il Brasile sono stati attenti a incentivare il dialogo tra le parti e alcuni accordi sono stati raggiunti. Il Pontefice è nel campo una voce isolata e autorevole nella quale i cattolici, i cristiani (e non solo) del mondo intero hanno fede. La mediazione del Vaticano infonde fiducia in questi mesi bui.

Per poter pervenire al cessate il fuoco e a contatti diplomatici strutturati tra le parti c’è bisogno di una chiara volontà politica. L’Ucraina, opportunamente condotta alla ragione dagli americani, e la Russia, su cui Cina, Turchia e Brasile possono avere una benefica influenza, hanno ancora molto da guadagnare dalla fine della guerra.

L’Ucraina potrà contare sulla pace e potrà mettere fine alla distruzione del Paese, al massacro delle sue giovani generazioni. Lo sviluppo economico e civile sarà assicurato dal suo avvicinamento all’Europa e dalla neutralità. La Russia potrebbe ottenere invece la neutralità del vicino e non avrebbe le basi militari della Nato ai suoi confini. In avvenire, in una conferenza sulla Sicurezza europea, la stabilità della regione sarebbe da perseguire con il ritiro delle truppe russe, a cui corrisponderebbe la graduale diminuzione delle sanzioni.

Il nodo è rappresentato dai territori contesi. La regolazione del loro statuto, autonomia oppure, dopo referendum gestiti da autorità internazionali, eventuale annessione alla Russia, sarà deciso alla fine di una mediazione complessa che potrà durare anni. Ovviamente il regime dei territori contesi è un obiettivo del negoziato, non una pre-condizione.

L’unica pre-condizione potrà essere la cessazione delle ostilità. La rinuncia a ulteriori conquiste da parte di Mosca e di contro-offensive da parte di Kiev potrebbe innescare un processo di mediazione.

Il ruolo della vecchia Europa (la nuova Europa con Polonia, Scandinavi e Baltici in testa, in accordo con il Regno Unito, porta avanti una strategia bellicista che ha radici profonde nell’humus culturale e politico di questi Paesi) sarebbe essenziale. In linea con le posizioni osservate in passato, i Paesi fondatori della Ue e quelli mediterranei potrebbero adoperarsi per favorire, in un confronto franco e leale con gli alleati americani, la linea più flessibile, di dialogo e di pace, consona agli interessi geo-politici, economici e culturali europei.

*Ambasciatrice d’Italia a Stoccolma e a Bruxelles dal 2013 al 2021, scrittrice di libri di narrativa e commentatrice dell’attualità internazionale, collaborava finora con noi con lo pseudonimo di Ipazia

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